Tempo di lettura: 4 minutiChi è affetto dalla sindrome metabolica ha un rischio maggiore di incorrere in neoplasie. Gli ultimi studi sul legame tra patologie come l’obesità e i tumori sono stati presentati durante il 30° Congresso nazionale delle Malattie Digestive dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE).
Obesità e tumori
Fra le componenti della sindrome metabolica, in particolare, “l’obesità incrementa la disponibilità dei fattori stimolanti l’insulina che aumentano, a loro volta, l’infiammazione e il rischio di sviluppare neoplasie del tratto gastro-intestinale. Come è stato dimostrato, i pazienti che sommano obesità e insulino-resistenza sono esposti a un rischio elevato di sviluppare un tumore al fegato, ma anche al colon ed altri tratti dell’apparato digerente”, spiega Luca Miele, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Perdere peso riduce rischio
La perdita di peso per i pazienti con sindrome metabolica è il mezzo migliore per abbassare il rischio cancro. “I nuovi farmaci per la riduzione del peso potrebbero essere efficaci a medio e lungo termine anche nella prevenzione delle neoplasie epatiche,” spiega il professor Miele. “Inoltre, le tecniche di chirurgia bariatrica hanno già dimostrato di abbassare il rischio di tumore al fegato, confermando così la loro efficacia a lungo termine nel ridurre le probabilità di cancro al fegato”.
Obesità e rischi tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas
I tumori più frequenti dell’apparato digerente, legati alla sindrome metabolica, sono il tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas. “Meno frequenti – commenta Filomena Morisco, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Napoli Federico II – sono quelli dello stomaco e dell’esofago, sebbene ci sia comunque una correlazione. La sindrome metabolica presenta un insieme di varie componenti, come obesità, dislipidemia, diabete e ipertensione arteriosa, ed ognuna di esse ha un peso diverso, in relazione ai diversi tumori. Per esempio, nel caso del tumore del colon-retto, la componente più importante è legata all’obesità, al basso livello di colesterolo HDL e al diabete. Nel tumore del fegato, gioca un ruolo maggiore il diabete, ma pure l’obesità e la steatosi epatica. È chiaro che i pazienti, vista la correlazione, debbano essere periodicamente controllati. Quello che dovrebbe emergere, specie nell’ambito medicina generale, è che il rischio di cancro del colon-retto e del fegato è alto nei soggetti obesi e diabetici, legata alla presenza di steatosi epatica e steatoepatite, ed è consigliabile, almeno per i soggetti a più alto rischio mantenere un regime di sorveglianza, tramite un’ecografia”.
Nuovi farmaci
Lo scorso anno la nomenclatura Metabolic Dysfunction-Associated Steatotic Liver Disease (MASLD) ha sostituito la vecchia Non-alcoholic fatty liver disease (NAFLD), al fine di mettere in risalto la radice metabolica di questa epatopatia. “Con la nuova nomenclatura – spiega Elisabetta Bugianesi, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Torino – viene descritta la condizione in cui il paziente ha una malattia sistemica, con alterazioni dismetaboliche in vari organi e la possibilità di manifestare outcome diversi, quale il rischio di mortalità cardiovascolare oltre che epatica. La nuova nomenclatura – aggiunge – mette in evidenza la necessità di un approccio multidisciplinare: non si può infatti curare solo il fegato, bensì anche le comorbidità presenti, come diabete e dislipidemia. Il primo step della terapia è quindi controllare i fattori dismetabolici che l’hanno causata”.
“Come epatologi – sottolinea la professoressa Bugianesi – ci stiamo occupando di fermare o rallentare la progressione della fibrosi nella MASLD e in particolare della MASH (Metabolic-dysfunction associated steatohepatitis), che potrebbe condurre a cirrosi e aumentare il rischio di epatocarcinoma. Finora – continua – i trial farmacologici sono stati compiuti su pazienti non cirrotici e, nel momento in cui i farmaci verranno approvati, i pazienti trattabili saranno quelli con MASH, caratterizzata da necrosi epatocitaria accompagnata da fibrosi di grado moderato o severo”.
Trattare l’obesità per ridurre rischio
Dei farmaci più promettenti in sperimentazione, che agiscono sulle cause dismetaboliche, “ci sono GLP-1 receptor agonists, in particolare la semaglutide (in fase III), e dual GLP-1/GIP o GLP-1/GCGR receptor agonist (in fase II)”, ricorda la professoressa dell’Università di Torino. “Sono farmaci molto potenti – osserva – perché non solo riducono il peso e riducono il danno istologico nel fegato, ma hanno anche un’azione cardio-protettiva. Tuttavia non sono stati ancora approvati per la MASH. L’unico farmaco approvato finora dall’FDA è il resmetirom, un agonista del recettore beta degli ormoni tiroidei sul fegato, che ha un’azione molto potente sulla steatosi poiché aumenta l’ossidazione dei grassi a livello dell’organo e migliora l’attività mitocondriale nelle cellule epatiche. Nella fase III, ha mostrato una risoluzione della MASH, ma anche della fibrosi nel 25% dei casi”.
Un’altra classe di farmaci che agiscono sulle cause dismetaboliche è rappresentata dal pioglitazone, consigliato nelle precedenti linee guida per il trattamento della MASH (anche se non approvato per la MASH ma solo per il trattamento del diabete tipo 2). Il pioglitazone elimina il grasso viscerale ed epatico, riportandolo nel tessuto adiposo sottocutaneo. “In questo momento – commenta la professoressa – è in sperimentazione, in fase III, un farmaco della stessa classe (pan-PPAR-agonist), il lanifibranor, che agisce in termini di risoluzione della MASH e di miglioramento della fibrosi”.
Dieta mediterranea
Secondo le ricerche scientifiche, nella prevenzione dei tumori dell’apparato gastrointestinale gioca un ruolo importante l’alimentazione. “La dieta Mediterranea tradizionale è stata descritta per la prima volta in un lavoro scientifico nel 1957”, rammenta Ludovico Abenavoli, professore associato di Gastroenterologia dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro. Da allora, “una serie di studi importanti sono stati sviluppati per dimostrare l’efficacia nella prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili. Oggi sappiamo che la dieta altamente ricca di frutta, verdura e di alimenti funzionali ricchi di antiossidanti esercita un’azione effettivamente preventiva delle patologie croniche, fra cui i tumori dell’apparato digerente. È una dieta vincente per l’azione sinergica di tutti gli alimenti”.
Cibi che combattono il rischio
Alcuni cibi hanno dimostrato proprietà eccellenti negli studi. Per esempio, la buccia della mela annurca contiene l’acido clorogenico, efficace nel prevenire i tumori dell’apparato gastrointestinale. Il bergamotto contiene la bergamottina, un potentissimo antiossidante, che riduce lo sviluppo di cloni cellulari tumorali fra cui quello a seno, endometrio e apparato gastrointestinale. L’olio extra vergine d’oliva ha un’alta concentrazione di acidi grassi saturi (omega 3 e 6) che prevengono dal rischio cardiovascolare, ma è ricco anche di antiossidanti che agiscono sull’apparato digerente”.
Dieta mediterranea e microbiota
“Riguardo all’azione della dieta Mediterranea sul microbiota – prosegue lo specialista – cioè sui miliardi di batteri che popolano l’intestino (in particolare il piccolo intestino) gli studi rilevano che quando è alterato e subentra una disfunzione, chiamata disbiosi, sale il rischio che si sviluppi la poliposi e il tumore del colon, maggiormente in crescita negli ultimi anni. “Per non alterare il microbiota – conclude l’esperto –, occorre seguire una dieta Mediterranea ricca di frutta e verdura con l’integrazione di probiotici, somministrati a cicli e mai in maniera continuativa. I ceppi batterici che hanno maggior validità scientifica sono in particolare i lattobacilli”.
Cos’è e come si può affrontare la poliposi nasale
NewsComunemente viene definita poliposi nasale e non di rado il suo esordio può essere confuso con una semplice allergia o con un raffreddore insistente. Non è così. Si tratta infatti di una patologia molto complessa, legata ad un’infiammazione di Tipo 2 e può portare addirittura alla perdita dell’olfatto. Per fare chiarezza su questa condizione e spiegare qual è il modo migliore di affrontare il problema, il network editoriale PreSa ha scelto di far intervenire ai microfoni di Radio Kiss Kiss il professor Ignazio La Mantia, Direttore dell’Unità Operativa di Otorinolaringoiatria dell’Azienda Policlinico di Catania. L’appuntamento è per sabato 27 aprile (in onda nella fascia oraria tra le 08.00 e le 09.00). Stay Tuned!
“Contenuto realizzato da Radio KissKiss in collaborazione con PreSa, con il supporto di Sanofi”
Come risolvere l’allergia agli animali domestici
PrevenzionePer chi soffre di allergia anche la compagnia di un cane o di un gatto può essere un problema. Le allergie agli animali domestici sono sempre più comuni, sia nei bambini che negli adulti e possono essere scatenate da una varietà di allergeni presenti nella saliva, nella forfora e persino nelle feci degli animali. Proviamo però ad esplorare le cause, i sintomi e soprattutto i trattamenti che possono aiutare a gestire efficacemente le allergie agli animali domestici.
Cause e sintomi
Le reazioni allergiche agli animali domestici sono principalmente scatenate dalle proteine presenti nella saliva, nella forfora e nelle secrezioni corporee degli animali come cani, gatti o altri animali da compagnia. Questi allergeni possono scatenare una risposta eccessiva del sistema immunitario, che porta a sintomi che vanno dalla semplice rinite allergica all’asma. I sintomi più comuni sono: naso chiuso o che cola, starnuti, prurito agli occhi e alla gola e, nei casi più gravi, attacchi di asma. Le persone allergiche ai gatti tendono a sperimentare reazioni più immediate e intense, mentre le reazioni allergiche ai cani e ad altri animali possono variare nella gravità.
Trattamenti e gestione
Se c’è il sospetto di un’allergia ad un animale domestico è importante consultare un allergologo per una valutazione accurata. Due dei test più comuni per confermare l’allergia sono il prick test e la ricerca di IgE specifiche nel sangue. La conferma di un’allergia non significa dover rinviare ad un cane o ad un gatto. Certo, è importante adottare misure per gestire i sintomi e ridurre l’esposizione agli allergeni degli animali. Come? in primis con la pulizia regolare dell’ambiente domestico, il lavaggio frequente dell’animale e l’uso di sistemi di purificazione dell’aria.
Colliri o spray
Per alleviare i sintomi allergici, possono essere prescritti antistaminici orali, colliri o spray nasali a base di cortisonici. Inoltre, l’immunoterapia allergene specifica, comunemente conosciuta come “vaccino”, può essere raccomandata per allenare il sistema immunitario a tollerare gli allergeni degli animali. Quindi, anche se le allergie agli animali domestici possono essere fastidiose e debilitanti, con la giusta gestione e trattamento, è possibile vivere in armonia con i propri amici a quattro zampe. L’importante è affidarsi ad un bravo allergologo e adottare tutte le misure preventive che possono aiutarci a ridurre il contatto con gli allergeni.
Malattia di Chagas, l’allerta dello Spallanzani
PrevenzioneTenere alta l’attenzione sulla malattia di Chagas, malattia tropicale che può avere importanti ripercussioni sulla salute. A chiederlo è l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani. La Chagas rientra infatti tra quelle dimenticate per l’assenza di farmaci pediatrici, l’assenza di farmaci approvati in Europa, la difficoltà di reperire test diagnostici e la progressiva riduzione dei fondi di ricerca in Italia e a livello globale.
Cos’è
La malattia di Chagas, detta anche tripanosomiasi americana, è una malattia infettiva causata da un parassita trasmesso all’uomo principalmente dalla puntura di una cimice che vive nelle zone rurali dei paesi endemici dell’America Latina, che in alcuni soggetti può causare gravi complicanze a livello intestinale e cardiaco anche a distanza di decine di anni.
Screening
Il test di screening consiste in un semplice prelievo di sangue che viene analizzato per la ricerca degli anticorpi specifici contro questa patologia. Può essere eseguito senza necessità di prenotazione prorpio presso il Padiglione Di Raimondo dell’Inmi Spallanzani dal lunedì al sabato dalle 7.30 alle 11.00 presentando prescrizione del medico di famiglia.
Gravidanza
Il test è rivolto a persone originarie dell’America Latina ed è particolarmente raccomandato nelle donne in età fertile per poter impedire il passaggio dell’infezione dalla mamma al neonato, possibilità di trasmissione presente anche in Italia. Possono accedere al test anche persone che, per vari motivi, hanno soggiornato a lungo in un paese dell’America Latina. L’esecuzione del test permetterà di accedere alle cure, qualora vi fosse necessità.
In aumento gli ematomi subdurali cronici
PrevenzioneSi chiamano ematomi subdurali cronici e l’allarme degli specialisti è che sono in aumento. Con un’incidenza di circa 15 casi su 100.000 persone, colpiscono ogni anno circa 9.000 italiani. Una malattia neurologica che è evidentemente alimentata dall’invecchiamento della popolazione e dall’uso diffuso di farmaci anticoagulanti ed antiaggreganti.
L’incontro
Il tema è stato discusso ai messimi livelli in occasione di un incontro evento internazionale, organizzato dai dottori Mario Muto – Direttore della Neuroradiologia del Cardarelli – e Giuseppe Catapano – neurochirurgo presso l’Ospedale del Mare. Evento che ha riunito a Napoli i migliori esperti multidisciplinari nazionali e internazionali per discutere le più recenti strategie di trattamento di questa condizione medica complessa.
Gli esami
La diagnosi precoce è cruciale e attualmente si basa sull’esecuzione di una TAC cerebrale, che non solo identifica la presenza dell’ematoma subdurale, ma ne valuta anche l’entità, guidando così la scelta della migliore strategia terapeutica. Per molti anni, il trattamento chirurgico è stato l’opzione principale, nonostante il suo tasso di recidiva fino al 30% e le elevate controindicazioni chirurgiche, soprattutto nei pazienti anziani con comorbilità.
Soluzioni innovative
Tuttavia, negli ultimi 6 anni è emersa una promettente alternativa nella forma della tecnica endovascolare di embolizzazione dell’arteria Meningea Media. Questa tecnica non si propone come sostituto, ma come complemento al trattamento chirurgico, con l’obiettivo di migliorare gli esiti a lungo termine e talvolta offrendo l’unica opzione terapeutica. L’evento di Napoli è servito anche per fornire un aggiornamento completo su questa complessa patologia e sulle strategie di trattamento più recenti, offrendo una piattaforma di discussione e condivisione di conoscenze tra esperti nazionali e internazionali.
Reflusso, Sige: sfatati miti sui cibi tabù
Alimentazione, Associazioni pazienti, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazione, Stili di vitaNel mondo, quasi il 25% della popolazione e in Italia una fetta stimata tra il 23 e il 26% ha sintomi da reflusso gastroesofageo, almeno due o più volte a settimana. Questa condizione provoca bruciore retrosternale o pirosi, rigurgito e percezione di dolore retrosternale. I sintomi sono dovuti al passaggio retrogrado di contenuto gastrico nell’esofago, o come dicono gli anglosassoni, “too acid in the wrong place”, cioè troppo acido nel posto sbagliato. Il tema è stato affrontato dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE), durante il 30° Congresso Nazionale delle Malattie Digestive a cura della Federazione italiana delle società delle malattie dell’apparato digerente (Fismad), appena concluso.
Cause del reflusso gastroesofageo
“I soggetti che ne soffrono non sono ipersecretori di acido ma hanno praticamente una perdita dei fisiologici meccanismi che impediscono il passaggio di contenuto gastrico nell’esofago”, spiega Nicola De Bortoli, professore di Gastroenterologia dell’Università di Pisa. “Tutti noi – continua – abbiamo una minima quantità di reflussi durante la giornata, che sono fisiologici e come tali non sono percepiti. Quando si sviluppano sintomi questi devono essere indagati per ottenere una diagnosi per quanto possibile precisa e corretta”. Fra i fattori di rischio della malattia da reflusso gastroesofageo si annoverano il sovrappeso, l’obesità e il fumo di tabacco.
Sono state illustrate le più recenti linee guida della Consensus di Lione (giunta alla versione 2.0), che coinvolge come italiani co-autori lo stesso De Bortoli e il professor Edoardo Savarino dell’Università degli Studi di Padova, che invitano a eseguire una diagnosi oggettiva della malattia da reflusso gastroesofageo e una terapia medica con inibitori di pompa protonica solo per i pazienti realmente affetti. Per questo, le stesse Linee guida parlano di “Actionable GERD”, ovvero eseguire una diagnosi corretta della malattia, basata su parametri oggettivi e quindi ritagliare al meglio la terapia per ogni singolo paziente.
Falsi miti sulla dieta
“Dal punto di vista alimentare – osserva il professor De Bortoli – diciamo che nel corso degli anni è stata consigliata l’eliminazione di alimenti definiti “trigger” in modo abbastanza opinabile. In passato è stato suggerito di non mangiare agrumi e pomodoro, non consumare caffè, menta, cioccolato, cipolla, aglio, etc. Oggi possiamo dire che tutto questo non è mai stato supportato da evidenza scientifica. Le recenti linee guida statunitensi dell’American College of Gastroenterology ci dicono che non ci sono degli alimenti trigger per definizione, piuttosto il soggetto deve individuare nella propria alimentazione quelli che sono i cibi che gli evocano più facilmente i sintomi e quindi eliminarli o ridurne il consumo”.
Italiani, dieta e reflusso gastroesofageo
In primo luogo, la dieta Mediterranea e le indicazioni alimentari dell’Oms sul consumo di frutta e verdura, diminuirebbero i tassi di prevalenza della malattia. Inoltre, sulla base dei dati scientifici, un ridotto apporto di proteine animali nella dieta (senza distinguere tra carne rossa e bianca) è consigliabile, come pure un uso moderato di vino (125 ml a pasto) non presenta controindicazioni. “Quel che è certo – osserva il docente – è che un elemento importante è il peso corporeo. Se un soggetto è affetto da sovrappeso come primo approccio deve necessariamente ridurre, anche solo del 10% in sei mesi, il peso corporeo per guadagnare un migliore controllo dei sintomi e una riduzione della necessità del consumo di farmaci”.
Diagnosi e terapia per il reflusso
Le Linee guida internazionali sottolineano che le persone con pirosi, rigurgito e dolore toracico possono essere potenzialmente affette da malattia da reflusso, dove però è determinante che il dolore toracico non sia di origine cardiaca, escludendo patologie cardiovascolari. Già il medico di medicina generale può suggerire una terapia cosiddetta di primo livello con inibitori di pompa protonica a dose standard per 4-8 settimane, se ha pirosi, rigurgito e dolore toracico. Terapia che va ridotta nel giro di un paio di mesi mediante un lento e progressivo tapering.
“Nel caso il soggetto vada incontro ad una recidiva – continua –, è necessario fare una diagnosi oggettiva che prevede la prescrizione, previa visita gastroenterologica, di un’endoscopia digestiva superiore da eseguire dopo la sospensione di farmaci inibitori di pompa protonica per almeno 3-4 settimane. In caso di endoscopia negativa, dobbiamo approfondire il quadro mediante esami di fisiopatologia esofagea. Se invece il soggetto dopo l’endoscopia presenta una diagnosi di esofagite medio-severa (Classificazione di Los Angeles di grado B, grado C e D) allora si può confermare la diagnosi. In alternativa, il soggetto deve eseguire una manometria esofagea e una pH-impedenzometria delle 24 ore, al fine di evidenziare la presenza di una esposizione patologica all’acido”.
Opzioni chirurgiche
La terapia chirurgica ha un ruolo importante, soprattutto grazie a due tipologie d’intervento che hanno confermato la loro efficacia a distanza di più di cinque anni. La chirurgia ad oggi è sicuramente la prima opzione nei pazienti affetti dalla malattia da reflusso di tipo refrattario, ovvero in coloro che presentano sia i sintomi sia l’esposizione patologica all’acido, nonostante una ottimale terapia medica anti-reflusso.
Reflusso e co-morbidità
Nel corso degli anni è stata dimostrata da alcuni studi eseguiti mediante utilizzo di questionari sintomatologici – e poi vista nella realtà -, la sovrapposizione della malattia da reflusso gastroesofageo con la sindrome dell’intestino irritabile oppure con la dispepsia. “Infine – conclude il professor de Bortoli – quando i pazienti presentano una sintomatologia extra-esofagea (tosse, raucedine, globo faringeo, mal di gola, etc..) dovremo in prima istanza escludere altre cause e poi indagare l’eventuale presenza di una malattia da reflusso”.
Obesità e insulino-resistenza insieme aumentano rischio tumore al fegato
Alimentazione, Associazioni pazienti, Farmaceutica, Prevenzione, Ricerca innovazioneChi è affetto dalla sindrome metabolica ha un rischio maggiore di incorrere in neoplasie. Gli ultimi studi sul legame tra patologie come l’obesità e i tumori sono stati presentati durante il 30° Congresso nazionale delle Malattie Digestive dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE).
Obesità e tumori
Fra le componenti della sindrome metabolica, in particolare, “l’obesità incrementa la disponibilità dei fattori stimolanti l’insulina che aumentano, a loro volta, l’infiammazione e il rischio di sviluppare neoplasie del tratto gastro-intestinale. Come è stato dimostrato, i pazienti che sommano obesità e insulino-resistenza sono esposti a un rischio elevato di sviluppare un tumore al fegato, ma anche al colon ed altri tratti dell’apparato digerente”, spiega Luca Miele, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Perdere peso riduce rischio
La perdita di peso per i pazienti con sindrome metabolica è il mezzo migliore per abbassare il rischio cancro. “I nuovi farmaci per la riduzione del peso potrebbero essere efficaci a medio e lungo termine anche nella prevenzione delle neoplasie epatiche,” spiega il professor Miele. “Inoltre, le tecniche di chirurgia bariatrica hanno già dimostrato di abbassare il rischio di tumore al fegato, confermando così la loro efficacia a lungo termine nel ridurre le probabilità di cancro al fegato”.
Obesità e rischi tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas
I tumori più frequenti dell’apparato digerente, legati alla sindrome metabolica, sono il tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas. “Meno frequenti – commenta Filomena Morisco, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Napoli Federico II – sono quelli dello stomaco e dell’esofago, sebbene ci sia comunque una correlazione. La sindrome metabolica presenta un insieme di varie componenti, come obesità, dislipidemia, diabete e ipertensione arteriosa, ed ognuna di esse ha un peso diverso, in relazione ai diversi tumori. Per esempio, nel caso del tumore del colon-retto, la componente più importante è legata all’obesità, al basso livello di colesterolo HDL e al diabete. Nel tumore del fegato, gioca un ruolo maggiore il diabete, ma pure l’obesità e la steatosi epatica. È chiaro che i pazienti, vista la correlazione, debbano essere periodicamente controllati. Quello che dovrebbe emergere, specie nell’ambito medicina generale, è che il rischio di cancro del colon-retto e del fegato è alto nei soggetti obesi e diabetici, legata alla presenza di steatosi epatica e steatoepatite, ed è consigliabile, almeno per i soggetti a più alto rischio mantenere un regime di sorveglianza, tramite un’ecografia”.
Nuovi farmaci
Lo scorso anno la nomenclatura Metabolic Dysfunction-Associated Steatotic Liver Disease (MASLD) ha sostituito la vecchia Non-alcoholic fatty liver disease (NAFLD), al fine di mettere in risalto la radice metabolica di questa epatopatia. “Con la nuova nomenclatura – spiega Elisabetta Bugianesi, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Torino – viene descritta la condizione in cui il paziente ha una malattia sistemica, con alterazioni dismetaboliche in vari organi e la possibilità di manifestare outcome diversi, quale il rischio di mortalità cardiovascolare oltre che epatica. La nuova nomenclatura – aggiunge – mette in evidenza la necessità di un approccio multidisciplinare: non si può infatti curare solo il fegato, bensì anche le comorbidità presenti, come diabete e dislipidemia. Il primo step della terapia è quindi controllare i fattori dismetabolici che l’hanno causata”.
“Come epatologi – sottolinea la professoressa Bugianesi – ci stiamo occupando di fermare o rallentare la progressione della fibrosi nella MASLD e in particolare della MASH (Metabolic-dysfunction associated steatohepatitis), che potrebbe condurre a cirrosi e aumentare il rischio di epatocarcinoma. Finora – continua – i trial farmacologici sono stati compiuti su pazienti non cirrotici e, nel momento in cui i farmaci verranno approvati, i pazienti trattabili saranno quelli con MASH, caratterizzata da necrosi epatocitaria accompagnata da fibrosi di grado moderato o severo”.
Trattare l’obesità per ridurre rischio
Dei farmaci più promettenti in sperimentazione, che agiscono sulle cause dismetaboliche, “ci sono GLP-1 receptor agonists, in particolare la semaglutide (in fase III), e dual GLP-1/GIP o GLP-1/GCGR receptor agonist (in fase II)”, ricorda la professoressa dell’Università di Torino. “Sono farmaci molto potenti – osserva – perché non solo riducono il peso e riducono il danno istologico nel fegato, ma hanno anche un’azione cardio-protettiva. Tuttavia non sono stati ancora approvati per la MASH. L’unico farmaco approvato finora dall’FDA è il resmetirom, un agonista del recettore beta degli ormoni tiroidei sul fegato, che ha un’azione molto potente sulla steatosi poiché aumenta l’ossidazione dei grassi a livello dell’organo e migliora l’attività mitocondriale nelle cellule epatiche. Nella fase III, ha mostrato una risoluzione della MASH, ma anche della fibrosi nel 25% dei casi”.
Un’altra classe di farmaci che agiscono sulle cause dismetaboliche è rappresentata dal pioglitazone, consigliato nelle precedenti linee guida per il trattamento della MASH (anche se non approvato per la MASH ma solo per il trattamento del diabete tipo 2). Il pioglitazone elimina il grasso viscerale ed epatico, riportandolo nel tessuto adiposo sottocutaneo. “In questo momento – commenta la professoressa – è in sperimentazione, in fase III, un farmaco della stessa classe (pan-PPAR-agonist), il lanifibranor, che agisce in termini di risoluzione della MASH e di miglioramento della fibrosi”.
Dieta mediterranea
Secondo le ricerche scientifiche, nella prevenzione dei tumori dell’apparato gastrointestinale gioca un ruolo importante l’alimentazione. “La dieta Mediterranea tradizionale è stata descritta per la prima volta in un lavoro scientifico nel 1957”, rammenta Ludovico Abenavoli, professore associato di Gastroenterologia dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro. Da allora, “una serie di studi importanti sono stati sviluppati per dimostrare l’efficacia nella prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili. Oggi sappiamo che la dieta altamente ricca di frutta, verdura e di alimenti funzionali ricchi di antiossidanti esercita un’azione effettivamente preventiva delle patologie croniche, fra cui i tumori dell’apparato digerente. È una dieta vincente per l’azione sinergica di tutti gli alimenti”.
Cibi che combattono il rischio
Alcuni cibi hanno dimostrato proprietà eccellenti negli studi. Per esempio, la buccia della mela annurca contiene l’acido clorogenico, efficace nel prevenire i tumori dell’apparato gastrointestinale. Il bergamotto contiene la bergamottina, un potentissimo antiossidante, che riduce lo sviluppo di cloni cellulari tumorali fra cui quello a seno, endometrio e apparato gastrointestinale. L’olio extra vergine d’oliva ha un’alta concentrazione di acidi grassi saturi (omega 3 e 6) che prevengono dal rischio cardiovascolare, ma è ricco anche di antiossidanti che agiscono sull’apparato digerente”.
Dieta mediterranea e microbiota
“Riguardo all’azione della dieta Mediterranea sul microbiota – prosegue lo specialista – cioè sui miliardi di batteri che popolano l’intestino (in particolare il piccolo intestino) gli studi rilevano che quando è alterato e subentra una disfunzione, chiamata disbiosi, sale il rischio che si sviluppi la poliposi e il tumore del colon, maggiormente in crescita negli ultimi anni. “Per non alterare il microbiota – conclude l’esperto –, occorre seguire una dieta Mediterranea ricca di frutta e verdura con l’integrazione di probiotici, somministrati a cicli e mai in maniera continuativa. I ceppi batterici che hanno maggior validità scientifica sono in particolare i lattobacilli”.
Diabete, Fand: uniformare accesso alle cure
News PresaGarantire l’accesso equo alle cure a livello nazionale, rafforzare il territorio e l’assistenza sociosanitaria. Sono questi i punti chiave emersi nel corso della quarantaduesima Assemblea Nazionale di Fand – Associazione italiana diabetici, svoltasi di recente. Un’occasione per fare il punto sullo stato dell’assistenza alle persone con diabete nel nostro Paese, elaborare proposte e linee di intervento rispetto alle principali criticità, e presentare i nuovi progetti che l’Associazione metterà in campo a sostegno dei pazienti.
Il Presidente Fand Emilio Augusto Benini ha sottolineato l’importanza di equità nell’accesso alle cure. «Sviluppare un sistema in cui l’assistenza e i diritti delle persone con diabete siano garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale costituisce un obiettivo prioritario – dichiara il Presidente Benini – Su questo occorre un lavoro comune e sinergico, a partire dal mondo dei pazienti, affinché il tema dell’equità e dell’uguaglianza per tutte le persone con diabete rispetto a trattamento e assistenza, sia posto all’attenzione della politica e sia al centro dell’agenda istituzionale».
Diabete e assistenza territoriale
«Accanto a questo occorre uno sviluppo dell’assistenza a livello territoriale – sottolinea il Presidente Fand – Non possiamo sprecare l’occasione unica che il PNRR offre per un rafforzamento del territorio, ovvero per un’assistenza che sia più a misura delle persone con diabete e della loro quotidianità. Penso, in questo quadro, anche all’opportunità di sviluppare sempre più la farmacia dei servizi, con la sua indiscutibile caratteristica di prossimità, come importante valore aggiunto di questo percorso di rafforzamento del territorio che auspichiamo». Un percorso in cui, senza che il territorio vada a depauperare il ruolo dell’ospedale, si attui un’integrazione, con il potenziamento dei centri diabetologici e del loro team, del ruolo dei medici di medicina generale, delle case di comunità e appunto della farmacia dei servizi, provvedendo al contempo a un sistema informatico che sia in grado di supportarla. «Occorre mettere in campo le risorse adeguate al funzionamento del nostro Sistema Sanitario – sottolinea il Presidente Benini – come chiesto autorevolmente in una lettera da quattordici scienziati, fra cui il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi: è impensabile che alla sanità in Italia nel 2025 sia destinato solo il 6,2 per cento del PIL, ovvero molto meno di quell’8 per cento che rappresenta lo standard dei Paesi europei avanzati. Come organizzazione di pazienti invitiamo la politica ad ascoltare l’appello degli scienziati e a provvedere a un piano di finanziamento straordinario del nostro Sistema Sanitario».
Diabete, informare sui corretti stili di vita
«Bisogna, infine, assicurare alle persone con diabete il pieno accesso all’informazione, all’educazione terapeutica, alla sana alimentazione, ai corretti sili di vita, nonché al supporto psicologico – sottolinea il Presidente Benini -, tutelandone i diritti nelle attività quotidiane, per esempio in ambito scolastico, sportivo e, soprattutto, lavorativo. Occorre sviluppare la rete diabetologica sociosanitaria, valorizzando anche il contributo fondamentale del “diabetico guida” nell’ambito del team diabetologico, per esempio nel suo ruolo di “navigator” che accompagna la persona con diabete supportandola in tutto il suo percorso anche da un punto di vista organizzativo». Proprio a questo scopo, Fand ha presentato durante l’Assemblea Nazionale il suo Corso di Diabetico Guida, che, giunto quest’anno alla quarta edizione, si è affermato, lo scorso dicembre, in occasione del Congresso Idf – International diabetes federation, come un riconosciuto modello a livello internazionale.
Corso di Diabetico Guida
L’edizione di quest’anno si svolgerà da maggio a ottobre, con l’obiettivo di formare figure di “diabetici qualificati”, cioè esperti nell’autocontrollo e nella autogestione del diabete e in grado di fornire aiuto e sostegno alle persone con diabete e ai loro familiari. Il corso, rivolto a un massimo di 80 partecipanti, si articola in 11 lezioni ed è realizzato in collaborazione con la scuola di formazione dell’Amd – Associazione medici diabetologi, e con il contributo della Sid – Società italiana di diabetologia. Al centro del corso l’apprendimento di diverse competenze, fra le quali: il sostegno ai pazienti nelle varie attività (scuola, sport, lavoro), contribuendo a chiarire eventuali problematiche che possono insorgere nei vari ambiti; l’educazione a un corretto stile di vita giornaliero (attività fisica); l’informazione su una alimentazione sana ed equilibrata; la formazione su un “corretto” e oculato impiego delle strisce reattive, sull’utilizzazione pratica degli strumenti per la misurazione della glicemia e dei corpi chetonici, sulle modalità di conservazione e trasporto dell’insulina, nonché sull’esatta tecnica di esecuzione della somministrazione dell’insulina e sull’accurata compilazione del diario delle glicemie. Un insieme di competenze quindi, fra le quali non ultima quella a rappresentare, a partire dal proprio comportamento, un esempio per un migliore approccio alla “malattia”, in un’ottica di massima integrazione di questa figura nella rete sociosanitaria diabetologica e in una visione proattiva di contributo da parte delle persone con diabete alla risoluzione delle problematiche socioassistenziali.
Sindrome dell’intestino irritabile, flora batterica intestinale ha un ruolo centrale
News PresaLa sindrome dell’intestino irritabile è un disturbo della funzione motoria del tratto digestivo. Coinvolge sia l’intestino tenue sia il colon e colpisce tra l’8 e il 13% della popolazione occidentale.
Il disturbo è uno dei temi trattati dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE), durante il 30° Congresso Nazionale delle Malattie Digestive a cura della Federazione italiana delle società delle malattie dell’apparato digerente (Fismad).
“La sindrome – spiega Bruno Annibale, ordinario di Gastroenterologia all’Università Sapienza Roma – è diffusa soprattutto nella popolazione femminile, specie tra le fasce giovanili, con un secondo picco tra i cosiddetti boomer (60-70enni) che seguono uno stile di vita giovanile e hanno modalità di lavoro ancora attive. Inoltre spesso si associa una grande co-morbidità con i disturbi dell’umore, anche psichiatrici, come depressione e ansia”.
Sintomi della sindrome dell’intestino irritabile
I sintomi sono: gonfiore, mal di pancia, alterazione della evacuazione e soprattutto dolore. Stando alle linee guida Roma IV per i criteri diagnostici dei disturbi gastrointestinali, elaborate dalla Rome Foundation, la sindrome dell’intestino irritabile viene diagnosticata solo in caso di dolore. Secondo questi studi, la diagnosi è clinica, compiuta ascoltando il paziente, valutando attentamente i sintomi con questionari standardizzati. Un lavoro difficile, lungo e complesso che richiede molta attenzione da parte del medico. “Le terapie possono essere diverse – conferma il docente – tanto è vero che la sindrome dell’intestino irritabile ancora oggi in realtà riceve un trattamento sintomatico, ma è decisivo avere un colloquio costante col paziente per identificare la possibile cura”.
Negli ultimi anni, “Sempre maggiori evidenze scientifiche hanno associato la sindrome dell’intestino irritabile alla flora batterica, presente non solo nel tratto digestivo basso, ma anche in quello alto, con microorganismi variabili sia per numero che per tipologia a seconda della sede intestinale”, sottolinea Luca Frulloni, Presidente della SIGE e ordinario di Gastroenterologia dell’Università di Verona. “Tuttavia – prosegue – i precisi meccanismi attraverso i quali la flora batterica intestinale modifica la funzionalità intestinale non sono ancora stati chiaramente definiti, per l’enorme numero di microorganismi presenti, per la varietà di specie rappresentate, e per la loro variabilità anche nei soggetti sani. “Sono molti e diversi – riprende il professor Annibale – i fattori che influenzano la composizione della flora batterica intestinale, quali ad esempio farmaci, l’alimentazione, le malattie. È intuibile come sia ancora difficile comprendere la complessità di tutti questi elementi nel singolo paziente”.
Oggi nessuna cura o test specifico
Ne consegue che la manipolazione ed il miglioramento in senso qualitativo delle popolazioni batteriche, virali e fungine che compongono il microbiota è ancora difficile. “Quel che è certo – osserva Annibale – è che ad oggi le conoscenze sul microbioma, ovvero l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei microrganismi dell’intestino, del microbiota sono ancora sperimentali e stentano ad arrivare alla pratica clinica. Di conseguenza, sia farmaci che strategie terapeutiche in grado di modulare con efficacia questo nostro patrimonio intestinale sono di difficile ottenimento”.
Riguardo all’utilità clinica dell’impiego dei test fecali del microbiota, messi a disposizione da diverse strutture anche on line, ci sono ancora dei dubbi. “Si tratta di test per lo più commerciali – conclude il professor Bruno Annibale – che dimostrerebbero eventuali riduzioni, modificazioni della numerosità, anche di una specie batterica singola, che però le società scientifiche internazionali non hanno mai validato. Di fatto, l’interpretazione di questi test fecali è assolutamente ancora lontana dal farne un esame diagnostico perché, ad esempio, ciò che sta nelle feci non corrisponde esattamente a quello che invece è clinicamente significativo e rilevabile nell’epitelio intestinale, ma ottenibile solo con biopsie attraverso la colonscopia”.
Prevenzione vaccinale in gravidanza, Fondazione Onda ETS: ancora poca informazione
Bambini, Genitorialità, PrevenzioneOltre la metà delle donne in gravidanza non conosce la vaccinazione disponibile. Solo una su 4 conosce al massimo un vaccino disponibile tra Covid, DTPa e influenza. Sono i risultati di un’indagine presentata daFondazione Onda ETS ETS, insieme alla mappatura, svolta nell’ambito della prevenzione primaria in gravidanza di 210 ospedali Bollino Rosa sul territorio nazionale al cui interno è presente un reparto di Ginecologia e Ostetricia.
Prevenzione in gravidanza
La prevenzione vaccinale tutela la salute della donna e del bambino nell’ambito della gravidanza, ma c’è ancora molto lavora da fare per accrescere la consapevolezza. La sintesi emerge dall’incontro “La vaccinazione in gravidanza. L’importanza della prevenzione primaria” al Senato della Repubblica su iniziativa della Senatrice Maria Domenica Castellone in collaborazione con Fondazione Onda ETS e SIGO – Società italiana di ginecologia e ostetricia. Nel corso dell’evento sono stati presentati i risultati di una mappatura, condotta nei Reparti di Ginecologia e Ostetricia degli ospedali Bollino Rosa, volta a conoscere l’offerta dei servizi dedicati alla prevenzione primaria in gravidanza e i dati di un’indagine realizzata da Fondazione Onda ETS in collaborazione con l’Istituto di ricerca Elma Research, che ha indagato l’atteggiamento delle donne in gravidanza e delle neomamme nei confronti della prevenzione primaria, con focus sulle vaccinazioni in gravidanza. Il progetto prevede la diffusione presso gli ospedali Bollino Rosa dell’opuscolo divulgativo rivolto alle donne “Prevenzione in gravidanza. Un’opportunità di salute attuale e futura”.
Indagine sulla vaccinazione in gravidanza
L’indagine ha coinvolto, attraverso interviste online, 300 donne in gravidanza o neomamme (la maggior parte alla prima esperienza), in prevalenza lavoratrici e con un titolo di studio elevato. Durante la gravidanza – emerge dall’indagine – le donne si fanno seguire principalmente dal ginecologo in attività privata (65 per cento dei casi), che rappresenta per loro un importante punto di riferimento. Il partner risulta una figura estremamente presente nella condivisione delle decisioni sanitarie. Le donne intervistate aderiscono per il 22 per cento alla vaccinazione per il COVID-19, per il 33 per cento a quella per l’influenza, per il 42 per cento a quella per tetano, difterite, pertosse. Più della metà del campione conosce i vaccini: solo 1 donna su 4 conosce al massimo un vaccino disponibile per le donne in gravidanza tra vaccinazione Covid, DTPa e influenza. Spesso, tuttavia, il tema della prevenzione primaria in gravidanza risulta associato più facilmente all’esecuzione di test genetici/screening prenatali, a uno stile di vita sano e all’effettuazione di regolari controlli clinici che non al concetto di vaccinazione. Le principali motivazioni che spingono le donne in gravidanza a vaccinarsi sono: il desiderio di proteggere la salute del bambino (53 per cento), la percezione di esposizione al rischio di contrarre la malattia (48 per cento), unite al consiglio medico (37 per cento). Dall’indagine emerge come il 92 per cento delle donne desideri ricevere informazione da parte delle figure sanitarie, che assumono anche sotto questo profilo un ruolo chiave: l’85 per cento di loro vorrebbe ricevere informazioni dal ginecologo, mentre il 33 per cento vorrebbe riceverle dal medico di medicina generale.
Facilitare accesso
«I risultati dell’indagine sulla prevenzione vaccinale in gravidanza presentano un quadro migliorabile che richiede di fornire una risposta adeguata. Emerge come fondamentale la necessità di incrementare l’awareness sui vaccini disponibili in gravidanza, trattando il tema come parte integrante della prevenzione primaria e sensibilizzando soprattutto sugli alti rischi associati alle patologie e sui bassi rischi delle vaccinazioni», dichiara Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda ETS, «Occorre inoltre incrementare l’adesione ai vaccini, con il coinvolgimento delle Istituzioni per sensibilizzare sul tema ad alto livello e dei professionisti della salute (in primis il ginecologo), per un’informazione mirata che sappia rassicurare e motivare le donne. È infine necessario semplificare l’accesso alle vaccinazioni, ovvero facilitare l’iter di prenotazione, ridurre i tempi di attesa, offrire la possibilità di effettuare i vaccini vicino alla residenza o nello stesso sito di altre visite ed esami, per eseguirle contestualmente».
«La vaccinazione è strumento di salute pubblica importantissimo in generale e soprattutto per i soggetti fragili», dichiara Roberta Siliquini, Presidente SITI, Società Italiana di Igiene, «Pensiamo solo sempre ad anziani e malati dimenticandoci che i neonati, per loro natura, sono soggetti fragili in quanto privi della capacità di rispondere adeguatamente ad insulti infettivi. È pertanto necessario proteggerli da subito anche attraverso la vaccinazione della futura mamma che potrà trasmettere gli anticorpi necessari. Sono molte le patologie per le quali abbiamo a disposizione vaccini sicuri ed efficaci in gravidanza: influenza, pertosse/difterite/tetano, Sars CoV2 e virus respiratorio sinciziale. Per quest’ultimo, forse poco noto ma estremamente diffuso e che causa un importante numero di ricoveri ospedalieri anche nei primi mesi di vita, abbiamo a disposizione vaccini e anticorpi monoclonali».
Nel corso dell’evento Fondazione Onda ETS ha consegnato delle pergamene agli ospedali che hanno partecipato alla mappatura come ringraziamento per l’adesione e per l’attenzione e l’impegno sul tema della prevenzione primaria in gravidanza. La mappatura ha coinvolto un campione di 290 ospedali con il Bollino Rosa che hanno al loro interno un reparto di Ginecologia e Ostetricia e di questi 210 strutture sul territorio nazionale hanno partecipato. Quasi tutti hanno dichiarato di avere al loro interno un Punto Nascita (solo 12 non ce l’hanno), con un volume di attività che supera i 500 parti annui e la maggior parte rispetta i “cardini” della prevenzione primaria, ovvero garantisce alle donne interventi specifici di educazione alla corretta alimentazione (oltre il 90 per cento, 196 ospedali) e promuove l’attività fisica in gravidanza (88 per cento, 185 ospedali), al di là delle informazioni fornite durante le visite ambulatoriali. L’impegno diffuso tra gli ospedali nell’assicurare una corretta presa in carico avviene perlopiù tramite il corso di accompagnamento alla nascita anche se, in molti casi, vengono organizzate altre tipologie di attività dedicate (es. agenda gravidanza, counselling con nutrizionista, campagne informative anti-alcol). Emerge una buona copertura per il trattamento di ansia e depressione in gravidanza (78 per cento, 165 ospedali) e questo dato denota come la prevenzione primaria da parte degli ospedali avvenga anche in ottica di cogliere i primi segnali di psicopatologie in gravidanza. Le vaccinazioni sono nella maggior parte dei casi rimandate al territorio: 118 ospedali su 210 infatti non erogano il servizio internamente. Di questi 118 ospedali, pochi non predispongono materiale utile a fornire informazioni su dove recarsi a livello territoriale per accedere al servizio vaccinale (22 ospedali). Degli ospedali che offrono direttamente un servizio di vaccinazione (totale 92 strutture), la maggioranza dispone anche di un Ambulatorio dedicato alle donne in gravidanza (50 ospedali).
Vaccinazione in gravidanza previene difetti genetici
«Sul piano materno-fetale i vaccini rappresentano un importante strumento di prevenzione dei difetti congeniti e di malattie materno-fetoneonatali. L’offerta attiva (informazione adeguata, indicazione scritta in cartella) aumenta sensibilmente la copertura vaccinale», commenta Vito Trojano, Presidente SIGO, Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia.
«Oramai è ampiamente riconosciuta l’importanza della prevenzione in gravidanza. Un plauso a tutte le iniziative finalizzate ad una maggiore sensibilizzazione della componente sanitaria, ad un più facile accesso alla prestazione e ad una più estesa informazione alle donne per una scelta sempre più libera e consapevole», conclude Maria Rosaria Campitiello, Capo Segreteria tecnica, Ministero della Salute.
L’evento si è svolto con il patrocinio di AGUI – Associazione ginecologi universitari italiani, AOGOI – Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani, FNOPO – Federazione nazionale degli ordini della professione di ostetrica, SIMG – Società italiana di medicina generale e delle cure primarie, SIN – Società italiana di neonatologia e SITI – Società italiana di igiene.
Alzheimer: diabete e disturbi del sonno tra i probabili fattori di rischio
Anziani, Eventi e premi, Farmaceutica, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneI pazienti con Alzheimer sono sempre più anziani. La scienza però ha identificato alcuni probabili fattori di rischio, tra cui: il diabete, l’insulino-resistenza, le malattie del fegato e i disturbi del sonno. Con la diagnosi precoce crescono nel frattempo le opportunità per frenare la malattia.
“Per l’Alzheimer si riduce l’incidenza e aumenta la prevalenza. Gli ottantenni di oggi sono meno colpiti, ma l’invecchiamento della popolazione porta in assoluto a un incremento di pazienti” spiega il prof. Alessandro Padovani, Direttore della Clinica di Neurologia e Prorettore alla Ricerca dell’Università degli Studi di Brescia.
Alzheimer, scienza svela fattori di rischio probabili
Nuovi studi sui fattori di rischio della malattia di Alzheimer propongono scenari inediti per effettuare una diagnosi precoce, che potrebbe ritardare la comparsa dei sintomi o evitare che questi insorgano. Sono stati, infatti, identificati alcuni fattori di rischio come diabete, insulino-resistenza, malattie del fegato, disturbi del sonno, che molto probabilmente concorrono a determinare questa patologia. Se queste ricerche fossero confermate sarebbe un significativo passo avanti nella prevenzione, visto che le terapie, nonostante alcune potenzialità, non presentano significative novità. Questi studi sono stati al centro del 24° Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Psicogeriatria – AIP. Tre giorni al Palazzo dei Congressi a Firenze con oltre 500 specialisti tra geriatri, neurologi, psichiatri.
Aumenta prevalenza, ma incidenza in diminuzione
L’Alzheimer è la prima forma di demenza tra le malattie neurodegenerative in tutto il mondo. In Italia ci sono 1,1-1,2 milioni di persone affette da demenza, di cui il 60-80% affetti da Alzheimer, quindi si stimano circa 800mila persone. “Negli ultimi anni però sono stati riscontrati due trend opposti, una riduzione dell’incidenza e un aumento della prevalenza – sottolinea il prof. Alessandro Padovani, Direttore della Clinica di Neurologia e Prorettore alla Ricerca dell’Università degli Studi di Brescia –. Confrontando coorti d’età di diversi periodi emerge una riduzione della malattia: gli ottantenni di oggi rispetto a quelli del passato sono dunque meno colpiti; il controllo dei fattori di rischio ritarda la comparsa della malattia. Tuttavia, l’invecchiamento della popolazione e l’aumento del numero di anziani porta a un incremento della prevalenza, con la cifra assoluta che complessivamente è superiore rispetto al passato. Questi trend sono presenti anche nel micro, come dimostra l’osservatorio dell’Ospedale di Brescia, dove i 17mila pazienti affetti da Alzheimer sono per incidenza sempre più anziani, ma la presenza in coloro che hanno tra i 70 e gli 80 anni si è ridotta”.
Alzheimer, biomarcatori e nuovi fattori di rischio
La ricerca scientifica negli ultimi anni si è concentrata sul fatto che le prime alterazioni neuropatologiche si rilevano già 19 anni prima l’insorgenza dei sintomi veri e propri, con un aumento del tasso di proteina beta-amiloide a cui segue l’alterazione della proteina tau. In generale, un approccio preventivo si basa su socializzazione, alimentazione corretta, attività fisica. Gli studi dell’ultimo anno hanno identificato possibili fattori di rischio che precedono l’accumulo di beta-amiloide.
“I fattori di rischio che stanno emergendo come correlati alle caratteristiche neuropatologiche della malattia di Alzheimer sono il diabete o la cosiddetta insulinoresistenza della sindrome metabolica attraverso l’infiammazione sistemica, che favoriscono l’accumulo di beta-amiloide da cui poi deriverebbe il processo neurodegenerativo – sottolinea il Prof. Alessandro Padovani. Altri due elementi sembrerebbero correlati all’infiammazione sistemica: l’insufficienza epatica non alcolica, spesso legata all’obesità e ai disturbi dell’alimentazione, e la steatosi epatica alcolica, spesso aggravata dal consumo di alcol anche in età avanzata. Il fegato, infatti, svolgerebbe una funzione di filtro o di eliminazione dell’amiloide circolante. Ancora non ci sono dimostrazioni scientifiche, ma è un ipotesi accreditata su cui diversi gruppi stanno lavorando. Un terzo aspetto che emerge sull’individuazione dei fattori di rischio è legato ai disturbi del sonno: un sonno disturbato, inferiore alle 6 ore, aumenta il rischio di decadimento cognitivo; da recenti studi emerge che alcuni farmaci che agiscono sull’orexina non solo migliorano il sonno e le prestazioni cognitive, ma agiscono sui biomarcatori correlati allo sviluppo della malattia di Alzheimer”.
Nuovi biomarcatori
“Le recenti ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer identificano importanti segni che un individuo andrà incontro a una demenza – sottolinea il Prof. Diego De Leo, Presidente AIP –. Si tratta di una puntura lombare che preleva il liquor cefalo-rachidiano che circonda il sistema nervoso. Nuove modalità di analisi dei biomarcatori si possono oggi fare anche tramite analisi del sangue, con un accesso più semplice e generalizzato, intervenendo quindi anche in persone che non presentano segni di malattia. Tuttavia, questa disponibilità pone questioni etiche oltre che organizzative, per identificare le persone da sottoporre a questi test”.
Dagli anticorpi monoclonali agli oligonucleotidi antisenso
L’importanza della prevenzione e dell’identificazione dei fattori di rischio è data dalla mancanza di terapie risolutive della patologia. Negli ultimi anni, la ricerca si è concentrata su anticorpi monoclonali che agiscono contro i primi meccanismi patogenetici dei precursori dell’amiloide, ma gli studi sono ancora in corso e mancano valutazioni da parte delle autorità regolatorie. Attualmente quindi la strategia terapeutica più frequente resta quindi quella di un cocktail di farmaci. “Tra le potenziali novità, vi è una terapia che prevede l’uso di oligonucleotidi antisenso – sottolinea il Prof. Padovani – È una terapia che in Italia è condotta in sei centri, tra cui il nostro a Brescia. Finora non sono emersi effetti collaterali e attendiamo di verificare l’effetto a distanza di un anno, ma i dati sono incoraggianti: potrebbe essere una nuova strada che combina farmaci antiamiloide e antitau”.