Alzheimer e demenza per oltre 1 milione di italiani: oggi si può scoprire 20 anni prima
In Italia, oltre un milione di persone è affetto da demenza; di cui circa il 60% da Alzheimer. Negli ultimi anni sono state analizzate le prime alterazioni neuropatologiche, che si verificano già 15-20 anni prima dell’insorgenza dei sintomi veri e propri, con disturbi di memoria, al linguaggio e difficoltà funzionali. In particolare, aumenta il tasso di proteina beta-amiloide a cui segue l’alterazione della proteina tau. In questo filone si colloca anche lo studio italiano Interceptor, promosso dal Ministero della Salute e dall’Aifa.
“Le nuove ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer mettono in luce segnali precoci che possono indicare la successiva insorgenza della demenza – evidenzia il Prof. Diego De Leo, Presidente AIP – dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria in occasione del 25° Congresso – Per rilevare questi indicatori si utilizza una puntura lombare che preleva il liquido cefalorachidiano, il quale circonda il sistema nervoso. Oggi, però, è possibile effettuare analisi dei biomarcatori anche tramite un semplice esame del sangue, rendendo il test più accessibile e potenzialmente utilizzabile su soggetti ancora asintomatici”.
“La maggiore semplicità nel sapere in anticipo se una persona svilupperà l’Alzheimer comporta nuove sfide sia etiche che organizzative – sottolinea il Prof. Angelo Bianchetti, Segretario Generale AIP – Gli interrogativi sono numerosi: quali persone sottoporre a tali analisi; quando, in che misura, con che progressione si verificherà la malattia. Serve pertanto molta cautela sia da parte degli operatori sanitari che del pubblico. In generale, per chi abbia una predisposizione, si consiglia un approccio preventivo basato su socializzazione, alimentazione corretta, attività fisica”.
Le nuove terapie per l’Alzheimer
“L’immunoterapia con gli anticorpi monoclonali anti-amiloide rappresenta il fulcro di numerosi studi che hanno dimostrato l’efficacia nel ridurre il deposito di amiloide cerebrale e, in una certa misura, il declino cognitivo in un gruppo selezionato di pazienti – commenta il Prof. Diego De Leo – La FDA americana ha approvato tre anticorpi monoclonali anti-amiloide di seconda generazione, uno di questi riconosciuto anche dall’EMA.
Oltre agli anticorpi monoclonali, si sta lavorando su altre soluzioni: l’uso di piante medicinali per le proprietà neuroprotettive; la modulazione del microbiota intestinale per i processi neuro-infiammatori e degenerativi nel cervello. Inoltre, esistono approcci emergenti, come l’uso di microRNA per regolare processi cellulari chiave, e la nanoterapia, che consente la somministrazione precisa di farmaci al sistema nervoso centrale. Tuttavia, qualsiasi opzione terapeutica deve tenere conto dell’opportunità etica di somministrare farmaci costosi e con effetti collaterali”.
“Il riconoscimento europeo di un nuovo farmaco rappresenta una notizia importante, ma serve grande prudenza – evidenzia il Prof. Angelo Bianchetti – Questo farmaco, infatti, rallenta la progressione della malattia, ma non sappiamo se la blocca del tutto. Porta a un rallentamento del 20-30%, ma non si sa se solo il primo anno o anche negli anni successivi. Peraltro, solo il 10% dei pazienti potrà giovarsi di questi farmaci, lasciandone fuori dunque un’ampia maggioranza.
Bisogna dunque pensare a una gestione che tenga conto dei costi, della somministrazione endovenosa, del monitoraggio degli effetti collaterali, senza dimenticare la disomogeneità del sistema delle regioni italiane. Infine, le novità farmacologiche non ci devono far dimenticare il ruolo determinante della stimolazione cognitiva e fisica nel ridurre i disturbi del comportamento e migliorare la qualità di vita”.