Tempo di lettura: 3 minutiL’Italia è un Paese sempre più vecchio e la classe medica non fa eccezione, confermandosi la più anziana d’Europa. Il quadro emerge dalla fotografia scattata dall’ISTAT. Non solo, quindi, vi è una popolazione sempre più anziana, ma gli stessi medici sono prossimi al pensionamento, con il SSN che nell’arco di due o tre anni si appresta a vivere un ampio ricambio generazionale. In questo contesto nascono le iniziative della Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio – SIGOT, per formare i giovani medici.
ISTAT, i medici italiani sono i più vecchi d’Europa
Come rilevano i dati ISTAT, negli ultimi vent’anni i residenti over 65 sono aumentati di oltre 3 milioni, arrivando a 14 milioni 358 mila (+5,1% rispetto al 2004); oltre la metà, 7 milioni 439 mila, ha almeno 75 anni. Allo stesso tempo, vi è anche l’invecchiamento del personale medico: i medici italiani sono i più anziani d’Europa.
Secondo l’ISTAT, nel 2021 in Italia il 55% dei medici aveva almeno 55 anni, contro il 44,5% in Francia, il 44,1% in Germania e il 32,7% in Spagna. Inoltre, il numero di medici specialisti dipendenti del SSN è diminuito in valore assoluto, passando da circa 105mila unità nel 2012 a circa 102mila nel 2021. Tra i motivi della cessazione, nel 2021, il 20,9% è dovuto a collocamento a riposo per limiti di età e il 31,5% a dimissioni con diritto alla pensione.
“L’età media elevata dei clinici italiani rappresenta un elemento di criticità del sistema sanitario, in quanto emerge con forza proprio in una fase in cui la classe medica deve fronteggiare una crescente domanda di assistenza dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione, con aumento delle malattie croniche e della multimorbilità – sottolinea il Prof. Lorenzo Palleschi, Presidente SIGOT Nazionale, Direttore Unità Operativa Complessa di Geriatria e del Dipartimenti Internistico dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni-Addolorata, Roma.
“La cessazione di attività di molti medici per raggiunti limiti di età pone poi l’urgenza di un ricambio generazionale: già oggi ci troviamo in quella che graficamente si definisce la “gobba pensionistica”, con il picco che sarà raggiunto nel 2025 con 13.156 pensionamenti. Solo nel 2030 si tornerà ai livelli del 2020, con 7.471 pensionamenti annuali, con tendenza alla diminuzione negli anni successivi”.
La formazione degli specialisti di domani
Il ricambio generazionale impone anche una formazione adeguata per i nuovi specialisti, spiega la società scientifica. Negli ultimi decenni una errata programmazione ha causato il cosiddetto “imbuto formativo”: la quantità di borse di studio per le specializzazioni non era sufficiente per le persone appena laureate. Dopo la pandemia, invece, sono state messe a disposizione più borse di studio, generando un problema opposto: i laureati in medicina, sono cresciuti meno velocemente; così, nel 2023, oltre un quarto delle borse di studio non è stato assegnato per mancanza di candidati. Inoltre, le recenti normative impongono la definizione di una formazione specifica per i nuovi percorsi assistenziali.
La Missione 6 del PNRR, infatti, prevede di incrementare l’assistenza domiciliare agli anziani; il DDL 33 e DM 77 definiscono un nuovo sistema di Cure Intermedie con Case e Ospedali di Comunità e nuove figure professionali quali l’infermiere di famiglia e Comunità. Figure e competenze nuove su cui l’università potrebbe non essere pronta.
“La sfida della formazione post laurea del personale medico richiede un maggior legame con la programmazione del SSN – evidenzia il Prof. Lorenzo Palleschi – In quest’ottica, SIGOT ha accolto l’appello di ANAAO Assomed, che ha proposto un percorso formativo in cui anche soggetti non universitari, come le Società Scientifiche, possano contribuire.
“Oltre ai consueti congressi e ai webinar, la nostra società propone un’offerta formativa strutturata specifica per i giovani, le Masterclass SIGOT Young, corsi residenziali messi a bando e offerti da SIGOT. Quest’anno ha suscitato grande interesse tra i giovani geriatri con numerose richieste di partecipazione la masterclass “La presa in carico della complessità tra i diversi setting assistenziali”, con focus sulla “transitional care”, ossia la continuità dell’assistenza e della presa in carico dell’anziano complesso tra ospedale e territorio”.
“Il corso – prosegue il presidente – rivolto a specialisti e specializzandi con meno di 40 anni, accreditato anche come ECM, spazia da argomenti come la gestione delle infezioni e la stewardship antimicrobica a malnutrizione e disfagia, passando per le problematiche psico-cognitive, la sarcopenia e l’ipocinesia. Approfondisce il concetto di transmuralità in geriatria, esplora le nuove frontiere tecnologiche come la telemedicina e la teleriabilitazione. Attraverso lezioni frontali, casi clinici e discussioni interattive, i partecipanti potranno acquisire conoscenze aggiornate e competenze pratiche per migliorare la qualità dell’assistenza agli anziani in diversi contesti di cura”.
“Questa impostazione – spiega – è frutto del contributo giunto dagli stessi giovani medici, che hanno partecipato nella strutturazione scientifica del progetto, nell’identificazione dei temi, nella scelta dei casi clinici da analizzare, diventando non solo discenti ma anche docenti. Visto l’alto numero di richieste pervenute, SIGOT ha aumentato il numero delle borse di studio per permettere la partecipazione gratuita a tutti i giovani medici”.
Emofilia, paziente curato con la terapia genica
Ricerca innovazione, NewsL’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli ha segnato un passo avanti fondamentale nel trattamento dell’Emofilia A. È stato, infatti, trattato il primo paziente con la terapia genica, una svolta per questa malattia emorragica congenita, caratterizzata da sanguinamenti spontanei e potenzialmente gravi. Questa terapia innovativa è stata recentemente autorizzata in Italia dall’AIFA e, con l’ospedale Federico II, sono ora tre i centri specializzati che hanno somministrato il trattamento: Milano, Padova e Napoli.
Il ruolo centrale della Regione Campania
La Regione Campania ha avuto un ruolo decisivo nell’avvio di questa attività e in regione la scelta è caduta sull’A.O.U. Federico II come centro Hub per la prescrizione e la somministrazione della terapia genica per l’Emofilia A. Grazie all’impegno e agli investimenti della Direzione Strategica dell’Azienda, guidata dal Direttore Generale Giuseppe Longo e dal Direttore Sanitario Anna Borrelli, è stato possibile definire un percorso di cura per i pazienti emofilici che si avvalgono di questa terapia rivoluzionaria.
L’équipe multidisciplinare al servizio del paziente
Il percorso clinico per il primo paziente è stato supportato dall’Unità di Medicina Interna ed Emo-coagulazione, diretta dal professore Matteo Di Minno, con il contributo fondamentale dei dottori Ilenia Calcaterra, Ernesto Cimino e Paolo Conca. Accanto a loro, il personale infermieristico coordinato dal dott. Francesco Dell’Aquila, oltre a numerosi specialisti di diverse branche, tra cui epatologi, psicologi, farmacisti e biologi, hanno formato un team multidisciplinare dedicato a garantire il successo del trattamento.
Un cambiamento radicale per la vita dei pazienti con Emofilia A
“Fino a questo momento, i pazienti con Emofilia A erano costretti ad infondersi per via endovenosa il concentrato di fattore VIII tra le 2 e le 4 volte a settimana come profilassi per ridurre il numero di sanguinamenti”, spiega il professor Di Minno. “Questa terapia, iniziata alla nascita e continuata per tutta la vita, comprometteva la qualità della vita dei pazienti, limitando attività lavorative, sociali e ludiche. Inoltre, i sanguinamenti, seppur ridotti durante la profilassi, non erano eliminati del tutto e, quando si verificavano, comportavano frequenti accessi in ospedale e sviluppo di complicanze irreversibili come l’artropatia emofilica”.
Percentuali altissime
La terapia genica rappresenta una svolta radicale. Agendo direttamente sul fegato per ripristinare la sintesi del fattore VIII, garantisce livelli elevati e stabili dello stesso, consentendo l’interruzione della profilassi endovenosa e assicurando l’assenza di sanguinamenti in circa l’80% dei pazienti. I dati più recenti indicano che questo effetto positivo si mantiene per diversi anni, rappresentando una vera rivoluzione nella gestione dell’Emofilia A.
Equità sanitaria
L’avvento di questa terapia segna un passo importante verso l’health equity per i pazienti affetti da Emofilia A. I pazienti che ne usufruiscono possono finalmente immaginare un futuro in cui la malattia non limiti più la loro vita quotidiana, garantendo una maggiore partecipazione alle attività sociali e lavorative.
Un orgoglio per la Campania e per l’Italia
“Come Regione Campania e Azienda Ospedaliera Universitaria siamo orgogliosi di essere tra i primi in Italia e nel mondo ad aver dato inizio a questa rivoluzione nel campo della cura per l’Emofilia A. Possiamo davvero affermare che il futuro è adesso”, conclude il Direttore Giuseppe Longo.
La somministrazione della terapia genica presso l’A.O.U. Federico II di Napoli non rappresenta solo un traguardo per il singolo paziente, ma anche un grande passo avanti nella lotta contro l’Emofilia A a livello nazionale. Questa innovazione terapeutica potrebbe presto diventare lo standard di cura, migliorando la qualità di vita di numerosi pazienti in Italia e oltre.
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Salvata dalla Sma con la terapia genica
Depressione: 30-40 % non risponde alle terapie. Tipologie, cure e nuove scoperte sui casi resistenti
Benessere, News, Prevenzione, Psicologia, Ricerca innovazioneLa depressione è una patologia complessa che emerge in forme diverse. La risposta ai trattamenti varia molto da persona a persona. Oggi, il 30-40 per cento delle persone affette da depressione non risponde alle terapie disponibili. Il dato pesa sui sistemi sanitari e sulla qualità della vita dei pazienti. Questo ha spinto la ricerca scientifica a indagare le ragioni delle variabilità. Un nuovo studio pubblicato su Nature Medicine ha individuato almeno sei diversi tipi di depressione, o “biotipi”. Si distinguono per specifici pattern di attivazione cerebrale, rispondendo in modo diverso alle strategie terapeutiche.
Sei biotipi per comprendere la depressione
La ricerca, condotta da un team guidato dal neuroscienziato italiano Leonardo Tozzi della Stanford University, ha analizzato l’attività cerebrale di 801 pazienti. Il lavoro si è concentrato sull’individuazione di specifici schemi di attivazione o non attivazione di circuiti cerebrali, i quali sembrano determinare la tipologia di depressione e, di conseguenza, la risposta alle cure. Questi sei biotipi sono associati a circuiti responsabili di funzioni cognitive come l’attenzione, l’autocontrollo e le emozioni. Ad esempio, un biotipo è caratterizzato da un’iperconnettività nei circuiti dell’attenzione, mentre un altro da un’iperattivazione del “Default Mode Network“, che si attiva quando il cervello non è impegnato in compiti specifici.
Lo studio si è basato su tecniche avanzate di neuroimmagine e analisi dei dati, permettendo ai ricercatori di sviluppare una mappa più dettagliata di come il cervello si comporta nei diversi tipi di depressione. I risultati potrebbero portare alla creazione di trattamenti mirati e personalizzati.
I risultati delle terapie nei sei biotipi
I ricercatori hanno analizzato anche l’efficacia dei trattamenti su un campione di 250 pazienti, monitorando la risposta ai diversi approcci terapeutici. In particolare, hanno testato farmaci antidepressivi e terapie psicologiche specifiche. I risultati hanno mostrato che alcuni biotipi rispondono meglio alla psicoterapia, mentre altri trovano maggiore beneficio dai farmaci.
Ad esempio, il biotipo “Default with salience and attention hyperconnectivity” ha mostrato una maggiore risposta alla psicoterapia, mentre il biotipo “Attention hypoconnectivity” ha risposto meno bene a questo tipo di trattamento. Il biotipo “Cognitive control hyperactivation” ha invece registrato un miglioramento con un farmaco specifico. Questi risultati indicano che l’identificazione del biotipo di appartenenza potrebbe orientare in modo più preciso i medici nella scelta della terapia, riducendo il numero di pazienti che non rispondono ai trattamenti.
Verso cure personalizzate
La possibilità di associare un determinato biotipo a una specifica terapia potrebbe rivoluzionare la pratica psichiatrica. Leonardo Tozzi, in collaborazione con il team di Stanford, sta ora lavorando a trial clinici sperimentali per verificare l’efficacia di trattamenti mirati. I prossimi passi includeranno studi randomizzati per confermare i risultati e offrire una base solida per l’applicazione clinica.
I costi economici e sociali della depressione
La depressione pesa anche sul piano economico e sociale. Negli Stati Uniti, i costi legati alla disabilità causata dalla depressione ammontano a 336 miliardi di dollari. Si tratta della principale causa di perdita di produttività lavorativa a livello globale. I giovani sono particolarmente colpiti, con un tasso di suicidi che è triplicato negli ultimi 30 anni.
Il problema della depressione non diagnosticata
Uno dei principali ostacoli alla cura della depressione è la mancanza di diagnosi. Gli studi indicano che solo una persona su cinque affetta da depressione maggiore riceve cure adeguate. Molti pazienti non sanno di poter beneficiare di trattamenti specifici e interpretano i sintomi come una normale reazione a situazioni difficili. La depressione è spesso confusa con stati di tristezza o disagio temporanei, invece è una patologia complessa. I sintomi sono persistenti e impattano significativamente sulla vita personale e sociale.
Come funziona il cervello nella depressione
Il cervello è un sistema complesso, formato da circuiti che collegano diverse aree e si attivano a seconda delle funzioni svolte. Nel caso della depressione, alcuni circuiti sono maggiormente coinvolti, come il circuito del “Default Mode Network”, che si attiva quando non si è impegnati in compiti specifici, e che è spesso collegato alla ruminazione tipica della depressione. Altri circuiti interessati includono quelli responsabili delle emozioni, sia positive che negative, e quelli che regolano l’attenzione e il controllo cognitivo.
La scoperta di sei biotipi distinti fa luce sulla possibilità di personalizzare i trattamenti, migliorando la risposta dei pazienti alle terapie. Il prossimo obiettivo è confermare questi risultati con studi clinici prospettici e randomizzati. La depressione rimane una delle principali sfide della salute pubblica, ma la ricerca scientifica continua a fare progressi verso un futuro in cui le cure saranno sempre più efficaci e personalizzate.
In bici o a piedi 4 italiani su 10. Sud rimane indietro
Prevenzione, Benessere, Sport, Stili di vitaQuattro italiani adulti su 10, il 41 per cento, nel biennio 2022-2023 hanno scelto di andare in bicicletta o a piedi al lavoro, a scuola o per le altre attività quotidiane. Il restante 59 per cento, invece, si è spostato con veicoli a motore (privati o pubblici).
Quello che emerge dai dati della sorveglianza Passi dell’Istituto Superiore di Sanità è un Paese che si muove sempre meno in maniera attiva. Proprio il 2023 è l’anno con i valori più bassi per la quota di persone attive grazie agli spostamenti in bici o a piedi secondo i criteri Oms.
Inoltre la situazione si presenta a due velocità a livello geografico. Nel complesso, l’11 per cento degli adulti residenti nel Paese utilizza la bicicletta per andare al lavoro, a scuola o per gli spostamenti quotidiani, con percentuali più alte al Nord rispetto che al Sud. In particolare, sì osserva la stessa tendenza per gli spostamenti a piedi (38%), eccezion fatta per la Sardegna tra le Regioni del Sud. Inoltre, è nei giovani che si registra un calo più marcato nel tempo della tendenza a muoversi a piedi.
Un italiano su 10 sceglie la bici, il Centro-Sud arranca
I dati raccolti nel biennio 2022-2023 mostrano che utilizzare la bicicletta per gli spostamenti quotidiani è un’abitudine più frequente fra gli uomini, fra le persone senza difficoltà economiche e alto livello di istruzione, e tra gli stranieri. La pratica è maggiormente diffusa fra i residenti delle Regioni del Nord Italia e meno fra i residenti nel Centro-Sud (17% nel Nord contro 7% nel Meridione). Nella P.A. di Bolzano, ad esempio, quasi 1 persona su 3 utilizza abitualmente la bicicletta per gli spostamenti quotidiani. Inoltre, dai dati 2022-2023 emerge che chi si muove in bicicletta lo fa per quasi 4 giorni alla settimana per un totale settimanale di oltre 140 minuti.
Si sposta a piedi quasi 1 adulto su 4, ma è un’abitudine in calo tra i giovani
Il 38% delle persone tra i 18 e i 69 anni di età intervistate ha dichiarato di aver percorso, nel mese precedente l’intervista, tragitti a piedi per andare al lavoro o a scuola o per gli spostamenti abituali. La percentuale di chi si muove a piedi per i propri spostamenti abituali è maggiore tra i 18-24enni, fra le donne, fra le persone senza difficoltà economiche o più istruite, e fra gli stranieri.
Anche l’abitudine di spostarsi a piedi, come con la bicicletta, è più frequente al Nord che nel resto del Paese: nella P.A. di Bolzano, quasi 6 persone su 10 si spostano a piedi per raggiungere il posto di lavoro o i luoghi che frequentano abitualmente, valore di poco superiore a quello del Piemonte e della Sardegna, quest’ultima unica eccezione fra le Regioni meridionali. Chi si muove a piedi per gli spostamenti abituali lo fa mediamente per oltre 4 giorni alla settimana per un totale settimanale di 170 minuti. Nel tempo, la quota di adulti che usano spostarsi abitualmente a piedi diminuisce lentamente e sono i giovani (18-34enni) a registrare un maggior calo.
La settimana europea della mobilità, il tema del 2024 è spazi pubblici condivisi
I dati sulla mobilità attiva vengono diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità in occasione della settimana europea della mobilità, dal 16 al 22 settembre. Il tema scelto quest’anno per l’evento europeo è “Spazio pubblico condiviso”. L’obiettivo è quello di una riflessione collettiva su come condividere lo spazio pubblico e fare in modo che tutti possano muoversi in modo sicuro e confortevole, in particolare pedoni e ciclisti.
Fumo e inquinanti modificano geni per oltre 30 anni
News, Prevenzione, Ricerca innovazione, Stili di vitaIl fumo lascia segni genetici anche decenni dopo l’ultima sigaretta. È il risultato di uno studio condotto da ricercatori della Harvard School of Public Health e pubblicato sul Journal of Cardiovascular Genetics. Secondo questa ricerca, i marcatori epigenetici, veri e propri “interruttori” dei geni, non tornano mai più alle condizioni precedenti, nemmeno dopo 30 anni dalla cessazione del fumo.
Gli effetti dannosi del fumo si riflettono così a lungo termine sulla salute, contribuendo all’insorgenza di malattie cardiovascolari anche negli ex fumatori. Questo studio, presentato di recente alla prima conferenza internazionale di medicina ambientale, organizzata dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) presso l’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara, fa luce sui danni epigenetici legati al tabacco.
Il rischio di infarti e ictus resta elevato anche decenni dopo l’ultima sigaretta. I marcatori genetici che regolano l’espressione dei geni non tornano alla normalità. Questo significa che le cellule conservano memoria del danno, e ciò può tradursi in un aumentato rischio di malattie gravi, soprattutto cardiovascolari. La ricerca, durata 30 anni, ha coinvolto migliaia di persone e ha dimostrato come il fumo agisca sui geni in modo permanente, con conseguenze anche a lungo termine.
Gli inquinanti ambientali modificano il DNA prima della nascita
Non solo il fumo. Anche l’inquinamento ambientale incide in modo rilevante sul patrimonio genetico. Studi condotti su placente umane, come ha spiegato Liborio Stuppia, rettore dell’Università di Chieti e esperto di epigenetica, mostrano alterazioni genetiche differenti a seconda della tipologia di inquinanti presenti nelle città.
Sia le emissioni da traffico che quelle industriali, come quelle delle acciaierie, lasciano segni indelebili sui geni del nascituro già nel grembo materno. Questi cambiamenti genetici sono stati collegati all’aumento globale di malattie come l’obesità e il calo della fertilità. Le continue interazioni tra i contaminanti ambientali – metalli pesanti, bisfenolo, microplastiche – e il DNA umano cominciano già durante la gravidanza o addirittura prima, nelle cellule germinali dei futuri genitori.
Asma, diabete e il peso dei metalli pesanti
Gli inquinanti ambientali non si limitano a modificare i geni. Tra gli effetti più rilevanti ci sono i 3,5 milioni di casi di asma che, secondo il professor Prisco Piscitelli, vicepresidente di SIMA, sono causati dall’esposizione agli interferenti endocrini. Il problema non riguarda solo l’asma: anche il diabete è in aumento. Le previsioni parlano di una crescita esponenziale. Dai 463 milioni di diabetici oggi, si passerà a 578 milioni nel 2030 e a 700 milioni nel 2050, un incremento del 51%. Numeri allarmanti, che rendono chiaro il peso dell’inquinamento sui sistemi sanitari.
Tra i principali responsabili di queste modifiche genetiche ci sono i metalli pesanti. Piombo, mercurio, cadmio e altri inquinanti derivati da pesticidi e polveri sottili, soprattutto provenienti dal traffico urbano e dall’industria, giocano un ruolo determinante nell’aumento di malattie croniche. Il legame tra esposizione a questi agenti tossici e il rischio di cancro, malattie cardiovascolari e neurodegenerative è ormai noto. Le città più industrializzate, in particolare, vedono un’impennata di questi rischi.
Un cambio di rotta: prevenzione primaria
Il presidente di SIMA, Alessandro Miani, durante la conferenza dal titolo “Minacce ambientali alla salute umana: dalla genetica all’epigenetica”, ha lanciato un appello alla comunità scientifica. Le evidenze scientifiche spingono verso una nuova visione della medicina, che deve puntare alla prevenzione primaria. Non si tratta solo di curare le malattie, ma di eliminare o ridurre il più possibile le cause ambientali che le scatenano. Miani ha sottolineato come l’attenzione deve spostarsi dai sintomi alle cause, soprattutto nelle malattie pediatriche, in cui il ruolo degli inquinanti ambientali è sempre più evidente.
Presa Weekly 13 Settembre 2024
PreSa WeeklySalute intestinale e probiotici
Alimentazione, BenessereNegli ultimi anni, l’interesse per la salute intestinale e il ruolo dei probiotici è cresciuto molto, soprattutto grazie alla crescente consapevolezza della stretta connessione tra il nostro intestino, il microbioma e il benessere generale. Che si tratti di migliorare la digestione, sostenere il sistema immunitario o persino favorire un umore migliore, il nostro intestino gioca un ruolo fondamentale. Ma cosa possiamo fare per prenderci cura del nostro microbioma intestinale? Gli alimenti fermentati e gli integratori probiotici offrono soluzioni naturali e efficaci.
Cos’è il microbioma intestinale?
Iniziamo col dire che il microbioma intestinale è un ecosistema di trilioni di batteri, virus e funghi che risiedono nel nostro tratto gastrointestinale. Questi microrganismi non solo aiutano a digerire il cibo, ma svolgono anche funzioni cruciali nella regolazione del sistema immunitario e nella produzione di importanti neurotrasmettitori, come la serotonina. Una flora intestinale sana è fondamentale per prevenire malattie infiammatorie, allergie, problemi digestivi e migliorare la salute mentale.
Alimenti fermentati: nutrimento per il microbioma
Quindi, come prendersi cura del microbioma? Gli alimenti fermentati sono ricchi di batteri benefici che possono arricchire la nostra flora intestinale. Tra gli alimenti fermentati più comuni troviamo il kefir, che è una bevanda fermentata a base di latte o acqua ricca di probiotici, o anche lo yogurt (il più noto dei probiotici) che aiuta a migliorare la digestione e promuovere un intestino sano.
In pochi conoscono però il kimchi, un piatto coreano a base di verdure fermentate con potenti proprietà antiossidanti e antinfiammatorie. Il sauerkraut, cavolo fermentato che contiene batteri benefici come i lattobacilli, utili per migliorare la digestione e rafforzare il sistema immunitario o il kombucha, bevanda fermentata a base di tè ricca di probiotici e antiossidanti.
Buone abitudini
Consumare regolarmente questi alimenti può aiutare a ripopolare il nostro intestino di batteri buoni, migliorando così la digestione e rafforzando le difese immunitarie. Oltre ai benefici digestivi, alcuni studi suggeriscono che gli alimenti fermentati possono ridurre l’infiammazione, promuovere la perdita di peso e persino migliorare l’umore.
L’integrazione per un intestino sano
Gli integratori probiotici sono un modo pratico e concentrato per introdurre un numero elevato di batteri benefici direttamente nel tratto intestinale. Spesso contengono ceppi specifici di batteri, come i Lactobacillus e i Bifidobacterium, che sono stati ampiamente studiati per i loro effetti positivi sulla salute. In particolare aiutano a:
Il microbioma e il benessere generale
Uno degli aspetti più affascinanti del microbioma intestinale è il suo impatto sul benessere mentale. Circa il 90% della serotonina, l’ormone della felicità, viene prodotto nell’intestino. Questo legame tra intestino e cervello rende chiaro che la salute mentale è strettamente correlata alla salute intestinale. Diversi studi hanno dimostrato che una flora intestinale sana può migliorare l’umore e ridurre il rischio di ansia e depressione.
Inoltre, il nostro sistema immunitario dipende fortemente dal microbioma intestinale. Un microbioma equilibrato aiuta a combattere le infezioni, regola le risposte infiammatorie e mantiene il sistema immunitario efficiente. Quando la flora intestinale è alterata, il rischio di malattie autoimmuni e infezioni aumenta, dimostrando quanto sia cruciale mantenere un intestino sano.
Come scegliere un buon integratore probiotico?
Con così tante opzioni disponibili sul mercato, scegliere l’integratore probiotico giusto può essere difficile. Ecco alcuni fattori da considerare:
Una questione di equilibrio
La salute intestinale è la chiave per un benessere completo. Incorporare alimenti fermentati e integratori probiotici nella propria dieta può avere effetti profondi e positivi non solo sulla digestione, ma anche sul sistema immunitario e sulla salute mentale. Prendersi cura del microbioma intestinale è una delle strategie più efficaci per migliorare la qualità della vita a lungo termine. Non dimenticare, un intestino sano è il fondamento di un corpo e una mente in equilibrio.
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Medici italiani i più anziani d’Europa, il SSN invecchia
Associazioni pazienti, News, News, RubricheL’Italia è un Paese sempre più vecchio e la classe medica non fa eccezione, confermandosi la più anziana d’Europa. Il quadro emerge dalla fotografia scattata dall’ISTAT. Non solo, quindi, vi è una popolazione sempre più anziana, ma gli stessi medici sono prossimi al pensionamento, con il SSN che nell’arco di due o tre anni si appresta a vivere un ampio ricambio generazionale. In questo contesto nascono le iniziative della Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio – SIGOT, per formare i giovani medici.
ISTAT, i medici italiani sono i più vecchi d’Europa
Come rilevano i dati ISTAT, negli ultimi vent’anni i residenti over 65 sono aumentati di oltre 3 milioni, arrivando a 14 milioni 358 mila (+5,1% rispetto al 2004); oltre la metà, 7 milioni 439 mila, ha almeno 75 anni. Allo stesso tempo, vi è anche l’invecchiamento del personale medico: i medici italiani sono i più anziani d’Europa.
Secondo l’ISTAT, nel 2021 in Italia il 55% dei medici aveva almeno 55 anni, contro il 44,5% in Francia, il 44,1% in Germania e il 32,7% in Spagna. Inoltre, il numero di medici specialisti dipendenti del SSN è diminuito in valore assoluto, passando da circa 105mila unità nel 2012 a circa 102mila nel 2021. Tra i motivi della cessazione, nel 2021, il 20,9% è dovuto a collocamento a riposo per limiti di età e il 31,5% a dimissioni con diritto alla pensione.
“L’età media elevata dei clinici italiani rappresenta un elemento di criticità del sistema sanitario, in quanto emerge con forza proprio in una fase in cui la classe medica deve fronteggiare una crescente domanda di assistenza dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione, con aumento delle malattie croniche e della multimorbilità – sottolinea il Prof. Lorenzo Palleschi, Presidente SIGOT Nazionale, Direttore Unità Operativa Complessa di Geriatria e del Dipartimenti Internistico dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni-Addolorata, Roma.
“La cessazione di attività di molti medici per raggiunti limiti di età pone poi l’urgenza di un ricambio generazionale: già oggi ci troviamo in quella che graficamente si definisce la “gobba pensionistica”, con il picco che sarà raggiunto nel 2025 con 13.156 pensionamenti. Solo nel 2030 si tornerà ai livelli del 2020, con 7.471 pensionamenti annuali, con tendenza alla diminuzione negli anni successivi”.
La formazione degli specialisti di domani
Il ricambio generazionale impone anche una formazione adeguata per i nuovi specialisti, spiega la società scientifica. Negli ultimi decenni una errata programmazione ha causato il cosiddetto “imbuto formativo”: la quantità di borse di studio per le specializzazioni non era sufficiente per le persone appena laureate. Dopo la pandemia, invece, sono state messe a disposizione più borse di studio, generando un problema opposto: i laureati in medicina, sono cresciuti meno velocemente; così, nel 2023, oltre un quarto delle borse di studio non è stato assegnato per mancanza di candidati. Inoltre, le recenti normative impongono la definizione di una formazione specifica per i nuovi percorsi assistenziali.
La Missione 6 del PNRR, infatti, prevede di incrementare l’assistenza domiciliare agli anziani; il DDL 33 e DM 77 definiscono un nuovo sistema di Cure Intermedie con Case e Ospedali di Comunità e nuove figure professionali quali l’infermiere di famiglia e Comunità. Figure e competenze nuove su cui l’università potrebbe non essere pronta.
“La sfida della formazione post laurea del personale medico richiede un maggior legame con la programmazione del SSN – evidenzia il Prof. Lorenzo Palleschi – In quest’ottica, SIGOT ha accolto l’appello di ANAAO Assomed, che ha proposto un percorso formativo in cui anche soggetti non universitari, come le Società Scientifiche, possano contribuire.
“Oltre ai consueti congressi e ai webinar, la nostra società propone un’offerta formativa strutturata specifica per i giovani, le Masterclass SIGOT Young, corsi residenziali messi a bando e offerti da SIGOT. Quest’anno ha suscitato grande interesse tra i giovani geriatri con numerose richieste di partecipazione la masterclass “La presa in carico della complessità tra i diversi setting assistenziali”, con focus sulla “transitional care”, ossia la continuità dell’assistenza e della presa in carico dell’anziano complesso tra ospedale e territorio”.
“Il corso – prosegue il presidente – rivolto a specialisti e specializzandi con meno di 40 anni, accreditato anche come ECM, spazia da argomenti come la gestione delle infezioni e la stewardship antimicrobica a malnutrizione e disfagia, passando per le problematiche psico-cognitive, la sarcopenia e l’ipocinesia. Approfondisce il concetto di transmuralità in geriatria, esplora le nuove frontiere tecnologiche come la telemedicina e la teleriabilitazione. Attraverso lezioni frontali, casi clinici e discussioni interattive, i partecipanti potranno acquisire conoscenze aggiornate e competenze pratiche per migliorare la qualità dell’assistenza agli anziani in diversi contesti di cura”.
“Questa impostazione – spiega – è frutto del contributo giunto dagli stessi giovani medici, che hanno partecipato nella strutturazione scientifica del progetto, nell’identificazione dei temi, nella scelta dei casi clinici da analizzare, diventando non solo discenti ma anche docenti. Visto l’alto numero di richieste pervenute, SIGOT ha aumentato il numero delle borse di studio per permettere la partecipazione gratuita a tutti i giovani medici”.
Come difendersi dal mal di testa da pc e tablet
PrevenzioneIl mal di testa da computer (o da smartphone e tablet) è ormai una vera e propria malattia, legata a molti fattori che hanno a che fare con la lunga esposizione agli schermi. Si pensi ad esempio ad una postura scorretta, alla mancanza di pause regolari. Ma anche a problemi alla vista, distanze inadeguate dallo schermo e secchezza degli occhi. Tutte cause scatenanti di mal di testa più o meno intensi.
Attenzione alla postura
Fissi al Pc, molte volte assumiamo una posture del tutto sbagliata. Senza rendercene conto questa postura determina l’irrigidimento dei muscoli della schiena e del collo. E di qui il mal di testa. Ma come fare a mantenere una giusta posizione di lavoro? È essenziale regolare l’altezza della sedia in modo che le ginocchia formino un angolo retto. Inoltre, la testa e lo sguardo dovrebbero essere rivolti verso il centro dello schermo, mantenendo una distanza di almeno 40-50 cm, per evitare di irrigidire le spalle.
L’importanza delle pause
Sembrerà banale, ma un altro errore molto comune è quello di non prendersi mai delle pause. Quando alla cattiva postura si sommano troppe ore passate davanti al computer, il mal di testa può intensificarsi a causa della prolungata tensione muscolare. Ecco perché sarebbe sempre consigliato alzarsi spesso dalla scrivania e fare movimento regolarmente durante la giornata per contrastare questo problema.
L’occhio secco non è scaramanzia
Tra le cause del mal di testa c’è poi l’occhio secco. Nulla a che vedere con la scaramanzia, perché in questo caso si parla della sensazione di occhi che bruciano, specialmente a fine giornata, che è legata alla disidratazione oculare. Guardare continuamente lo schermo di un dispositivo elettronico influisce sulla frequenza di ammiccamento, riducendo il numero di volte in cui sbattiamo le palpebre. A ciò si aggiunge la polvere che viene attratta dal campo elettrostatico dello schermo, peggiorando la qualità della lubrificazione oculare. In alcuni casi, può presentarsi anche una patologia chiamata occhio secco, che causa prurito, bruciore o irritazione.
I colliri
Per affrontare la disidratazione, è utile integrare il film lacrimale mediante sostituti, ovvero sostanze che lubrificano la superficie dell’occhio, migliorandone la condizione e così anche la qualità visiva. È quindi importante ricordarsi di sbattere le palpebre più spesso e di idratare gli occhi con sostituti lacrimali.
Occhi stanchi e disturbi visivi
Se i mal di testa si verificano regolarmente, potrebbe esserci, oltre alle varie cause comuni, anche un disturbo visivo. La salute degli occhi e una buona vista sono cruciali quando si lavora davanti a schermi. Pertanto, in caso di mal di testa frequenti correlati all’uso del computer, è importante sottoporsi a controlli periodici della vista da un oculista. In presenza di affaticamento della vista o disturbi visivi, il problema potrebbe essere risolto semplicemente con una correzione tramite lenti adeguate.
Occhi sotto stress
È importante ricordare insomma che la prolungata esposizione agli schermi può causare stress e tensione agli occhi. Per rilassarli e riposarli dallo sforzo continuo, è utile distogliere periodicamente lo sguardo dallo schermo, magari guardando fuori dalla finestra verso l’orizzonte o osservando oggetti distanti. Questo aiuta a rilassare i muscoli oculari utilizzati per la messa a fuoco, che, come qualsiasi altro muscolo del corpo, possono stancarsi. Per favorire il relax degli occhi, si consiglia di fare una pausa visiva di 15 minuti ogni due ore di lavoro, evitando possibilmente di consultare messaggi sullo smartphone durante questo intervallo.
Una pausa visiva più lunga, di circa 15 minuti, ogni due ore di lavoro sarebbe l’ideale. Durante questi intervalli, ovviamente, si deve evitare l’uso di altri dispositivi digitali, come smartphone e tablet, per dare agli occhi il tempo necessario a riprendersi. Inoltre, una buona illuminazione della stanza, assieme a una corretta distanza dallo schermo e alla regolazione della luminosità, può ulteriormente ridurre lo stress visivo e migliorare il comfort durante l’uso prolungato di dispositivi elettronici. Sono piccoli accorgimenti che però si dimostrano essenziale per evitare fastidiosi mal di testa.
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Alzheimer, identificato meccanismo coinvolto nella perdita della memoria
Anziani, Farmaceutica, Ricerca innovazioneUna proteina nota per proteggere il DNA è coinvolta nel controllo della memoria. La scoperta è stata messa a punto dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con l’IRCCS San Raffaele di Roma. Questo risultato aggiunge un importante tassello alla conoscenza dell’Alzheimer e apre la strada a future nuove vie terapeutiche e all’identificazione di un nuovo biomarcatore per la diagnosi precoce.
Alzheimer colpisce 2 mln di persone in Italia
Ricercatori dell’ISS, dell’IRCCS San Raffaele Roma e del CNR hanno scoperto un nuovo meccanismo molecolare alla base della perdita della memoria e delle capacità cognitive che caratterizzano le demenze. Il nuovo meccanismo vede coinvolta una proteina che ha il ruolo di riparare i danni del doppio filamento del DNA provocati da stress e da stimoli di natura diversa all’interno dei neuroni.
L’Alzheimer, secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, colpisce in Italia circa 2 milioni di persone (1 milione e 100 mila con demenza, 900 mila con un disturbo cognitivo lieve). In futuro, questa scoperta potrebbe aprire la strada a nuove possibilità nella diagnosi precoce, fornendo un nuovo biomarcatore di malattia.
Il nuovo studio
Il nuovo studio pubblicato su EMBO Reports dimostra per la prima volta che l’enzima DNA-PKcs – una proteina chinasi coinvolta nei meccanismi di riparazione del DNA all’interno delle cellule nervose di ognuno di noi – è localizzata nelle sinapsi, cioè nel punto di contatto funzionale al livello del quale avviene la trasmissione delle informazioni tra i neuroni.
Gli autori dello studio hanno dimostrato che nelle sinapsi la DNA-PKcs è responsabile della fosforilazione di PSD-95 (la fosforilazione è una particolare modificazione della struttura della proteina che consiste nell’aggiunta di un gruppo fosforico alla molecola), una proteina responsabile dell’organizzazione delle sinapsi, della loro struttura e di conseguenza anche della trasmissione dei segnali.
“La modificazione di PSD-95 da parte della DNA-PKcs, rende PSD-95 stabile all’interno delle sinapsi e non suscettibile di degradazione, come avviene per esempio nell’Alzheimer”, spiega Daniela Merlo, Dirigente di Ricerca del Dipartimento di Neuroscienze e Direttrice della Struttura Interdipartimentale sulle Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità e coordinatrice dello studio.
Lo studio precedente, la relazione tra DNA-PKcs e beta amiloide
Nel 2016 lo stesso gruppo di ricercatori che ha firmato il lavoro appena pubblicato su EMBO Reports aveva scoperto che l’attività dell’enzima DNA-PKcs viene inibita dalla beta-amiloide, la proteina che tipicamente si accumula nel cervello dei pazienti con Alzheimer. La mancata riparazione dei danni al DNA che deriva dall’inibizione di DNA-PKcs è implicata nella morte dei neuroni osservata in diverse malattie neurodegenerative, tra cui l’Alzheimer. Infatti, la diminuzione dei livelli e dell’attività della DNA-PKcs è stata osservata nei cervelli di pazienti con Alzheimer.
La disfunzione delle sinapsi e la perdita della memoria
“Questa nuova scoperta dimostra che la DNA-PKcs ha un ruolo fondamentale nella memoria e nei deficit cognitivi che caratterizzano l’Alzheimer e le demenze”, spiegano Cristiana Mollinari ricercatrice dell’Istituto di Farmacologia Traslazionale (CNR) e Leonardo Lupacchini ricercatore del San Raffaele Roma, primi autori dell’articolo.
“Pertanto – aggiunge Merlo – questo studio propone un nuovo scenario in cui nella malattia di Alzheimer, ma non solo, la ridotta attività enzimatica della DNA-PKcs, mediata dall’accumulo di beta-amiloide, provoca la riduzione dei livelli di PSD-95 nelle sinapsi dovuta alla sua mancata fosforilazione, e di conseguenza la disfunzione delle sinapsi. Che è alla base della perdita di memoria”.
Le prospettive future: un nuovo biomarcatore e nuove vie terapeutiche
“La mancata fosforilazione di PSD-95 nelle patologie neurodegenerative caratterizzate da deficit cognitivo – continua Merlo – potrebbe rappresentare un nuovo biomarcatore per la diagnosi precoce e per il monitoraggio nel tempo della malattia”.
“Questo studio – dice Enrico Garaci, Presidente del Comitato Tecnico Scientifico dell’IRCCS San Raffaele Roma – ha identificato nuove vie cellulari che possono essere modulate farmacologicamente, e quindi strategie terapeutiche mirate a regolare l’attività della DNA-PKcs e l’integrità di PSD-95 potrebbero avere un importante impatto terapeutico sulla perdita delle sinapsi e quindi sui deficit cognitivi in diverse malattie neurologiche”.
“La Malattia di Alzheimer e le demenze hanno un impatto considerevole in termini socio-sanitari e rappresentano una delle maggiori cause di disabilità nella popolazione generale e in quella anziana in particolare, rappresentando uno dei problemi più rilevanti in termini di sanità pubblica”, spiega Massimo Fini, Direttore Scientifico dell’IRCCS San Raffaele Roma.
Ovociti, sarà possibile ringiovanirli
Ricerca innovazioneA breve sarà possibile riportare indietro l’orologio biologico per donne non più giovanissime che cercano una gravidanza. Questo significa che tantissime donne sopra i 40 anni che oggi non riescono ad avere un bambino potrebbero finalmente vivere l’emozione e la gioia della gravidanza ringiovanendo gli ovociti.
La procedura
Il primo passo verso questo importante traguardo è stato compiuto in un esperimento con ovociti anziani. I ricercatori del Mechanobiology Institute, National University of Singapore (coordinati dal dottor Rong LI) sono riusciti a ringiovanirli impiantandoli in un follicolo ovarico giovane. Qualcosa che non era mai stato fatto prima, tanto che i risultati sono pubblicati sulla rivista Nature Aging.
Il meccanismo riproduttivo
Il problema dell’età è legato al fatto che con l’andare degli anni il corpo produce un numero inferiore di ovociti e quelli prodotti sono di qualità inferiore rispetto a quelli generati in età più giovane. Il follicolo ovarico è una struttura che fa parte dell’ovaio e che contiene nella sua parete interna un ovocita destinato a maturare. Queste cellule, durante la fase ovulatoria, vengono rilasciate nelle tube di Falloppio e sono così pronte ad essere fecondate dagli spermatozoi.
La sperimentazione
In questo nuovo studio, i ricercatori hanno osservato che si verificavano anche altri cambiamenti nei follicoli. Per dimostrarlo hanno condotto esperimenti in cui rimuovevano ovociti dai follicoli di topi giovani, li sostituivano con ovociti di topi più anziani e lasciavano che questi ovociti maturassero in ovuli. Successivamente, hanno testato la qualità dell’ovulo e degli eventuali cuccioli.
Ringiovanire l’ovocita
Il team ha scoperto che la qualità degli ovociti migliorava dopo l’impianto in un follicolo più giovane: l’ovocita anziano ringiovaniva, con una riduzione delle anomalie nei cromosomi, insieme a miglioramenti nella funzione dei mitocondri (le centraline energetiche delle cellule) e nell’espressione genica. Con il miglioramento del metabolismo degli ovociti e dei successivi ovuli, le probabilità di una gravidanza aumentavano.
Nuove speranze
I cuccioli prodotti dagli ovuli ringiovaniti risultavano più sani rispetto a quelli nati da topi di controllo più anziani, sebbene non fossero sani quanto i cuccioli nati da ovociti giovani di topi giovani. Il team ha inoltre scoperto che, se invertivano la procedura, mettendo ovociti giovani in follicoli più anziani, gli ovociti mostravano segni di invecchiamento. In futuro questi esperimenti potrebbero suggerire nuove strategie per affrontare problemi di fertilità, concludono.
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