Tempo di lettura: 3 minutiL’intelligenza artificiale ha fatto enormi progressi nel campo medico. I modelli linguistici di grandi dimensioni, come ChatGPT, Claude e Gemini, sono ormai in grado di risolvere i test di medicina. Tuttavia, quando si tratta di simulare le dinamiche complesse di un colloquio clinico con un paziente, le loro prestazioni non sono altrettanto soddisfacenti. A sottolinearlo è un nuovo studio, pubblicato su Nature Medicine, che analizza le lacune dei cosiddetti Large Language Models (LLM) nella gestione di colloqui medici.
La promessa della AI in medicina
Negli ultimi anni, l’adozione dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario ha suscitato grandi aspettative. ChatGPT e altri modelli di linguaggio, infatti, sono in grado di raccogliere anamnesi, rispondere a domande, in alcuni casi, formulare diagnosi preliminari. Questi strumenti, sebbene non possano ancora sostituire del tutto i medici, sono visti come alleati per alleggerire il carico di lavoro. Anche gli utenti si rivolgono a queste tecnologie per comprendere i sintomi o interpretare i risultati di esami.
Tuttavia, la realtà è più complessa. Nonostante i buoni risultati nei test medici standardizzati, come quelli somministrati agli studenti di medicina o ai medici specializzandi, queste tecnologie non sono ancora in grado di sostenere interazioni più naturali e complesse, come quelle tipiche di una visita medica.
I limiti dei modelli di AI
Uno studio condotto dalla Harvard Medical School e dalla Stanford University ha messo in luce le difficoltà che questi modelli incontrano durante le conversazioni simulate con i pazienti. Utilizzando un framework di valutazione denominato CRAFT-MD (Conversational Reasoning Assessment Framework for Testing in Medicine), i ricercatori hanno testato quattro modelli di AI in circa 2.000 casistiche cliniche. I risultati hanno rivelato che, pur eccellendo nei test medici tradizionali, i modelli hanno mostrato prestazioni deludenti durante le simulazioni di colloqui clinici, dove le informazioni non sono sempre chiare o complete.
Le sfide del colloquio medico-paziente
Il colloquio medico richiede abilità specifiche nell’interazione con il paziente, per raccogliere informazioni frammentate e per formulare domande al momento giusto. Queste interazioni sono particolarmente difficili per l’intelligenza artificiale, che trova arduo sintetizzare le informazioni disorganizzate fornite dai pazienti. I modelli di AI hanno mostrato carenze nel porre domande pertinenti, raccogliere informazioni cruciali e ragionare sui sintomi.
Il professor Pranav Rajpurkar, uno degli autori principali dello studio, ha spiegato che «mentre questi modelli eccellono negli esami standard, hanno difficoltà nel semplice “botta e risposta” di una visita medica». La natura dinamica di una conversazione clinica, che richiede un flusso continuo di informazioni e domande, rende difficile per l’AI gestire questi colloqui in modo accurato.
Bias cognitivi nei modelli di intelligenza artificiale
Un altro problema sollevato dallo studio è la presenza di bias cognitivi nei modelli di intelligenza artificiale. Questi bias sono simili a quelli che si possono osservare nei medici umani, ma in alcuni casi sono anche più evidenti. Uno studio pubblicato su NEJM AI a fine novembre ha rilevato che i modelli AI possono replicare o addirittura amplificare i pregiudizi cognitivi umani, con possibili implicazioni negative sulla qualità delle diagnosi.
L’importanza di test più realistici
CRAFT-MD, sviluppato per simulare interazioni realistiche tra medici e pazienti, ha mostrato che gli LLM soffrono nel raccogliere informazioni rilevanti su sintomi, farmaci e storia familiare. A differenza dei test a risposta multipla, in cui le informazioni sono chiare e ben strutturate, le conversazioni reali presentano una quantità maggiore di variabili da gestire. Come sottolineato da Shreya Johri, co-autrice dello studio, «abbiamo bisogno di un framework di test che rifletta meglio la realtà».
CRAFT-MD, infatti, ha permesso di valutare l’efficacia dei modelli di AI in condizioni che imitano più fedelmente le situazioni del mondo reale, fornendo un quadro migliore per ottimizzare le prestazioni dei modelli in futuro.
I problemi nei colloqui clinici
I modelli AI, durante i colloqui clinici simulati, hanno avuto difficoltà a mantenere la coerenza nelle domande e nel raccogliere l’anamnesi completa. Hanno anche incontrato problemi nel ragionare sulla base di informazioni parziali o frammentate, elemento che è particolarmente comune nelle situazioni mediche reali. Questo ha compromesso la loro capacità di formulare diagnosi accurate, riducendo l’affidabilità degli strumenti AI nelle interazioni complesse con i pazienti.
I modelli AI hanno mostrato, inoltre, una scarsa capacità di adattarsi a un colloquio di tipo “botta e risposta”, ovvero quello che caratterizza la maggior parte delle conversazioni mediche reali, rispetto a scenari più rigidi e strutturati.
L’approccio futuro
Gli esperti suggeriscono che, per garantire l’adozione efficace dell’AI nella pratica clinica, sia essenziale continuare a perfezionare strumenti come CRAFT-MD, che potrebbero anche contribuire a ridurre i costi sanitari.
Nel lungo periodo, i ricercatori si aspettano che i modelli di intelligenza artificiale diventino più sofisticati, in grado di raccogliere informazioni mediche in modo più accurato e di rispondere alle esigenze pratiche del contesto sanitario. Tuttavia, l’interazione diretta con i pazienti richiede un approccio che vada oltre i test teorici, mettendo in risalto l’importanza di un’integrazione graduale della AI nelle pratiche quotidiane.
L’intelligenza artificiale può certamente migliorare l’efficienza del sistema sanitario, ma, al momento, è chiaro che per affrontare le sfide della medicina del futuro, i modelli di AI devono evolversi. Come affermato da Roxana Daneshjou, co-autrice dello studio, «CRAFT-MD crea un quadro che rispecchia più da vicino le interazioni del mondo reale e aiuta a far progredire il settore nel testare le prestazioni del modello di intelligenza artificiale nell’assistenza sanitaria».
Tumore al polmone, scoprirlo grazie alle “cellule zombie”
Ricerca innovazione, Eventi d'interesse, Notizie, PrevenzioneLa diagnosi del tumore al polmone grazie ad un test delle urine; è l’ambizioso traguardo che si stanno ponendo alcuni ricercatori dell’Università di Cambridge. Un sistema di diagnosi precoce che gli studiosi hanno messo a punto e che mira a rivoluzionare la diagnosi del tumore al polmone, rendendola possibile ad uno stadio estremamente precoce.
Un sensore iniettabile
La sperimentazione per ora riguarda esclusivamente gli animali, il test è stato eseguito solo su cavie da laboratorio ed è in fase di conferma per quel che riguarda l’attendibilità clinica. La tecnologia usata è innovativa: si tratta, infatti, di un sensore che può essere iniettato nel paziente e che può identificare la presenza nelle urine di proteine che promuovono lo sviluppo delle cellule del cancro e in particolare del tumore al polmone.
Cellule zombie
Le proteine vengono emesse dalle cosiddette “cellule zombie” o “senescenti”: quando queste muoiono e si accumulano nell’organismo emettono specifiche proteine, capaci di riprogrammare il loro ambiente circostante, con una moltiplicazione fuori controllo tipica dello sviluppo di neoplasie. Le proteine in questione possono così essere rilevate nelle urine.
Speranza per la diagnostica avanzata
I ricercatori contano nel giro di un anno di poter testare la analisi su pazienti e non più solo su animali. Questo l’obiettivo dichiarato di Ljiljana Fruk, ricercatrice di Cambridge e co-autrice della ricerca. “Sappiamo che prima della comparsa dei tumori ci sono cambiamenti nei tessuti che vengono colpiti dal cancro – ha specificato – e uno di questi è proprio l’accumulo di cellule danneggiate che non vengono eliminate organicamente, ma riprogrammano i tessuti in modo da favorire lo sviluppo neoplastico”.
I sintomi al tumore del polmone
Se la ricerca andasse a buon fine sarebbe veramente un cambiamento epocale. Il tumore del polmone è infatti tra i big killer del nostro tempo, una delle principali cause di mortalità a livello globale. Riconoscerne i sintomi precocemente può fare la differenza in termini di diagnosi e trattamento. Tuttavia, i segnali iniziali possono essere sottili e facilmente confusi con quelli di altre patologie respiratorie. I sintomi più comuni sono:
L’importanza della diagnosi precoce
È evidente come molti dei sintomi elencati possono essere attribuiti ad altre condizioni, come infezioni o malattie polmonari croniche. Tuttavia, ignorarli o rimandare un controllo medico può ritardare una diagnosi tempestiva. Ad oggi una visita specialistica e indagini diagnostiche come radiografie, TAC o biopsie possono confermare o escludere la presenza del tumore.
Di certo, evitare il fumo, sia attivo che passivo, è il passo più importante per ridurre il rischio di tumore al polmone. Inoltre, una maggiore consapevolezza dei sintomi e regolari controlli medici, soprattutto per le persone a rischio, possono migliorare significativamente la prognosi.
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Tumore al seno, ci sono nuove speranze
Leucemia linfoblastica acuta: le terapie innovative che stanno cambiando la prognosi
News, Bambini, Farmaceutica, Ricerca innovazioneLa leucemia linfoblastica acuta (LLA) è una delle forme più gravi di tumore del sangue e del midollo osseo. Oggi, grazie alla ricerca, si è arrivati a una maggiore comprensione della malattia. Lo sviluppo di trattamenti innovativi, tra cui gli anticorpi bispecifici e la terapia CAR-T, hanno aumentato le possibilità di guarigione. Ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa 450 adulti e 400 bambini con questa malattia, ma per molti di loro la parola “guarigione” è già possibile.
La leucemia linfoblastica acuta: malattia rara e impattante
La leucemia linfoblastica acuta è una forma rara di cancro, che interessa in particolare i bambini. Ogni anno, in Italia, vengono diagnosticati circa 400 nuovi casi in età pediatrica e 450 in età adulta. Nonostante la sua rarità, la LLA è la neoplasia ematologica più comune nei bambini, in particolare tra i 2 e i 5 anni. La malattia, se non trattata, può progredire rapidamente, mettendo a rischio la vita del paziente. Secondo il professor Alessandro Rambaldi, docente di Ematologia all’Università degli Studi di Milano, intervenuto in un incontro organizzato dal Corriere della Sera, la probabilità di guarigione per i bambini è ora superiore al 90%, grazie a combinazioni terapeutiche avanzate.
Sintomi e diagnosi
I sintomi della leucemia linfoblastica acuta possono variare a seconda dell’età del paziente. Negli adulti, i segni più comuni sono stanchezza, febbre persistente, sanguinamenti e ingrossamento dei linfonodi. I bambini, invece, possono non mostrare sintomi evidenti nelle fasi iniziali. La diagnosi avviene attraverso una biopsia del midollo osseo e una serie di esami del sangue, che permettono di identificare il sottotipo di leucemia e determinare il trattamento più appropriato.
Il trattamento tradizionale: la chemioterapia
Il trattamento standard per la LLA è la chemioterapia, che si articola in tre fasi: induzione, consolidamento e mantenimento. L’obiettivo dell’induzione è eliminare la maggior parte delle cellule leucemiche e favorire la ripresa delle cellule ematiche normali. La fase di consolidamento mira a distruggere le cellule leucemiche residue, mentre la fase di mantenimento serve a prevenire la recidiva della malattia. In alcuni casi, quando la chemioterapia non risulta efficace o quando si verificano recidive, viene indicato il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche.
Oggi terapie mirate e immunoterapia
CAR-T
Negli ultimi dieci anni, la ricerca ha introdotto nuove opzioni terapeutiche che stanno rivoluzionando il trattamento della leucemia linfoblastica acuta. Le terapie mirate, che agiscono su specifiche anomalie genetiche delle cellule leucemiche, sono tra le innovazioni più importanti. Tra queste, spiccano gli anticorpi bispecifici, che collegano i linfociti T, responsabili della risposta immunitaria, alle cellule tumorali, migliorando l’efficacia del trattamento.
Un altro sviluppo fondamentale è rappresentato dalla terapia CAR-T, che coinvolge la manipolazione genetica delle cellule T del paziente per renderle capaci di riconoscere e distruggere le cellule leucemiche. Questa terapia è indicata per i pazienti che non rispondono ad altri trattamenti e rappresenta una speranza concreta per i casi più gravi.
Il ruolo dell’immunoterapia
L’immunoterapia, che sfrutta le difese naturali dell’organismo, è un’altra innovazione fondamentale nella cura della leucemia linfoblastica acuta. In Italia, l’immunoterapia è già disponibile sia per gli adulti che per i bambini, con risultati promettenti. Il nostro Paese è stato tra i primi al mondo a utilizzare combinazioni terapeutiche innovative, come l’induzione con inibitori delle tirosin chinasi seguita dal consolidamento con anticorpi bispecifici.
La malattia residua minima: un parametro fondamentale per la cura
La “malattia residua minima” (MRD) è un concetto cruciale nella gestione della leucemia linfoblastica acuta. Si riferisce alla presenza di cellule leucemiche residue nel corpo anche dopo il trattamento. Test avanzati di biologia molecolare consentono di rilevare queste cellule, che non sono visibili al microscopio, anche quando il paziente sembra essere in remissione. La valutazione della MRD è essenziale per monitorare l’efficacia del trattamento e per decidere se è necessario un intervento ulteriore, come un trapianto o una terapia mirata.
Le prospettive future
I progressi nella ricerca sulla leucemia linfoblastica acuta non si fermano. Le terapie mirate, gli anticorpi bispecifici e la terapia CAR-T sono solo alcune delle conquiste che potrebbero cambiare il trattamento di questa malattia. Con il miglioramento continuo delle tecniche diagnostiche e terapeutiche, la possibilità di guarigione continua a crescere, offrendo speranza a milioni di pazienti in tutto il mondo.
Influenza 2025, in arrivo picco dei contagi: i sintomi e le cure. Vaccino ancora possibile
Anziani, Bambini, Medicina Sociale, Notizie, PrevenzioneL’influenza stagionale 2025 sta raggiungendo il suo culmine. Secondo i dati ufficiali, più di cinque milioni di italiani si sono già ammalati, ma il picco è atteso nei prossimi giorni.
Il picco dei contagi bussa alla porta
Secondo i dati del sistema di sorveglianza RespiVirNet dell’Istituto Superiore di Sanità, pubblicati il 3 gennaio, nella settimana dal 23 al 29 dicembre si è registrata una lieve diminuzione dei casi di sindrome simil-influenzale, attribuibile alla chiusura delle scuole per le festività. Tuttavia, con la ripresa delle attività scolastiche e lavorative, è previsto un aumento significativo dei contagi.
Ad oggi, i casi stimati dall’inizio della stagione, a ottobre, ammontano a circa 5.186.300, con un’incidenza pari a 9,9 casi ogni mille assistiti. Nello stesso periodo della scorsa stagione, l’incidenza aveva già raggiunto il picco con 18,4 casi ogni mille assistiti.
Come prevenire il contagio
Per limitare la diffusione del virus, il Ministero della Salute raccomanda alcune misure semplici ma efficaci:
Si è ancora in tempo per il vaccino
Non è troppo tardi per vaccinarsi contro l’influenza. Il vaccino, raccomandato soprattutto per gli anziani e le persone fragili, richiede circa due settimane per sviluppare un’efficace protezione. Il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale mira a una copertura del 75% tra i gruppi a rischio, ma i dati attuali mostrano una situazione lontana dall’obiettivo.
Secondo i dati provvisori del Ministero della Salute, aggiornati al 30 dicembre, solo il 50,9% degli over 65 ha ricevuto il vaccino. Tra i 60-64enni, la percentuale scende al 22,2%, mentre tra i bambini tra 6 mesi e 6 anni è appena al 18,6%.
Come ricordano gli esperti, la vaccinazione per le categorie fragili è fondamentale per prevenire le forme gravi della malattia.
Influenza: sintomi e cure
L’influenza si manifesta principalmente con febbre alta, tosse, dolori muscolari e naso chiuso. Nei casi più lievi, si consiglia riposo a casa, idratazione e l’uso di antipiretici per la febbre.
Per il raffreddore, sono utili aerosol o vasocostrittori nasali, mentre per il mal di gola si possono assumere antinfiammatori. Gli antibiotici vanno utilizzati solo su prescrizione medica, quando viene riscontrata la necessità, altrimenti sono controproducenti e favoriscono l’antibiotico resistenza.
Se il medico di famiglia non è disponibile nei giorni festivi, è possibile rivolgersi al Servizio di Continuità Assistenziale (ex guardia medica) o alle Case della Salute. Gli indirizzi e i numeri di telefono sono reperibili sui siti delle ASL di riferimento.
Quando andare in Pronto Soccorso
L’accesso al Pronto Soccorso deve avvenire solo in caso di emergenza. È necessario recarsi in ospedale se si manifestano sintomi gravi, come insufficienza respiratoria, febbre alta persistente o altre complicazioni in persone anziane o con patologie croniche. È fondamentale utilizzare in modo consapevole i servizi sanitari per evitare il sovraffollamento e garantire assistenza a chi ne ha bisogno.
Alcol e tumori: Usa verso etichette sulle bottiglie. In Italia, dibattito aperto
Economia sanitaria, Eventi d'interesse, Medicina estetica, News, Prevenzione, Ricerca innovazione, Stili di vitaIl consumo di alcol è collegato a sette tipi di tumori, con dati preoccupanti a livello globale. Negli Usa, si invoca l’introduzione di etichette sulle bevande alcoliche per avvertire i consumatori dei rischi. In Italia, il dibattito è ancora in corso.
America verso etichette sulle bottiglie di alcol
Il Surgeon General degli Stati Uniti, Vivek Murthy, ha pubblicato un avviso ufficiale sulla necessità di etichette che evidenzino il rischio di tumori legato al consumo di alcol. “Il consumo di alcol è la terza causa prevenibile di cancro negli Stati Uniti, dopo il tabacco e l’obesità”, ha affermato Murthy. I dati dimostrano che l’alcol aumenta il rischio di sviluppare almeno sette tipi di tumore, tra cui al seno, al colon, al fegato e alla cavità orale.
L’Associazione Americana per la Ricerca sul Cancro (AACR), nel suo ultimo report, ha sottolineato come le bevande alcoliche siano responsabili di un numero crescente di diagnosi di tumore, inclusi casi precoci al seno e al colon in persone sotto i 50 anni. Gli esperti dell’AACR hanno dichiarato: “La probabilità di sviluppare una neoplasia aumenta con la quantità di alcol consumata”. Secondo il rapporto, le etichette informative sono necessarie per sensibilizzare la popolazione. Le dichiarazioni di Murthy e dell’AACR hanno avuto un forte impatto sui mercati. I titoli delle aziende produttrici di alcolici sono crollati in borsa.
In Italia tra i 3mila e i 6mila nuovi casi all’anno di tumori legati all’alcol
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel nostro Paese l’alcol provoca tra 3.000 e 6.000 nuovi casi di tumore ogni anno. Oltre ai tumori, l’alcol è causa di altre patologie gravi e responsabile di circa 17.000 morti all’anno. Infatti, il consumo di alcol non aumenta solo il rischio oncologico ma anche quello di altre malattie.
I tumori legati al consumo di alcol
Il consumo di alcol è direttamente correlato a sette tipi di tumore:
Per alcuni di questi tumori, come quelli della cavità orale, laringe ed esofago, il rischio è particolarmente alto. Per altri, come il colon-retto e la mammella, il pericolo è più basso ma comunque rilevante, considerando la frequenza di queste neoplasie.
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il 39% dei tumori attribuibili all’alcol deriva da un consumo “rischioso” (fino a 60 grammi al giorno), il 51% da un consumo “pesante” (oltre i 60 grammi), mentre l’11% è legato a un uso “moderato” che spesso viene sottovalutato.
Come l’alcol provoca il cancro
L’alcol è cancerogeno attraverso diversi meccanismi:
Il dibattito sulle etichette in Italia
In Italia non esistono ancora proposte concrete per l’introduzione di etichette informative sugli alcolici. Tuttavia, oncologi e associazioni sottolineano la necessità di campagne di sensibilizzazione più incisive. Secondo la letteratura scientifica, non esiste una soglia di consumo sicura. Anche una birra una volta a settimana presenta rischi, anche se inferiori rispetto a chi consuma quantità maggiori.
Secondo l’OMS, i messaggi pubblicitari che promuovono un consumo “responsabile” potrebbero essere fuorvianti. Per ridurre il rischo di tumori, sarebbe necessario adottare politiche più severe, simili a quelle sul tabacco.
Alzheimer, scoperto meccanismo per bloccare le proteine tossiche
Benessere, Economia sanitaria, Eventi d'interesse, Farmaceutica, Prevenzione, Ricerca innovazioneUn recente studio condotto da ricercatori israeliani ha identificato un meccanismo cellulare per combattere l’accumulo di proteine tossiche. La scoperta apre nuove prospettive per la lotta contro l’Alzheimer e altre malattie neurodegenerative. I risultati, pubblicati su Nature Cell Biology, promettono sviluppi nella ricerca di terapie preventive.
Alzheimer: il ruolo della proteostasi nella salute cellulare
L’omeostasi delle proteine, nota come proteostasi, è un sistema complesso che garantisce il corretto funzionamento delle cellule. Questo meccanismo regola la sintesi, il ripiegamento e la degradazione delle proteine, prevenendo il loro accumulo sotto forma di aggregati tossici. Il fallimento della proteostasi è associato a malattie come l’Alzheimer, il Parkinson e la malattia di Huntington. Studi precedenti avevano già ipotizzato che preservare questa funzione potesse ritardare il declino cellulare legato all’età.
La scoperta del complesso nucleolare FIB-1-NOL-56
Il gruppo di ricerca dell’Università Ebraica di Gerusalemme, guidato dal professor Ehud Cohen e Huadong Zhu, ha individuato un complesso nucleolare chiamato FIB-1-NOL-56 come regolatore chiave della proteostasi. Utilizzando vermi come modelli sperimentali, hanno dimostrato che sopprimere l’attività di questo complesso riduce gli effetti tossici del peptide beta-amiloide (Aβ), noto per il suo ruolo nell’Alzheimer. Lo stesso effetto è stato osservato per altre proteine patogene.
Secondo lo studio, il controllo di questo complesso potrebbe rappresentare un nuovo approccio per gestire lo stress cellulare e prevenire l’accumulo di proteine tossiche nel cervello.
Scenari futuri e nuove terapie
Il professor Cohen sottolinea che la scoperta offre nuove opportunità per sviluppare trattamenti preventivi. «Questo studio va oltre la ricerca di base. L’obiettivo è migliorare la qualità della vita degli anziani ritardando l’insorgenza delle malattie neurodegenerative», spiega.
Tuttavia, nonostante i risultati promettenti, il percorso verso una terapia applicabile è ancora lungo. Ad ogni modo, intervenire sulla proteostasi potrebbe rappresentare una strategia efficace per contrastare lo stress cellulare indotto dall’accumulo di amiloide o da altri fattori tossici.
Alzheimer: le terapie attuali e i nuovi approcci
Le terapie attualmente disponibili, come gli anticorpi monoclonali recentemente approvati, rappresentano un passo avanti, ma restano limitate a una selezione specifica di pazienti. Oggi la tendenza è quella di combinare approcci diversi, come il controllo dell’infiammazione e l’interferenza con la produzione di beta-amiloide.
Parallelamente, gli studi sui marker biologici precoci stanno aprendo la strada a diagnosi tempestive. Individuare i soggetti a rischio prima che la malattia si manifesti potrebbe cambiare il corso della lotta all’Alzheimer.
Verso una medicina personalizzata
Secondo gli studiosi, il futuro della ricerca risiede nella personalizzazione delle terapie. Comprendere il peso specifico di ogni fattore, dall’infiammazione alla proteostasi, in relazione al paziente, potrebbe permettere di modulare i trattamenti in modo mirato.
In conclusione, la scoperta rappresenta un tassello importante nella comprensione delle malattie neurodegenerative, ma il percorso per trasformarla in terapie cliniche richiede ancora molte conferme.
Influenza aviaria: cresce rischio per l’uomo, cosa dicono gli esperti
NewsIl virus dell’influenza aviaria H5N1, che fino ad oggi rappresentava un rischio solo per alcuni animali, mostra segni sempre più evidenti di adattamento all’uomo. Lo dimostrano i dati raccolti nel 2024: 66 casi di umani negli Stati Uniti, di cui uno in un agricoltore della Louisiana e un altro in una giovane in Canada. La capacità del virus di infettare nuove specie e di adattarsi rapidamente aumenta il rischio di un salto verso l’uomo. Ad oggi, il rischio di trasmissione da uomo a uomo è considerato basso, ma la situazione è in evoluzione.
Secondo gli studi, una delle mutazioni osservate nel paziente della Louisiana favorisce il legame del virus con i recettori delle vie aeree umane. Questo aspetto è stato analizzato in un documento al New England Journal of Medicine, pubblicato il 31 dicembre 2024. Gli autori sottolineano che queste mutazioni rappresentano segnali preoccupanti.
La scoperta del virus nei bovini
La virologa Ilaria Capua ha definito H5N1 il “nemico numero uno”. Intervistata dal Corriere della Sera, ha spiegato come la grande sorpresa del 2024 sia stata la scoperta del virus nei bovini in Texas. “Pensavamo che i bovini non avessero i recettori necessari per contrarre l’infezione. Ma nella mammella di questi animali sono presenti i recettori alpha-2-3, che hanno permesso al virus di replicarsi”, ha dichiarato.
Il problema si è aggravato con la mancata adozione di misure tempestive. Negli Stati Uniti, almeno 15 Stati hanno segnalato casi di infezione nei bovini, ma nessuna misura di abbattimento è stata applicata. Al contrario, oltre 500 milioni di volatili sono stati eliminati nell’ultimo anno e mezzo per contenere l’epidemia.
Gli animali domestici come possibile ponte verso l’uomo
Il virus non si limita ai bovini. Sono stati documentati casi di infezione nei gatti in Polonia, Corea del Sud, Francia e Stati Uniti. Una possibile fonte di trasmissione è il pet food contenente carne cruda o ossa contaminate. Questo canale potrebbe favorire la diffusione del virus all’interno delle famiglie.
Secondo Capua, “la presenza del virus nei pet food rende possibile l’insorgere di focolai domestici tra gli animali, con migliaia di gatti a rischio di morte per influenza aviaria”.
H5N1: i rischi di una pandemia
Il pericolo maggiore riguarda la capacità di H5N1 di mescolarsi con altri virus influenzali. I maiali, storicamente serbatoi di virus influenzali, non sono più l’unico rischio. Oggi, la massiccia presenza di H5N1 nei bovini e negli uccelli selvatici e domestici offre il terreno ideale per l’emergere di nuovi ceppi pandemici, come accaduto nel 1957, 1968 e 2009.
La situazione è complessa anche per la mancanza di regolamentazioni adeguate. Nonostante i segnali di allarme, le autorità statunitensi classificano ancora H5N1 come un rischio basso per la popolazione generale, una decisione criticata da molti esperti.
Italia: il rischio rimane contenuto
In Italia, al momento, non sono stati rilevati casi di H5N1 nei bovini o nell’uomo. Tuttavia, se dovesse verificarsi una trasmissione sostenuta da uomo a uomo negli Stati Uniti, il rischio aumenterebbe anche a livello globale.
Le contromisure disponibili includono vaccini e antivirali, strumenti sviluppati nel corso degli anni per affrontare i virus influenzali. “Non partiamo da zero, ma bisogna prepararsi per affrontare eventuali emergenze”, ha concluso Capua.
Farsi trovare preparati
Il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha recentemente dichiarato che il mondo non è ancora pronto per affrontare una nuova pandemia. Questo include anche il rischio derivante da H5N1.
La ricerca sui vaccini e gli antivirali deve essere accelerata. Gli esperti sottolineano la necessità di stimare il numero di dosi disponibili e di preparare piani per la produzione di vaccini contro eventuali varianti del virus.
Un cuore nuovo per Emilia dopo 13 anni
Notizie, GenitorialitàUn cuore nuovo batte nel petto di Emilia (nome di fantasia), che era in lista di attesa da 13 anni. La donna, 57 anni e affetta da una severa cardiomiopatia dilatativa familiare, aveva ormai quasi perso ogni speranza, poi il più bel regalo di Natale è arrivato. A compiere questo piccolo grande miracolo di fine anno i medici dell’Ospedale Monaldi di Napoli guidati dal dottor Claudio Marra, responsabile del Centro Trapianti di Cuore dell’Azienda Ospedaliera dei Colli.
Il lungo ricovero per un cuore nuovo
Emilia era ormai ricoverata da sei mesi, la T-Zone (area dedicata alla degenza di pazienti trapiantati e in attesa di trapianto) era diventata un po’ la sua seconda casa. Anche la sorella è stata trapiantata di cuore nel 2010, all’epoca scelse il Niguarda di Milano, oggi invece è seguita in follow-up al Monaldi. La storia clinica di Emilia, invero, era ancora più complessa. Il suo sistema immunitario, infatti, presentava un livello di sensibilizzazione estremamente elevato, con la presenza di anticorpi che la rendevano incompatibile con il 97% dei donatori disponibili.
Lavoro in team
Un caso rarissimo che è stato affrontato con un approccio multidisciplinare da un team di oltre trenta professionisti composto da cardiologi, immunologi, internisti, infettivologi, anestesisti e cardiochirurghi specializzati in trapianti che hanno sviluppato un piano terapeutico personalizzato. Hanno prima sottoposto la donna a una terapia desensibilizzante mirata a ridurre il livello di anticorpi e, successivamente, l’hanno inserita in un protocollo immunologico innovativo sviluppato con la supervisione del Centro Nazionale Trapianti e del professor Luciano Potena, direttore del direttore dell’unità operativa di Insufficienza Cardiaca e Trapianti dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola.
Il momento dell’operazione
Un percorso lungo e complicato che ha avuto lo sperato lieto fine proprio nel periodo natalizio, quando è finalmente arrivata la disponibilità di un cuore compatibile. Immediatamente si è messa in moto la macchina organizzativa che ha coinvolto il personale del CRT e la direzione medica di presidio del Monaldi, per il coordinamento di tutte le operazioni, l’equipe per il prelievo dell’organo, il team di chirurghi, anestesisti e personale tecnico e infermieristico per l’impianto. L’intervento è stato eseguito con successo e ora Emilia sta bene e attende di poter finalmente far ritorno a casa.
Numeri in crescita
“In questi lunghi mesi di ricovero ci siamo affezionati ad Emilia. La sua storia ha toccato e coinvolto tutti noi” ha detto l’avvocato Anna Iervolino, Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera dei Colli. Il 2024, segnato dalla adozione del nuovo modello organizzativo del Centro Trapianti di Cuore Adulti, chiude con un bilancio assolutamente positivo in termini di numeri e risultati. “Venti trapianti di cuore e sette assistenze meccaniche al circolo sono il frutto di un lavoro di squadra e sono la dimostrazione dell’efficienza del nuovo modello organizzativo adottato. Risultati eccellenti da cui partire per costruire il prossimo futuro” ha concluso il Direttore Generale.
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Intelligenza artificiale in medicina: eccellente nei test, ma non nei colloqui
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Il professor Pranav Rajpurkar, uno degli autori principali dello studio, ha spiegato che «mentre questi modelli eccellono negli esami standard, hanno difficoltà nel semplice “botta e risposta” di una visita medica». La natura dinamica di una conversazione clinica, che richiede un flusso continuo di informazioni e domande, rende difficile per l’AI gestire questi colloqui in modo accurato.
Bias cognitivi nei modelli di intelligenza artificiale
Un altro problema sollevato dallo studio è la presenza di bias cognitivi nei modelli di intelligenza artificiale. Questi bias sono simili a quelli che si possono osservare nei medici umani, ma in alcuni casi sono anche più evidenti. Uno studio pubblicato su NEJM AI a fine novembre ha rilevato che i modelli AI possono replicare o addirittura amplificare i pregiudizi cognitivi umani, con possibili implicazioni negative sulla qualità delle diagnosi.
L’importanza di test più realistici
CRAFT-MD, sviluppato per simulare interazioni realistiche tra medici e pazienti, ha mostrato che gli LLM soffrono nel raccogliere informazioni rilevanti su sintomi, farmaci e storia familiare. A differenza dei test a risposta multipla, in cui le informazioni sono chiare e ben strutturate, le conversazioni reali presentano una quantità maggiore di variabili da gestire. Come sottolineato da Shreya Johri, co-autrice dello studio, «abbiamo bisogno di un framework di test che rifletta meglio la realtà».
CRAFT-MD, infatti, ha permesso di valutare l’efficacia dei modelli di AI in condizioni che imitano più fedelmente le situazioni del mondo reale, fornendo un quadro migliore per ottimizzare le prestazioni dei modelli in futuro.
I problemi nei colloqui clinici
I modelli AI, durante i colloqui clinici simulati, hanno avuto difficoltà a mantenere la coerenza nelle domande e nel raccogliere l’anamnesi completa. Hanno anche incontrato problemi nel ragionare sulla base di informazioni parziali o frammentate, elemento che è particolarmente comune nelle situazioni mediche reali. Questo ha compromesso la loro capacità di formulare diagnosi accurate, riducendo l’affidabilità degli strumenti AI nelle interazioni complesse con i pazienti.
I modelli AI hanno mostrato, inoltre, una scarsa capacità di adattarsi a un colloquio di tipo “botta e risposta”, ovvero quello che caratterizza la maggior parte delle conversazioni mediche reali, rispetto a scenari più rigidi e strutturati.
L’approccio futuro
Gli esperti suggeriscono che, per garantire l’adozione efficace dell’AI nella pratica clinica, sia essenziale continuare a perfezionare strumenti come CRAFT-MD, che potrebbero anche contribuire a ridurre i costi sanitari.
Nel lungo periodo, i ricercatori si aspettano che i modelli di intelligenza artificiale diventino più sofisticati, in grado di raccogliere informazioni mediche in modo più accurato e di rispondere alle esigenze pratiche del contesto sanitario. Tuttavia, l’interazione diretta con i pazienti richiede un approccio che vada oltre i test teorici, mettendo in risalto l’importanza di un’integrazione graduale della AI nelle pratiche quotidiane.
L’intelligenza artificiale può certamente migliorare l’efficienza del sistema sanitario, ma, al momento, è chiaro che per affrontare le sfide della medicina del futuro, i modelli di AI devono evolversi. Come affermato da Roxana Daneshjou, co-autrice dello studio, «CRAFT-MD crea un quadro che rispecchia più da vicino le interazioni del mondo reale e aiuta a far progredire il settore nel testare le prestazioni del modello di intelligenza artificiale nell’assistenza sanitaria».
Declino cognitivo: la scoperta sui neuroni apre nuove speranze
Farmaceutica, News, Ricerca innovazioneUno studio pubblicato su Cell Stem Cell mette in evidenza il legame tra la formazione di nuovi neuroni nell’ippocampo e il miglioramento delle capacità di apprendimento verbale. La ricerca apre nuove prospettive nella lotta contro il declino cognitivo, una delle principali sfide legate all’invecchiamento.
Nuovi neuroni e declino cognitivo
Il cervello umano potrebbe continuare a generare nuovi neuroni anche in età adulta (neurogenesi). Questa scoperta, pubblicata sulla rivista Cell Stem Cell, ha un potenziale impatto sul trattamento del declino cognitivo.
L’ippocampo, una regione fondamentale per memoria e apprendimento, è stato al centro della ricerca. Lo studio dimostra che il numero di neuroni appena formati in questa area è direttamente associato a migliori prestazioni nei test di apprendimento verbale.
Pazienti con epilessia e neurogenesi
La ricerca si è concentrata su venti pazienti affetti da epilessia del lobo temporale mesiale, una forma resistente ai farmaci. Questa patologia provoca la progressiva perdita di neuroni nell’ippocampo e un conseguente peggioramento delle funzioni cognitive.
I ricercatori hanno analizzato i tessuti prelevati durante interventi chirurgici e li hanno confrontati con i risultati dei test neuropsicologici. È emerso che i pazienti con una maggiore perdita di nuovi neuroni mostravano anche prestazioni inferiori nei test di apprendimento verbale.
«Il nostro studio fornisce una prova diretta di come la neurogenesi adulta sia correlata alle funzioni cognitive umane», spiega Aswathy Ammothumkandy, primo autore dello studio e ricercatore presso il Department of Stem Cell Biology and Regenerative Medicine dell’University of Southern California.
Nuove speranze per il declino cognitivo
Il carico del declino cognitivo sui sistemi sanitari è in costante crescita. Secondo i ricercatori, la correlazione tra nuovi neuroni e capacità cognitive potrebbe essere la base per sviluppare trattamenti mirati.
«Il legame tra neurogenesi e apprendimento potrebbe aprire nuove strade per il recupero delle funzioni cognitive in persone anziane o affette da demenza», aggiunge Ammothumkandy. Tuttavia, i ricercatori sottolineano che si tratta di obiettivi futuri e che le applicazioni terapeutiche richiedono ulteriori studi.
Cosa dice la scienza sulla neurogenesi umana
La capacità del cervello umano di generare nuovi neuroni è stata al centro di numerosi studi. Negli ultimi anni, alcune ricerche hanno confermato la presenza di nuovi neuroni nell’ippocampo adulto, mentre altre l’hanno negata. Questo studio rappresenta un ulteriore passo avanti, evidenziando l’importanza della neurogenesi per le funzioni cognitive.
La neurogenesi adulta, ben documentata negli animali, è strettamente legata alla plasticità cerebrale. Negli esseri umani, resta ancora da chiarire il suo ruolo preciso e la sua rilevanza per il mantenimento delle capacità cognitive e anche per il ripristino di alcune funzioni.
Conclusioni e prospettive
Lo studio pubblicato su Cell Stem Cell suggerisce che la neurogenesi nell’ippocampo potrebbe avere un ruolo chiave nell’apprendimento verbale. Sebbene i trattamenti terapeutici basati su questa scoperta siano ancora lontani, i ricercatori vedono in questa direzione una possibilità concreta per combattere il declino cerebrale e le malattie neurodegenerative.
Come liberarsi del reflusso gastroesofageo
Alimentazione, Invisibile in Homepage, Notizie, VideoColpevoli le abbuffate delle feste, in molti hanno iniziato il nuovo anno all’insegna del reflusso gastroesofageo. Una malattia cronica che colpisce moltissimi adulti, addirittura (stando agli ultimi dati) una quota che si aggira tra il 20-40%. Il reflusso si manifesta con la risalita delle sostanze acide dallo stomaco all’esofago, causando bruciore, dolore e infiammazione. Alla base di questo disturbo c’è un malfunzionamento del cardias, una valvola posta tra esofago e stomaco, che non riesce a trattenere correttamente il contenuto gastrico.
Le cause e i fattori scatenanti
Il reflusso gastroesofageo è particolarmente comune quando si ha una routine alimentare sregolata, durante i periodi di stress o nei cambi di stagione. Già, abitudini alimentari scorrette, stili di vita poco equilibrati e in alcuni casi la presenza di un’ernia iatale (condizione caratterizzata dalla risalita di una porzione dello stomaco verso il torace) possono esserne alla base di questo disturbo invalidante.
Se trascurato, il reflusso può portare a complicazioni serie, come il rischio di sviluppare tumori esofagei. Per questo motivo, è fondamentale riconoscere i sintomi e intervenire tempestivamente.
I sintomi da non ignorare
Tra i segnali più comuni ci sono:
A volte, il disturbo si manifesta con sintomi meno immediati, come sensazione di nodo alla gola, nausea, tosse cronica, raucedine, abbassamento della voce, singhiozzo, o persino dolore toracico simile a quello di natura cardiaca.
Stress e reflusso: un legame bidirezionale
La connessione tra mente e sistema gastrointestinale è ormai riconosciuta dalla scienza. Periodi di intenso stress, ansia o depressione possono peggiorare i sintomi del reflusso. Allo stesso modo, un apparato digerente irritato può influenzare negativamente lo stato psichico, creando un circolo vizioso.
La diagnosi del reflusso gastroesofageo
La diagnosi si basa principalmente su una visita gastroenterologica. I sintomi tipici, come il bruciore e il rigurgito acido, sono spesso sufficienti per identificare il problema. Tuttavia, in alcuni casi, il medico potrebbe prescrivere esami specifici:
Come gestire il reflusso gastroesofageo
Il primo passo per gestire il reflusso è adottare un’alimentazione equilibrata ed evitare di sdraiarsi subito dopo i pasti. In caso di sintomi persistenti, il medico potrebbe prescrivere farmaci specifici, come:
Nei casi più gravi, può essere necessario un intervento chirurgico per ristabilire la funzionalità del cardias.
L’importanza della dieta
Un aspetto cruciale nella gestione del reflusso è la dieta. Bisogna mantenersi idratati bevendo lontano dai pasti e preferire alimenti come farine integrali, verdure cotte, carni bianche, uova e latticini magri.
Da evitare invece:
Prevenzione e stili di vita
La prevenzione passa attraverso scelte di vita sane. Mantenere un peso corporeo adeguato, praticare attività fisica e smettere di fumare sono comportamenti essenziali. Anche la qualità del sonno gioca un ruolo fondamentale: dormire bene aiuta a ridurre lo stress e i sintomi del reflusso. Evitare comportamenti che favoriscono l’ingestione di aria, come masticare gomme, può servire a contribuire e a prevenire fastidi ulteriori.
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