Tempo di lettura: 3 minutiOggi, uno dei principali problemi mondiali sia nei bambini che negli adolescenti è l’obesità. L’aumento del numero dei bambini con sovrappeso nei Paesi industrializzati ha portato al parallelo aumento di casi di fegato grasso o steatosi epatica non alcolica (NAFLD). Negli ultimi vent’anni, infatti, la steatosi ha raggiunto proporzioni epidemiche anche tra i più piccoli, diventando la patologia cronica del fegato di più frequente riscontro nel mondo occidentale.
Una nuova terapia è stata appena messa a punto dai ricercatori del Bambino Gesù ed è in grado di sconfiggere la fibrosi del fegato grasso nei bambini e di migliorare in maniera significativa i parametri metabolici. I medici dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù hanno dimostrato l’ efficacia per la prima volta tramite una sperimentazione clinica condotta su 43 piccoli pazienti con fegato grasso infiammato associato a deficit di vitamina D. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne. Fino ad oggi non esisteva una terapia valida per la steatoepatite non alcolica pediatrica (NASH), la forma più severa di fegato grasso caratterizzata da infiammazione e danni epatici – come la fibrosi appunto – che possono portare alla cirrosi.
In Italia circa il 15% dei bambini sono affetti da questa patologia, ma si arriva fino all’80% tra i bambini obesi. Più della metà dei bambini con fegato grasso presenta anche carenza di vitamina D.
Questa malattia è determinata dall’accumulo di grasso nelle cellule del fegato, in quantità superiore al 5% del peso (steatosi epatica semplice). Forme più gravi (steatoepatite), invece, possono progredire sin dall’adolescenza verso la fibrosi fino ad arrivare alla cirrosi epatica. Così come gli adulti, anche i bambini affetti da fegato grasso possono presentare danni metabolici caratterizzati da aumento della circonferenza addominale, ipertensione, insulino-resistenza, ipercolesterolemia, tutte condizioni che aumentano il rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica o malattie cardiovascolari. Si tratta di effetti collaterali che riducono le aspettative di vita come mai successo dal dopoguerra a oggi.
Gli studiosi del Bambino Gesù che hanno condotto il trial clinico su 43 bambini con NASH e deficit di vitamina D, già nel 2014 avevano dimostrato, tramite un altro studio, la correlazione tra fegato grasso e carenza di vitamina D quale indicatore di una maggiore fibrosi. Minori sono i livelli di vitamina D, quindi, maggiore è il livello fibrotico. La nuova sperimentazione ha, però, dimostrato per la prima volta in campo pediatrico che la somministrazione per 6 mesi di una miscela di acido docosaesaenoico o DHA e vitamina D induce un miglioramento significativo dei parametri metabolici come la riduzione della resistenza insulinica periferica, dei valori di trigliceridi e delle transaminasi. In particolare, l’assunzione combinata di questi due principi attivi blocca l’attività delle cellule responsabili della produzione e dell’accumulo di collagene nel fegato, portando ad un rimodellamento e quindi a una risoluzione della componente fibrotica del fegato stesso, una delle cause principali dello sviluppo della cirrosi. Nel dettaglio, come dimostrato dallo studio, il DHA agisce sull’accumulo di grasso (NAFLD) e sull’infiammazione epatica (NASH), me da solo è inefficace contro la fibrosi epatica.
“Lo studio del Bambino Gesù ha dimostrato per la prima volta che la terapia combinata con DHA e vitamina D può ridurre nei bambini con NAFLD la progressione del danno epatico agendo sulla fibrogenesi – spiega Valerio Nobili, responsabile dell’unità operativa di Malattie Epato-Metaboliche del Bambino Gesù – Possiamo quindi dire che per questi bambini con fegato grasso infiammato oggi abbiamo una valida soluzione terapeutica, fino a ieri non disponibile, e facilmente prescrivibile anche da un pediatra di base oltre che presso il nostro ambulatorio di steatosi-epatica. Per il futuro stiamo già lavorando a una terapia che oltre alla somministrazione di vitamina D e DHA preveda anche quella di specifici probiotici. Riteniamo infatti sia questa la strada migliore e più veloce per giungere a una terapia in grado non solo di bloccare lo sviluppo della fibrosi e il progredire della malattia epatica, ma di farla regredire fino alla completa guarigione”.
Se il web sostituisce il medico
PrevenzioneCurarsi dal medico o farlo on line? Nonostante la consapevolezza che on line non si possa trovare una diagnosi, né tantomeno una cura, moltissimi italiani continuano ad affidarsi in maniera sconsiderata al web. Talvolta consultando solo “dottor Google”. Un esempio di quanto questo possa essere dannoso lo abbiamo avuto con i vaccini e con le bufale rispetto alla possibile insorgenza di forme più o meno gravi di autismo. Ora, un indagine condotta su 300 ragazzi tra i 18 e i 28 anni, ci dice che i giovani italiani individuano come principale fonte di informazione in tema di salute i blog e i siti internet, che precedono sia il medico di famiglia sia il farmacista.
I dati
Lo studio mette in luce un’attenzione medio-alta dei giovani italiani nei confronti della loro salute (66%), fatto che certamente non è negativo. Il 61% dichiara svolgere attività fisica almeno una volta a settimana mentre poco più della metà (51%) ha un’elevata cura del cibo. La questione diventa delicata quando si scopre che il 64% ricerca informazioni sulla propria salute attraverso diversi canali: al primo posto ci sono blog e siti internet (71%), mentre arriva solo secondo il medico di base, che rimane una figura fondamentale, preferito dal 63% degli intervistati. Seguono le trasmissioni tv (48%), i parenti e i conoscenti (38%) e il farmacista (31%). Decisamente negativa la tendenza all’automedicazione, in particolare nelle donne. Il 60% dei giovani è propenso a risolvere in autonomia i piccoli disturbi e il 63% afferma di ricorrere ai farmaci senza obbligo di prescrizione medica. Circa la metà dei giovani va in farmacia almeno una volta al mese, per lo più per acquistare antidolorifici (73%) e antinfluenzali (59%). Fortunatamente, sulla scelta dei farmaci da banco, il farmacista e il medico restano le principali figure di riferimento: il 67% prima dell’acquisto chiede consiglio al farmacista, mentre meno della metà (47%) chiede un farmaco specifico.
L’importanza delle fonti
Questa ricerca ci ricorda ancora una volta che i tempi sono cambiati, ma ci mette anche in guardia nella scelta dei canali informativi che scegliamo. Per informarsi sulla salute bisognerebbe sempre cercare siti o portali attendibili, magari che operano in partnership o con il patrocinio con aziende sanitarie ospedaliere e enti istituzionali. Quando poi si tratta di affrontare una malattia, la cosa migliore è sempre quella di lasciare a casa il Pc e rivolgersi direttamente a un medico.
Lo stress fa male come le sigarette. Relax e pause come prevenzione
PsicologiaUna forte “dose” di stress può far male quanto un pacchetto di sigarette, anzi anche di più. Da uno studio pubblicato da Lancet e realizzato su 300 persone i ricercatori della prestigiosa Harvard Medical School hanno rivelato notizie che vanno ben oltre il semplice rapporto tra stress e malessere fisico. In particolare, la ricerca ha indagato e messo in evidenza che una maggiore attività della amigdala (parte del cervello che gestisce le emozioni e in particolar modo la paura) aumenta la probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari. Quindi per i ricercatori della Harvad Medical School i soggetti a rischio dovrebbero portare avanti tecniche di gestione dello stress per fare prevenzione.
Una causa biologica
Ovviamente, che lo stress aumentasse il rischio di malattie cardiovascolari era già noto da tempo, ma nessuno era mai riuscito a chiarire quale fosse il meccanismo biologico per il quale questo avviene. Lo studio, condotto dal team della Harvard Medical School risponde proprio a questa domanda. L’idea è che sia proprio l’iperattività della amigdala a segnalare al midollo osseo di produrre più cellule di globuli bianchi, che a loro volta agiscono sulle arterie infiammandole. E questo può causare infarto, angina e ictus. Il collegamento potenziale – scrive l’autore Ahmed Tawakol, del Massachusetts General Hospital e allo stesso tempo professore associato alla Harvard Medical School – aumenta la possibilità che ridurre le stress puossa produrre benefici che vanno oltre il miglior senso di benessere psicologico.
Tecniche di rilassamento
Purtroppo la routine quotidiana ci porta inevitabilmente a vivere momenti di stress, momenti cha andrebbero stemperati concedendosi nell’arco della giornata almeno qualche pausa e qualche momento di relax. Esistono per questo anche diverse tecniche di rilassamento, che possono essere utilizzate per ritrovare l’armonia interiore e fare in modo che anche questo processo fisiologico non incida troppo sul nostro stato di salute.
Ad Aversa una “casa” per chi soffre di problemi mentali
PsicologiaUno spazio nuovo per aiutare chi soffre di problemi psichiatrici. Martedì 10 gennaio alle 11, ad Aversa, (provincia di Caserta) si inaugura un nuovo Centro di Salute Mentale. Una struttura che servirà i distretti sanitari numero 17 di Aversa e numero 18 di Succivo. Dopo la significativa esperienza del Centro di Salute Mentale di palazzo Orabona ad Aversa, finita nel 2014, è rimasta viva l’esigenza di ricostruire un contesto operativo che favorisse le pratiche di una salute mentale realmente territoriale.
L’attività
Dopo importanti lavori edilizi e impiantistici, è finalmente pronto il nuovo Centro di Viale Europa, dove saranno garantite a decine e decine di pazienti le prestazioni sia ambulatoriali che territoriali, e dove troveranno un loro posizionamento un Day-Hospital per la gestione delle acuzie psichiatriche e un Centro Diurno per le attività di riabilitazione psicosociale. Sarà aperto per 12 ore al giorno in tutti i giorni feriali. Valore aggiunto, la struttura è di proprietà dell’Asl, cosa che consentirà all’azienda di risparmiare sulla spesa per il fitto precedentemente sostenuta.
Un’ancora di salvezza
Poter contare su una nuova struttura, in un Paese nel quale non sempre è facile trovare risposte ai problemi dell’anima è fondamentale. Per molti pazienti sarà una vera e propria ancora di salvezza. Quello psichiatrico è un disturbo molto complesso da affrontare, perché riguarda non solo la mente ma anche il corpo. I sintomi si manifestano infatti sia a livello cognitivo e fisico, emotivo e comportamentale. Per questa ragione è importante che il paziente venga seguito da diverse figure professionali capaci di collaborare tra loro. All’inaugurazione del 10 saranno presenti, oltre al presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, anche il direttore generale della Asl Caserta Mario De Biasio, il direttore del dipartimento di salute mentale della Asl Caserta Luigi Carizzone e il Sindaco di Aversa Enrico De Cristofaro.
Bimbi con fibrosi al fegato: terapia rivoluzionaria del Bambino Gesù
Alimentazione, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneOggi, uno dei principali problemi mondiali sia nei bambini che negli adolescenti è l’obesità. L’aumento del numero dei bambini con sovrappeso nei Paesi industrializzati ha portato al parallelo aumento di casi di fegato grasso o steatosi epatica non alcolica (NAFLD). Negli ultimi vent’anni, infatti, la steatosi ha raggiunto proporzioni epidemiche anche tra i più piccoli, diventando la patologia cronica del fegato di più frequente riscontro nel mondo occidentale.
Una nuova terapia è stata appena messa a punto dai ricercatori del Bambino Gesù ed è in grado di sconfiggere la fibrosi del fegato grasso nei bambini e di migliorare in maniera significativa i parametri metabolici. I medici dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù hanno dimostrato l’ efficacia per la prima volta tramite una sperimentazione clinica condotta su 43 piccoli pazienti con fegato grasso infiammato associato a deficit di vitamina D. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne. Fino ad oggi non esisteva una terapia valida per la steatoepatite non alcolica pediatrica (NASH), la forma più severa di fegato grasso caratterizzata da infiammazione e danni epatici – come la fibrosi appunto – che possono portare alla cirrosi.
In Italia circa il 15% dei bambini sono affetti da questa patologia, ma si arriva fino all’80% tra i bambini obesi. Più della metà dei bambini con fegato grasso presenta anche carenza di vitamina D.
Questa malattia è determinata dall’accumulo di grasso nelle cellule del fegato, in quantità superiore al 5% del peso (steatosi epatica semplice). Forme più gravi (steatoepatite), invece, possono progredire sin dall’adolescenza verso la fibrosi fino ad arrivare alla cirrosi epatica. Così come gli adulti, anche i bambini affetti da fegato grasso possono presentare danni metabolici caratterizzati da aumento della circonferenza addominale, ipertensione, insulino-resistenza, ipercolesterolemia, tutte condizioni che aumentano il rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica o malattie cardiovascolari. Si tratta di effetti collaterali che riducono le aspettative di vita come mai successo dal dopoguerra a oggi.
Gli studiosi del Bambino Gesù che hanno condotto il trial clinico su 43 bambini con NASH e deficit di vitamina D, già nel 2014 avevano dimostrato, tramite un altro studio, la correlazione tra fegato grasso e carenza di vitamina D quale indicatore di una maggiore fibrosi. Minori sono i livelli di vitamina D, quindi, maggiore è il livello fibrotico. La nuova sperimentazione ha, però, dimostrato per la prima volta in campo pediatrico che la somministrazione per 6 mesi di una miscela di acido docosaesaenoico o DHA e vitamina D induce un miglioramento significativo dei parametri metabolici come la riduzione della resistenza insulinica periferica, dei valori di trigliceridi e delle transaminasi. In particolare, l’assunzione combinata di questi due principi attivi blocca l’attività delle cellule responsabili della produzione e dell’accumulo di collagene nel fegato, portando ad un rimodellamento e quindi a una risoluzione della componente fibrotica del fegato stesso, una delle cause principali dello sviluppo della cirrosi. Nel dettaglio, come dimostrato dallo studio, il DHA agisce sull’accumulo di grasso (NAFLD) e sull’infiammazione epatica (NASH), me da solo è inefficace contro la fibrosi epatica.
“Lo studio del Bambino Gesù ha dimostrato per la prima volta che la terapia combinata con DHA e vitamina D può ridurre nei bambini con NAFLD la progressione del danno epatico agendo sulla fibrogenesi – spiega Valerio Nobili, responsabile dell’unità operativa di Malattie Epato-Metaboliche del Bambino Gesù – Possiamo quindi dire che per questi bambini con fegato grasso infiammato oggi abbiamo una valida soluzione terapeutica, fino a ieri non disponibile, e facilmente prescrivibile anche da un pediatra di base oltre che presso il nostro ambulatorio di steatosi-epatica. Per il futuro stiamo già lavorando a una terapia che oltre alla somministrazione di vitamina D e DHA preveda anche quella di specifici probiotici. Riteniamo infatti sia questa la strada migliore e più veloce per giungere a una terapia in grado non solo di bloccare lo sviluppo della fibrosi e il progredire della malattia epatica, ma di farla regredire fino alla completa guarigione”.
Gravidanza, il segreto dell’olio di pesce per i bimbi. Lo studio danese
Alimentazione, Farmaceutica, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneL’olio di pesce, sotto forma di integratori, assunto negli ultimi tre mesi di gravidanza, ridurrebbe i fenomeni di asma o respiro sibilante persistente nel nascituro. Ad affermarlo è uno studio danese che ha coinvolto 695 donne in stato interessante e che è stato pubblicato dal New England Journal of Medicine e ripreso da Reuters Healts
Gli integratori hanno abbassato il rischio dal 23,7% nelle madri del gruppo trattato con placebo – 2,4 grammi di olio d’oliva al giorno – al 16,9% nelle donne che hanno assunto le capsule di olio di pesce. Si tratta di una riduzione pari al 30,7%, se proiettata ai primi tre anni di vita. Ne hanno beneficiato particolarmente i bimbi nati da madri che – prima dell’inizio dello studio – avevano assunto livelli ridotti dei due ingredienti principali dell’olio di pesce, l’acido eicosapentaenoico (EPA) e quello docosaesainoico (DHA). Nello studio, infatti, tra i figli delle donne con bassi livelli di EPA e DHA, il tasso di asma e respiro sibilante registrato si è attestato al 17,5% – se le mamme avevano successivamente assunto olio di pesce – e al 34,4% nel gruppo del placebo. L’integrazione di olio di pesce ha anche ridotto il rischio di infezioni delle vie respiratorie, con il tasso che è sceso dal 39,1% nel gruppo placebo al 31,7% del gruppo che aveva assunto olio di pesce.
Se la dieta non funziona è colpa di un batterio che mantiene i grassi
Alimentazione, News Presa, Ricerca innovazioneSe la dieta non produce i risultati sperati potrebbe essere colpa del microbiota residente dell’intestino. Lo dice una recente ricerca pubblicata su Cell Host and Microbe che ha dimostrato come il passaggio da una dieta americana piena di grassi e junk food ad una dieta sana, a basso contenuto calorico e ricca di verdure può non dare frutti immediati. Responsabili del poco dimagrimento sarebbe un batterio intestinale resistente. Questi ultimi, infatti, affinché la dieta possa avere successo, devono prima andare ‘perduti’.
“Quando prescriviamo a qualcuno una dieta – afferma Jeffrey Gordon, direttore del Center for GenomeSciences and Systems Biology della Washington University (St. Louis, USA) -è importante ricordare che i microbi possono influenzarne i risultati, anche in negativo. E studiando le comunità batteriche presenti nel microbiota di diverse persone siamo riusciti a individuare quali microrganismi sono in grado di promuovere gli effetti benefici di una determinata dieta”.
Un tipo di alimentazione, quindi, influenza la composizione del microbiota intestinale e il microbiota a sua volta può condizionare la risposta ad un nuovo regime dietetico.
In poche parole, le persone abituate ad una dieta ricca di grassi e calorie hanno un microbiota intestinale (batterio) in grado di mettere i bastoni tra le ruota alle diete ipocaloriche, sabotandone i risultati
Nella prima fase di studio, i ricercatori americani hanno esaminato campioni fecali di soggetti che seguivano un’ alimentazione a basso contenuto calorico e ricco di vegetali e di individui che consumavano una dieta American-style, senza restrizioni di sorta. Questa analisi ha consentito di scoprire che i microbiota di questi due gruppi di soggetti differiscono profondamente.
Successivamente Gordon e colleghi hanno colonizzato dei gruppi di topi germ-free (cioè senza microbiota intestinale) con le due comunità di microbiota reperite nell’esperimento precedente, andando poi a nutrire gli animali con la stessa tipologia di dieta dei donatori o con quella alternativa. I topi colonizzati dal microbiota degli individui che seguivano la dieta americana, hanno mostrato una risposta più blanda alla dieta ricca di vegetali, come se i batteri abituati ad una dieta ben più ricca, ostacolassero in qualche modo i risultati della dieta ‘sana’.
In un passaggio successivo i ricercatori hanno cercato di distinguere quale batterio fosse in grado di potenziare la risposta alla dieta sana, negli animali colonizzati dal microbiota abituato alla dieta americana, facendo ‘incontrare’ a piccoli gruppi questi topi con gli altri colonizzati dal microbiota degli individuati dediti ad una dieta ricca di vegetali. Questa ‘frequentazione’ ha portato ad un netto miglioramento dell’espressione dei risultati di una dieta salutare.
“Dobbiamo capire – spiega Nicholas Griffin primo autore dello studio – che le comunità microbiche che alberghiamo non sono ‘isole isolate’, ma parti di un arcipelago nel quale i batteri possono muoversi da un’isola all’altra, sono cioè quello che noi chiamiamo delle metacomunità. Molti dei batteri che sono migrati nel microbiota condizionato da una dieta americana, all’inizio non erano inizialmente presenti in molti dei soggetti abituati a consumare questo tipo di dieta.”
Questa scoperta potrebbe portare a nuove strategie mirate a potenziare i risultati di una dieta a basso contenuto di calorie. Resta ancora da capire quali fattori determinino questo ‘scambio’ di microbi da un individuo all’altro.
Le categorie di microbi individuate in questo studio potrebbero dunque un giorno essere utilizzate come probiotici di prossima generazione da somministrare magari come coadiuvante delle diete.
Lo studio è stato finanziato dai National Institutes of Health e dal Wellcome Trust.
Salute, se il medico è donna in ospedale si guarisce prima. Lo studio
Economia sanitaria, News Presa, Ricerca innovazioneSe il medico in corsia è una donna le cure sono più efficaci, lo dicono i dati di una ricerca pubblicata sulla rivista JAMA Internal Medicine, e condotta da Yusuke Tsugawa, della Harvard T. H. Chan School of Public Health, Boston. Il paziente gestito da una donna medico, in pratica, presenta minor rischio di morte a 30 giorni dal ricovero e un minor rischio di un secondo ricovero rispetto ad un analogo paziente seguito da internisti di sesso maschile. La ricerca ha sollevato un acceso dibattito tra gli addetti ai lavori e già in passato, studi avevano rilevato differenze nell’operato di camici bianchi di sesso maschile e femminile, con le donne più attente a fare prevenzione e più scrupolose nel seguire le linee guida cliniche, offrendo quindi complessivamente cure migliori rispetto ai medici di sesso maschile. Tuttavia spesso le donne medico hanno stipendi inferiori a quelli dei colleghi maschi a causa di interruzioni contrattuali e interruzioni lavorative per la maternità, come emerge da altri dati. Così, i ricercatori Usa hanno deciso di studiare i dati relativi a oltre 1,8 milioni di ricoveri e oltre 1,2 milioni di secondi ricoveri successivi al primo (riammissione in ospedale ad esempio a 30 giorni dal primo ricovero). Sono stati coinvolti in totale 58.344 medici, per il 32,1% donne. E’ emerso che i pazienti gestiti da internisti maschi hanno un tasso di mortalità a 30 giorni dal ricovero dell’11,49% contro l’11,07% per pazienti gestiti da donne medico. Il tasso di riammissione in ospedale è 15,57% e 15,02% se il paziente è seguito da un medico uomo o donna rispettivamente. Lo studio suggerisce che vi siano differenze importanti nel modo di curare di medici donna e uomini, con implicazioni cliniche altrettanto importanti e differenti esiti per i pazienti. Il passo successivo potrebbe essere quello di capire quali siano le differenze, aiutando, così, a migliorare la qualità delle cure per tutti i pazienti indipendentemente dal sesso del medico da cui sono seguiti.
Dieta povera di carboidrati più efficace per perdere peso
Alimentazione, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneUna dieta povera di carboidrati dà migliori risultati di una a basso contenuto di grassi per la perdita di peso, perlomeno nel breve periodo. Lo dice una ricerca della Mayo Clinic di Scottsdale in Arizona, pubblicata su Journal of the American Osteopathic Association.
Gli studiosi hanno revisionato tutte le ricerche da gennaio 2005 ad aprile 2016, per un totale complessivo di 72 studi, e dai risultati è emerso che le diete a basso contenuto di carboidrati, ad esempio con poco pane e pasta, tra cui alcune note e in voga anche tra le star come la dieta Atkins, quella South Beach e la Paleo, sono sicure da seguire fino a sei mesi. Non sembrano provocare, quindi, danni particolari alla salute, sopratutto a pressione, glucosio e colesterolo, e a seconda del regime alimentare scelto, fanno perdere da poco meno di un chilo a quattro chili in più rispetto a quelle a basso contenuto di grassi. “La conclusione migliore da trarre, in linea generale, è che seguire una dieta a basso contenuto di carboidrati a breve termine sembra essere sicuro e si associa a una riduzione di peso”, spiega Heather Fields, autrice principale della ricerca. Restano, però, sia i rischi legati a un maggiore consumo di carne, perché pane e pasta vengono ridotti, sia il fatto che queste diete non fanno comunque miracoli rispetto a quelle a basso contenuto di grassi e infine la considerazione che non esiste una dieta adatta a tutti. “La cosa più importante e’ incoraggiare i pazienti a evitare cibi lavorati, soprattutto carni come pancetta, salsicce, salumi, hot dog, e prosciutto”, conclude Fields.
Cancro, come diagnosticarlo prima che si sviluppi
Ricerca innovazioneArriva da Napoli, in particolare da Pozzuoli, una nuova tecnica diagnostica per il cancro. Ancora una volta a far parlare di sé è il Cnr che, grazia ad un team di giovani ricercatori dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti, ha fatto una scoperta sensazionale: identificare grazie ad una nuova le cellule estranee che circolano all’interno del flusso sanguigno, le cosiddette Ctc (Circulating Tumor Cells). La ricerca è stata pubblicata su Light: Science and Applications, rivista del gruppo Nature.
Il metodo classico
Il sangue è composto da milioni di cellule (globuli rossi, bianchi, piastrine e linfociti). La diagnostica di malattie del sangue si esegue con l’emocromo, che fornisce parametri statistici sulle cellule esaminate. Si pensi al volume delle cellulare, l’emoglobina e così via. Per ottenere informazioni morfologiche è però necessario studiare al microscopio queste cellule, il restringe l’analisi a una piccola parte delle cellule, vale a dire quelle del campione che si sta esaminando. Inoltre il risultato è reso soggettivo dall’interpretazione del medico che studia l’immagine.
Il nuovo metodo
Con questa nuova tecnica diventa possibile studiare l’intero flusso, su campioni liquidi, con una tecnologica che si Lab-on-a-Chip. «Questa nuova tecnica di tipo interferometrico, basata sull’olografia digitale, consente di analizzare anche milioni di cellule mentre scorrono in un canale microfluidico fornendo parametri quali l’emoglobina, al pari del classico emocromo. Inoltre è in grado di analizzare ogni singola cellula praticamente in tempo reale, ricostruendone l’immagine tridimensionale con una accuratezza senza precedenti», spiegano gli autori Francesco Merola, Lisa Miccio, Pasquale Memmolo e Martina Mugnano di Isasi-Cnr. «In questo modo è possibile identificare cellule rare, sintomo precoce di eventuali patologie, che passerebbero inosservate a un’analisi tradizionale».
Nuovi scenari
Lo studio è stato svolto in collaborazione con il Consorzio Ceinge-biotecnologie avanzate, di cui fa parte l’Università di Napoli Federico II. Il team di ricercatori ha ottenuto un risultato che potrà avere un forte impatto sulla diagnostica oncologica. Questa prima tomografia completa in flusso continuo apre infatti la strada alla possibilità di trovare il famoso “ago nel pagliaio”, ovvero le cellule tumorali circolanti, primissimo segnale premonitore di metastasi finora inafferrabile.
Fumo: ogni anno tra i 70 e gli 80 mila decessi in Italia
Associazioni pazienti, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneIn Italia il 22 per cento della popolazione fuma e non è un dato in calo rispetto allo scorso anno. Negli ultimi anni sono state avviate campagne di prevenzione e lotta al tabagismo anche attraverso campagne visive (come le immagini dei danni provocati dal fumo riportate sui pacchetti di sigarette).
Dai dati diffusi da Doxa, i fumatori nel nostro paese sono 11,5 milioni, il 22 per cento della popolazione (e non sono in calo). Gli ex fumatori sono 7,1 milioni (il 13,5 per cento della popolazione); i non fumatori 33,8 milioni (il 64,4 per cento della popolazione).
Il 27,3 per cento degli uomini consuma tabacco, contro il 17,2 per cento della popolazione femminile:
Si stima che il fumo causi ogni anno, in Italia, tra i 70mila e gli 83mila decessi, non solo per il tumore al polmone, ma anche per malattie respiratorie, cardiovascolari e altre patologie.
Un’associazione finlandese, impegnata nella lotta al fumo, si è inventata una campagna che sta facendo molto discutere. Ha infatti deciso di mettere a confronto l’immagine di una persona sana che non fuma con quella della stessa persona se fosse una fumatrice. Il progetto è visibile sul sito: tobaccobody.fi e riporta tutti gli effetti indesiderati del fumo per uomini e donne dividendoli in diverse categorie: dal sesso all’acne. Non usa mezzi termini quando parla delle conseguenze delle sigarette sulla pelle e non solo: dal colorito meno sano e tendente con più facilità alla formazione di rughe e all’acne, al rischio di ingrassare nella zona addominale.
Per quanto riguarda gli uomini, il flusso sanguigno nei fumatori è più problematico, con una maggiore probabilità che si formino dei trombi nei vasi sanguigni. Ci sono poi anche altri effetti indesiderati, come: patologie che interessano lo stomaco; eccessiva peluria e unghie da un aspetto poco piacevole; alitosi e stress.
Insomma, il sito usa toni durissimi, con un unico obiettivo: spingere la popolazione a non fumare. “La vita sessuale di una fumatrice non è come quella di una non fumatrice”, spiega che quando una donna fuma, il fegato distrugge gli estrogeni, gli ormoni femminili, e di conseguenza diminuisce il l’ appetito sessuale. “Non fumare – scrive – è un buon modo per avere una vita sessuale sana. Il fumo compromette alcuni dei batteri che proteggono dalle infezioni genitali, di conseguenza le fumatrici contraggono più spesso infezioni vaginali e producono più facilmente secrezioni bianche dal cattivo odore (leucorrea)”. Non risparmia ovviamente gli uomini: “fumare – continua Tobacco body – indebolisce il flusso sanguigno verso il pene, ragion per cui i fumatori hanno il doppio delle probabilità di avere problemi erettili”. “Il numero di rapporti sessuali dei fumatori è la metà di quello dei non fumatori. Si potrebbe persino dire che non fumare è il rimedio più economico ai problemi di erezioni: la metà dei casi di impotenza sono causati da problemi di circolazione sanguigna e del sistema nervoso”. Ogni anno, il fumo provoca vittime per patologie respiratorie, ecco perché continuano a nascere in molti paesi nuove campagna per sensibilizzare la popolazione.