Tempo di lettura: 3 minutiL’impennata di allergie alimentari si osserva soprattutto nei bambini sotto i tre anni. In un decennio, i casi sono aumentati del 120%, come dimostra uno studio italiano pubblicato su The Journal of Allergy and Clinical Immunology, che punta il dito sul cibo ultra-processato. Uno dei fattori legati all’aumento delle allergie alimentari, infatti, sarebbe il consumo crescente di alimenti industriali fin dalla prima infanzia.
Per quanto riguarda gli adulti, invece, mancano ancora dati precisi in Italia. In Gran Bretagna, invece, un recente studio ha dimostrato il numero raddoppiato di persone adulte con allergie alimentari in dieci anni. Secondo i dati, in particolare, un terzo di coloro che hanno avuto una grave reazione allergica non porta con sé dispositivi salvavita, come gli autoiniettori di adrenalina. Il primo passo da compiere, quindi, è distinguere le intolleranze dalle allergie alimentari. Lo studio è stato condotto dall’Imperial College di Londra e pubblicato sulla rivista The Lancet Public Health.
Differenza tra allergie alimentari e intolleranze
Allergie e intolleranze alimentari sono due condizioni con conseguenze possibili e diverse. Le intolleranze alimentari, come quella al lattosio o al glutammato, causano disturbi prevalentemente gastrointestinali come nausea, gonfiore e diarrea. Piccole quantità del cibo incriminato possono essere tollerate senza gravi conseguenze.
Al contrario, le allergie alimentari coinvolgono una reazione anomala del sistema immunitario, che riconosce alimenti comuni come pericolosi. Anche una minima traccia dell’alimento può scatenare una reazione allergica, con sintomi che vanno da manifestazioni gastrointestinali a problemi respiratori e cutanei. Nei casi più gravi, può verificarsi un’anafilassi, una reazione potenzialmente letale se non trattata immediatamente.
Lo studio inglese: i numeri delle allergie alimentari in Gran Bretagna
Lo studio condotto in Gran Bretagna ha analizzato i dati raccolti dai medici di base tra il 2008 e il 2018. I ricercatori hanno individuato circa 121 mila persone con una probabile allergia alimentare nel 2018. Solo a poco più di 38 mila di queste persone erano stati prescritti autoiniettori di adrenalina, necessari per affrontare situazioni di emergenza come lo shock anafilattico.
L’incidenza delle allergie alimentari è passata dallo 0,4% all’1,1% della popolazione britannica nell’arco di dieci anni. I dati evidenziano una particolare vulnerabilità tra i bambini sotto i cinque anni: il 4% dei piccoli nel 2018 risultava affetto da allergie alimentari, rispetto all’1,2% del 2008.
Diagnosi e cure: come affrontare le allergie alimentari
In presenza di sospetti di allergie o intolleranze alimentari, è essenziale rivolgersi a un medico o a un pediatra per una valutazione accurata. Sarà lo specialista a prescrivere i test necessari per confermare la diagnosi e a consigliare le terapie più appropriate.
Ad oggi, in caso di allergia, l’unica soluzione efficace è eliminare dalla dieta l’alimento che provoca la reazione. Nel caso delle intolleranze, invece, la soglia di tolleranza varia da persona a persona, e il cibo potrebbe essere consumato in quantità ridotte senza causare sintomi.
Allergie alimentari in italia
In Italia, i dati sulle allergie alimentari negli adulti non sono completi, ma si sa qualcosa in più sui bambini. Lo studio pubblicato su The Journal of Allergy and Clinical Immunology, promosso dalla Società Italiana di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica (SIGENP), ha analizzato la situazione in Campania.
La ricerca, condotta su oltre 100 mila ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni, ha evidenziato un incremento del 34,4% delle allergie alimentari in età pediatrica. Particolarmente significativo l’aumento tra i bambini sotto i tre anni, con un incremento del 120%. Gli allergeni più comuni sono risultati essere latte vaccino, uova e frutta a guscio. Inoltre, uno su quattro tra i bambini allergici ha sperimentato uno shock anafilattico, confermando un aumento non solo della prevalenza ma anche della gravità delle allergie alimentari.
Cause dell’aumento delle allergie alimentari, fenomeno complesso
Le cause dell’aumento delle allergie alimentari, soprattutto tra i bambini, sono molteplici. Uno dei fattori principali potrebbe essere un cambiamento nella dieta. L’introduzione precoce di cibi ultra-processati, il cosiddetto “cibo spazzatura”, può interferire con il corretto sviluppo del sistema immunitario, che potrebbe reagire in modo eccessivo a determinati alimenti come arachidi o uova.
Un altro fattore potrebbe essere, secondo gli specialisti, l’uso crescente di antibiotici nei primi anni di vita. Sebbene siano necessari in molti casi, questi farmaci, possono alterare il microbiota intestinale, contribuendo allo sviluppo di allergie alimentari. I ricercatori sottolineano l’importanza di ulteriori studi per comprendere meglio questi meccanismi e trovare strategie efficaci per prevenire l’insorgenza delle allergie alimentari.
La prevenzione, una diagnosi accurata e una gestione corretta, così come l’utilizzo di dispositivi salvavita, come gli autoiniettori di adrenalina, riducono il rischio di gravi conseguenze, compreso lo shock anafilattico.
Autismo, scoperto legame tra mutazione genetica e alterazioni nel cervello, studio potrebbe rivoluzionare diagnosi
Bambini, News, News, Ricerca innovazioneUn recente studio potrebbe rivoluzionare la diagnosi dell’autismo. Un gruppo di ricercatori ha scoperto un legame diretto tra una specifica mutazione genetica e le alterazioni morfologiche del cervello. Il team di ricercatori della University of Virginia, insieme a collaboratori di altre università statunitensi, ha fatto luce su una mutazione associata al disturbo del neurosviluppo.
I disturbi dello spettro autistico
L’autismo include vari disturbi del neurosviluppo caratterizzati da deficit nelle relazioni sociali e comportamenti ristretti e ripetitivi. Per questo si parla di disturbi dello spettro autistico (autism spectrum disorders, Asd). I sintomi variano molto nel tempo e in base all’individuo. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale autismo, in Italia i disturbi dello spettro autistico (includono anche forme lievi, cosiddette ‘ad alto funzionamento’) riguardano un bambino su 77 nella fascia di età compresa tra i 7 e i 9 anni.
Il legame tra delezioni e duplicazioni genetiche e autismo
L’autismo viene diagnosticato in base a sintomi comportamentali che possono variare notevolmente da un individuo all’altro. Tuttavia, è noto che una base genetica solida esiste e che interagisce con fattori ambientali, come infezioni in gravidanza o esposizione a sostanze tossiche. I ricercatori si sono concentrati su una specifica variazione genetica: la mutazione 16p11.2 del cromosoma 16. Hanno scoperto che le delezioni o duplicazioni in questa regione sono spesso associate a modifiche strutturali del cervello, in particolare al volume della corteccia. Queste alterazioni sono state osservate in quasi il 100% dei casi studiati, suggerendo un legame profondo tra genetica e morfologia cerebrale nell’autismo.
Intelligenza artificiale e mappatura cerebrale
La ricerca si avvale di un nuovo metodo che combina l’intelligenza artificiale con la risonanza magnetica per analizzare la morfologia cerebrale. Attraverso questa tecnologia, i ricercatori hanno esaminato un gruppo di soggetti con variazioni specifiche legate all’autismo, confrontandoli con un gruppo di controllo abbinato per età, sesso e quoziente intellettivo. L’obiettivo era ridurre le variabili che potevano influenzare i risultati. Il metodo, chiamato “transport-based morphometry” (Tbm), si concentra sul movimento di molecole all’interno delle cellule e dei tessuti cerebrali. Questo sistema permette di distinguere le normali variazioni biologiche da quelle legate alle mutazioni genetiche, con un’accuratezza stimata tra l’89 e il 95%.
La scoperta delle basi biologiche dell’autismo
Secondo Gustavo Rohde, primo autore dello studio, la scoperta è un primo passo cruciale verso la comprensione delle basi biologiche dell’autismo. La Tbm potrebbe rappresentare uno strumento importante per identificare precocemente le variazioni genetiche che influenzano la morfologia cerebrale. Ciò potrebbe aprire la strada a diagnosi più tempestive e a interventi mirati. Tuttavia, è essenziale ricordare che la mutazione 16p11.2 è solo una delle oltre 200 variazioni genetiche finora identificate nell’autismo. Questo significa che, pur rappresentando un progresso significativo, la scoperta non risolve il mistero dell’autismo nel suo complesso.
Cautela necessaria nelle interpretazioni
Lo studio si concentra su una specifica variazione genetica, e i risultati, pur promettenti, non implicano un’immediata applicabilità pratica per tutti i casi di autismo. È necessario proseguire con ulteriori ricerche per comprendere appieno il ruolo delle altre mutazioni genetiche e per sviluppare interventi efficaci.
Invecchiamento: 44 e 60 anni sono le fasi cruciali
Benessere, News, Prevenzione, Ricerca innovazione, Stili di vitaIntorno ai 44 e ai 60 anni avvengono cambiamenti biomolecolari significativi nel corpo umano. Secondo gli scienziati, queste due età sono cruciali nel processo di invecchiamento. Lo ha rivelato un recente studio della Scuola di Medicina dell’Università di Stanford. I risultati sono stati pubblicati su Nature Ageing. Adattare lo stile di vita in questi momenti potrebbe rallentare il processo di invecchiamento, diminuendo il rischio di malattie legate all’età.
Lo studio dell’Università di Stanford
Lo studio ha coinvolto 108 volontari, di età compresa tra i 25 e i 75 anni. I partecipanti sono stati monitorati per diversi anni, gli scienziati volevano capire meglio il processo di invecchiamento. Hanno analizzato oltre 135 mila molecole e microrganismi presenti nel corpo dei volontari. Questi dati hanno permesso di identificare due fasi cruciali: una intorno ai 44 anni e l’altra intorno ai 60 anni. In questi periodi, si verificano cambiamenti significativi a livello biomolecolare.
I cambiamenti a 44 anni
Il primo momento critico si verifica intorno ai 44 anni. In questa fase, le molecole legate al metabolismo dell’alcol, della caffeina e dei grassi subiscono cambiamenti. Queste molecole sono anche associate a disturbi cardiovascolari. Questi cambiamenti indicano che il corpo inizia a rispondere in modo diverso a fattori esterni come dieta e stile di vita. È un segnale che il processo di invecchiamento è iniziato. Adattare lo stile di vita a questo punto potrebbe rallentare il processo di invecchiamento.
I cambiamenti a 60 anni
Il secondo momento critico avviene intorno ai 60 anni. A questo punto, le molecole legate al metabolismo dei carboidrati, alla funzione dei reni e alla regolazione del sistema immunitario mostrano cambiamenti significativi. Questo indica che il corpo inizia a risentire maggiormente degli effetti dell’invecchiamento. Il sistema immunitario diventa meno efficiente. Anche la funzione renale può iniziare a deteriorarsi. Questi cambiamenti aumentano il rischio di malattie legate all’età, come diabete e malattie cardiovascolari.
L’invecchiamento non è un processo lineare
Gli autori dello studio sottolineano che l’invecchiamento non è un processo lineare. Non avviene in modo costante. Ci sono momenti in cui i cambiamenti sono più rapidi e significativi. Questi momenti sono associati a cambiamenti fisiologici che possono influire sulla salute. Lo studio suggerisce che capire meglio questi processi potrebbe portare a nuove terapie per rallentare l’invecchiamento e migliorare la qualità della vita.
Prevenzione potrebbe evitare oltre il 44% dei decessi per cancro. Lo studio Usa
News, Prevenzione, Ricerca innovazione, Stili di vitaLa lotta contro il cancro si gioca soprattutto sul campo della prevenzione. Un nuovo studio dell’American Cancer Society svela che quasi la metà dei decessi per cancro negli Stati Uniti potrebbe essere evitata. Un dato che apre anche alla possibilità di riduzione della mortalità. L’analisi, che ha coinvolto quasi due milioni di casi dal 2019 in poi, mette in luce il peso dei cosiddetti “fattori di rischio modificabili” come il fumo, l’obesità, il consumo di alcolici, l’esposizione eccessiva al sole e la sedentarietà.
Il peso del fumo e degli altri fattori di rischio
Il fumo è il primo responsabile tra i fattori di rischio. Secondo i dati, il 19,3% delle diagnosi di cancro è legato al consumo di tabacco. Questa cifra rappresenta una porzione significativa dei casi di cancro registrati. Segue l’eccesso di peso, che contribuisce al 7,6% delle diagnosi. Il consumo di alcolici è associato al 5,4% dei casi, mentre l’esposizione eccessiva al sole è responsabile del 4,6%. La sedentarietà, con la mancanza di attività fisica, chiude questa lista con un’incidenza del 3,1%. Il messaggio degli autori dello studio è chiaro: modificare lo stile di vita può salvare vite.
Lo studio americano: i numeri parlano chiaro
Lo studio ha analizzato 1.781.649 casi di tumore negli Stati Uniti. Dall’indagine emerge che il 40% delle neoplasie e oltre il 44% dei decessi sono riconducibili a fattori di rischio modificabili. In numeri assoluti, si tratta di 713.340 tumori e 262.120 decessi.
Gli autori dello studio sottolineano come molti di questi tumori potrebbero essere evitati. Ad esempio, quasi il 100% dei tumori alla cervice uterina potrebbe essere prevenuto con la vaccinazione contro il Papillomavirus. Oltre l’85% dei tumori polmonari potrebbe essere evitato se le persone non fumassero. Questi dati sottolineano l’importanza di politiche sanitarie che promuovano stili di vita sani e la prevenzione attraverso la vaccinazione.
Ruolo degli stili di vita
Il rapporto tra stili di vita e cancro è noto da tempo. L’American Cancer Society ribadisce l’importanza di adottare comportamenti salutari per ridurre il rischio di ammalarsi. Seguire una dieta equilibrata, mantenere un peso corporeo sano, praticare regolare attività fisica e astenersi dal consumo di tabacco e alcolici sono le principali raccomandazioni.
La prevenzione contro il cancro
La prevenzione è la principale arma nella lotta contro il cancro. Seguire una dieta equilibrata, mantenere un peso nella norma, praticare attività fisica regolare, astenersi dal fumo e limitare il consumo di alcolici sono misure che possono prevenire oltre un terzo dei casi di cancro. Inoltre è fondamentale sottoporsi a visite e controlli regolari, per rilevare precocemente eventuali neoplasie e aumentare le possibilità di sopravvivenza.
La situazione in Italia
In Italia, il cancro rimane una delle principali cause di morte. Nel 2023, sono stati diagnosticati 395mila nuovi casi di cancro. Ogni giorno, oltre mille italiani ricevono una diagnosi di cancro. Tuttavia, la mortalità è in calo, grazie alla prevenzione e ai progressi nella diagnosi e nel trattamento. Esami come la mammografia o il Pap test possono salvare vite. Molti test permettono di scoprire precocemente la presenza di lesioni precancerose o neoplasie ai primi stadi.
Nonostante i progressi, c’è ancora molto da fare. Molte persone non sfruttano appieno le opportunità di prevenzione offerte. Ad esempio, quasi il 100% dei tumori alla cervice uterina potrebbe essere prevenuto con la vaccinazione contro il Papillomavirus. Inoltre, oltre l’85% dei tumori polmonari potrebbe essere evitato smettendo di fumare.
Diabete 1, allo studio un nuovo anticorpo
Ricerca innovazioneUn nuovo anticorpo monoclonale potrebbe permettere la conservazione della funzione delle beta cellule pancreatiche in adulti e adolescenti che hanno un diabete di tipo 1 di nuova diagnosi. L’argomento è complesso e cercheremo di chiarirne i punti chiave, ma per adesso basti sapere che questa è una delle sfide della diabetologia. Proprio in questa ottica si inserisce uno studio che vede tra i protagonisti la Diabetologia del Meyer di Firenze. Andiamo con ordine.
Lo studio
Al momento, quello dell’AOU Meyer Irccs è l’unico centro italiano attivo che partecipa allo studio Fabulinus: lo studio prevede l’arruolamento dei pazienti (dai 12 ai 35 anni) con diabete di tipo 1 entro i novanta giorni dall’inizio del trattamento con l’insulina. Al momento è aperta soltanto la coorte dei pazienti di età maggiore o uguale a diciotto anni, ma presto potranno essere arruolati pazienti di età progressivamente inferiore.
Arruolamento
Lo studio prevede lo screening e la somministrazione del farmaco o del placebo in modalità randomizzata e il monitoraggio nel tempo della funzionalità beta cellulare. Grazie alla collaborazione dei centri di diabetologia degli adulti della Toscana e dell’Emilia Romagna, il Meyer ha avuto la possibilità di ricevere giovani adulti da sottoporre a screening. Dall’ultimo rilevamento effettuato e comunicato sulla newlsetter Global di luglio, l’ospedale pediatrico fiorentino è al terzo gradino sul podio europeo con cinque pazienti screenati e un paziente in trattamento: a oggi i pazienti screenati sono sei di cui due in trattamento.
Perché è importante
Per i pazienti con diabete di tipo 1 in terapia insulinica, la ricerca di anticorpi monoclonali sempre più specifici ha l’obiettivo di preservare una secrezione beta cellulare residua che è insieme all’insulina un determinante importante per mantenere un buon controllo metabolico e proteggere dallo sviluppo delle complicanze.
La funzione delle beta cellule
Sono almeno 4 i motivi per i quali è importante mantenere la funzione delle beta cellule:
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Tumore: ecco il tassello che mancava
News, Ricerca innovazioneAnche il tumore ha i suoi processi vitali, meccanismi che consentono alle cellule di sopravvivere e di moltiplicarsi. Ecco perché ha dell’eccezionale la ricerca condotta da un gruppo internazionale coordinato da un italiano: Stefano Santaguida, group leader presso il Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia. Lo studio ha scoperto quali sono questi meccanismi, compiendo un passo che potrebbe rivelarsi decisivo per la lotta ai tumori.
La proteina p62
La chiave di questi meccanismi vitali è una proteina, identificata come p62, che è centrale per la vita delle cellule tumorali e per il formarsi di metastasi. La materia è molto complessa, naturalmente, motivo per il quale serve più di una semplificazione giornalistica per cercare di renderla “masticabile” ai più. Tant’è, vale la pena provarci, e il lettore perdonerà qualche banalizzazione.
Instabilità e caos
Alla base della rottura di un meccanismo di per se perfetto, qual è quello della replicazione cellulare, c’è quella che gli studiosi definiscono instabilità cromosomica. Questa instabilità è un po’ un tratto distintivo di tutte le cellule tumorali e di fatto consiste nell’accumulo di un’alta frequenza di errori che generano un comportamento anomalo dei cromosomi nelle cellule figlie durante la divisione cellulare.
Programmazione
Si potrebbe paragonare questa instabilità ad un’errata programmazione, o meglio ad un bug che porta ad un vero e proprio caos cellulare, che a sua volta genera comportamenti dannosi come il replicarsi all’infinito e la capacità di sopravvivere agli attacchi esterni. Ma un’altra conseguenza dell’instabilità cromosomica è la formazione di piccolissimi nuclei al di fuori del nucleo primario della cellula. L’involucro di queste microstrutture è spesso molto fragile e spesso difettoso, per cui il Dna che contengono non è sufficientemente protetto. Anzi, è di frequente esposto al citoplasma e subisce danni persistenti, che creano un ambiente favorevole allo sviluppo del tumore.
Il ruolo della proteina
Stefano Santaguida spiega che la P62 è una proteina con molte funzioni, sino ad ora mai collegata all’instabilità cromosomica. In particolare, “attraverso complessi meccanismi cellulari identificati, abbiamo dimostrato che p62 inibisce l’azione dei ‘riparatori’ dell’involucro nucleare del micronucleo. Quest’ultimo, rimasto senza difese, collassa, lasciando i cromosomi contenuti in balia del caos. Così l’instabilità cromosomica aumenta e le cellule tumorali ne ricevono più di un vantaggio, diventando più forti, crescendo, difendendosi dai farmaci e migrando all’interno dell’organismo”.
Cosa cambia nella lotta al tumore
La scoperta ha un “chiaro riscontro nella pratica clinica perché, dalle nostre analisi, risulta che tumori caratterizzati da instabilità cromosomica e con alti livelli di p62 hanno una prognosi peggiore. La proteina p62 potrebbe quindi da oggi essere considerata un marcatore prognostico e un importante bersaglio terapeutico”, conclude il ricercatore. È evidente che conoscere i meccanismi che consentono alle cellule tumorali di generarsi e di proliferare farà una grande differenza nei prossimi anni, con la possibilità di creare nuove strategie terapeutiche sempre più efficaci. Questa scoperta potrebbe portare all’individuazione di cure anche per tumori che oggi sono in aumento, come il tumore del pancreas, e che spesso vengono identificati in ritardo quando la situazione è già molto compromessa difficile da aggredire.
Protagonisti
Non è un caso che lo studio abbia conquistato la copertina della prestigiosa rivista Science. I protagonisti? La ricerca è stata condotta in collaborazione con eccellenti centri internazionali, tra cui, negli Stati Uniti, il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York City, la Harvard Medical School di Boston, la University of Texas Southwestern di Dallas, il Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle; in Israele l’Università di Tel Aviv e in Italia l’Università di Palermo, l’Ospedale San Raffaele di Milano e l’Ifom di Milano.
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Tablet e bambini, uso prolungato favorisce scatti d’ira. Lo studio
Bambini, Benessere, Madri-padri, News, Pediatria, Psicologia, Ricerca innovazioneL’uso dei tablet da parte dei bambini è al centro dello studio pubblicato su Jama Pediatrics, che ha esplorato il legame tra il tempo trascorso davanti allo schermo e la gestione delle emozioni nei piccoli. La ricerca, focalizzata su bambini di età compresa tra i 3 e i 5 anni, ha dimostrato la connessione tra l’utilizzo prolungato di dispositivi digitali e un aumento delle esplosioni di rabbia e frustrazione. Il problema non riguarda solo il tempo passato con il tablet, ma soprattutto l’assenza di supervisione e guida da parte degli adulti. Oltre all’impatto della tecnologia nello sviluppo emotivo dei bambini, gli autori hanno indagato le implicazioni nella crescita.
Impatto del tempo passato davanti allo schermo, risultati dello studio
L’analisi si basa su un’indagine condotta tra 315 genitori di bambini in età prescolare, residenti in Nuova Scozia, Canada. I partecipanti hanno riportato l’uso del tablet da parte dei loro figli a intervalli di un anno, partendo dall’età di 3 anni e mezzo fino ai 5 anni e mezzo. Le osservazioni hanno rivelato che i bambini che trascorrono 75 minuti o più al giorno davanti a uno schermo a 3 anni e mezzo, mostrano una maggiore propensione a scatti di rabbia e frustrazione un anno dopo.
Questo comportamento tende a ripetersi e ad accentuarsi, creando un circolo vizioso: più un bambino mostra difficoltà nel controllare le proprie emozioni a 4 anni e mezzo, maggiore sarà il tempo che passerà davanti a un dispositivo digitale verso i 5 anni e mezzo.
Contesto della pandemia di covid-19
Lo studio è stato condotto durante la pandemia di Covid-19, un periodo che ha visto un aumento esponenziale dell’uso dei dispositivi digitali da parte dei bambini. Rimanere in casa per lunghi periodi, ha portato i genitori a cercare soluzioni rapide per gestire lo stress, spesso attraverso l’uso di tablet e smartphone. Sebbene questa situazione possa in parte spiegare l’alto livello di esposizione ai dispositivi, i ricercatori sottolineano come il vero problema risieda nella relazione diretta tra l’uso del tablet e l’aumento delle difficoltà emotive.
Importanza dell’autoregolazione emotiva nei bambini
Uno degli elementi chiave emersi dallo studio riguarda il ruolo del tablet nel processo educativo dei bambini. Quando un bambino sperimenta emozioni negative come la rabbia o la frustrazione, è cruciale che impari a gestirle autonomamente, con il supporto degli adulti. Tuttavia, l’uso del tablet come strumento per calmare un bambino rischia di impedire questo processo di autoregolazione, spiegano gli autori. I dispositivi digitali, infatti, possono fungere da distrazione temporanea, ma non offrono soluzioni reali per la gestione delle emozioni. Questo approccio può portare a problemi di regolazione emotiva non solo durante l’infanzia, ma anche in età adulta.
Limiti dello studio e interazione dei genitori
Lo studio presenta alcuni limiti. In primo luogo, non viene considerato il tipo di contenuti visualizzati dai bambini. Alcune applicazioni educative o programmi specifici, come il cartone “Daniel Tiger”, potrebbero effettivamente contribuire allo sviluppo delle capacità di regolazione emotiva, offrendo esempi di gestione delle emozioni attraverso storie e personaggi.
Inoltre, lo studio non esplora il ruolo dei genitori durante l’uso del tablet: l’interazione tra genitori e figli mentre si guarda uno schermo potrebbe, in alcuni casi, rafforzare la relazione e mitigare gli effetti negativi del tempo passato davanti al dispositivo. Questi aspetti richiedono ulteriori ricerche per comprendere appieno l’impatto della tecnologia sullo sviluppo emotivo dei bambini.
Dispositivi digitali non come sostituti delle interazioni umane
La ricerca di Jama Pediatrics si inserisce in un dibattito più ampio sull’uso della tecnologia da parte dei bambini. I dispositivi digitali non possono essere visti come sostituti delle interazioni umane, necessarie per lo sviluppo sociale ed emotivo dei bambini. Gli autori avvertono che i genitori devono essere consapevoli dei rischi legati all’uso eccessivo del tablet e della necessità di offrire alternative che favoriscano il gioco creativo, l’interazione sociale e l’apprendimento emotivo.
La tecnologia, se utilizzata con moderazione e in modo consapevole, può essere un utile strumento educativo, ma deve essere integrata in un contesto di interazione attiva tra adulti e bambini. I “capricci” che molti adulti vedono come un fastidio sono in realtà una parte normale dello sviluppo. Se la frequenza degli scatti d’ira preoccupa è consigliabile parlarne il pediatra, concludono i ricercatori.
Allergie alimentari in impennata, sotto i 3 anni +120%, cause e prevenzione
Alimentazione, Bambini, Benessere, News, PrevenzioneL’impennata di allergie alimentari si osserva soprattutto nei bambini sotto i tre anni. In un decennio, i casi sono aumentati del 120%, come dimostra uno studio italiano pubblicato su The Journal of Allergy and Clinical Immunology, che punta il dito sul cibo ultra-processato. Uno dei fattori legati all’aumento delle allergie alimentari, infatti, sarebbe il consumo crescente di alimenti industriali fin dalla prima infanzia.
Per quanto riguarda gli adulti, invece, mancano ancora dati precisi in Italia. In Gran Bretagna, invece, un recente studio ha dimostrato il numero raddoppiato di persone adulte con allergie alimentari in dieci anni. Secondo i dati, in particolare, un terzo di coloro che hanno avuto una grave reazione allergica non porta con sé dispositivi salvavita, come gli autoiniettori di adrenalina. Il primo passo da compiere, quindi, è distinguere le intolleranze dalle allergie alimentari. Lo studio è stato condotto dall’Imperial College di Londra e pubblicato sulla rivista The Lancet Public Health.
Differenza tra allergie alimentari e intolleranze
Allergie e intolleranze alimentari sono due condizioni con conseguenze possibili e diverse. Le intolleranze alimentari, come quella al lattosio o al glutammato, causano disturbi prevalentemente gastrointestinali come nausea, gonfiore e diarrea. Piccole quantità del cibo incriminato possono essere tollerate senza gravi conseguenze.
Al contrario, le allergie alimentari coinvolgono una reazione anomala del sistema immunitario, che riconosce alimenti comuni come pericolosi. Anche una minima traccia dell’alimento può scatenare una reazione allergica, con sintomi che vanno da manifestazioni gastrointestinali a problemi respiratori e cutanei. Nei casi più gravi, può verificarsi un’anafilassi, una reazione potenzialmente letale se non trattata immediatamente.
Lo studio inglese: i numeri delle allergie alimentari in Gran Bretagna
Lo studio condotto in Gran Bretagna ha analizzato i dati raccolti dai medici di base tra il 2008 e il 2018. I ricercatori hanno individuato circa 121 mila persone con una probabile allergia alimentare nel 2018. Solo a poco più di 38 mila di queste persone erano stati prescritti autoiniettori di adrenalina, necessari per affrontare situazioni di emergenza come lo shock anafilattico.
L’incidenza delle allergie alimentari è passata dallo 0,4% all’1,1% della popolazione britannica nell’arco di dieci anni. I dati evidenziano una particolare vulnerabilità tra i bambini sotto i cinque anni: il 4% dei piccoli nel 2018 risultava affetto da allergie alimentari, rispetto all’1,2% del 2008.
Diagnosi e cure: come affrontare le allergie alimentari
In presenza di sospetti di allergie o intolleranze alimentari, è essenziale rivolgersi a un medico o a un pediatra per una valutazione accurata. Sarà lo specialista a prescrivere i test necessari per confermare la diagnosi e a consigliare le terapie più appropriate.
Ad oggi, in caso di allergia, l’unica soluzione efficace è eliminare dalla dieta l’alimento che provoca la reazione. Nel caso delle intolleranze, invece, la soglia di tolleranza varia da persona a persona, e il cibo potrebbe essere consumato in quantità ridotte senza causare sintomi.
Allergie alimentari in italia
In Italia, i dati sulle allergie alimentari negli adulti non sono completi, ma si sa qualcosa in più sui bambini. Lo studio pubblicato su The Journal of Allergy and Clinical Immunology, promosso dalla Società Italiana di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica (SIGENP), ha analizzato la situazione in Campania.
La ricerca, condotta su oltre 100 mila ragazzi di età compresa tra 0 e 14 anni, ha evidenziato un incremento del 34,4% delle allergie alimentari in età pediatrica. Particolarmente significativo l’aumento tra i bambini sotto i tre anni, con un incremento del 120%. Gli allergeni più comuni sono risultati essere latte vaccino, uova e frutta a guscio. Inoltre, uno su quattro tra i bambini allergici ha sperimentato uno shock anafilattico, confermando un aumento non solo della prevalenza ma anche della gravità delle allergie alimentari.
Cause dell’aumento delle allergie alimentari, fenomeno complesso
Le cause dell’aumento delle allergie alimentari, soprattutto tra i bambini, sono molteplici. Uno dei fattori principali potrebbe essere un cambiamento nella dieta. L’introduzione precoce di cibi ultra-processati, il cosiddetto “cibo spazzatura”, può interferire con il corretto sviluppo del sistema immunitario, che potrebbe reagire in modo eccessivo a determinati alimenti come arachidi o uova.
Un altro fattore potrebbe essere, secondo gli specialisti, l’uso crescente di antibiotici nei primi anni di vita. Sebbene siano necessari in molti casi, questi farmaci, possono alterare il microbiota intestinale, contribuendo allo sviluppo di allergie alimentari. I ricercatori sottolineano l’importanza di ulteriori studi per comprendere meglio questi meccanismi e trovare strategie efficaci per prevenire l’insorgenza delle allergie alimentari.
La prevenzione, una diagnosi accurata e una gestione corretta, così come l’utilizzo di dispositivi salvavita, come gli autoiniettori di adrenalina, riducono il rischio di gravi conseguenze, compreso lo shock anafilattico.
Amiloidosi, la patologia rara che colpisce Oliviero Toscani. In Italia 800 casi l’anno
Farmaceutica, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneOliviero Toscani, fotografo di fama internazionale, ha rivelato di soffrire di una malattia rara: l’amiloidosi. In un’intervista al Corriere della Sera, ha raccontato il suo percorso di diagnosi e cura. Ma cos’è esattamente l’amiloidosi? Questa patologia rara e complessa è causata dal deposito di proteine anomale nei tessuti e negli organi e può avere conseguenze gravi.
Cos’è l’amiloidosi
L’amiloidosi è un insieme di malattie rare e gravi causate dall’accumulo di proteine anomale, chiamate amiloidi, negli organi e nei tessuti. Queste proteine si depositano in varie parti del corpo, compromettendone la funzionalità. La malattia può essere localizzata, colpendo un singolo organo, o sistemica, interessando più organi contemporaneamente come cuore, reni, fegato e sistema nervoso. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), esistono numerosi tipi di amiloidosi, derivanti da circa 30 proteine diverse che possono ripiegarsi in modo anomalo e causare la malattia. In Italia, si registrano circa 800 nuovi casi di amiloidosi ogni anno.
I sintomi
I sintomi dell’amiloidosi variano a seconda degli organi colpiti. I reni sono spesso i primi a essere interessati, con l’insorgenza di insufficienza renale. Questo provoca ritenzione idrica, stanchezza, debolezza e perdita di appetito. Quando le proteine amiloidi si depositano sul cuore, ne aumentano le dimensioni e ne compromettono la funzione, portando a insufficienza cardiaca. Tuttavia, i sintomi possono manifestarsi anche in altre forme, come vertigini, intorpidimento o formicolio alle mani, urina schiumosa, battito cardiaco irregolare, dolore toracico, disfunzione erettile, diarrea o costipazione, macchie di sangue sulla pelle, sindrome del tunnel carpale, e allargamento della lingua. Questi sintomi variegati rendono la diagnosi spesso complessa e lunga.
La diagnosi
La diagnosi di amiloidosi viene confermata attraverso una biopsia, che prevede il prelievo di una piccola quantità di tessuto dalla zona colpita per un’analisi dettagliata. Solitamente, la biopsia viene eseguita sull’addome o sull’intestino. Oltre alla biopsia, l’ISS indica altri test diagnostici come la scintigrafia SAP e l’ecocardiogramma. Questi esami consentono di individuare i depositi di amiloidi e valutare l’entità del danno agli organi colpiti. La diagnosi precoce è fondamentale per limitare la progressione della malattia e preservare la funzionalità degli organi.
Terapie disponibili
Attualmente non esistono cure in grado di rimuovere direttamente i depositi di amiloidi. Le terapie mirano a prevenire l’ulteriore produzione di proteine anomale, permettendo al corpo di eliminare gradualmente i depositi già presenti. In molti casi, è necessaria la chemioterapia per distruggere le cellule del midollo osseo che producono le proteine amiloidi. Questo trattamento serve a bloccare la progressione della malattia. Nei pazienti con insufficienza renale causata dall’amiloidosi, vengono prescritti farmaci diuretici per alleviare i sintomi. Dopo il trattamento chemioterapico, i pazienti devono sottoporsi a controlli periodici, solitamente ogni 6-12 mesi, per monitorare l’evoluzione della malattia e l’efficacia delle terapie. La gestione dell’amiloidosi richiede un approccio multidisciplinare, che coinvolge specialisti in cardiologia, nefrologia e neurologia.
Amiloidosi: una malattia complessa e poco conosciuta
L’amiloidosi è una patologia complessa, caratterizzata da un’elevata variabilità nei sintomi e nella gravità. La sua rarità e la molteplicità dei tipi di amiloidosi rendono difficile una diagnosi tempestiva e una gestione ottimale della malattia. Tuttavia, la ricerca continua a fare progressi, con l’obiettivo di migliorare le opzioni terapeutiche e la qualità della vita dei pazienti affetti.
Alimentazione vegana e prevenzione dei tumori: quanto conta davvero
Alimentazione, News, Prevenzione, Stili di vitaIn tutto il mondo, cresce costantemente l’interesse per la dieta vegana, vegetariana o flexitariana. A maggio 2024, la rivista PLOS One ha pubblicato una revisione della letteratura scientifica sull’impatto delle diete vegetali sulla salute. Gli autori hanno analizzato numerosi studi per valutare l’effetto di queste diete sui fattori di rischio per malattie cardiometaboliche e tumori. I risultati confermano che diete vegane e vegetariane sono associate a un profilo lipidico migliore, un miglior controllo della glicemia, un indice di massa corporea più favorevole e una minore infiammazione. Inoltre, emerge un ridotto rischio di cardiopatia ischemica e tumori. Tuttavia, non sono state rilevate differenze significative nel rischio di sviluppare diabete gestazionale e ipertensione nelle donne in gravidanza che seguivano queste diete.
Limiti degli studi: eterogeneità e fattori confondenti
Nonostante i risultati positivi, gli autori della revisione hanno evidenziato alcuni limiti della ricerca. Uno dei principali problemi riguarda l’eterogeneità delle popolazioni studiate. I campioni analizzati variano per dimensioni, fattori demografici, origini geografiche e stili di vita. Questa diversità rende difficile trarre conclusioni definitive e generalizzabili. Inoltre, i fattori confondenti, come le abitudini di vita e la genetica, possono influenzare i risultati. Questi limiti indicano che i risultati devono essere interpretati con cautela.
L’importanza di un’alimentazione equilibrata
Una dieta a base vegetale può essere benefica, ma solo se è bilanciata. Spesso, le diete vegane proposte online non sono equilibrate e possono portare a carenze nutrizionali. Inoltre, non tutte le diete onnivore sono uguali. La quantità e la qualità dei prodotti di origine animale consumati possono fare la differenza. Ad esempio, una dieta onnivora ricca di grassi saturi può aumentare l’infiammazione e il rischio di malattie croniche, mentre una dieta equilibrata che include una moderata quantità di prodotti animali può essere altrettanto salutare.
Definizioni vaghe e incoerenti complicano la ricerca
Un altro problema riguarda la definizione stessa di “dieta a base vegetale”. In un articolo del 2022 pubblicato su Nature, si è evidenziato come i termini “vegetale”, “vegetariano” e “vegano” siano utilizzati in modo incoerente nella letteratura scientifica. Questa mancanza di coerenza rende difficile confrontare i risultati di diversi studi e trarre conclusioni chiare. La scienza ha bisogno di definizioni precise per poter fornire indicazioni utili.
Ruolo del microbiota nella salute
Negli ultimi anni, la ricerca ha messo in luce l’importanza del microbiota, l’insieme di microbi che abitano il nostro organismo, nella salute generale. Il microbiota è unico per ciascuna persona, il che significa che una dieta efficace per una persona potrebbe non esserlo per un’altra. La Professoressa Maria Rescigno, esperta di microbiota, sottolinea in un approfondimento di Airc, l’importanza di personalizzare la dieta in base all’analisi del microbiota individuale. Solo così si può ottenere un reale beneficio per la salute.
I dati statistici ed epidemiologici: associazioni non sempre chiare
I dati disponibili finora sono principalmente statistici ed epidemiologici. Mostrano delle associazioni tra abitudini alimentari e sviluppo di malattie, ma non sempre riescono a dimostrare un rapporto di causa ed effetto. Ad esempio, si osserva che nelle popolazioni che seguono una dieta ricca di grassi saturi l’incidenza di tumori è più elevata. Tuttavia, non è sempre possibile affermare con certezza che sia la dieta a causare direttamente il cancro. Altri fattori, come la genetica o lo stile di vita, possono influire.
Infiammazione: un possibile collegamento con la dieta
L’infiammazione è un fattore chiave nello sviluppo di molte malattie croniche, incluso il cancro. Alcuni studi epidemiologici hanno mostrato una correlazione tra l’assunzione di grassi saturi e un aumento dell’infiammazione. Questo potrebbe spiegare perché una dieta ricca di grassi sia associata a un maggiore rischio di tumore al colon-retto. D’altra parte, alcuni alimenti, come l’olio extravergine di oliva, contengono sostanze antinfiammatorie che potrebbero ridurre il rischio di cancro. Tuttavia, nessuno studio ha dimostrato che ridurre solo i grassi possa prevenire completamente l’insorgenza dei tumori.
La complessità della prevenzione dei tumori
La prevenzione dei tumori è un campo complesso. Sebbene i dati suggeriscano che una dieta a basso contenuto di derivati animali possa essere benefica, non esiste una soluzione universale. Ogni persona ha esigenze nutrizionali diverse, determinate da fattori genetici, ambientali e di stile di vita. Prima di adottare cambiamenti radicali nell’alimentazione, è consigliabile consultare un medico nutrizionista.
Le diete a base vegetale possono offrire benefici per la salute, a patto che siano ben bilanciate e adattate alle esigenze individuali.
Alcol, Oms: nessun consumo è sicuro. Ogni 10 secondi una vittima
NewsOgni dieci secondi, una persona nel mondo muore per cause legate all’alcol. Il dato emerge dal rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), intitolato “Global status report on alcohol and health and treatment of substance use disorders”. Per l’Oms non esiste un livello di consumo che sia privo di rischi per la salute. Per questo, le ultime raccomandazioni suggeriscono di evitare del tutto l’alcol. La posizione ha sollevato non poche discussioni, soprattutto in contrapposizione alle linee guida nazionali che spesso suggeriscono un consumo moderato. In realtà, quelle nazionali sono raccomandazioni per un basso rischio.
Milioni di morti collegati al consumo di alcol
L’OMS ha stimato che circa 2,6 milioni di decessi nel mondo sono associati al consumo di alcol, pari al 4,7% di tutte le morti globali. Tra queste, il 22% è dovuto a malattie dell’apparato digerente, il 20% a incidenti, il 17,8% a malattie cardiovascolari e diabete, il 15% a tumori maligni, il 10,8% a patologie perinatali legate all’alcol in gravidanza e il 7,7% a episodi di violenza intenzionale.
Nel complesso, contribuisce al 2,8% di tutti i decessi e degli anni di vita persi per disabilità o morte prematura (DALY). Inoltre è responsabile del 16,4% dei decessi per infortunio o incidente, del 4,3% delle morti per cancro e del 23% dei decessi per malattie del tratto digerente. Significativo il dato sulla cirrosi epatica: circa il 42% dei decessi per questa patologia è causato dal consumo di bevande alcoliche.
Falsi miti: il vino rosso non fa bene al cuore
Il falso mito che il vino rosso faccia bene al cuore è uno di quelli che resistono nonostante le evidenze scientifiche dimostrino il contrario. La credenza diffusa che un bicchiere di vino rosso a pasto possa avere effetti benefici sulla salute cardiovascolare è priva di fondamento scientifico. Lo conferma l’Istituto Superiore di Sanità, che ha incluso questa idea tra i falsi miti legati all’alcol. La Federazione mondiale dei cardiologi e la Società europea di cardiologia sono d’accordo: parlare di benefici del vino rosso distoglie l’attenzione dai reali danni che il consumo di alcol può causare.
I rischi dell’alcol: problema globale
Le bevande alcoliche contengono molti composti che hanno effetti nocivi sulla salute, tra cui l’acetaldeide, un metabolita dell’alcol, il metanolo e il carbammato di etile. Non mancano neppure i metalli pesanti come rame, ferro, manganese, nichel, stagno e zinco, presenti sia nelle bevande commerciali che in quelle prodotte in casa o illegale. Il rapporto OMS del 25 giugno 2024 evidenzia che il consumo di alcol è legato a oltre 200 patologie, inclusi cancro, malattie cardiovascolari, disturbi mentali e comportamentali, e lesioni a organi e tessuti. Gli effetti negativi dipendono dalla quantità consumata e dalla frequenza degli episodi di abuso. Anche per chi beve poco, i rischi ci sono.
Italia: il consumo non cala
In Italia, nonostante i dati allarmanti, il consumo di alcol non è diminuito negli ultimi vent’anni. Nel 2022, un uomo su cinque e poco meno di una donna su dieci hanno consumato alcol in modi che aumentano il rischio per la salute.
Oltre tre milioni di italiani, circa una persona su venti, hanno praticato il binge drinking, ovvero hanno bevuto per ubriacarsi. Il 12,7% degli uomini e il 6,1% delle donne sopra gli 11 anni hanno dichiarato di aver ecceduto abitualmente nel consumo, per un totale di circa cinque milioni di persone, una cifra solo leggermente inferiore rispetto al 2011. Nonostante questi numeri, circa il 28% degli italiani è astemio, con variazioni significative tra le diverse regioni.
Obiettivi mancati: il piano Oms per il 2025
Il rapporto OMS presenta una cattiva notizia per l’Italia che non raggiungerà l’obiettivo previsto per il 2025 di riduzione della mortalità legata all’alcol. Le tendenze attuali indicano che l’obiettivo globale di ridurre del 20% il consumo dannoso non sarà raggiunto entro il 2030. Tuttavia, c’è ancora margine per migliorare, partendo dalla sensibilizzazione per implementare pienamente il Piano d’azione globale sull’alcol 2022-2030, con particolare attenzione alle misure ad alto impatto racchiuse nel pacchetto SAFER dell’OMS.
Giovani più a rischio
I giovani sono i più colpiti: nel 2019, la percentuale più alta di decessi attribuibili all’alcol (13%) si è verificata tra le persone di età compresa tra i 20 e i 39 anni. L’alcol, per i giovani, non è solo una questione di abuso, ma rappresenta un pericolo per la loro salute futura e per la società.