Tempo di lettura: 4 minutiLa funzionalità della tiroide influenza la fertilità, eppure questo aspetto viene spesso trascurato. L’associazione GAT, Gruppo Aiuto Tiroide, ha raccolto le evidenze scientifiche più aggiornate, dando vita a un progetto divulgativo, sostenuto dalla Fondazione CON IL SUD, con l’obiettivo di diffondere conoscenza e supportare le donne.
Tiroide e gravidanza
Questa ghiandola gioca un ruolo cruciale anche durante la gravidanza ed eventuali problemi possono complicare la gestazione. Annunziata Bellavista, presidente dell’associazione GAT, sottolinea l’importanza di focalizzarsi su questi temi. Ogni anno l’associazione svolge attività nelle scuole ed emerge ancora la necessità di informare meglio su tiroide, fertilità e gravidanza.
Medicina di genere: le alterazioni ormonali
«La fertilità femminile», chiarisce Francesco Giorgino, Ordinario di Endocrinologia Direttore U.O. complessa di Endocrinologia Policlinico di Bari, «è garantita dalla complessa interazione tra fattori ormonali, ginecologici e anatomici, che insieme assicurano la regolarità del ciclo mestruale e dell’ovulazione e la creazione di un ambiente uterino idoneo all’impianto e alla crescita dell’embrione. Alterazioni ormonali possono rompere questo equilibrio e compromettere la fertilità e il prosieguo della gravidanza. In particolare, gli ormoni tiroidei T3 e T4 sono implicati nella regolazione di numerose funzioni nell’organismo, inclusa la regolazione del ciclo mestruale e dell’ovulazione».
Gli ormoni nelle diverse fasi della vita
«Gli ormoni tiroidei», prosegue Rossella Nappi, Odinario di Ostetricia e Ginecologia Responsabile S.S.D. Ostetricia e Ginecologia 2 – PMA Ospedale San Matteo Pavia, «sono fondamentali per la donna partendo dall’adolescenza fino alla menopausa. Gli estrogeni sono in grado di modulare la funzione della ghiandola, fondamentale per la riproduzione umana. Spesso il ginecologo si trasforma nel medico di prima linea nell’intercettare le disfunzioni e, in sinergia con l’endocrinologo, le cura.
Nell’adolescenza l’uso, ad esempio, della pillola estroprogestinica può avere un impatto sulla funzionalità di questa ghiandola, poiché induce alterazioni, se pur modeste, delle quote libere degli ormoni tiroidei. Tuttavia, il periodo della vita della donna in cui una valutazione della sua funzionalità è importante è la fase pre-concezionale e peri-concezionale perché molti studi hanno dimostrato che una funzione non ottimale è responsabile di irregolarità delle mestruazioni e di problemi dell’ovulazione».
Impatto delle terapie ormonali e rischi nella gravidanza
«In senso generale – prosegue Nappi – la prescrizione di terapie ormonali siano esse contraccettive o della fertilità dovrebbe associarsi a un monitoraggio della funzione tiroidea, in particolare nelle pazienti con patologia tiroidea nota. Anche una donna con un ciclo mestruale regolare, fertile, ovulatorio, ma con una tiroide non perfettamente in squadra può riportare un maggior rischio di aborto e di fallimenti riproduttivi per meccanismi ancora in parte da chiarire».
«Un’attenzione particolare», prosegue la ginecologa, «deve essere data a gravidanze che iniziano con una funzione normale ma con un profilo di infiammazione, quindi di autoanticorpi, la cosiddetta tiroidite di Hashimoto. Questa condizione può comportare un inizio non ottimale della gravidanza con il rischio di formare una futura placenta meno efficiente. Questo può comportare non soltanto un maggiore rischio di aborto ma anche il rischio di sviluppare una vera e propria insufficienza placentare che può associarsi a ipertensione arteriosa, parto prematuro, bambino di basso peso. È per questo che la misurazione del TSH pre concepimento, degli anticorpi base, i cosiddetti TPO, è consigliata per intervenire tempestivamente in caso di gravidanza. Nei centri di fecondazione assistita, talvolta, si correggono preventivamente, con bassissime dosi di ormone tiroideo, le pazienti che si sottopongono a stimolazione ovarica sulla base di importanti studi che confermano la validità di questo intervento».
Prevenzione, il ruolo dello iodio
«Come sempre», continua Francesco Giorgino, «la prevenzione è fondamentale e questa può essere fatta attraverso l’assunzione di iodio. Un’adeguata assunzione di iodio, infatti, è fondamentale per garantire il corretto funzionamento, poiché lo iodio è un componente necessario per la sintesi degli ormoni tiroidei. Pertanto, la iodo-profilassi può influenzare la salute tiroidea e di concerto la fertilità delle donne prevenendo le disfunzioni e il miglioramento della fertilità.
Un adeguato apporto di iodio è necessario per prevenire la carenza iodica, che è tra le principali cause di disturbi, come l’ipotiroidismo e il gozzo. Il mantenimento di livelli appropriati di iodio promuove una funzione ottimale, che contribuisce a migliorare la fertilità. Ma non solo, riesce anche ridurre il rischio di complicanze durante la gravidanza. La iodo-profilassi può ridurre il rischio di complicanze derivanti dalla carenza di iodio durante la gravidanza, come l’ipotiroidismo o il ritardo mentale nel feto. Questo può contribuire a una gravidanza più sana e a una migliore salute materno-fetale e neonatale. Ed infine la iodo-profilassi può contribuire a ridurre il rischio di aborti spontanei.
Dannoso anche l’eccesso, negli uomini e nelle donne
Anche l’eccesso di iodio può essere dannoso, tanto quanto la sua carenza. Pertanto, è essenziale mantenere un equilibrio nell’assunzione di iodio e non eccedere le dosi raccomandate, specialmente durante la gravidanza e l’allattamento. Pertanto, le donne in età fertile dovrebbero consultare il proprio medico riguardo alla necessità di integrare lo iodio. Va detto che la profilassi con iodio può influenzare la salute tiroidea e la fertilità maschile in modo simile a quanto avviene nelle donne, sebbene gli effetti siano meno chiari e meno esplorati nell’uomo», continua l’esperto.
«La sorveglianza dello stato di nutrizione iodica è un’azione concreta a favore del benessere della popolazione generale e delle donne pugliesi in particolare» aggiunge Daniela Agrimi, responsabile dell’ORPG, Osservatorio regionale per la prevenzione del gozzo-Puglia, con cui il GAT ha una stretta e proficua collaborazione.
Terapie oncologiche e tossicità
«Un ultimo aspetto», conclude Francesco Giorgino, «è quello della relazione tra terapie oncologiche e tiroide. Le terapie oncologiche di ultima generazione hanno dimostrato una buona efficacia in molti tipi di tumore, tanto che il loro utilizzo è stato approvato per la terapia di diverse neoplasie (melanomi, carcinoma del polmone, del rene e neoplasie del sangue). Uno dei principali problemi legati all’uso di queste classi di farmaci è la tossicità endocrina, che si manifesta con una riduzione o un eccesso della funzionalità ormonale della ghiandola endocrina colpita. Sebbene qualsiasi ghiandola possa essere oggetto di tale tossicità, la tiroide è l’organo più frequentemente interessato (circa il 15 per cento dei casi), con un quadro clinico che spesso consiste in una ridotta produzione di ormoni, cioè nell’ipotiroidismo. Tale quadro si presenta in genere 1-3 mesi dopo l’inizio della terapia e può essere preceduto da un periodo transitorio di ipertiroidismo, dovuto al rilascio eccessivo di ormoni nel sangue da parte della tiroide colpita. Inoltre, anche ipofisi, surreni e pancreas endocrino possono essere colpiti».
La menopausa
«Infine», conclude Rossella Nappi, «c’è ancora tanto da studiare per supportare la donna nelle fasi della vita perché anche la menopausa è un momento in cui la ghiandola va in riserva. Vediamo molto ipotiroidismo di tipo sub-clinico che contribuisce allo stato di malessere della donna nel momento menopausale, quindi, correggere la funzione tiroidea e studiarla è importante anche nelle donne che non sono più fertili».
Stenosi valvolare aortica in aumento, 50% non accede a TAVI
Anziani, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneIn Italia, la stenosi valvolare aortica rappresenta la valvulopatia più diffusa che richiede interventi chirurgici o transcatetere. La sua incidenza sta rapidamente aumentando, principalmente a causa della degenerazione calcifica che colpisce una parte significativa della popolazione anziana. Senza trattamento, circa il 50% dei pazienti affetti muore entro due anni.
L’introduzione della valvola aortica transcatetere (TAVI) è stata inizialmente concepita come alternativa alla sostituzione valvolare aortica mediante cardiochirurgia tradizionale. Tuttavia, i risultati positivi e la minore invasività della procedura hanno notevolmente ampliato il numero di pazienti candidati: attualmente, l’indicazione si estende ai pazienti di età superiore ai 75 anni, e a quelli con significative comorbidità. È probabile che questo bacino si allargherà ulteriormente e che il numero di interventi TAVI raggiungerà e supererà a breve quelli tradizionali.
Per promuovere la formazione continua sulle tecniche interventistiche più recenti e sulle tecnologie più innovative è nata la campagna rivolta ai professionisti sanitari nel campo della cardiologia strutturale. All’interno dell’unità mobile “Your Heart Matters”, cardiologi e infermieri specializzati hanno ampliato le proprie competenze sulla terapia TAVI, partecipando a simulazioni e workshop pratici che hanno riprodotto fasi essenziali del percorso diagnostico e terapeutico per i pazienti affetti da stenosi aortica (SA) severa.
Stenosi valvolare aortica, malattia degenerativa. Le tappe della formazione
Da Pisa a Lecce, passando per Bologna, Torino, Brescia e Napoli: queste sono state le tappe del roadshow “Your Heart Matters”, appena conclusa. L’iniziativa europea, per migliorare l’assistenza pazienti, è stata promossa da Medtronic, in collaborazione con le strutture ospedaliere e universitarie aderenti.
La prima tappa a Pisa, presso la Scuola Superiore S. Anna, nell’area del CNR, è stata organizzata insieme al Dott. Sergio Berti, Direttore della Cardiologia Diagnostica e Interventistica dell’Ospedale Monasterio di Massa, che ha spiegato: “La stenosi valvolare aortica sta emergendo come una patologia significativa, principalmente a causa della sua natura degenerativa e dell’invecchiamento della popolazione. Attualmente, la sua prevalenza è leggermente superiore al 3% nella popolazione over 75 anni. Non tutti i pazienti necessitano di un intervento; le indicazioni riguardano quelli con stenosi valvolare aortica severa sintomatica.
Secondo l’Haute Autorité de Santé francese, la necessità di terapia è di circa 400 interventi per milione di abitanti. L’intervento TAVI viene eseguito in anestesia locale, ed è il risultato di una rigorosa pianificazione e di una minuziosa simulazione personalizzata in fase pre-operatoria della procedura, che minimizza il margine di errore, e della formazione degli operatori che la svolgono. Questo approccio ha portato ai risultati attuali, caratterizzati da una bassa incidenza di complicanze e tempi di dimissione entro la prima o seconda giornata post-intervento”.
La tappa a Torino
A Bologna, durante il congresso mondiale di cardiochirurgia delle patologie cardiache congenite e del congresso SICP – Società Italiana Cardiologia Pediatrica, è stato invece organizzato un workshop pratico in Interventional Cardiology con il Prof. Massimo Chessa, rivolto a giovani cardiologi interventisti e cardiochirurghi.
La terza tappa si è svolta nell’Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino, in collaborazione con il Dr. Giuseppe Musumeci, che ha spiegato: “è stata un’esperienza estremamente positiva che ci ha consentito di crescere insieme e di valutare un’innovazione che fa bene al paziente. La procedura TAVI sta crescendo costantemente nel corso degli anni, questo perché è efficace. È stata valutata in tutte le categorie di rischio, partendo dai pazienti inoperabili fino a quelli a basso rischio, con risultati sempre paragonabili o superiori rispetto alla cardiochirurgia tradizionale. Quest’anno in Italia sono state eseguite più di 13 mila TAVI, il che indica chiaramente che la procedura è efficace e benefica per il paziente”.
In Italia, il 50% dei pazienti non accede alle cure.
La quarta tappa si è svolta in collaborazione con la Dott.ssa Marianna Adamo, presso l’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale degli Spedali Civili di Brescia. “La stenosi aortica – ha spiegato la specialista – è una patologia rilevante e, grazie alla TAVI, abbiamo rivoluzionato la storia della malattia e la storia dei pazienti con stenosi aortica severa. Tuttavia, in Italia, il 50% dei pazienti non accede alle cure. Dobbiamo colmare questo divario potenziando i percorsi intra ed extra ospedalieri e i rapporti tra il centro di riferimento e i centri periferici, per garantire una cura adeguata al paziente.
La TAVI è una procedura efficace e le protesi utilizzate hanno una lunga durata nel tempo: i dati recentemente pubblicati dimostrano che, soprattutto alcune protesi con un disegno sovra-anulare, hanno risultati eccellenti anche a lungo termine. A dieci anni, la sopravvivenza dei pazienti che si sottopongono alla TAVI è equivalente a quella di coloro che fanno chirurgia, e la percentuale di degenerazione di alcune protesi sovra-anulari è addirittura inferiore a quella della chirurgia. Questi dati ci incoraggiano a espandere questa terapia anche ai pazienti più giovani, con un’aspettativa di vita più lunga” ha spiegato la Dott.ssa Marianna Adamo.
Garantire migliori terapie possibili
La quinta tappa del roadshow si è svolta in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” di Napoli. “È fondamentale garantire ai pazienti non solo un accesso tempestivo alle cure, ma anche le migliori terapie possibili, sia dal punto di vista farmacologico che chirurgico, come nel caso della stenosi aortica. L’innovazione della TAVI semplifica i procedimenti grazie alle moderne tecnologie che guidano l’intera operazione. Inoltre, è importante evidenziare le modalità di simulazione utilizzate per potenziare le performance degli operatori. Questo non solo migliora significativamente l’assistenza grazie al supporto tecnologico, ma rappresenta anche una sicurezza aggiuntiva per i nostri cittadini, contribuendo a migliorare la loro qualità della cura” ha commentato il Dott. Giuseppe Longo, DG AOU Federico II Napoli.
L’iniziativa itinerante si è conclusa presso l’Ospedale Vito Fazzi di Lecce. “Quando si parla di innovazione tecnologica, uno dei primi problemi sollevati riguarda la sostenibilità nelle aziende sanitarie e come queste nuove innovazioni possano conciliarsi con questo tema. Dai dati raccolti emerge in modo chiaro quella che è la sostenibilità della procedura TAVI. Quello che è auspicabile è che questa innovazione possa essere monitorata nel tempo con una riproducibilità tecnica e scientifica che ne confermi l’importanza e ne favorisca la sua diffusione” ha concluso la Dott.ssa Maria Nacci, direttrice sanitaria dell’Ospedale Vito Fazzi di Lecce.
Covid, ecco cosa sta succedendo
Covid, News, NewsIl Covid è tornato? Se lo chiedono i tantissimi che in questi giorni stanno – inaspettatamente – facendo i conti con un tampone positivo e – ancor peggio – che sono a casa con sintomi che pensavamo facessero ormai parte del passato. Diciamolo subito, non ci sono allarmi e non si prospetta nulla di quell’incubo che è stata la pandemia. C’è però da registrare un forte aumento dei casi con sintomi che vanno dalla febbre al mal di gola, e nei casi più seri possono richiedere persino un ricovero ospedaliero.
I dati del Covid in Italia
Nella settimana tra l’11 e il 17 luglio, sono stati registrati quasi 9.000 casi (8.942) , il 62% in più rispetto ai 7 giorni precedenti quando i casi erano 5.503. I morti sono 40, contro i 33 della settimana precedente (il 21% in più). Questo quanto riportato dal bollettino aggiornato del ministero della Salute sull’andamento di Covid nel Paese
Cos’è l’immunoevasività
Una delle caratteristi che più colpisce di questa nuova variante che circola e che sta causando la recrudescenza dei casi è la cosiddetta immunoevasività, fortunatamente solo parziale. A spiegare di che si tratta è il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore della Scuola di specializzazione in Igiene e medicina preventiva dell’università Statale di Milano. “Circola una variante con caratteristiche di immunoevasività – ha detto – cioè in grado di schivare questa nostra capacità di risposta. Da qui l’aumento dei casi. Per fortuna nella gran parte degli episodi l’infezione si dimostra meno problematica che in passato per la salute. Da un lato noi siamo un po’ più attrezzati; dall’altro il virus è un po’ più ‘buono’, di conseguenza la gran parte dei casi scivola via senza complicanze, anche se non mancano manifestazioni abbastanza importanti dal punto di vista della sintomatologia, un po’ stile inizio del Covid, anche per i più giovani”.
Mascherine e gel disinfettanti
A fare il punto su una situazione complicata non solo dal Covid, ma anche dall’aumento di altre virosi, è il segretario generale di Fimmg – e medico di famiglia – Silvestro Scotti. È proprio lui a denunciare che gli ambulatori dei medici di base sono pieni di casi Covid, ma anche gastroenteriti, raffreddori e otiti. Scotti ha segnalato come nelle ultime settimane si siano moltiplicati gli accessi e le segnalazioni anche telefoniche da parte dei pazienti. Un’estate, quella stiamo vivendo, nella quale siamo chiamati a difenderci da gasteoenteriti e da questa variante Kp3 del Covid che è molto diffusiva e con sintomi quasi uguali a quelli dell’influenza. Per questo il segretario Fimmg consiglia di tornare a mettere le mascherine, in particolare se si viaggia e se si hanno contatti con altre persone e lavarsi spesso le mani con gli igienizzanti.
Anche Sinner con la febbre
Nelle ultime ore la febbre ha colpito anche il campione di tennis Jannik Sinner, che ha dovuto annullare la sua partenza per Parigi. Nonostante sia stato escluso che Sinner sia stato colpito da Covid, alla fine il campione ha dovuto rinunciare a partecipare al torneo a causa di una severa tonsillite. Il torneo comincia sabato e si giocherà sulla terra rossa. Una competizione che vedeva il nostro campione tra i favoriti, e che ora il nostro campione potrà ricordare solo come un grande rimpianto.
Il Covid e le Olimpiadi
La squadra australiana giunta a Parigi per i Giochi è stata la prima a segnalare un caso di positività al Covid, nell’ambito delle squadre di pallanuoto. L’atleta è stato immediatamente isolato. Tutte le persone venute a contatto sono monitorate e testate, ma l’intera squadra si allenerà come previsto, ha riferito in conferenza stampa la responsabile della missione olimpica australiana, Anna Meares. “Devo sottolineare che stiamo trattando il Covid come faremmo con una influenza. Questa non è Tokyo – ha detto Meares – L’atleta non sta particolarmente male e si sta ancora allenando, ma dorme in una stanza singola. Ieri sera era tardi quando ha presentato i sintomi e la cosa buona è che avere la nostra attrezzatura per i test significa che possiamo ottenere tali informazioni molto, molto rapidamente e intervenire sia nella diagnosi che nel trattamento”.
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Giornata Mondiale delle Epatiti: gli italiani non le conoscono
News, PrevenzioneQuasi 1 italiano su 3 (32,1%) afferma di sapere poco o niente delle epatiti. Tra coloro che dichiarano di conoscere almeno qualcosa sulle epatiti, oltre 1 su 2 non sa esattamente come ci si può ammalare (57,3%), 6 su 10 non conoscono i vari tipi di epatite né gli effetti sulla salute o le condizioni di vita di un paziente. Solo 7 su 10 sanno che i virus possono essere causa delle epatiti (il 58,7% indica i batteri, il 41,5% i parassiti). Meno di 3 su 10, infine, sono informati sulle possibilità di trattamento e cura.
Questo il quadro delineato dall’indagine demoscopica “Italiani ed epatiti” condotta da AstraRicerche per Gilead Sciences su un campione di 1000 italiani i cui risultati vengono divulgati in vista della Giornata Mondiale delle Epatiti che si celebra ogni anno il 28 luglio. Dati che evidenziano la necessità di maggiore informazione sul tema, per questo riparte “Epatite C. Mettiamoci un punto”, la campagna multicanale che ha inaugurato il suo viaggio a Milano con il Tram della sensibilizzazione, in concomitanza con il Congresso EASL, e che arriva a Roma in questi giorni, sugli schermi dei principali snodi ferroviari della capitale, con l’obiettivo di diffondere una maggiore conoscenza dell’epatite C e delle sue modalità di trasmissione, invitando la popolazione a eseguire il test di screening.
La campagna in linea con gli obiettivi OMS 2030 di eradicazione delle epatiti
La campagna accende i riflettori su un problema di salute pubblica che coinvolge migliaia di persone che convivono con il virus HCV, responsabile dell’epatite C, e non lo sanno, trattandosi di una malattia che può rimanere silente anche per molti anni. Un’attività che si inserisce in un più ambizioso progetto di lotta alle epatiti virali, per contribuire al raggiungimento degli obiettivi OMS 2030 di eradicazione delle epatiti.
In particolare, a partire dal 2015: ridurre del 90% le nuove infezioni di epatite B e C; ridurre del 65% i decessi correlati all’epatite per cirrosi epatica e cancro; garantire che almeno il 90% delle persone con virus dell’Epatite B e C venga diagnosticato; e che almeno l’80% degli eleggibili al trattamento, lo riceva.
“Epatite C. Mettiamoci un punto” ha il patrocinio di 7 Associazioni pazienti – Anlaids Sezione Lombarda ETS, Anlaids Onlus, EpaC – ETS, Associazione Milano Check Point, Cooperativa Sociale Open Group Bologna, Plus Roma, Fondazione Villa Maraini – CRI, di 3 Società Scientifiche – AISF (Associazione Italiana Studio del Fegato), SIMG (Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie), SIMIT (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali) e della Città Metropolitana di Milano.
Cittadini poco informati: poco più di 1 su 10 sa che l’epatite C può essere silente
Sebbene il livello generale di conoscenza evidenziato sia piuttosto basso, è chiaro agli intervistati (coloro che affermano di conoscere almeno qualcosa delle epatiti) che si tratta di infezioni potenzialmente gravi: per 8 su 10 (79,4%) possono avere come conseguenza l’insufficienza epatica, per il 72,2% la cirrosi, per il 69,1% la morte prematura, e per il 67,5% il tumore al fegato. Accanto a questa conoscenza persiste però una falsa credenza: per 7 Italiani su 10 le epatiti danno sintomi visibili; solo poco più di 1 su 10 sa che l’epatite C può essere silente.
“L’infezione da HCV può rimanere silente anche per molti anni, danneggiando progressivamente le funzionalità del fegato, senza che se ne abbia consapevolezza. Diffondere una corretta informazione sulle epatiti è parte integrante del piano per il raggiungimento degli obiettivi OMS 2030, tra i quali si inserisce l’eradicazione dell’epatite C, patologia oggi curabile per la quale c’è ancora un’importante quota di sommerso”.
Lo sottolinea Stefano Fagiuoli, Direttore Unità Complessa di Gastroenterologia, Epatologia e Trapiantologia ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo; Gastroenterologia, Dipartimento di Medicina Università Milano Bicocca. “Aumentare la consapevolezza sulle modalità di trasmissione dei virus è una strategia di successo per favorire l’accesso ai test di screening e promuovere un percorso di diagnosi e trattamento più precoci. Un risparmio in termini sanitari ed economici, con evidenti ricadute sulla salute”.
Prevenzione e stigma
Su un punto gli intervistati per la ricerca “Italiani ed epatiti” sono (quasi tutti) d’accordo: le analisi del sangue sono il modo per accertare l’epatite (83,3%). Con l’obiettivo di far emergere il “sommerso”, in Italia è attivo un programma nazionale di screening gratuito dell’epatite C per i nati tra il 1969 e il 1989 e per alcune categorie di persone considerate “a rischio”.
“Informazione, consapevolezza e azione – spiega Roberta D’Ambrosio, Specialista in Gastroenterologia; Epatologa presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano – sono le parole chiave per una strategia di successo di eradicazione delle epatiti. Mettere un punto alle epatiti e fermare il contagio è un obiettivo comune, che riguarda tutti. Per questo è importante conoscere le modalità di trasmissione delle epatiti, essere consapevoli dell’importanza di fare il test anche in assenza di sintomi o di comportamenti definiti “a rischio”. Basti pensare che l’esposizione a procedure medico-chirurgiche prima degli anni Novanta – quando il virus ancora non era stato scoperto – rappresenta il più importante fattore di rischio per l’infezione da HCV”.
Un’infezione che non è dunque confinata a categorie particolari di persone, nonostante le epatiti siano ancora avvolte dallo stigma: circa un italiano su 10 (10,8% di chi conosce le epatiti) afferma che sono da evitare i contatti con persone che vivono con le infezioni.
Screening dell’epatite C
“Conoscenza e sensibilizzazione – afferma Ivan Gardini, Presidente di EpaC ETS – sono azioni necessarie per combattere stigma e falsi miti, ancora diffusi tra gli italiani, oltre che per fermare il contagio. In occasione della Giornata Mondiale delle Epatiti sottolineo l’importanza di informarsi e accedere allo screening nazionale dell’epatite C, gratuito per le persone 35-55enni, un’opportunità non ancora colta pienamente da tutte le Regioni che viaggia a differenti velocità lungo l’Italia. Eppure, fare un semplice test è il primo passo verso la cura, ed evitare cirrosi, tumore del fegato e trapianto”.
A promuovere una corretta informazione sul tema, veicolando i messaggi della campagna di sensibilizzazione “Epatite C. Mettiamoci un punto” ci sono anche due influencer: Diego Passoni, conduttore radiofonico, e Luca Trapanese, scrittore, attivista e fondatore dell’Associazione “A ruota libera”. È inoltre online www.epatitecmettiamociunpunto.it, un sito per conoscere l’epatite C e le sue modalità di trasmissione a partire da quattro storie di persone comuni che grazie al test hanno scoperto e curato l’infezione.
Carcinoma polmonare, un nuovo farmaco ha risultati mai visti prima
Ricerca innovazione, NewsIl tumore al polmone potrebbe non essere più così letale come è oggi, la speranza arriva dai risultati di uno studio che ha valutato gli effetti di un nuovo farmaco sul tumore al polmone non a piccole cellule con mutazione del gene Alk. In particolare, questo nuovo farmaco, ha fatto registrare, rispetto al trattamento alternativo, una riduzione del rischio di progressione o di morte dell’81%, con quasi due terzi dei casi, il 60%, sopravvissuti per cinque anni senza progressione della malattia.
Risultati straordinari
Per comprende a pieno il risultato senza precedenti vale la pena sottolineare che i pazienti in vita senza progressione della malattia dopo cinque anni sono il 60%, contro l’8% raggiunto in coloro trattati con le terapie standard. Si è osservata una riduzione del rischio di progressione di malattia o di morte dell’81%. Così come è ridotto il rischio di sviluppare una progressione intracranica in una percentuale che sfiora il 94%. Lo studio è stato condotto tra in 23 Paesi in tutto il mondo con un 296 pazienti maggiorenni, una parte dei quali ha ricevuto il farmaco e l’altra il placebo.
Carcinoma polmonare
Ma cos’ è il tumore al polmone avanzato non a piccole cellule, o Nsclc (non-small cell lung cancer)? È la forma più comune di carcinoma polmonare. Rappresenta l’85-90% dei casi, ma solo nel 3-5% di essi è presente la proteina di fusione Eml4-Alk. Questa rara mutazione (Nsclc avanzato Alk-positivo) colpisce soprattutto pazienti giovani, di età inferiore ai 55 anni di età, e non fumatori. Il processo tumorale è molto rapido, e circa il 25-40% può sviluppare metastasi cerebrali entro due anni dalla diagnosi iniziale.
Efficacia
Le proteine tirosin-chinasi (Tki) sono enzimi che regolano diversi processi cellulari. Alcune mutazioni possono, influenzandone l’attività, portare a leucemia e altri tipi di cancro. Filippo de Marinis, direttore divisione di Oncologia toracica all’Istituto europeo di Oncologia (Ieo) di Milano, Presidente Aiot (Associazione italiana di oncologia toracica) e membro dello Steering committee Crown spiega che la molecola ha già ricevuto pubblicazioni nel 2020 e nel 2023, e ha già dimostrato di essere molto più efficace delle terapie tradizionali.
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Tiroide, come incide sulla fertilità, ruolo dello iodio
Benessere, News, PrevenzioneLa funzionalità della tiroide influenza la fertilità, eppure questo aspetto viene spesso trascurato. L’associazione GAT, Gruppo Aiuto Tiroide, ha raccolto le evidenze scientifiche più aggiornate, dando vita a un progetto divulgativo, sostenuto dalla Fondazione CON IL SUD, con l’obiettivo di diffondere conoscenza e supportare le donne.
Tiroide e gravidanza
Questa ghiandola gioca un ruolo cruciale anche durante la gravidanza ed eventuali problemi possono complicare la gestazione. Annunziata Bellavista, presidente dell’associazione GAT, sottolinea l’importanza di focalizzarsi su questi temi. Ogni anno l’associazione svolge attività nelle scuole ed emerge ancora la necessità di informare meglio su tiroide, fertilità e gravidanza.
Medicina di genere: le alterazioni ormonali
«La fertilità femminile», chiarisce Francesco Giorgino, Ordinario di Endocrinologia Direttore U.O. complessa di Endocrinologia Policlinico di Bari, «è garantita dalla complessa interazione tra fattori ormonali, ginecologici e anatomici, che insieme assicurano la regolarità del ciclo mestruale e dell’ovulazione e la creazione di un ambiente uterino idoneo all’impianto e alla crescita dell’embrione. Alterazioni ormonali possono rompere questo equilibrio e compromettere la fertilità e il prosieguo della gravidanza. In particolare, gli ormoni tiroidei T3 e T4 sono implicati nella regolazione di numerose funzioni nell’organismo, inclusa la regolazione del ciclo mestruale e dell’ovulazione».
Gli ormoni nelle diverse fasi della vita
«Gli ormoni tiroidei», prosegue Rossella Nappi, Odinario di Ostetricia e Ginecologia Responsabile S.S.D. Ostetricia e Ginecologia 2 – PMA Ospedale San Matteo Pavia, «sono fondamentali per la donna partendo dall’adolescenza fino alla menopausa. Gli estrogeni sono in grado di modulare la funzione della ghiandola, fondamentale per la riproduzione umana. Spesso il ginecologo si trasforma nel medico di prima linea nell’intercettare le disfunzioni e, in sinergia con l’endocrinologo, le cura.
Nell’adolescenza l’uso, ad esempio, della pillola estroprogestinica può avere un impatto sulla funzionalità di questa ghiandola, poiché induce alterazioni, se pur modeste, delle quote libere degli ormoni tiroidei. Tuttavia, il periodo della vita della donna in cui una valutazione della sua funzionalità è importante è la fase pre-concezionale e peri-concezionale perché molti studi hanno dimostrato che una funzione non ottimale è responsabile di irregolarità delle mestruazioni e di problemi dell’ovulazione».
Impatto delle terapie ormonali e rischi nella gravidanza
«In senso generale – prosegue Nappi – la prescrizione di terapie ormonali siano esse contraccettive o della fertilità dovrebbe associarsi a un monitoraggio della funzione tiroidea, in particolare nelle pazienti con patologia tiroidea nota. Anche una donna con un ciclo mestruale regolare, fertile, ovulatorio, ma con una tiroide non perfettamente in squadra può riportare un maggior rischio di aborto e di fallimenti riproduttivi per meccanismi ancora in parte da chiarire».
«Un’attenzione particolare», prosegue la ginecologa, «deve essere data a gravidanze che iniziano con una funzione normale ma con un profilo di infiammazione, quindi di autoanticorpi, la cosiddetta tiroidite di Hashimoto. Questa condizione può comportare un inizio non ottimale della gravidanza con il rischio di formare una futura placenta meno efficiente. Questo può comportare non soltanto un maggiore rischio di aborto ma anche il rischio di sviluppare una vera e propria insufficienza placentare che può associarsi a ipertensione arteriosa, parto prematuro, bambino di basso peso. È per questo che la misurazione del TSH pre concepimento, degli anticorpi base, i cosiddetti TPO, è consigliata per intervenire tempestivamente in caso di gravidanza. Nei centri di fecondazione assistita, talvolta, si correggono preventivamente, con bassissime dosi di ormone tiroideo, le pazienti che si sottopongono a stimolazione ovarica sulla base di importanti studi che confermano la validità di questo intervento».
Prevenzione, il ruolo dello iodio
«Come sempre», continua Francesco Giorgino, «la prevenzione è fondamentale e questa può essere fatta attraverso l’assunzione di iodio. Un’adeguata assunzione di iodio, infatti, è fondamentale per garantire il corretto funzionamento, poiché lo iodio è un componente necessario per la sintesi degli ormoni tiroidei. Pertanto, la iodo-profilassi può influenzare la salute tiroidea e di concerto la fertilità delle donne prevenendo le disfunzioni e il miglioramento della fertilità.
Un adeguato apporto di iodio è necessario per prevenire la carenza iodica, che è tra le principali cause di disturbi, come l’ipotiroidismo e il gozzo. Il mantenimento di livelli appropriati di iodio promuove una funzione ottimale, che contribuisce a migliorare la fertilità. Ma non solo, riesce anche ridurre il rischio di complicanze durante la gravidanza. La iodo-profilassi può ridurre il rischio di complicanze derivanti dalla carenza di iodio durante la gravidanza, come l’ipotiroidismo o il ritardo mentale nel feto. Questo può contribuire a una gravidanza più sana e a una migliore salute materno-fetale e neonatale. Ed infine la iodo-profilassi può contribuire a ridurre il rischio di aborti spontanei.
Dannoso anche l’eccesso, negli uomini e nelle donne
Anche l’eccesso di iodio può essere dannoso, tanto quanto la sua carenza. Pertanto, è essenziale mantenere un equilibrio nell’assunzione di iodio e non eccedere le dosi raccomandate, specialmente durante la gravidanza e l’allattamento. Pertanto, le donne in età fertile dovrebbero consultare il proprio medico riguardo alla necessità di integrare lo iodio. Va detto che la profilassi con iodio può influenzare la salute tiroidea e la fertilità maschile in modo simile a quanto avviene nelle donne, sebbene gli effetti siano meno chiari e meno esplorati nell’uomo», continua l’esperto.
«La sorveglianza dello stato di nutrizione iodica è un’azione concreta a favore del benessere della popolazione generale e delle donne pugliesi in particolare» aggiunge Daniela Agrimi, responsabile dell’ORPG, Osservatorio regionale per la prevenzione del gozzo-Puglia, con cui il GAT ha una stretta e proficua collaborazione.
Terapie oncologiche e tossicità
«Un ultimo aspetto», conclude Francesco Giorgino, «è quello della relazione tra terapie oncologiche e tiroide. Le terapie oncologiche di ultima generazione hanno dimostrato una buona efficacia in molti tipi di tumore, tanto che il loro utilizzo è stato approvato per la terapia di diverse neoplasie (melanomi, carcinoma del polmone, del rene e neoplasie del sangue). Uno dei principali problemi legati all’uso di queste classi di farmaci è la tossicità endocrina, che si manifesta con una riduzione o un eccesso della funzionalità ormonale della ghiandola endocrina colpita. Sebbene qualsiasi ghiandola possa essere oggetto di tale tossicità, la tiroide è l’organo più frequentemente interessato (circa il 15 per cento dei casi), con un quadro clinico che spesso consiste in una ridotta produzione di ormoni, cioè nell’ipotiroidismo. Tale quadro si presenta in genere 1-3 mesi dopo l’inizio della terapia e può essere preceduto da un periodo transitorio di ipertiroidismo, dovuto al rilascio eccessivo di ormoni nel sangue da parte della tiroide colpita. Inoltre, anche ipofisi, surreni e pancreas endocrino possono essere colpiti».
La menopausa
«Infine», conclude Rossella Nappi, «c’è ancora tanto da studiare per supportare la donna nelle fasi della vita perché anche la menopausa è un momento in cui la ghiandola va in riserva. Vediamo molto ipotiroidismo di tipo sub-clinico che contribuisce allo stato di malessere della donna nel momento menopausale, quindi, correggere la funzione tiroidea e studiarla è importante anche nelle donne che non sono più fertili».
Denti, un’iniezione li farà ricrescere
Ricerca innovazione, NewsPoter far ricrescere i denti è stato a lungo un sogno di molti, presto potrebbe diventare realtà. In meno di 6 anni basterà una siringa per dire definitivamente addio a impianti e protesi. Dietro questa promessa c’è la tecnologia sviluppata da una start-up dell’università di Kyoto, la Toregem Biopharma, che sta sviluppando un farmaco anticorpale descritto come “il primo al mondo per la ricrescita dei denti”.
Al via la sperimentazione sull’uomo
Nel mese di settembre dovrebbero iniziare i test clinici sull’uomo. Fino ad oggi i test sugli animali hanno dato risultati incredibili e nessun effetto collaterale di rilievo. Un sogno che si realizza per la presidente di Toregem Biopharma Honoka Kiso legata al farmaco da un’esperienza personale che condivide sul sito dell’azienda: “Quando ero alle scuole superiori – racconta – ho perso 2 denti per una patologia dell’osso mandibolare e ho subito un intervento chirurgico. Quell’esperienza mi ha spinto a diventare dentista e quando andavo all’università mi sono sottoposta a un impianto dentale”.
Anticorpo monoclonale per nuovi denti
Il farmaco che promette questo cambiamento epocale è un anticorpo monoclonale che punta a inibire la proteina Usag-1, quella che dice al nostro corpo di non rigenerare il dente. In un articolo pubblicato su Science Advances si legge che una singola somministrazione dell’anticorpo si è rivelata sufficiente per stimolare la formazione e la crescita di un intero dente in un topo sano e di favorire la formazione di denti in topi portatori di specifiche mutazioni che causano agenesia dentale.
Nuove speranze
A questo nuovo trial si legano insomma le speranze di moltissimi pazienti che ad oggi soffrono per la mancanza di denti, costretti quindi a usare protesi o impianti. Se la sperimentazione dovesse risultare efficace e sicura, il prossimo step sarebbe quello di provare l’efficacia del farmaco su un gruppo di bambini con carenze congenite di denti, condizioni che possono causare difficoltà masticatorie e fonatorie, oltre a problemi di malocclusione. Sul lungo periodo, l’obiettivo è quello di rendere disponibile l’anticorpo per l’uso clinico entro il 2030. Non resta che aspettare e stare a vedere se in un futuro non lontano basterà un’iniezione per ritrovare il sorriso.
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Oropouche, cosa provoca il virus arrivato in Italia
News, News, One health, PrevenzioneOropouche è un virus poco conosciuto, diagnosticato di recente a Milano in pazienti provenienti dal Sud America. Il virus è presente soprattutto in Brasile e a Cuba e si trasmette all’uomo attraverso le punture di moscerini o zanzare. Finora in Italia i casi diagnosticati sono stati quattro. L’infezione provoca febbre alta, dolori articolari e muscolari, rash cutaneo.
Vettore del virus Oropouche
Il principale vettore del virus Oropouche è la zanzara Culicoides paraensis. Questa zanzara è attualmente presente solo in Sud e Centro America. In Europa non è presente e a oggi non ci sono prove di trasmissione del virus Oropouche da uomo a uomo. Tuttavia gli specialisti sottolineano l’importanza di monitorare la diffusione del virus. Nonostante non ci siano rischi nel nostro Paese, è importante non sottovalutare i sintomi e i dati epidemiologici e rivolgersi ai laboratori di riferimento.
Allarme in Sud America
In Sud America, il virus Oropouche sta allarmando scienziati ed esperti di salute pubblica. Il Brasile ha segnalato quest’anno 5530 casi. Anche Bolivia, Colombia e Perù hanno registrato un aumento. Cuba ha segnalato i suoi primi casi a maggio. Il virus potrebbe causare una grande epidemia in America Latina. La regione ha già combattuto le epidemie di Zika e chikungunya e ora affronta una delle peggiori epidemie di dengue.
Sintomi e gravi complicazioni
La maggior parte dei casi di infezione da Oropouche sono lievi. I sintomi includono mal di testa, dolori muscolari, nausea ed eruzioni cutanee. Tuttavia, il virus può causare infiammazioni cerebrali e problemi neurologici, come vertigini e letargia. Anche una lieve epidemia potrebbe sovraccaricare i sistemi sanitari del continente.
Storia e diffusione del virus
Il virus Oropouche è stato identificato per la prima volta nel 1955 a Trinidad e Tobago. Nel 1960 è apparso in un campione di sangue di un bradipo malato durante la costruzione dell’autostrada Belém-Brasilia. Da allora, ci sono stati circa 30 focolai in America Latina, soprattutto nel bacino amazzonico. Nella foresta, il virus circola tra primati, bradipi e uccelli. In contesti urbani, la trasmissione all’uomo avviene tramite la zanzara Culicoides paraensis.
Diagnosi e sintomi simili
I sintomi di Oropouche assomigliano a quelli di dengue, Zika e altre malattie. Un’infezione può essere confermata solo tramite test anticorpali. Questo rende difficile diagnosticare e quantificare con precisione i casi di Oropouche.
Deforestazione tra le cause della diffusione
La deforestazione è una causa della diffusione del virus. La distruzione degli habitat naturali spinge i vettori del virus a nutrirsi di persone invece che di animali. A Manaus, i primi casi dell’epidemia attuale sono stati rilevati vicino ad aree recentemente disboscate. Le immagini satellitari confermano il collegamento tra deforestazione e diffusione del virus.
Impatto del cambiamento climatico
Il cambiamento climatico gioca un ruolo nella diffusione del virus. Temperature più alte accelerano la maturazione dei moscerini. Piogge e inondazioni aumentano l’acqua stagnante dove gli insetti possono riprodursi. Questo crea condizioni ideali per la diffusione del virus Oropouche.
Controllare il vettore
Controllare la zanzara Culicoides paraensis è una sfida. I moscerini passano facilmente attraverso le zanzariere e i comuni repellenti per insetti potrebbero non funzionare. La mancanza di studi specifici rende difficile sviluppare strategie efficaci di controllo.
Rischio di diffusione
È difficile prevedere quanto il virus potrebbe diffondersi. Culicoides paraensis è presente dagli Stati Uniti al nord dell’Argentina, ma non tutti i luoghi hanno le condizioni giuste per la diffusione del virus. Un modello del 2023 suggerisce che fino a 5 milioni di persone nelle Americhe sono a rischio. Tuttavia, il numero potrebbe essere sottostimato. Il modello non ha previsto l’espansione della malattia nelle grandi città come Rio de Janeiro. Inoltre, non ha tenuto conto della futura deforestazione e del cambiamento climatico.
Possibili vettori alternativi ed evoluzione del virus
La zanzara domestica comune (Culex quinquefasciatus) potrebbe trasmettere il virus Oropouche. Alcuni studi suggeriscono che anche altri insetti potrebbero essere vettori del virus. Questo complica ulteriormente la previsione e il controllo della diffusione del virus.
Gli scienziati temono che il virus possa subire cambiamenti genetici. Il virus Oropouche ha tre segmenti di RNA. Quando due ceppi diversi infettano la stessa cellula, possono scambiarsi segmenti, creando nuove combinazioni genetiche. Questo potrebbe rendere il virus più pericoloso.
Sanità peggiora in 10 Regioni. Divario Nord-Sud aumenta
Benessere, Economia sanitaria, Medicina Sociale, NewsLa sanità italiana registra un peggioramento nel 2022. Lo evidenzia il Rapporto della Fondazione Gimbe. Le Regioni adempienti scendono da 14 a 13. Il divario tra Nord e Sud si amplia ulteriormente. La situazione è critica, con solo due Regioni meridionali che garantiscono i Livelli essenziali di assistenza.
Regioni bocciate
Il 2022 mostra un calo delle Regioni adempienti in tutte e tre le aree di valutazione: assistenza ospedaliera, territoriale e prevenzione. Si passa da 14 a 13 Regioni. L’Abruzzo diventa inadempiente per il punteggio insufficiente nell’area della prevenzione. Le Regioni inadempienti al Nord sono solo la Provincia Autonoma di Bolzano e la Valle d’Aosta.
Divario Nord-Sud
Il divario tra Nord e Sud è evidente. Solo Puglia e Basilicata sono tra le Regioni adempienti. Queste si trovano però in fondo alla classifica delle Regioni promosse. Ai primi posti ci sono sei Regioni del Nord e quattro del Centro. Nelle ultime posizioni ci sono quasi esclusivamente Regioni del Mezzogiorno.
Sanità delle Regioni, prevenzione insufficiente
Nel 2022 quasi la metà delle Regioni ha performance inferiori al 2021. L’area della prevenzione è la più colpita, con una perdita complessiva di 146 punti a livello nazionale. Il passaggio all’Anagrafe Vaccinale Nazionale potrebbe aver influenzato questi dati, precisa la Fondazione Gimbe.
Il monitoraggio del ministero della Salute conferma il peggioramento. La frattura tra Nord e Sud si amplia. L’Abruzzo diventa inadempiente e molte Regioni del Sud vedono ridotti i punteggi Lea. Questo avviene mentre entra in vigore la legge sull’autonomia differenziata, che non definisce i Livelli essenziali delle prestazioni in materia di salute.
Conclusioni
Il Rapporto della Fondazione Gimbe mette in luce un peggioramento della sanità in Italia. Il divario Nord-Sud aumenta. Serve un intervento deciso per migliorare la situazione, garantendo a tutti i cittadini un accesso equo ai servizi sanitari essenziali, ha spiegato il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta.
Nel cervello e nell’intestino le impronte dell’emicrania
Bambini, News, Ricerca innovazioneScoperte nuove impronte dell’emicrania nel cervello e nell’intestino di bambini e ragazzi. Due studi recenti condotti dai ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù hanno indagato struttura cerebrale e composizione del microbiota degli emicranici rivelando differenze significative rispetto ai soggetti sani. Entrambe le ricerche aprono la strada a percorsi mirati e personalizzati per la cura di questa malattia neurologica che colpisce oltre 1 bambino su 10. L’Ospedale rende noti i risultati degli studi in occasione della Giornata Mondiale del Cervello che ricorre oggi.
Emicrania: ne soffre 1 bambino su 10
L’emicrania, la forma più frequente di cefalea primaria tra i bambini e gli adolescenti, è una patologia neurologica che colpisce circa l’11% della popolazione pediatrica. È spesso dovuta a una predisposizione genetica, confermata dalla presenza di altri casi in famiglia. Può presentarsi a qualsiasi età, persino nei primi mesi di vita, anche se tra i più piccoli la malattia non si manifesta con il mal di testa ma con sintomi come vomito ciclico, dolori addominali e articolari ricorrenti, vertigini, torcicollo e mal d’auto. L’équipe del Centro per lo studio e la cura delle cefalee in età evolutiva del Bambino Gesù segue ogni anno 1.500 nuovi casi di bambini emicranici erogando circa 3.000 prestazioni tra visite ambulatoriali e day hospital.
Come la malattia trasforma il cervello
Corteccia cerebrale più sottile rispetto ai soggetti sani e modalità diverse con cui alcune aree del cervello degli emicranici “parlano” tra di loro. Sono i principali risultati dello studio in due fasi condotto da clinici e ricercatori delle unità di Neurologia dello sviluppo, Neuro-imaging funzionale e Fisica sanitaria del Bambino Gesù su 100 bambini e adolescenti affetti da emicrania e su un gruppo di controllo composto da 100 coetanei senza emicrania.
Risonanza magnetica
La ricerca, finanziata dal Ministero della Salute e dell’International Headache Society, ha portato alla scoperta di alcune differenze significative tra i due gruppi (emicranici e sani): attraverso la risonanza magnetica e la tecnica di analisi “morphometric similarity” sono state rilevate diverse modalità di connessione tra aree cerebrali, soprattutto quelle coinvolte nelle funzioni esecutive e nell’elaborazione degli stimoli del dolore e, in corrispondenza delle stesse aree, anche una riduzione dello spessore della corteccia cerebrale. Inoltre, sono state osservate differenze nella connessione cerebrale tra maschi e femmine.
Differenze di genere
«I risultati dello studio ci dicono che l’emicrania modifica la struttura del cervello in maniera progressiva fin dall’infanzia» sottolinea Massimiliano Valeriani, responsabile di Neurologia dello sviluppo del Bambino Gesù. «L’evidenza delle impronte che la malattia lascia sulla struttura e sulla connessione fra aree cerebrali indica la necessità di intercettare, e quindi curare, i pazienti emicranici fin da piccoli. Inoltre, le differenze fra maschi e femmine emerse dalla nostra ricerca suggeriscono l’adozione di piani terapeutici che tengano conto anche del genere, prospettiva che non è mai stata presa in considerazione neanche per gli adulti».
I segnali che arrivano dal secondo cervello
L’emicrania nei bambini è caratterizzata da specifiche alterazioni del microbiota, l’insieme di microrganismi presenti nell’intestino (il cosiddetto ‘secondo cervello’) che dialogano tra loro e con il sistema nervoso centrale regolando le funzioni dell’organismo. È quanto emerge dallo studio condotto dal team delle unità di Neurologia dello sviluppo e di Microbiomica del Bambino Gesù su 98 pazienti emicranici tra i 6 e i 17 anni e su un gruppo di controllo composto da 98 coetanei. La ricerca è stata finanziata dal Ministero della Salute.
Lo studio
I ricercatori hanno confrontato campioni di feci, urine e sangue dei due gruppi: attraverso l’analisi di specifici parametri sono state individuate differenze significative sia nelle componenti del microbiota intestinale che nelle loro funzioni. In particolare è emerso che il profilo del microbiota degli emicranici influenza alcuni processi metabolici, come la produzione di serotonina e triptofano, implicati nell’insorgenza del mal di testa. Inoltre, le alterazioni riscontrate sembrano concorrere alla disbiosi intestinale (squilibro causato dall’eccedenza di batteri “cattivi”) e all’aumento della permeabilità dell’intestino alimentando, così, le manifestazioni della malattia.
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Diabete 2: nel 5% forma latente a lenta progressione
Anziani, Alimentazione, PrevenzioneEsiste una forma di diabete latente e a lenta progressione dell’adulto (LADA) che in Italia interessa il 5% delle persone con diabete di tipo 2. In modo confidenziale, viene chiamato ‘diabete 1.5’.
Si tratta di un tipo di diabete autoimmune che esordisce in età adulta, in genere dopo i 30 anni. La funzione delle beta cellule del pancreas non richiede trattamento insulinico entro 6 mesi dalla diagnosi.
Diabete LADA: diagnosi più difficile
Rispetto alle persone con diabete di tipo 2 (DM2) le persone con LADA hanno una ridotta prevalenza di obesità e di sindrome metabolica. I fenotipi clinici del LADA sono diversi per livelli di auto-anticorpi, insulino-resistenza e livello di secrezione insulinica endogena.
Questa eterogeneità pone al diabetologo difficoltà sia diagnostiche che terapeutiche: “Il LADA condivide caratteristiche genetiche con entrambi i tipi di diabete” spiega la Prof.ssa Raffaella Buzzetti, Presidente Eletto della SID che ha firmato numerosi studi sull’argomento “una suscettibilità legata ai geni HLA e non solo. Come nel diabete di tipo 1 anche il LADA ha come caratteristica l’insulite ossia il processo infiammatorio che distrugge le beta cellule. Per la diagnosi si ricorre al dosaggio di uno specifico auto-anticorpo chiamato GADA (anti-decarbossilasi dell’acido glutammico), i cui livelli identificano due sottopopolazioni: a basso o ad alto titolo anticorpale”.
I pazienti con elevati livelli di auto-anticorpi GADA sono in genere normopeso, hanno un peggiore compenso glicemico, minore sindrome metabolica e progrediscono più rapidamente verso la necessità di trattamento insulinico rispetto ai soggetti con bassi livelli di GADA. Alti anticorpi come gli IA-2 (antitirosina fosfatasi) sempre diagnostici di diabete autoimmune possono essere presenti nei soggetti LADA e, a seconda del tipo, caratterizzano diversi fenotipi di LADA.
Rischio terapia inadeguata
“La maggior parte dei soggetti con LADA è inizialmente inquadrata come affetta da tipo 2” sottolinea Buzzetti“ciò espone queste persone ad una terapia spesso non adeguata alle loro caratteristiche. Oltre alla positività degli autoanticorpi che andrebbe ricercata, se non in tutti, almeno nei soggetti con T2D con familiarità e/o presenza di altre malattie autoimmuni, scompenso metabolico importante, BMI normale o lievemente aumentato, nei soggetti con LADA andrebbe dosato il C-peptide marcatore di funzionalità beta-cellulare. Sulla base dei livelli di C-peptide (da < 0,3 nmoL/L a > 0,7 nmoL/L) si potrebbe definire la terapia, insulinica o con altri farmaci, più consona ad ogni persona affetta da LADA.
Il LADA si caratterizza per una grande eterogeneità genetica, fisiopatologia e clinica, l’obiettivo terapeutico del diabetologo è quello di ottenere un buon controllo metabolico e preservare la funzione delle beta cellule al fine di prevenire le complicanze micro e macrovascolari.