Tempo di lettura: 4 minutiDiagnosi non accurate, disparità nel riconoscimento di immagini diagnostiche, maggiore rischio di reazioni avverse a farmaci o trattamenti, farmacologia di precisione sbilanciata: sono alcune delle conseguenze dell’utilizzo in medicina dell’intelligenza artificiale (IA) sulla salute di genere. A metterle in luce è la Fondazione Onda ETS con un appello intersocietario firmato dal Centro di riferimento per la Medicina di genere dell’ISS -Istituto Superiore di Sanità, dal Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere, dal GISeG -Gruppo Italiano Salute e Genere e dalla SIT – Società Italiana per la Salute Digitale e la Telemedicina.
Intelligenza artificiale: opportunità e rischi
L’applicazione dell’IA nella biomedicina e l’assistenza sanitaria offre opportunità senza precedenti, migliorando la prevenzione, la diagnosi e il trattamento delle malattie. Tuttavia, l’uso di queste tecnologie solleva preoccupazioni sulle disuguaglianze legate al sesso e al genere, che rischiano di diventare sistematicamente radicate negli algoritmi stessi dell’IA.
Medici ancora poco consapevoli delle potenzialità, la ricerca
Il tema è stato di recente al centro dell’VIII Congresso di Fondazione Onda ETS. Secondo una ricerca condotta da Elma Research su 433 medici la conoscenza dell’IA in campo medico si sta gradualmente facendo strada, rimanendo tuttavia ancora a livello superficiale, tanto che viene collegata soprattutto al supporto alla diagnosi (48 per cento) nonostante le molte altre possibilità di utilizzo, come il supporto alla decisione terapeutica e alla ricerca clinica, allo sviluppo di device e alla chirurgia robotica. Allo stesso modo, emerge un forte senso di incertezza per più della metà dei medici (52 per cento), soprattutto in merito a trasparenza, sicurezza e utilizzo etico dei dati, e la necessità di disporre di uno strumento di qualità, che sia certificato e che rassicuri in termini di privacy e sicurezza dei dati. Dall’indagine emerge, dunque, come ci sia ancora molta strada da fare per informare e rendere i medici consapevoli delle importanti applicazioni tecniche dell’IA nel loro ambito.
Merzagora: fondamentale regolamentare intelligenza artificiale
Regolamentare l’utilizzo di questo strumento tanto utile quanto rischioso è fondamentale, come ricorda Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda ETS: «L’intelligenza artificiale sta sempre più prendendo piede in diverse aree della nostra vita, diventando protagonista indiscussa del discorso sull’innovazione tecnologica nella maggior parte dei settori, tra cui anche la medicina. Se da un lato è innegabile che l’utilizzo dell’IA possa dare una spinta non indifferente al settore della ricerca, dall’altro è necessario che vengano posti dei paletti. Infatti, il suo utilizzo in ambito medico può essere associato a disuguaglianze di genere, scatenando a loro volta conseguenze sul piano sociale e della salute stessa delle persone coinvolte, in primis le donne. Il rischio è che parte della popolazione riceva cure meno efficaci o subire ritardi diagnostici, con un conseguente peggioramento delle condizioni mediche e, in alcuni casi, un aumento della mortalità. Attraverso questo appello, vogliamo promuovere un approccio di genere nella progettazione e applicazione dell’Intelligenza artificiale a garanzia di equità e pari opportunità nella salute».
Ortona: necessità di superare i bias di genere
Dello stesso parere anche Elena Ortona, Direttrice del Centro di Riferimento per la Medicina di Genere, Istituto Superiore di Sanità: «La considerazione dei determinanti di sesso e genere nella salute è una necessità di metodo e analisi che deve diventare anche strumento di programmazione sanitaria. Con l’avvento delle nuove tecnologiche che si basano sull’intelligenza artificiale si è resa subito evidente una nuova sfida per la ricerca scientifica: la necessità di superare i bias di genere. Infatti, nonostante l’efficacia ed i benefici di queste tecnologie nell’aumentare l’efficienza dell’assistenza sanitaria, comincia ad essere chiara la scarsa rappresentatività femminile nei database su cui si costruiscono gli algoritmi alla base dei sistemi di machine learning».
Dati inclusivi
In tal senso, si rivela necessario incorporare nei modelli dell’IA dati sempre più inclusivi che tengano conto delle differenze biologiche di genere al fine di addestrare l’intelligenza artificiale con dati equilibrati e realistici: «Oggi il concetto di Medicina di genere è notevolmente evoluto ed è passato dalla considerazione dei parametri biologici (sesso, età etnia, comorbilità, reazioni a farmaci) alla valutazione, sicuramente più complessa, di indicatori di contesto quali condizioni sociali, economiche, culturali, religiose, ambientali e delle relative fonti di informazione. La definizione di corretti indicatori di genere ed un’attenta valutazione di essi nella pratica clinica, è fondamentale per la costruzione di un percorso assistenziale condiviso fra medico, operatori sanitari e paziente e per la programmazione di linee di indirizzo di tipo normativo e di governance, utili per il miglioramento della qualità dell’assistenza», aggiunge Anna Maria Moretti, Presidente Nazionale GISeG, Gruppo italiano salute e genere e Presidente Internazionale IGM, International Gender Medicine.
«Nell’era della medicina di precisione siamo di fronte ad un baratro. L’IA che attendiamo come la soluzione di molti problemi scientifici e clinici in medicina, si basa su database in cui non sono inserite le donne! Questo peggiorerà l’ignoranza della necessità assoluta di una medicina genere-specifica. La ricerca di base e clinica è incentrata su casistiche maschili, la farmacologia si è sviluppata su animali da esperimento maschi ed i farmaci sono stati sperimentati su uomini. Dobbiamo assolutamente lanciare un allarme affinché le conoscenze sulle differenze di genere in medicina ed in farmacologia non siano annullate da dati provenienti da un’IA che non le considera», sottolinea Giovannella Baggio, Presidente Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere -Professore Ordinario, Studioso Senior, Università di Padova e Scientific Editor del Journal of Sex and Gender-specific Medicine.
Approccio gender-based e aistemi per correggere bias
Tuttavia, la sola raccolta di dati più inclusivi e più completi non è sufficiente al fine di garantire un approccio gender-based nella progettazione e nell’utilizzo dell’IA in medicina: questa deve essere accompagnata da rigidi controlli di qualità, come revisioni periodiche per identificare e correggere eventuali bias di genere.
«L’adozione dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario rappresenta una straordinaria opportunità per migliorare diagnosi, trattamenti e prevenzione delle malattie. Tuttavia, se non affrontiamo le disuguaglianze di sesso e genere presenti nei dati utilizzati per addestrare questi algoritmi, rischiamo di amplificare pregiudizi storici che hanno penalizzato le donne per decenni. Le disuguaglianze di sesso e genere nella sanità digitale rappresentano una sfida urgente da affrontare. È imperativo che la progettazione e l’implementazione dell’IA riflettano equamente la diversità tra uomini e donne e maschi e femmine. Solo così potremo garantire un’assistenza sanitaria più precisa, personalizzata ed equa, evitando diagnosi errate o ritardate e migliorando la diagnosi e il trattamento per tutte le persone, indipendentemente dal loro sesso o genere», conclude Maria Grazia Modena, Centro P.A.S.C.I.A., Programma Assistenziale Scompenso Cardiaco, cardiopatie dell’Infanzia e a rischio, AOU Policlinico di Modena, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Diabete 2: all’origine tessuto adiposo ‘disfunzionale’, anche in soggetti normopeso
Alimentazione, Anziani, Benessere, NewsL’insulina resistenza nel diabete 2 non sarebbe un difetto primario, ma sarebbe dovuta all’aumento della massa grassa, tanto da proporre la definizione di ‘diabete basato sull’adiposità. Se n’è discusso di recente al 30º Congresso Nazionale di Diabetologia.
Dovremmo quindi parlare di ‘diabete grasso’? “Credo che sia tempo che si passi ad utilizzare una classificazione patogenetica piuttosto che continuare ad utilizzare l’indeterminatezza di un numero (tipo 2). In inglese certamente utilizzerei la definizione che dà il titolo Adiposity-Based Diabetes, in italiano potremmo utilizzare il termine di diabete adiposo o diabete lipotossico. Certo è che le prove a favore di un’origine legata alla incapacità di immagazzinare appropriatamente l’eccesso calorico sono davvero soverchianti” spiega il Prof. Paolo Sbraccia Direttore della UOC di Medicina Interna e Centro Obesità, Policlinico Tor Vergata e creator del simposio.
“Uno dei punti si svolta si è avuto nel 1977 quando Rosalyn Sussman Yalow ha dimostrato che nel diabete di tipo 2 l’insulina era inefficace e non carente, scoperta che le é valso il premio Nobel” prosegue Sbraccia “successivamente la corsa per scoprire i meccanismi alla base della resistenza ha lasciato indietro lo studio del tessuto adiposo. Lo avevano intuito anche Ippocrate e Morgagni, salvo poi cambiare direzione verso altre ipotesi. Ci riprovò nel 1947 Jean Vague nel 1947 che associò il fenotipo androide dell’obesità con lo sviluppo del diabete (ma anche con l’aterosclerosi e la gotta). Per tornare a parlare di grasso solo nel 1992, anno della scoperta della leptina, l’ormone responsabile del senso di sazietà e dell’aumento del dispendio energetico.
La Sindrome X e le altre teorie
Gerald Reaven dimostrò che il 25% degli individui sani presenta un livello di assorbimento del glucosio, determinato dalla secrezione di insulina, sovrapponibile a quello delle persone con diabete di tipo 2 e che quindi un certo di grado di resistenza sia comune anche nella popolazione normale (ma con il rischio di sviluppare la malattia). L’intuizione proposta fu che la resistenza all’insulina precede la malattia e non il contrario. All’esatto opposto, la presenza di obesità e in particolare della circonferenza della vita, pone a favore dello sviluppo di Sindrome metabolica (o Sindrome X): la resistenza all’insulina secondo questa tesi sarebbe secondaria all’aumento della massa grassa.
Si deve attendere il 1987 quando De Fonzo parla di ‘triumvirato’: la resistenza all’insulina a livello dei muscoli del fegato più l’insufficienza delle cellule beta sarebbero i fattori responsabili della malattia. Una triade a cui si sono aggiunti negli anni altri 5 elementi: l’ipofisi accelerata, la resistenza alle incretine nel tag del tratto gastrointestinale, l’eccesso di cellule Alfa, l’aumento del riassorbimento del glucosio a livello renale e la resistenza all’insulina a livello cerebrale.
A risolvere l’enigma è intervenuta la genetica che ha individuato non solo loci associati a fenotipi di resistenza all’insulina ma anche 53 geni associati ad una capacità limitata di immagazzinare il grasso in modo sano, rinforzando la tesi dell’insulino resistenza come un segno secondario di un tessuto adiposo disfunzionale. Anche lo studio Epic ha permesso di dimostrare che i fattori modificabili come l’obesità superavano il rischio genetico nel conferire il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 con un impatto più elevato.
La chirurgia bariatrica
I chirurghi osservarono che poche settimane dopo l’intervento di chirurgia bariatrica e molto prima della perdita di peso si verificava un fenomeno che curava la malattia, ulteriori osservazioni hanno permesso di capire che durante le prime settimane dopo l’intervento si determinava una notevole diminuzione dell’apporto calorico con cambiamenti metabolici che determinavano una inversione dell’insulina resistenza. “Un tema cruciale per la comprensione e la gestione del diabete di tipo 2 è il ruolo centrale del tessuto adiposo. Le evidenze presentate confermano quanto sia fondamentale ripensare il diabete non solo come una malattia del metabolismo del glucosio, ma come un disturbo profondamente legato alla disfunzione del tessuto adiposo. Questo concetto supera la tradizionale dicotomia tra soggetti magri e obesi, dimostrando come anche individui normopeso possano essere a rischio se presentano un’eccessiva quantità di grasso viscerale” ha dichiarato il Professor Angelo Avogaro, Presidente SID che aggiunge: “Queste nuove conoscenze ci spingono a rivalutare le nostre strategie terapeutiche. Se in passato l’attenzione era focalizzata principalmente sulla riduzione dei livelli di glucosio nel sangue, oggi sappiamo che è altrettanto importante agire sulle cause alla radice della malattia, ovvero sulla disfunzione del tessuto adiposo”.
Il ruolo della distribuzione del grasso
L’aumento di tessuto adiposo non si verifica in maniera uniforme in tutti i soggetti. Esistono quindi soggetti normopeso ma ‘metabolicamente obesi’ e individui obesi ‘metabolicamente sani’. I primi vedono un BMI inferiore a 25 ma una percentuale di grasso corporeo aumentata e un aumento della circonferenza della vita con depositi di grasso viscerale che li rende maggiormente suscettibili allo sviluppo di diabete di tipo 2. Non a caso l’obesità è associata ad un aumento della secrezione di insulina anche in assenza di insulino-resistenza. Queste nuove evidenze rafforzano il concetto del buon controllo dell’eccesso di grasso attraverso uno stile di vita sano in prevenzione e attraverso l’utilizzo dei nuovi farmaci, sempre più efficaci, per il controllo del peso nel trattamento.
Farmaci, pazienti sempre più coinvolti negli studi con il nuovo regolamento Aifa
Associazioni pazienti, Benessere, Economia sanitaria, Eventi d'interesse, Farmaceutica, Medicina Sociale, News, News, Nuove tendenze, Prevenzione, Ricerca innovazioneIn Italia, il ruolo dei pazienti nel percorso terapeutico sta evolvendo. Oggi non sono più solo destinatari passivi di cure, ma attori attivi nel processo di regolamentazione che guida l’approvazione e la distribuzione dei farmaci. Questo cambiamento è alla base del progetto InPAGs (Patient Advisory Groups), promosso da Rarelab, che ha coordinato un gruppo di lavoro formato da 54 associazioni di pazienti, con l’obiettivo di migliorare le modalità di partecipazione delle persone nelle decisioni che riguardano la loro salute. L’iniziativa, accolta positivamente dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), punta a definire criteri precisi per favorire il contributo delle associazioni alle decisioni sui farmaci, garantendo che il punto di vista del paziente venga ascoltato e preso in considerazione.
Le linee guida del progetto sono state presentate a Roma, segnando un passo avanti nel coinvolgimento dei pazienti nelle scelte terapeutiche. Rarelab, l’organizzazione che ha guidato questo progetto, ha messo al centro le competenze specifiche dei pazienti, coinvolgendo numerose associazioni di rappresentanza delle persone con patologie rare, croniche e oncologiche.
Il regolamento aifa e le nuove modalità di partecipazione dei pazienti
Il nuovo Regolamento Aifa, approvato nell’aprile 2024, sancisce un’importante apertura verso le associazioni di pazienti, prevedendo la loro convocazione per ascoltarne le posizioni su temi di interesse. L’articolo 11 del regolamento stabilisce che la Commissione Scientifica ed Economica del Farmaco ha il diritto di convocare in audizione le associazioni più rappresentative, per raccogliere informazioni utili ai processi decisionali. In base a questo articolo, le posizioni delle associazioni hanno valore informativo e i rappresentanti sono obbligati a dichiarare pubblicamente eventuali conflitti di interesse.
Questo cambiamento è il risultato di un percorso che ha visto l’impegno di numerose associazioni, che hanno chiesto regole chiare per garantire una partecipazione efficace e trasparente. Un impegno, questo, sostenuto dallo stesso Francesco Macchia, managing director di Rarelab, che ha sottolineato come il progetto InPAGs rappresenti “un’opportunità di essere ascoltati, non solo per esprimere un’opinione, ma per contribuire in modo sostanziale alle scelte terapeutiche”.
Cinque proposte per una partecipazione efficace
Le associazioni di pazienti, attraverso il progetto InPAGs, hanno avanzato cinque proposte per definire criteri chiari di partecipazione. Tali proposte puntano a garantire che la voce dei pazienti sia inclusiva e rappresentativa di tutti i gruppi di persone con patologie.
Ecco i punti principali:
Le associazioni ritengono che questi principi possano rendere la partecipazione efficace e rispettosa dei diritti delle persone. Macchia ha confermato che “Aifa ha dimostrato volontà di attuare questo cambio di paradigma, già adottato in Europa, per far sì che il paziente diventi un interlocutore attivo nelle scelte sanitarie”.
Il valore dell’esperienza dei pazienti nelle decisioni terapeutiche
L’importanza di coinvolgere i pazienti nelle decisioni terapeutiche non è solo un tema italiano. Negli ultimi anni, anche l’Agenzia Europea per i Medicinali (Ema) ha potenziato il ruolo delle associazioni di pazienti nelle procedure di valutazione dei farmaci, riconoscendo il valore della loro esperienza diretta della malattia. Secondo Silvia Tonolo, presidente di ANMAR (Associazione Nazionale Malati Reumatici ODV), la presenza dei pazienti nei processi decisionali è fondamentale per trasferire alle istituzioni una visione chiara dell’impatto delle malattie sulla vita quotidiana e del valore di determinate scelte terapeutiche.
In Italia, questo modello partecipativo è considerato un passo avanti per rendere le scelte terapeutiche più condivise e comprensibili da parte dei pazienti stessi. La loro partecipazione porta vantaggi a tutto il sistema, come ha sottolineato Tonolo, perché le decisioni sono più consapevoli e rispecchiano le reali esigenze delle persone.
Lo scenario europeo: il coinvolgimento dei pazienti a livello regolatorio
In Europa, il coinvolgimento dei pazienti nelle decisioni sanitarie è in crescita, anche se con modalità variabili tra i diversi Paesi. Secondo Ilaria Galetti, vicepresidente del Gruppo Italiano per la Lotta alla Sclerodermia (GILS), alcuni Stati come Francia, Germania e Regno Unito hanno adottato politiche più inclusive, in cui il loro parere dei pazienti è considerato un elemento chiave per l’efficienza del sistema sanitario. Tuttavia, in altri Paesi, il loro coinvolgimento è limitato a consultazioni formali su documenti specifici. Galetti ha affermato che “con il nuovo Regolamento europeo sull’HTA (Health Technology Assessment) sarà possibile un’armonizzazione che potrebbe dare maggiore spazio al coinvolgimento dei pazienti anche nelle decisioni sulla rimborsabilità dei farmaci. L’obiettivo, dunque, è creare una rete di partecipazione che assicuri a tutti i pazienti europei di avere una voce nelle scelte che riguardano il loro stato di salute.
Presa Weekly 2 Novembre 2024
PreSa WeeklyPsoriasi colpisce oltre 2 milioni di italiani: mozione per inserirla nel Piano Nazionale delle Cronicità
Associazioni pazienti, Economia sanitaria, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneLa psoriasi a volte viene descritta come un semplice disturbo o un problema di carattere estetico. Eppure è una malattia complessa, dal forte impatto invalidante. Ad aggravarne il peso sono le molteplici co-morbilità e disturbi, tra cui artriti, malattie metaboliche e cardiovascolari, depressione, ansia e stress.
Lo scorso 29 ottobre, durante la Giornata Mondiale della Psoriasi, è stata annunciata in Senato la mozione per l’inserimento della patologia nel Piano Nazionale delle Cronicità. Il provvedimento, a prima firma della Sen. Daniela Sbrollini Vice- Presidente della Commissione Affari sociali e Co-Presidente, con il Sen. Renato Ancorotti, dell’Intergruppo parlamentare Malattie Dermatologiche e salute della pelle fa seguito alle anticipazioni dello scorso 22 ottobre nel corso dell’evento – dall’Italian Health Policy Brief – al Senato.
Durante l’incontro, politica, comunità scientifica e pazienti si sono confrontanti sulle carenze assistenziali che caratterizzano ancora la psoriasi. “Si tratta di una prima doverosa risposta della politica rispetto alle giuste istanze degli oltre 2 milioni di pazienti nel nostro paese combattono con questa patologia – ha dichiarato la Sen, Sbrollini al momento dell’annuncio – giustificata dal suo peso epidemiologico, dal suo impatto invalidante e dalle complessità che ne caratterizzano la diagnosi e l’accesso alle cure”.
La psoriasi
Sono oltre due milioni i pazienti italiani colpiti dalla psoriasi. Si tratta di patologia complessa che impatta sulla qualità della vita. Spesso si presenta con molte co-morbilità tra le quali l’artrite psoriasica.
“Il peso epidemiologico della psoriasi, il suo impatto invalidante, le complessità che ne caratterizzano la diagnosi e l’accesso alle cure, oltre al suo peso sul piano dei costi sanitari e sociali, giustificano ampiamente l’inserimento di questa patologia, nelle sue diverse forme e manifestazioni, nel Piano Nazionale delle Conicità – ha dichiarato la Sen. Daniela Sbrollini, con il Sen. Renato Ancorotti, co-presiede l’Intergruppo Parlamentare – confermando l’impegno per il rafforzamento del quadro assistenziale e il superamento delle difformità territoriali nell’assistenza .
Il Prof. Marco Ardigò, Ordinario di Dermatologia presso l’Humanitas University di Milano e coordinatore del comitato tecnico-scientifico dell’intergruppo, nel suo intervento, ha sottolineato: “le società scientifiche lavorano in stretta collaborazione con le associazioni dei pazienti al fine di approfondire le conoscenze sulla patologia psoriasica e l’impatto che questa condizione ha sulla salute e qualità della vita – ha dichiarato il clinico – l’obiettivo è di mettere a disposizione delle istituzioni mezzi adeguati per la definizione di strategie volte ad incrementare la qualità dell’assistenza e favorire l’accesso alle cure, cercando di soddisfare le richieste dei pazienti ad oggi ancora irrisolte”.
Psoriasi, ostacoli e disparità nell’assistenza
Una convergenza di ostacoli e problemi, quelli che caratterizzano la psoriasi, che condizionano la quotidianità dei pazienti e che deve trovare risposte non solo nel riconoscimento della cronicità della patologia ma anche nell’implementazione di percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali, nella rimborsabilità dei trattamenti sistemici e innovativi, nell’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, nella multidisciplinarietà assistenziale in appositi centri specialistici di riferimento, oltre che in un protettivo sistema di informazione e vigilanza che – lo raccomandano a gran voce le associazioni dei pazienti – ponga i pazienti stessi al riparo da speculazioni o da prestazioni supposte essere di natura sanitaria ma, in realtà, solo inappropriate quando non basate su studi scientifici solidi.
Complessità, quindi, sia dal punto di vista clinico-assistenziale che da quello dei pazienti che, con le loro associazioni si battono affinché la dignità della patologia sia riconosciuta nei fatti: “non solo con l’indispensabile inserimento nel Piano Nazionale delle Cronicità – ha dichiarato Valeria Corazza, Presidente di APIAFCO – che consentirebbe ai pazienti accessibilità all’assistenza e presa in carico con un approccio terapeutico di tipo multidisciplinare, ma anche con l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza – i LEA – affinché non solo le forme più aggressive di psoriasi possano beneficiare dei trattamenti gratuiti ma anche le forme più diffuse: basti pensare che oggi solo il 4 per cento dei pazienti affetti da psoriasi ha diritto ad accedere ad agevolazioni economiche”.
Il fattore economico è un altro elemento che caratterizza le complessità della patologia: “le nostre richieste troppo spesso si infrangono sulla barriera della sindrome della coperta corta e dei vincoli di bilancio – ha affermato Valter Meloni, Vicepresidente ADIPSO – ma noi pazienti rivendichiamo che la sanità non si fa né con l’algebra né con la matematica ma con le prestazioni sanitarie e con i farmaci. Questo va ancor più tenuto presente se si considera l’approccio multidisciplinare che la psoriasi quasi sempre impone dal punto di vista assistenziale”.
La necessità di garantire adeguate risorse economiche per garantire tempestività ed equità di accesso alle cure è ovviamente una priorità anche per la comunità medico-scientifica: “è fondamentale disporre di risorse adeguate a garantire in modo equo a tutti i pazienti i trattamenti più innovativi e, soprattutto, in una fase precoce della malattia, quella che noi definiamo la finestra temporale ideale – ha sottolineato il Prof. Paolo Gisondi, Professore Associato di Dermatologia dell’Università di Verona e membro del direttivo SIDeMaST – una condizione, quella della tempestività delle cure, che può alleggerire il peso della malattia sul paziente, bloccarne la progressione e, potenzialmente, prevenire l’insorgenza di altre co-morbilità, inclusa l’artrite psoriasica, le comorbidità cardiometaboliche e l’impatto cumulativo sulla qualità della vita”.
Fiocco azzurro al Meyer
Bambini, GenitorialitàUn fiocco azzurro ha colorato una delle sale operatorie del Meyer. L’ospedale pediatrico toscano è infatti tornato ad accogliere la nascita di un bambino, affetto in questo caso da un’ernia diaframmatica, una rara e grave malformazione congenita che colpisce un neonato ogni 3000. Il Meyer ha infatti ospitato un’equipe anestesiologica e ostetrica dell’ospedale di San Giovanni di Dio: sono stati loro ad assistere la mamma durante il parto eseguendo un cesareo programmato. Subito dopo il piccolo è stato affidato alle cure dei specialisti dell’AOU Meyer Irccs per “correggere” la malformazione, mentre la mamma rientrerà a Torregalli nel pomeriggio.
Intervento immediato
Evidenze scientifiche e studi internazionali hanno infatti dimostrato che la rapidità dell’intervento chirurgico incide in modo determinante sulle possibilità di sopravvivenza del bambino: poter intervenire chirurgicamente subito dopo la nascita risulta quindi più sicuro del trasferimento del neonato presso l’ospedale pediatrico mediante il trasporto neonatale, anche se questo avviene in condizioni ottimali. Si tratta quindi di un cosiddetto “trasporto in utero”. Di qui la scelta di trasformare una delle sale operatorie del Meyer in una sala parto, rispondente a tutti gli standard necessari per garantire la sicurezza della mamma e del piccolo.
Che cosa è l’ernia diaframmatica
L’ernia diaframmatica è una protrusione degli organi contenuti in addome nel torace provocata da una malformazione del diaframma. Questa fuoriuscita può portare a una compressione dei polmoni che impedisce al piccolo di respirare in modo corretto e, nei casi più gravi, può comprometterne la sopravvivenza. L’evento, considerata la sua eccezionalità, è stato accuratamente preparato dalle direzioni sanitarie dell’AOU Meyer e della Asl Toscana Centro. L’equipe anestesiologica e ostetrica dell’ospedale San Giovanni di Dio ha effettuato due sopralluoghi presso le sale operatorie del pediatrico fiorentino. Ne è seguito un confronto multidisciplinare tra le equipe coinvolte per delineare un percorso condiviso e mettere a punto le procedure in grado di fronteggiare tutti i possibili imprevisti.
Lieto fine
Stamani la mamma ha lasciato il San Giovanni di Dio grazie ad un’ambulanza con medico a bordo ed è stata accolta nella recovery-room del Meyer per la preparazione all’intervento. A effettuare il parto cesareo, come detto, sono stati i medici e il personale ostetrico di Torregalli, che hanno avuto a disposizione tutta la loro strumentazione. Poi il piccolo è stato affidato alle cure del Meyer per l’intervento e la successiva degenza presso la Terapia intensiva neonatale, specializzata nei casi più complessi.
Dal punto di vista amministrativo, il neonato verrà registrato al punto Nascita San Giovanni di Dio e verrà fornito un numero progressivo del parto, come previsto in altre situazioni in cui il parto avviene al di fuori dell’ospedale. La mamma, invece, tornerà in giornata al San Giovanni di Dio per tutte le cure del caso. La madre potrà vedere già il suo piccolo alla fine dell’intervento del cesareo, prima di rientrare a Torregalli. Sarà di nuovo al Meyer appena possibile per riabbracciare e assistere definitivamente il suo bambino.
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Fibromialgia, il dolore muscolo scheletrico che colpisce circa 2 milioni di italiani. Aisf: subito inserimento nei Lea
Associazioni pazienti, Eventi d'interesse, NewsAlzarsi la mattina dal letto o tenere in braccio il proprio figlio sono semplici azioni di vita quotidiana che per un paziente affetto da fibromialgia possono risultare dolorose, se non addirittura impossibili da compiere. La patologia si presenta con dolore muscolo scheletrico, disturbi del sonno, fatica e molti altri sintomi concomitanti. Colpisce il 2-3% della popolazione italiana, sebbene il dato sia sottostimato a causa della difficoltà nella diagnosi.
Alla sintomatologia varia e invalidante si aggiungono, le difformità di trattamento tra le Regioni, la mancanza di centri multidisciplinari e approvazioni farmacologiche e la scarsa sensibilizzazione, anche fra gli stassi operatori sanitari. Per il riconoscimento della fibromialgia come malattia invalidante, l’inserimento nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e l’istituzione di un Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (Pdta) nazionale, l’Associazione Italiana Sindrome Fibromialgica Odv (AISF) chiede di riprendere il percorso iniziato nelle sedi istituzionali attraverso una conferenza stampa in Senato, su iniziativa del Senatore Pietro Patton, a cui hanno preso parte rappresentanti politici e specialisti sanitari.
Inserire la fibromialgia nei LEA
In particolare, l’Aisf auspica che proseguano i lavori in Commissione Affari Sociali del Senato affinché venga presto approvato un Testo unico che riconosca la malattia quale invalidante e che sia inserita nei Lea, tutelando i diritti e i bisogni dei pazienti.
“Non c’è più un minuto da perdere”, dice il senatore Pietro Patton del Gruppo per le Autonomie. “Numerose proposte di legge giacciono da troppo tempo in entrambi i rami del Parlamento. C’è una sensibilità diffusa e politicamente trasversale che il Governo è chiamato ad ascoltare e accogliere, riconoscendo la fibriomalagia e inserendola nei LEA. Ne va del diritto costituzionale alle cure e alla salute di due milioni di persone”.
“L’Aisf Odv nasce nel 2005 con l’obiettivo di schierarsi con i pazienti affetti da fibromialgia considerati invisibili e non degni di attenzione da parte del Servizio sanitario nazionale. Per fare questo abbiamo fatto conoscere la patologia al personale sanitario e alla classe politica. La malattia presenta forti ripercussioni sulla qualità di vita del paziente, sia sul piano professionale che su quello personale. Dopo quasi venti anni, speriamo di essere arrivati al momento in cui lo Stato e la classe politica riconoscano la malattia perché la mancata risposta a più di due milioni di malati è insostenibile”, afferma il Presidente dell’Aisf, Piercarlo Sarzi Puttini.
Le linee guida sulla malattia per i clinici
Le linee guida sulla malattia sono già una realtà, uno strumento utile per i clinici al fine di garantire la corretta diagnosi. “L’impegno della Sir nell’ultimo periodo ha portato allo sviluppo del primo registro nazionale per la fibromialgia”. In Italia sono circa 2 milioni le persone affette da fibromialgia. La patologia occupa, per frequenza, il 2°-3° posto tra le malattie reumatiche e rappresenta il 12-20% delle diagnosi formulate in ambito ambulatoriale. Quello sulla fibromialgia rappresenta uno dei primi registri relativo alle malattie da dolore cronico in Europa.
“Il registro Italiano per la fibromialgia è un progetto strategico, che consente una raccolta osservazionale e prospettica dei dati clinici e clinimetrici dei pazienti fibromialgici sul territorio nazionale. Questi dati consentono una corretta stratificazione dei pazienti (misurare il grado di severità ad esempio) in base ai criteri del registro Sir. La prevenzione e la diagnosi precoce di questa patologia permettono di migliorare in primis la qualità di vita e la gestione dei pazienti ma anche di ridurre i costi legati alla patologia stessa. Sir si impegna costantemente nella definizione delle necessità dei pazienti reumatologici anche mediante la strutturazione di Percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali, come il Pdta della fibromialgia. Uno degli scopi di Sir è portare all’implementazione della rete reumatologica sul territorio, al fine di migliorare la presa in carico dei pazienti e ampliare la comunicazione ospedale territorio”, spiega Maria Sole Chimenti, docente associato, reumatologa della Fondazione Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma e delegata della Società Italiana di Reumatologia (SIR).
Per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, inoltre, subito dopo la conferenza, l’Associazione ha organizzato una manifestazione pubblica, in piazza Vidoni, a pochi passi dal Senato, alla quale hanno aderito numerose organizzazioni e associazioni, fra le quali Sir, Crei, Aifi, Csv Lazio, Csv Belluno Treviso, Aiif, Fidapa, Terme di Levico, Anapp, Simg, Fnopi, Kiwanis Firenze, Comune di Bagheria, The Bridge, Provincia Di Belluno, Cittadinanzattiva, Helaglobe, Cisl, Aisd, Associazione Lago di Bracciano, Cfu, Ass. Libellula Libera, Alomar, Romacammina, Anmar, Apmar, Associazione Tutela Pazienti Cannabis Medica, Movimento Difesa Cittadino, Amarec e Aapra Odv-Ets. Durante la manifestazione, è stato annunciato l’inizio dello sciopero della fame e della sete che i volontari dell’Aisf e tutti coloro che aderiscono alla causa realizzeranno con modalità a staffetta per non mettere a rischio la salute dei pazienti. L’azione di protesta verrà continuata nelle intenzioni dei promotori fino a quando da parte delle istituzioni non ci sarà una risposta.
Antibiotico resistenza: 600mila morti l’anno evitabili con i vaccini
Benessere, Economia sanitaria, Farmaceutica, News, News, One health, Prevenzione, Ricerca innovazioneL’abuso di antibiotici ha reso alcuni batteri capaci di resistere ai trattamenti, trasformandoli in minacce sempre più difficili da combattere. Tra questi ci sono Klebsiella pneumoniae, Escherichia coli e Staphylococcus aureus, responsabili di migliaia di decessi ogni anno. Un recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che una diffusione più ampia dei vaccini potrebbe ridurre l’uso di antibiotici di miliardi di dosi, salvando ogni anno fino a 600mila vite.
L’antibiotico resistenza
Il fenomeno della resistenza agli antibiotici è una delle maggiori minacce sanitarie globali, con conseguenze sempre più drammatiche. Il Global Research on Antimicrobial Resistance (GRAM) Project, pubblicato su The Lancet, ha recentemente stimato che, se non si interviene, nei prossimi 25 anni oltre 39 milioni di persone potrebbero perdere la vita a causa di infezioni resistenti agli antibiotici. Tuttavia, secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), c’è una soluzione praticabile: i vaccini.
I dati OMS indicano che un uso più ampio e mirato dei vaccini contro 24 patogeni specifici potrebbe ridurre del 22% il consumo di antibiotici a livello mondiale, risparmiando fino a 2,5 miliardi di dosi di antibiotici all’anno. Molti dei vaccini proposti sono già disponibili, ma risultano sottoutilizzati; altri sono in fase di sviluppo e potrebbero presto essere introdotti per combattere le infezioni da batteri resistenti ai farmaci.
Come nascono i super batteri
Quando i batteri, i virus, i funghi e i parassiti non rispondono più agli antibiotici, le infezioni diventano più difficili e costose da curare. L’uso improprio e spesso eccessivo di antibiotici è una delle cause principali di questo fenomeno. Ogni anno, circa 5 milioni di persone muoiono a causa di infezioni resistenti ai farmaci.
I vaccini possono prevenire le infezioni, riducendo la necessità di ricorrere agli antibiotici, limitando così l’insorgenza e la diffusione della resistenza. Vaccini come quelli contro la polmonite da pneumococco, l’Haemophilus influenzae di tipo B e il tifo potrebbero prevenire fino a 106.000 decessi ogni anno. Con lo sviluppo di nuovi vaccini contro la tubercolosi (TB) e la Klebsiella pneumoniae, potrebbero essere evitati ulteriori 543.000 decessi all’anno.
Il rapporto Oms e i 24 patogeni critici
Il rapporto dell’OMS, “Stima dell’impatto dei vaccini nella riduzione dell’antibiotico resistenza e dell’uso di antibiotici”, analizza il ruolo di 44 vaccini mirati a 24 patogeni: 19 batteri, quattro virus e un parassita. Tra questi si trovano infezioni che causano sindromi diverse e colpiscono fasce d’età differenti. Tra i patogeni più significativi vi sono l’Acinetobacter baumannii, il Campylobacter jejuni, l’Escherichia coli, lo Staphylococcus aureus, lo Streptococcus pneumoniae, il virus respiratorio sinciziale e altri. Alcuni di questi sono causa di infezioni che variano per severità e diffusione, come la malaria e la tubercolosi.
Prevenzione: l’appello dell’oms
Il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato che la prevenzione è l’arma più efficace contro l’antibiotico resistenza e che i vaccini rappresentano uno strumento fondamentale. “Prevenire è meglio che curare” è il concetto chiave: i vaccini esistenti, se impiegati su scala più ampia, e quelli in fase di sviluppo, come il vaccino per la tubercolosi, riducono il rischio di infezioni resistenti.
Le persone vaccinate non solo contraggono meno infezioni, ma sono anche protette da complicazioni che potrebbero richiedere antibiotici o cure ospedaliere. Il rapporto evidenzia come, se si raggiungesse l’obiettivo di vaccinare il 90% dei bambini e anziani contro lo Streptococcus pneumoniae previsto dall’Agenda per l’immunizzazione 2030, si risparmierebbero circa 33 milioni di dosi di antibiotici all’anno.
Risparmio economico e sanitario
L’impatto economico dell’antibiotico resistenza è altrettanto rilevante. L’OMS stima che il costo annuale dei trattamenti ospedalieri contro patogeni resistenti ammonti a circa 730 miliardi di dollari. Se i vaccini fossero resi disponibili e utilizzati in modo estensivo contro tutti i patogeni valutati nel rapporto, si potrebbe ridurre di un terzo la spesa ospedaliera legata alle infezioni resistenti.
Il nuovo approccio dell’OMS, “incentrato sulle persone”, mira a prevenire, diagnosticare e trattare le infezioni attraverso un uso coordinato e completo di risorse sanitarie. La vaccinazione viene dunque riconosciuta come un pilastro essenziale nella lotta contro l’antibiotico resistenza, soprattutto se integrata con altri interventi preventivi.
Obiettivi mondiali: ridurre del 10% i decessi entro il 2030
In occasione della 79ª riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’antibiotico resistenza, i leader mondiali hanno approvato una dichiarazione politica che fissa un obiettivo concreto: ridurre del 10% entro il 2030 i circa 4,95 milioni di decessi umani legati alla resistenza agli antibiotici. La dichiarazione mette in evidenza l’importanza dell’accesso globale a vaccini e trattamenti adeguati, e sollecita finanziamenti che stimolino la ricerca e l’innovazione.
HIV, in Africa ancori troppi bambini colpiti
Bambini, Ricerca innovazioneL’Africa è ancora nella morsa dell’HIV, sopratutto se si guarda ai neonati. Succede nonostante oggi sia possibile una diagnosi rapida dell’infezione e la disponibilità delle terapie antiretrovirali. A dirlo sono due nuovi studi condotti dal consorzio di ricerca internazionale EPIICAL guidato dalla Fondazione Penta con il coordinamento scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Queste ricerche hanno portato alla scoperta di due proteine nel sangue predittive del rischio di morte. Dal 2015 i ricercatori del consorzio EPIICAL, composto dai maggiori Centri per l’HIV di Europa, Africa e USA, svolgono attività scientifica e clinica per il controllo dell’infezione in età pediatrica soprattutto nei Paesi svantaggiati dove oggi si concentra il più alto numero di bambini contagiati dal virus.
Le proteine che predico il rischio
Nello studio clinico pubblicato sulla rivista Lancet e Clinical Medicine, coordinato dai ricercatori dell’Ospedale Universitario Ramón y Cajal di Madrid, sono stati coinvolti 215 neonati affetti da HIV in Sudafrica, Mozambico e Mali. Questi bambini hanno iniziato la terapia antiretrovirale (ART) entro i primi sei mesi di vita e entro tre mesi dalla diagnosi. Malgrado la disponibilità di farmaci e l’avvio precoce delle cure, è stato rilevato un tasso di mortalità del 10% entro il primo anno di trattamento (in Europa è inferiore all’1%); del 12% entro il secondo anno e stabile al 12% anche dopo 3 anni. Inoltre, solo nel 42% dei neonati arruolati nella ricerca è stato riscontrato un buon controllo dell’infezione per almeno un anno. I principali fattori di rischio mortalità identificati nell’ambito di questo studio sono l‘alta caricavirale all’avvio della terapia e le condizioni sociali avverse delle famiglie che influiscono sulla corretta aderenza al piano terapeutico.
Hiv, gli indicatori
La ricerca sulla mortalità neonatale per HIV è stata la base per lo studio di laboratorio, appena pubblicato sulla rivista scientifica Nature Scientific Report, condotto a Roma dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù con l’Università di Roma Tor Vergata. Partendo dai campioni di sangue dei bambini africani arruolati nel precedente studio, i ricercatori hanno indagato la presenza di indicatori del rischio di morte. Il team di ricerca ha analizzato il plasma di un gruppo di bambini con infezione da HIV acquisita nel periodo perinatale deceduti, di un gruppo di sopravvissuti (selezionati per caratteristiche simili con una metodica statistica denominata Propensity score) e di un gruppo di controllo composto da bambini sani non esposti all’HIV. Dal confronto dei dati è emerso che la presenza nel sangue di alti livelli delle proteine IL-6 e CXCL11 è predittiva di mortalità.
«Questi risultati – spiega Paolo Palma, responsabile di Immunologia clinica e Vaccinologia del Bambino Gesù e coordinatore dello studio condotto a Roma – sottolineano la necessità di strategie di supporto da adottare durante e dopo la gravidanza per migliorare la sopravvivenza nei neonati con HIV. Inoltre, individuare precocemente i biomarcatori infiammatori predittivi come la proteina IL-6 potrebbe favorire il ricorso a terapie mirate, rappresentando un importante passo avanti nella prevenzione della mortalità in questo gruppo così vulnerabile».
Hiv in età pediatrica
Secondo l’ultimo rapporto UNAIDS, sono circa 1.800.000 i bambini africani, da 0 a 14 anni, affetti da HIV. La regione più colpita è l’Africa subsahariana che, da sola, conta il 90% dei bambini sieropositivi a livello mondiale. I progetti di prevenzione contribuiscono a ridurre l’incidenza delle nuove infezioni pediatriche che, tuttavia, sono oltre 100.000 l’anno.
In Italia, grazie a programmi di prevenzione della trasmissione verticale (da madre a figlio), l’incidenza dell’HIV pediatrico è estremamente bassa. Secondo i dati del Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità, nel 2021 si sono registrati meno di 10 casi di nuove infezioni pediatriche.
Al Bambino Gesù, Centro di riferimento nazionale per la cura dei bambini con HIV, vengono seguiti circa 80 -100 pazienti pediatrici l’anno. La maggior parte di questi bambini è stata infettata per trasmissione verticale e riceve la terapia antiretrovirale HAART che consente di mantenere una buona qualità della vita e una bassa carica virale.
Il consorzio di ricerca
EPIICAL è un consorzio internazionale nato nel 2015 che coinvolge 27 partner accademici di Africa, Europa e USA tra i più importanti al mondo nell’ambito della ricerca sull’HIV pediatrico. Il consorzio, finanziato da ViiV Healthcare, è guidato dalla Fondazione Penta con il coordinamento scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. EPIICAL svolge attività clinica e di ricerca per lo sviluppo di strategie terapeutiche che portino al controllo della malattia senza utilizzare i farmaci antiretrovirali attualmente disponibili. Nell’ambito di queste attività, è stata avviata la sperimentazione del primo vaccino terapeutico pediatrico contro l’HIV sviluppato dal Bambino Gesù in collaborazione con il Karolinska Instituet di Stoccolma.
HIV e Aids
L’HIV, o Virus dell’Immunodeficienza Umana, è il nome del virus che aggredisce vari tipi di cellule dell’organismo in particolare quelle del sistema immunitario. Dopo il contatto col virus parte la produzione di anticorpi contro l’HIV e la persona diventa sieropositiva. Se l’infezione non viene curata, nel tempo si sviluppa la malattia conclamata o AIDS – sindrome da immunodeficienza acquisita. Le terapie attualmente disponibili (terapie antiretrovirali) consistono nell’assunzione per bocca di combinazioni di farmaci che, con differenti meccanismi d’azione, hanno l’obiettivo di sopprimere la replicazione di HIV, riducendo la carica virale (concentrazione di virus nell’organismo) a livelli non più rilevabili dai test di laboratorio.
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Intelligenza artificiale e disparità nelle cure legate al genere, Fondazione Onda: correggere bias
Associazioni pazienti, Benessere, Economia sanitaria, Eventi d'interesse, News, News, Prevenzione, PsicologiaDiagnosi non accurate, disparità nel riconoscimento di immagini diagnostiche, maggiore rischio di reazioni avverse a farmaci o trattamenti, farmacologia di precisione sbilanciata: sono alcune delle conseguenze dell’utilizzo in medicina dell’intelligenza artificiale (IA) sulla salute di genere. A metterle in luce è la Fondazione Onda ETS con un appello intersocietario firmato dal Centro di riferimento per la Medicina di genere dell’ISS -Istituto Superiore di Sanità, dal Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere, dal GISeG -Gruppo Italiano Salute e Genere e dalla SIT – Società Italiana per la Salute Digitale e la Telemedicina.
Intelligenza artificiale: opportunità e rischi
L’applicazione dell’IA nella biomedicina e l’assistenza sanitaria offre opportunità senza precedenti, migliorando la prevenzione, la diagnosi e il trattamento delle malattie. Tuttavia, l’uso di queste tecnologie solleva preoccupazioni sulle disuguaglianze legate al sesso e al genere, che rischiano di diventare sistematicamente radicate negli algoritmi stessi dell’IA.
Medici ancora poco consapevoli delle potenzialità, la ricerca
Il tema è stato di recente al centro dell’VIII Congresso di Fondazione Onda ETS. Secondo una ricerca condotta da Elma Research su 433 medici la conoscenza dell’IA in campo medico si sta gradualmente facendo strada, rimanendo tuttavia ancora a livello superficiale, tanto che viene collegata soprattutto al supporto alla diagnosi (48 per cento) nonostante le molte altre possibilità di utilizzo, come il supporto alla decisione terapeutica e alla ricerca clinica, allo sviluppo di device e alla chirurgia robotica. Allo stesso modo, emerge un forte senso di incertezza per più della metà dei medici (52 per cento), soprattutto in merito a trasparenza, sicurezza e utilizzo etico dei dati, e la necessità di disporre di uno strumento di qualità, che sia certificato e che rassicuri in termini di privacy e sicurezza dei dati. Dall’indagine emerge, dunque, come ci sia ancora molta strada da fare per informare e rendere i medici consapevoli delle importanti applicazioni tecniche dell’IA nel loro ambito.
Merzagora: fondamentale regolamentare intelligenza artificiale
Regolamentare l’utilizzo di questo strumento tanto utile quanto rischioso è fondamentale, come ricorda Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda ETS: «L’intelligenza artificiale sta sempre più prendendo piede in diverse aree della nostra vita, diventando protagonista indiscussa del discorso sull’innovazione tecnologica nella maggior parte dei settori, tra cui anche la medicina. Se da un lato è innegabile che l’utilizzo dell’IA possa dare una spinta non indifferente al settore della ricerca, dall’altro è necessario che vengano posti dei paletti. Infatti, il suo utilizzo in ambito medico può essere associato a disuguaglianze di genere, scatenando a loro volta conseguenze sul piano sociale e della salute stessa delle persone coinvolte, in primis le donne. Il rischio è che parte della popolazione riceva cure meno efficaci o subire ritardi diagnostici, con un conseguente peggioramento delle condizioni mediche e, in alcuni casi, un aumento della mortalità. Attraverso questo appello, vogliamo promuovere un approccio di genere nella progettazione e applicazione dell’Intelligenza artificiale a garanzia di equità e pari opportunità nella salute».
Ortona: necessità di superare i bias di genere
Dello stesso parere anche Elena Ortona, Direttrice del Centro di Riferimento per la Medicina di Genere, Istituto Superiore di Sanità: «La considerazione dei determinanti di sesso e genere nella salute è una necessità di metodo e analisi che deve diventare anche strumento di programmazione sanitaria. Con l’avvento delle nuove tecnologiche che si basano sull’intelligenza artificiale si è resa subito evidente una nuova sfida per la ricerca scientifica: la necessità di superare i bias di genere. Infatti, nonostante l’efficacia ed i benefici di queste tecnologie nell’aumentare l’efficienza dell’assistenza sanitaria, comincia ad essere chiara la scarsa rappresentatività femminile nei database su cui si costruiscono gli algoritmi alla base dei sistemi di machine learning».
Dati inclusivi
In tal senso, si rivela necessario incorporare nei modelli dell’IA dati sempre più inclusivi che tengano conto delle differenze biologiche di genere al fine di addestrare l’intelligenza artificiale con dati equilibrati e realistici: «Oggi il concetto di Medicina di genere è notevolmente evoluto ed è passato dalla considerazione dei parametri biologici (sesso, età etnia, comorbilità, reazioni a farmaci) alla valutazione, sicuramente più complessa, di indicatori di contesto quali condizioni sociali, economiche, culturali, religiose, ambientali e delle relative fonti di informazione. La definizione di corretti indicatori di genere ed un’attenta valutazione di essi nella pratica clinica, è fondamentale per la costruzione di un percorso assistenziale condiviso fra medico, operatori sanitari e paziente e per la programmazione di linee di indirizzo di tipo normativo e di governance, utili per il miglioramento della qualità dell’assistenza», aggiunge Anna Maria Moretti, Presidente Nazionale GISeG, Gruppo italiano salute e genere e Presidente Internazionale IGM, International Gender Medicine.
«Nell’era della medicina di precisione siamo di fronte ad un baratro. L’IA che attendiamo come la soluzione di molti problemi scientifici e clinici in medicina, si basa su database in cui non sono inserite le donne! Questo peggiorerà l’ignoranza della necessità assoluta di una medicina genere-specifica. La ricerca di base e clinica è incentrata su casistiche maschili, la farmacologia si è sviluppata su animali da esperimento maschi ed i farmaci sono stati sperimentati su uomini. Dobbiamo assolutamente lanciare un allarme affinché le conoscenze sulle differenze di genere in medicina ed in farmacologia non siano annullate da dati provenienti da un’IA che non le considera», sottolinea Giovannella Baggio, Presidente Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere -Professore Ordinario, Studioso Senior, Università di Padova e Scientific Editor del Journal of Sex and Gender-specific Medicine.
Approccio gender-based e aistemi per correggere bias
Tuttavia, la sola raccolta di dati più inclusivi e più completi non è sufficiente al fine di garantire un approccio gender-based nella progettazione e nell’utilizzo dell’IA in medicina: questa deve essere accompagnata da rigidi controlli di qualità, come revisioni periodiche per identificare e correggere eventuali bias di genere.
«L’adozione dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario rappresenta una straordinaria opportunità per migliorare diagnosi, trattamenti e prevenzione delle malattie. Tuttavia, se non affrontiamo le disuguaglianze di sesso e genere presenti nei dati utilizzati per addestrare questi algoritmi, rischiamo di amplificare pregiudizi storici che hanno penalizzato le donne per decenni. Le disuguaglianze di sesso e genere nella sanità digitale rappresentano una sfida urgente da affrontare. È imperativo che la progettazione e l’implementazione dell’IA riflettano equamente la diversità tra uomini e donne e maschi e femmine. Solo così potremo garantire un’assistenza sanitaria più precisa, personalizzata ed equa, evitando diagnosi errate o ritardate e migliorando la diagnosi e il trattamento per tutte le persone, indipendentemente dal loro sesso o genere», conclude Maria Grazia Modena, Centro P.A.S.C.I.A., Programma Assistenziale Scompenso Cardiaco, cardiopatie dell’Infanzia e a rischio, AOU Policlinico di Modena, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Diabete: le parole ‘sbagliate’ incidono sulla terapia
Alimentazione, Associazioni pazienti, News, Prevenzione, Psicologia, Stili di vitaMolti studi hanno sottolineato come il linguaggio contribuisca a formare attitudini e atteggiamenti ma anche stereotipi e stigma. Per questo la comunicazione ha un ruolo fondamentale anche nella gestione del diabete. Un linguaggio efficace, sia verbale sia non verbale, può trasformare la relazione medico-paziente, favorendo la collaborazione e l’aderenza alla terapia. Al contrario, una comunicazione carente può generare incomprensioni e compromettere l’efficacia delle cure. È uno dei temi affrontati al 30º Congresso Nazionale SID.
“Da tempo la SID ha adottato un linguaggio centrato sulla persona, (noto anche come ‘person-first’) per evitare di etichettare una persona come la sua condizione. È fondamentale coltivare una comunicazione che non attribuisca responsabilità̀ (o colpa) verso la persona per lo sviluppo del suo diabete o del suo diabete conseguenze. Ecco perché questo argomento è stato portato al Congresso Nazionale” sottolinea il Professor Angelo Avogaro, Presidente della SID.
Diabete, le parole sbagliate
“Pensiamo all’espressione ‘fallimento terapeutico’, che può generare nel paziente la sensazione di non essere riconosciuto negli sforzi effettuati per gestire la malattia fino alla rottura dell’alleanza terapeutica” afferma la Dottoressa Liliana Indelicato, Psicologa e Coordinatrice del Gruppo di Lavoro Psicologia e Diabete della SID. Nel position statement pubblicato nel 2022 viene sottolineato come aggettivi del tipo ‘cattivo controllo glicemico’ attribuiscano una responsabilità diretta al paziente mentre sappiamo che i valori HBA1C cambiano in risposta a molteplici fattori: ormonali, farmacologici, emotivi, legati all’alimentazione o all’attività fisica. Inoltre, il diabete ha un andamento progressivo che può necessitare nel tempo di cambiamenti di terapia”
Un linguaggio inadeguato può influire sulla motivazione del paziente. Termini come ‘cattivo’, ’fallimento terapeutico’, ‘scarso controllo’ possono rafforzare il senso di incapacità e fallimento incidendo negativamente sulla self-efficacy che ha una relazione stretta sugli outcome di salute. Al contrario espressioni positive e inclusive, incentrate sulla persona sono in grado di incrementare la motivazione e l’engagement.
Nel Position Statement italiano realizzato in collaborazione con il Gruppo di Lavoro Psicologia e Diabete SID con il Gruppo di Lavoro Psicologia e Diabete di AMD sono state selezionate 20 espressioni identificate tramite articoli scientifici, esperienze dirette, focus group con persone con diabete: ‘dovrebbe/non dovrebbe’ portano ad una perdita di autonomia della persona, mentre riconoscere i punti di forza rimanda alla persona una immagine positiva di sé diminuendo quello che viene chiamato ‘distress psicologico’. Si tratta di un disagio emotivo caratterizzato da ansia e preoccupazioni che porta a rabbia, frustrazione e burnout con conseguenze sui livelli di HbA1c.