Tempo di lettura: 2 minutiI cesarei si riducono, ma solo dello 0,47% nel 2016 rispetto all’anno precedente (fonte Sdo2016). Se ne sono fatti 12.355 in meno su un totale nel 2016 di 464.477, il 34,9% di tutti i parti: oltre una donna su tre finisce sotto i ferri e il 21,7% per un primo cesareo (era il 22,2 nel 2015).
Se i cesarei sono pressoché stabili da un anno all’altro, ma non hanno subito riduzioni evidenti negli ultimi 10 anni (sono il 34,9% nel 2016, erano il 35,4% nel 2015, il 38,2% nel 2010 e il 38,4% nel 2007), le Regioni variano molto e c’è chi scende (poco) e chi sale negli interventi chirurgici per un parto.
La situazione è peggiore nel Sud del Paese (dal Lazio in giù per l’esattezza), con la Campania che quasi raddoppia la media nazionale dei cesarei e la Regione che nel 2016 (solo nel 2016) sta meglio è l’Abruzzo, in media nazionale. Tutti gli altri sono al di sopra della media e ben distanti dalle Regioni del Centro Nord (vanno un po’ peggio, ma in media negli ultimi due anni, Liguria e Marche) con performance che si avvicinano alle percentuali indicate a livello internazionale (l’Italia con la Polonia e l’Ungheria è il paese europeo con la percentuale più alta con il 35,7% di cesarei nel 2014, mentre c’erano paesi come la Finlandia e la Svezia fermi rispettivamente al 15,8% e 17%.
Le riduzioni in termini percentuali rispetto al 2015 sono maggiori lo scorso anno a Trento, che già ben sotto la media nazionale, riduce ancora del -3,17% i cesarei nell’ultimo anno. In Campania con il – 2,16% che però non riesce a far scendere la Regione al di sotto del 59% di cesarei su tutti i parti effettuati e l’Abruzzo che fa registrare il -1,48% di parti in sala operatoria.
Vanno in senso contrario, invece, altre otto Regioni (Valle d’Aosta, Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria) dove, al contrario, le percentuali salgono. Il picco massimo di aumento è in Valle d’Aosta (+2,43%) e quello minimo in Friuli Venezia Giulia (+0.09%). Sono sopra l’1% Basilicata e Calabria (che sfiora il 2%), mentre le altre Regioni registrano aumenti comunque dal +0,58% (Molise) in giù.
In linea generale, cartina alla mano, il Nord si ferma al 26,3% di media dei cesarei, il Centro sale al 31,6% (ancora sotto la media nazionale, quindi), ma il Sud, nonostante i cali di alcune Regioni, resta al 42,3% di media, 7,4 punti percentuali in più della media italiana. Tuttavia, il calo più vistoso negli anni è proprio quello del Sud, passato da una media del 48,1% di cesarei nel 2007 al 42,3% del 2016, che resta però al di sopra della media nazionale del 7,4% nel 2016 mentre era al +9,7% rispetto alla media nazionale nel 2007. Una riduzione quindi in 10 anni del 2,3%, lo 0,23% l’anno.
Non considerando i valori assoluti che ovviamente fanno prevalere le strutture di ricovero pubbliche, nel 2016 i cesarei sono stati il 37,2% dei parti nelle Aziende Ospedaliere, Aziende Ospedaliere Universitarie e Policlinici pubblici, Irccs pubblici e fondazioni pubbliche, il 30,6% negli ospedali a gestione diretta delle Asl, il 36,7% nei policlinici privati, Irccs privati e fondazioni private, ospedali classificati, presidi Usl ed Enti di ricerca, ma balzano al 53,2% dei parti effettuati nelle case di cura accreditate (la maggior parte nel Sud) e al 67,9% in quelle non accreditate (poche e tutte nel Centro-Nord: Piemonte, Lombardia, Toscana e Lazio e del tutto assenti nel Sud).
Ecco come ritrovare il benessere psicologico
PsicologiaAttacchi di panico, ansia, depressione. Sono solo alcuni dei problemi che si possono sperimentare in una società esigente come quella moderna, nella quale i rapporti interpersonali sono sempre più complessi. Il paradosso è quello di restare soli nella società globale. Per questo occasioni come quella della «Settimana del benessere psicologico» sono imperdibili. Puntuale come sempre, l’appuntamento torna anche quest’anno dal 6 al 12 novembre, promossa dall’Ordine degli Psicologi della Campania. Novità di quest’anno, la settimana coinvolgerà, oltre ai Comuni, anche le scuole.
Solitudine e bullismo
L’iniziativa è nata nel 2010, un momento di promozione della professione tra i cittadini che è diventato ormai un appuntamento fisso, utile anche a stimolare una riflessione condivisa. Quest’anno si è scelto di discutere del valore delle relazioni come momento di incontro e di crescita, delle modalità della convivenza, del rapporto con ciò che è l’altro da noi. In questa cornice, soprattutto nell’ambito scolastico si accenderanno i riflettori su un fenomeno dilagante come quello del bullismo e del cyber bullismo. Del resto le indagini condotte negli ultimi anni in Campania rivelano dati allarmanti: due studenti su tre sono vittime di questo tipo di comportamenti, in particolare alle scuole elementari e medie, con una netta prevalenza al femminile.
Il programma
La Settimana del benessere si aprirà il 6 novembre alle 20.30 con «Note di Benessere», il concerto di Sanitansamble, l’orchestra giovanile del quartiere popolare Sanità che ha fatto da apripista in Italia alla pratica di associare lo studio della musica a quella del coinvolgimento dei giovani. Si entra quindi nel vivo con circa 400 appuntamenti, tra dibattiti, conferenze, seminari, workshop, focus group, organizzati dagli psicologi su tutto il territorio campano (clicca qui per il programma completo). Sono 380 gli istituti che hanno aderito all’iniziativa Scuole amiche del benessere e che ospiteranno un momento di confronto e di riflessione sulla tematica individuata dall’Ordine. Si conferma l’appuntamento con le Città amiche del benessere, che negli anni ha visto il coinvolgimento di oltre 400 Comuni. Questa ottava edizione della Settimana del benessere psicologico è organizzata in collaborazione con l’Anci, l’assessorato regionale alle Politiche sociali e l’Ufficio scolastico regionale.
[wl_chord]
Cancro, così si curano i sopravvissuti
News Presa, Psicologia, RubricheLa diagnosi di una malattia oncologica come il cancro è sempre un momento traumatico, molto importante e significativo, che mette in crisi gli equilibri psichici anche della persona apparentemente più forte e meno vulnerabile. Intorno al malato oncologico tutto cambia: crollano tutte le sicurezze, acquisite in tanti anni, i valori, le priorità, gli amici più stretti e i familiari da cui ci si aspetta continui sforzi e dimostrazioni d’affetto, spesso al di fuori delle normali possibilità, che mettono quest’ultimi in una
condizione di costante frustrazione e senso d’inutilità per non aver fatto abbastanza.
Meccanismi di adattamento
Dal punto di vista psicologico il malato di cancro mette in atto dei processi di adattamento alla sua condizione che, nella maggior parte dei casi, fa sviluppare una sintomatologia psicopatologica più o meno severa. La letteratura in questo ambito è molto vasta e quasi tutti gli studi hanno rilevato che circa il 50% dei pazienti oncologici sviluppa un disturbo psichiatrico clinicamente rilevante durante la sua malattia. I disturbi dell’adattamento colpiscono la maggior parte dei pazienti e sono connessi con il senso di fallimento ed impotenza nei confronti della malattia.
I disturbi dell’umore, invece, per la loro frequenza, in particolare per il disturbo depressivo maggiore, rappresentano la sintomatologia psichiatrica più diffusa in oncologia. Quando si parla di depressione maggiore, viene quasi automatico pensare al rischio suicidario che, effettivamente, in questi pazienti è molto alto sia nelle fasi iniziali che terminali della malattia, quando vi è una grave debilitazione fisica, o quando c’è uno scadente supporto
familiare e sociale. I disturbi d’ansia, infine, rappresentano la risposta fobica alla chemioterapia, caratterizzata da nausea e vomito anticipatori.
I survivors
Allo stato attuale, un numero sempre maggiore di pazienti guarisce o, per lo meno, sopravvive sempre più a lungo. Basti pensare che dal 1970 ad oggi si è passati a percentuali di guarigione che vanno da zero ad oltre il 90% per i tumori al testicolo, al seno e alcune forme di leucemia nei bambini. Ecco che è nato un nuovo tipo di paziente nel vastissimo panorama dell’oncologia, i survivors, letteralmente i sopravvissuti”, tutti quei pazienti cioè che non trattano la malattia da più di 5 anni e che in Italia sono circa un milione. La condizione di survivors ci mette davanti ad un’altra questione: il ritorno alla normalità. In una società che ci vuole sempre pronti, sempre attivi e produttivi, tornare a lavoro per queste persone è un problema di non poco rilievo.Vivono infatti con una costante paura per il futuro, in cui si rinuncia a progetti ambiziosi e a lungo termine proprio per timore che il cancro si possa ripresentare, il tutto accompagnato da forti sensi di colpa per essere sopravvissuti rispetto a tanti altri malati meno fortunati. Dopo questo quadro è quindi doveroso parlare della psiconcologia perché, come abbiamo visto, il cancro non è solo una malattia del corpo che riguarda il singolo individuo, ma coinvolge
la vita del paziente a tutti i livelli, sociali, familiari ed emotivi. La figura dello psicologo dovrebbe essere sempre presente per sostenere in primo luogo il paziente e poi chi gli sta intorno. Il suo aiuto è di fondamentale importanza in tutte le fasi della malattia, a partire dalla diagnosi. Anche se molti medici sono a favore della comunicazione chiara di diagnosi e prognosi, la percentuale di pazienti veramente consapevole della propria malattia è ancora troppo bassa. In questa situazione l’intervento dello psicologo aiuterebbe all’accettazione della propria condizione che, evitando la negazione, attiverebbe delle reazioni emotive funzionali all’affrontare il problema, migliorando notevolmente la qualità della vita.
Caregivers
Quando ci si ammala di cancro ad “ammalarsi” è tutta la famiglia: su di essa grava gran parte del “peso della cura”. Assistere i caregivers aiuta a prevenire un senso di scoraggiamento patologico. In questo modo, fissando anche degli obiettivi di assistenza, i familiari avrebbero davvero la sensazione di essere utili e, nel caso in cui la malattia dovesse avere il sopravvento, non rimarrebbero con un continuo senso di colpa per non aver fatto abbastanza. Clicca qui per leggere altri articolo dello speciale
Luigi Gazzillo
Novità nel campo della chirurgia estetica: intervista al Prof. Grella
Benessere, Medicina estetica, PodcastCesarei calano, ma poco. Campania (59%) ancora al doppio della media nazionale
BambiniI cesarei si riducono, ma solo dello 0,47% nel 2016 rispetto all’anno precedente (fonte Sdo2016). Se ne sono fatti 12.355 in meno su un totale nel 2016 di 464.477, il 34,9% di tutti i parti: oltre una donna su tre finisce sotto i ferri e il 21,7% per un primo cesareo (era il 22,2 nel 2015).
Se i cesarei sono pressoché stabili da un anno all’altro, ma non hanno subito riduzioni evidenti negli ultimi 10 anni (sono il 34,9% nel 2016, erano il 35,4% nel 2015, il 38,2% nel 2010 e il 38,4% nel 2007), le Regioni variano molto e c’è chi scende (poco) e chi sale negli interventi chirurgici per un parto.
La situazione è peggiore nel Sud del Paese (dal Lazio in giù per l’esattezza), con la Campania che quasi raddoppia la media nazionale dei cesarei e la Regione che nel 2016 (solo nel 2016) sta meglio è l’Abruzzo, in media nazionale. Tutti gli altri sono al di sopra della media e ben distanti dalle Regioni del Centro Nord (vanno un po’ peggio, ma in media negli ultimi due anni, Liguria e Marche) con performance che si avvicinano alle percentuali indicate a livello internazionale (l’Italia con la Polonia e l’Ungheria è il paese europeo con la percentuale più alta con il 35,7% di cesarei nel 2014, mentre c’erano paesi come la Finlandia e la Svezia fermi rispettivamente al 15,8% e 17%.
Le riduzioni in termini percentuali rispetto al 2015 sono maggiori lo scorso anno a Trento, che già ben sotto la media nazionale, riduce ancora del -3,17% i cesarei nell’ultimo anno. In Campania con il – 2,16% che però non riesce a far scendere la Regione al di sotto del 59% di cesarei su tutti i parti effettuati e l’Abruzzo che fa registrare il -1,48% di parti in sala operatoria.
Vanno in senso contrario, invece, altre otto Regioni (Valle d’Aosta, Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria) dove, al contrario, le percentuali salgono. Il picco massimo di aumento è in Valle d’Aosta (+2,43%) e quello minimo in Friuli Venezia Giulia (+0.09%). Sono sopra l’1% Basilicata e Calabria (che sfiora il 2%), mentre le altre Regioni registrano aumenti comunque dal +0,58% (Molise) in giù.
In linea generale, cartina alla mano, il Nord si ferma al 26,3% di media dei cesarei, il Centro sale al 31,6% (ancora sotto la media nazionale, quindi), ma il Sud, nonostante i cali di alcune Regioni, resta al 42,3% di media, 7,4 punti percentuali in più della media italiana. Tuttavia, il calo più vistoso negli anni è proprio quello del Sud, passato da una media del 48,1% di cesarei nel 2007 al 42,3% del 2016, che resta però al di sopra della media nazionale del 7,4% nel 2016 mentre era al +9,7% rispetto alla media nazionale nel 2007. Una riduzione quindi in 10 anni del 2,3%, lo 0,23% l’anno.
Non considerando i valori assoluti che ovviamente fanno prevalere le strutture di ricovero pubbliche, nel 2016 i cesarei sono stati il 37,2% dei parti nelle Aziende Ospedaliere, Aziende Ospedaliere Universitarie e Policlinici pubblici, Irccs pubblici e fondazioni pubbliche, il 30,6% negli ospedali a gestione diretta delle Asl, il 36,7% nei policlinici privati, Irccs privati e fondazioni private, ospedali classificati, presidi Usl ed Enti di ricerca, ma balzano al 53,2% dei parti effettuati nelle case di cura accreditate (la maggior parte nel Sud) e al 67,9% in quelle non accreditate (poche e tutte nel Centro-Nord: Piemonte, Lombardia, Toscana e Lazio e del tutto assenti nel Sud).
HIV non si arresta in Europa. I dati della 16ª Conferenza europea
PrevenzioneL’Hiv continua a marciare in Europa. Nel 2015 sono stati diagnosticati quasi 30 mila nuovi casi. Una situazione che non è affatto migliorata negli ultimi dieci anni.
Nella 16a edizione della European Aids Conference gli esperti hanno affrontato le sfide epidemiologiche del futuro.
“Osservando i dati, notiamo come i diversi Paesi applichino i vari strumenti di prevenzione e trattamento in modo molto differente, dalla diagnosi in poi. Il risultato è che la prevenzione e l’incidenza dell’Hiv nella regione europea variano ampiamente: questa disomogeneità rappresenta la vera sfida per la futura risposta globale europea all’Hiv”. A dirlo è Anastasia Pharris, esperta dell’Hiv dell’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc), in apertura della discussione al centro dell’ultima giornata della 16a edizione della European Aids Conference.
“Per ridurre il numero delle nuove infezioni – ha continuato – l’Europa deve concentrare tutti i suoi sforzi in tre aree principali: dare priorità ai programmi di prevenzione, facilitare la diffusione del test dell’Hiv e, naturalmente, agevolare l’accesso al trattamento per chi è stato diagnosticato”.
Secondo i più recenti dati sul continuum of care, che l’Ecdc sta monitorando in Europa e in Asia Centrale, 1,2 milioni di persone vivono con l’Hiv, e solo il 75% di queste ha ricevuto una diagnosi. “Tra questi casi diagnosticati – ha spiegato Teymur Noori, esperto di Hiv dell’Ecdc – circa uno su quattro non sta ricevendo alcun trattamento. Sebbene il trattamento per l’Hiv sia efficace, due persone su cinque con Hiv non hanno raggiunto la soppressione virale. Questo significa che una percentuale significativa di persone in Europa e in Asia Centrale non beneficia dei trattamenti altamente efficaci per l’Hiv, e che la trasmissione continua, soprattutto tra le popolazioni chiave”.
A questi numeri vanno aggiunti coloro che convivono con il virus senza saperlo e sfuggono alle statistiche ufficiali. Durante la prima giornata della confernza gli esperti hanno parlato di almeno 122 mila persone.
Inoltre si stima infatti che, a livello mondiale, 2,3 milioni di pazienti siano coinfetti da Hiv ed Hcv. La maggior parte di loro ha una storia di uso di droghe con siringa. Con l’avvento degli antivirali per il trattamento dell’epatite C, l’eliminazione dell’Hcv è diventata un obiettivo raggiungibile, nonostante questo la percentuale di persone che raggiungono risposte virologiche dopo la terapia Hcv in Europa continua a rimanere bassa, evidenziando gli ostacoli all’accesso alle cure per l’Hcv e una forte necessità di miglioramento in quest’area.
promuoviamo salute
Stili di vita, i segreti per invecchiare al meglio
Prevenzione, RubricheUna vita media che tende ad innalzarsi, ma anche una natalità fortemente ridotta, e ovviamente l’aumento di malattie croniche legate all’età. A conferma che «vivere di più» non significa necessariamente «vivere meglio», nelle scorse settimane il presidente dell’Istituto nazionale di statistica, Giorgio Alleva, ha tenuto una lectio magistralis organizzata da Federsanità Anci e dal Centro documentazione dei comuni italiani, dal titolo «La salute degli italiani. Aspetti sociali e demografici». Alleva ha ben chiarito che, se una volta la domanda principale era: «Quanto vivremo?», l’interrogativo di oggi è: «Come sarà la qualità della vita nei tanti anni in cui vivremo?». Del resto, sempre più spesso si sente parlare di limitazioni funzionali e malattie croniche. Inoltre, l’Istat ha certificato che il miglioramento dei tassi di mortalità in generale ha un secondo aspetto che non può essere ignorato: è accompagnato da una riduzione del tasso di natalità, con una progressiva riduzione della quota di giovani. Tanto per citare qualche numero, dei 103mila nati in meno in Italia tra il 2008 al 2016, solo l’un terzo dipende dal fatto che le donne in età feconda sono diminuite.
Il calo delle nascite
Il dato registrato nel 2016 è pari solo al record negativo osservato nella seconda metà del 500, quando però l’Italia aveva un quinto della popolazione odierna. Nella fascia di popolazione fra i 18 e i 34 anni, il saldo è sceso di 1,1milioni di persone. Tanto che l’Istat stima per il 2065 una vera e propria «rivoluzione grigia». La questione sanitaria è evidente, visto che circa 1 anziano su 2 soffre di almeno una malattia cronica grave o è multi cronico e che la riduzione di autonomia personale riguarda oltre 1 anziano su 10. Resta grave anche il divario tra regioni, la speranza di vita vede differenze territoriali piuttosto marcate. Il differenziale tra le regioni italiane è di 3 anni ad esempio tra Trentino Alto Adige e Campania, inoltre le differenze sono ancor più marcate se si guarda alla speranza di vita in buona salute. Addirittura, considerando la seconda regione, che è l’Emilia Romagna, la differenza con quella meno performante, che è la Calabria, è di 10 anni. Quindi tra la seconda e l’ultima delle regioni italiane c’è una differenza di 10 anni di buona salute, secondo quella che è la percezione dei cittadini. (continua a leggere)
La lotta all’ ictus parte dalla prevenzione primaria
PrevenzioneIeri si è celebrata la giornata mondiale dell’ ictus. La ricerca epidemiologica oggi ha dimostrato che più del 50% degli eventi può essere prevenuto. Per le dimensioni epidemiologiche di questa patologia, l’impatto socio-economico e le sue conseguenze in termini di mortalità, disabilità e disturbi della capacità cognitiva, diventa fondamentale la prevenzione, sia sulle persone ad elevato rischio sia su coloro che hanno già avuto un evento.
Gli ultimi dati di mortalità disponibili dal Rapporto Istisan 2014 riportano per gli uomini di tutte le età 22.488 decessi, con tasso standardizzato di 76,82 x 100.000 persone, e per le donne 34.520 decessi, con tasso standardizzato 63,44 x 100.000. Sebbene in numeri assoluti la malattia cerebrovascolare produca più eventi nelle donne, perché più numerose in età avanzata, a parità di età gli uomini risultano più colpiti.
L’Italia è un Paese ad elevato rischio di ictus sia per la sopravvivenza più elevata rispetto ad altri Paesi (l’ictus colpisce in età più avanzata rispetto alla cardiopatia ischemica), sia per lo stile di vita che l’alimentazione. Inoltre alcune condizioni che si ritrovano più frequenti in età avanzata sono riconosciute come predittori dell’ictus (per esempio, la fibrillazione atriale, l’ipertrofia ventricolare sinistra, lo spessore medio-intimale delle arterie, l’infarto del miocardio).
Per chi ha già ha avuto un evento cardiovascolare o soffre di episodi di fibrillazione atriale esistono oggi terapie molto efficaci che permettono di vivere con una buona qualità di vita. La prevenzione dell’ ictus parte però anche da a un corretto stile di vita. È stato osservato ad esempio che persone che hanno episodi di fibrillazione atriale, durante i mesi estivi registrano meno episodi, così come durante i fine settimana. Un andamento che rispetta l’aumento del movimento: in estate, come durante i fine settimana si tende a svolgere più attività fisica che durante la stagione invernale.
I trattamenti farmacologici non rappresentano, dunque, una alternativa agli stili di vita, ma devono essere accompagnati da un cambiamento di abitudini: abolizione del fumo; riduzione del consumo di bevande alcoliche (non più di un bicchiere di vino al giorno); diminuzione del consumo di sale (facendo attenzione anche alla quantità contenuta negli alimenti preconfezionati); riduzione dei grassi animali e colesterolo (in particolare di carni, burro, panna, formaggi e uova).
Questo vale anche perché chi non ha mai avuto un evento: l’attività fisica (nel senso di movimento quotidiano, camminata a passo svelto, andare in bicicletta, salire le scale a piedi) deve impegnare almeno 150 minuti a settimana, e nei bambini almeno 60 minuti al giorno; l’alimentazione deve essere varia e bilanciata con molta verdura e frutta, legumi, cereali integrali, pesce e poca carne, tutto in porzioni modeste.
promuoviamo salute
Infezioni ospedaliere: boom negli ultimi 10 anni, più vittime che sulla strada
PrevenzioneNonostante i ricoveri siano 3 milioni in meno rispetto al 2007, le infezioni ospedaliere in corsia, sia mediche che chirurgiche, sono letteralmente esplose negli ultimi 10 anni, con incrementi preoccupanti in quasi tutto il territorio.
In Italia nel 2015, secondo l’Istat e l’ultimo rapporto di Epicentro, il portale curato dal Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità, le infezioni ospedaliere causano ogni anno più vittime degli incidenti stradali: tra 4.500 e 7mila decessi contro 3.419 vittime della strada. Circa il 5-8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione ospedaliera. Quasi 500mila casi, dovuti soprattutto a infezioni urinarie, di ferite chirurgiche, polmoniti e sepsi. Di queste, si stima che circa il 30% siano potenzialmente prevenibili (dalle 135 alle 210mila) e che siano direttamente causa del decesso nell’1% dei casi.
Analizzando la situazione nelle Regioni, il confronto tra il 2016 e il 2007 mostra che per le infezioni mediche le uniche Regioni a registrare un calo sono Trento, Friuli Venezia Giulia e Liguria, mentre per quelle chirurgiche Toscana, Abruzzo e Molise.
Con la particolarità però che, analizzando per grandi linee i risultati della mobilità ospedaliera dei due anni a confronto, si vede che a Trento, Friuli Venezia Giulia e Toscana il dato è andato sempre migliorando negli anni, cosa che non è accaduta in Liguria dove la mobilità passiva è peggiorata di oltre 7.500 ricoveri nel 2016 rispetto al 2007, in Molise di quasi 4.500 ricoveri e in Abruzzo di oltre 11mila ricoveri. Un segnale questo che il miglioramento nelle prestazioni potrebbe essere legato anche a un ridotto numero di ricoveri rispetto alle condizioni originarie del 2007.
Nel 2016, comunque, le Regioni con un saldo di mobilità attiva erano 8 contro le dieci del 2007 (nove nel 2010 e ancora 8 nel 2015).
Dal punto di vista economico, secondo la ricerca Burden economico delle infezioni ospedaliere in Italia del maggio 2017, realizzata dal Ceis dell’Università di Roma Tor Vergata, per ogni infezione ospedaliera si stimano tra i 9mila e 10.500 euro.
Promuoviamo salute
Farmaci, un software intelligente ne riduce l’abuso
News Presa, PrevenzioneGli italiani sono troppo dipendenti dai farmaci. E al cosa grave è che questa tendenza sembrerebbe essere legata ad un eccesso di prescrizioni di farmaci agli anziani, inutili e spesso dannose. Si entra in ospedale con cinque farmaci e si esce con l’aggiunta di un paio di nuove medicine, nel 44% dei casi non necessarie, e che spesso «cozzano» con le terapie precedenti, provocando interazioni ed effetti collaterali che nel giro di tre mesi in un caso su cinque rendono necessario un nuovo ricovero. A lanciare l’allarme sono gli esperti riuniti per il Congresso nazionale della Società italiana di medicina interna (Simi), sottolineando come circa un milione di over 65 vada in ospedale per problemi legati ai farmaci assunti e oltre due milioni sperimenti ogni anno una reazione avversa da farmaci, con aumento di visite mediche e specialistiche. Il 25% sarebbe evitabile, così come il 55% dei ricoveri, migliorando l’appropriatezza nelle prescrizioni e riducendo i farmaci inutili.
Sensibilizzare i medici
La Simi, insieme all’Istituto Mario Negri di Milano, ha scelto di dare vita al progetto «De-prescribing» per la riduzione e sospensione dei farmaci, un progetto che coinvolgerà oltre 300 tra medici di medicina generale, internisti e geriatri ospedalieri. Attraverso l’ausilio di software intelligenti per il controllo dei farmaci portati con sé dal paziente, telefonate e sms dei medici, diari degli effetti collaterali, colloqui più approfonditi coi pazienti è possibile ridurre di oltre il 30% il carico delle terapie negli anziani, ottimizzando la gestione della cura. «Il ricovero è un momento cardine ma oggi, anziché essere l’occasione per una revisione critica delle terapie nell’ottica di tagliare medicinali inutili o inappropriati, è purtroppo una circostanza in cui il carico di farmaci aumenta», osserva Franco Perticone, presidente Simi. Lo dimostrano i dati dello studio Reposi (REgistro POliterapie SIMI), raccolti dal 2008 dalla Simi con l’Istituto Mario Negri e il Policlinico di Milano, su oltre 5.000 pazienti ricoverati nei reparti di medicina interna e geriatria di tutta Italia. Secondo i risultati dello studio il 60% degli anziani quando arriva in ospedale prende 5 farmaci al giorno e, alle dimissioni, esce con 7, con un’aggiunta in media di due farmaci a ogni ricovero.
Troppi ricoveri
Il carico aumenta spesso senza che ve ne sia un reale bisogno e tutto questo crea un effetto “porte girevoli” per cui i ricoveri si susseguono a causa di terapie non adeguatamente gestite. Le difficoltà a semplificare e ad alleggerire la terapia derivano soprattutto dalla mancanza di linee guida specifiche, dal timore dei pazienti di sospendere i farmaci e dal preoccupante fenomeno della medicina difensiva. Dai dati del Registro emerge inoltre che, sei milioni di over 65 prendono ogni giorno più di cinque medicinali, 1,3 milioni addirittura più di dieci al giorno, oltre 3 milioni sono esposti al rischio di interazione fra i tanti medicinali assunti, che in 1 milione di casi può essere estremamente grave rendendo necessario il ricovero. Con un taglio ragionato e appropriato alle politerapie, i ricoveri potrebbero ridursi di oltre il 50% con un risparmio di circa 5 miliardi di euro dei costi delle cure per gli over 65, che oggi sfiorano i 16 miliardi e drenano il 70% della spesa sanitaria nazionale.
[wl_chord]
Ora solare: aumento dei crimini nelle successive 24 ore
Ricerca innovazioneMancano poche ore al ritorno dell’ora solare. Uno degli effetti pare sia un aumento delle aggressioni del 3% nel primo giorno dopo il cambio. Proprio così: lo spostamento delle lancette dell’orologio è correlato a un aumento della violenza. A metterlo in evidenza è stato uno studio pubblicato dal Journal of Experimental Criminology dell’università della Pennsylvania, che ha trovato anche la relazione inversa, con un calo dei crimini, nel giorno in cui invece si passa all’ora legale.
I ricercatori sono arrivati al risultato consultando i dati del National Incidence Based Reporting System americano, a cui hanno aggiunto quelli delle città di Philadelphia, Los Angeles, Chicago e New York, alla ricerca di eventuali effetti del maggiore o minore sonno sui reati violenti. Dai dati è emerso che, rispetto al lunedì precedente, le aggressioni diminuiscono del 2,9% quando si dorme un’ora in meno, quando cioè entra l’ora legale, mentre è stata notata anche la relazione inversa, con un aumento di questi crimini del 2,8% il giorno dopo il ritorno all’ora solare.
La relazione tra i crimini e l’ora solare è difficile da spiegare ed è contraria alle altre già trovate, con un’ora in meno di sonno che causa un aumento degli incidenti stradali, degli infortuni sul lavoro, dei crolli in borsa. “Una persona può pensare che se dorme meno sarà nervosa e aggressiva – scrivono -. Probabilmente si ha la propensione ad agire più aggressivamente, ma il comportamento non la riflette perchè si è stanchi, troppo letargici e assonnati per agire”. Chi lo avrebbe mai detto che un’ora in più di sonno potesse fare arrabbiare.
promuoviamo salute