Tempo di lettura: 3 minutiAumentano in Italia le infezioni sessuali (Ist): secondo le stime crescono i contagi da sifilide, gonorrea, clamidia. Dal 2019 al 2022 i casi di Gonorrea sono raddoppiati; l’incremento dei casi di Sifilide è del 20%, mentre sono cresciuti del 25% quelli di Clamidia. “Particolarmente coinvolti i giovani – sottolinea Barbara Suligoi, Direttore COA dell’Istituto Superiore di Sanità – serve una corretta informazione e la consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti a rischio”. I dati sono stati analizzati nella 16° edizione di ICAR – Italian Conference on AIDS and Antiviral Research.
Soligoi (ISS): infezioni sessuali in aumento tra i giovani, spesso asintomatiche
In attesa della pubblicazione del Notiziario ufficiale dell’Istituto Superiore di Sanità, i primi dati dei sistemi di sorveglianza sentinella delle IST (che non raccoglie i dati di tutti i casi di IST in Italia, ma solo la “punta dell’iceberg”) coordinati dal Centro Operativo AIDS dell’ISS rilevano significativi incrementi nella diffusione delle IST.
Barbara Soligoi (Iss)
“I dati del 2022 mostrano un incremento delle IST soprattutto tra i giovani – sottolinea Barbara Suligoi, Direttore COA dell’ISS – Per la Gonorrea sono stati segnalati al sistema sentinella circa 1200 casi, che rispetto agli 820 del 2021 implicano un aumento del 50%. Per la Sifilide, siamo passati da 580 casi del 2021 a 700, con un aumento quindi del 20%. Questa crescita nei numeri – prosegue – non è solo un effetto della maggiore socializzazione che si è verificata dopo le fasi più acute della pandemia da Covid-19”.
Difatti, si riscontra anche rispetto al 2019, quando i casi di Gonorrea erano stati 610 (quindi rispetto ad allora sono aumentati del 100%), mentre quelli di Sifilide erano 470, incrementati quindi di oltre il 50%. “Anche sulla Clamidia il riscontro è analogo – prosegue – dagli 800 casi del ’19, si è giunti nel 2022 a 993, con un aumento del 25%. L’aspetto più rilevante è il coinvolgimento giovanile, in particolare le ragazze under 25: la prevalenza della Clamidia tra le giovani di questa fascia d’età è del 7%, mentre sopra i 40 anni è appena 1%. In 3 casi su 4 l’infezione è asintomatica, quindi molte ragazze non se ne accorgono per lungo tempo”.
Sterilità, malattie infantili e danni al sistema nervoso tra le conseguenze
Le conseguenze delle IST possono essere varie. La Sifilide può arrivare a colpire anche il sistema nervoso centrale. La Clamidia può sviluppare malattia infiammatoria pelvica, che a sua volta può comportare problemi di fertilità o complicanze nella gravidanza, tanto che un ampio numero di casi di procreazione medicalmente assistita sono riconducibili a questa causa. L’infezione si può manifestare con uretrite e cervicite, proctite, faringiti. Inoltre, la trasmissione dell’infezione dalla madre al bambino al momento del parto può comportare l’insorgenza di problemi oculari o polmoniti nel neonato.
L’infezione da gonococco può portare a gravidanze ectopiche, infertilità, aumento di trasmissibilità di altre IST come l’HIV, uretriti, proctiti, faringiti. La preoccupazione è data anche dalla crescente resistenza del batterio agli antibiotici, giunta in Italia al 22% per l’azitromicina, con un aumento significativo rispetto alle percentuali più basse degli anni scorsi. Considerando che sopra il 5% la resistenza è ritenuta grave, questo dato si colloca in scia con la posizione critica dell’Italia nella lotta all’antimicrobico resistenza.
Giovani poco informati
“Oltre a una scarsa informazione sulle IST diffusa nella popolazione generale, vi sono alcune cause specifiche che coinvolgono la popolazione giovanile – evidenzia Barbara Suligoi. “I giovani, infatti, spesso non sanno dove reperire le informazioni e dove eseguire i necessari controlli, non si recano regolarmente presso uno specialista come avviene in età adulta con il ginecologo e l’andrologo. Inoltre, spesso si informano sul web, con fonti approssimative se non fuorvianti. Questi elementi avviano un circuito di non consapevolezza, che aumenta esponenzialmente nei momenti di socialità, in cui si abbassa la soglia della prudenza, con la perdita delle inibizioni e delle protezioni”.
“Inoltre – prosegue – alcuni ragazzi fanno uso di droghe o di chemsex, ma, considerando queste attività occasionali, non le ritengono, erroneamente, situazioni di rischio. Servirebbe quindi una maggiore informazione, un’educazione all’affettività a livello scolastico, percorsi chiari sul territorio per chi abbia bisogno di una consulenza tempestiva in caso di sospetto di aver contratto una IST”. Questi temi saranno ripresi anche nel X Congresso Nazionale della SIMaST – Società Interdisciplinare per lo studio delle Malattie Sessualmente Trasmissibili a Roma in autunno.
Intelligenza artificiale predice Alzheimer dal modo di parlare
Anziani, Economia sanitaria, Farmaceutica, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneUn nuovo programma di intelligenza artificiale può diagnosticare l’Alzheimer sei anni prima dell’esordio dei sintomi. Si tratta di uno strumento che analizza il modo di parlare delle persone. Il risultato è stato pubblicato sulla rivista Alzheimer’s & Dementia e proviene da ricercatori della Boston University.
Modello di Intelligenza Artificiale preciso e abbatte i costi
Il modello sviluppato dai ricercatori ha un tasso di precisione del 78,5%. Può prevedere se una persona con lieve deterioramento cognitivo rimarrà stabile nei sei anni successivi o svilupperà la demenza. Questo lavoro potrebbe automatizzare lo screening del deterioramento cognitivo, rendendolo più accessibile.
In futuro, il programma potrebbe eliminare la necessità di costosi test di laboratorio, esami di imaging o visite mediche. Automatizzando parte del processo, lo screening diventa più semplice e accessibile.
Il nuovo modello
Per costruire e addestrare il modello, i ricercatori hanno utilizzato i dati del Framingham Heart Study. Questo è uno degli studi più antichi e di lunga durata nel Paese. I partecipanti con segni di declino cognitivo sono stati sottoposti a regolari test neuropsicologici e interviste.
All’inizio dello studio, gli esperti hanno ottenuto registrazioni audio di 166 interviste con persone tra i 63 e i 97 anni con lieve deterioramento cognitivo. Di queste, 76 persone sono rimaste stabili nei successivi sei anni, mentre 90 sono peggiorate progressivamente.
I ricercatori hanno utilizzato strumenti di riconoscimento vocale e intelligenza artificiale per addestrare il modello. Hanno individuato connessioni tra discorso, dati demografici, diagnosi e progressione della malattia. Dopo l’addestramento, hanno testato la capacità predittiva del programma sul resto dei partecipanti.
Un’App per Smartphone predice Alzheimer
Il modello funziona basandosi solo sul contenuto delle interviste e sulle parole pronunciate. Analizza come sono strutturate le frasi per fare le sue previsioni. Ora il team mira a sviluppare un’app per smartphone per predire l’Alzheimer. Inoltre, i ricercatori vogliono espandere lo studio oltre l’analisi del discorso.
Per aumentare la precisione predittiva del modello, gli esperti vogliono usare anche i disegni dei pazienti. Gli autori dichiarano che il digitale è il nuovo sangue. Può essere raccolto, analizzato per ciò che è noto oggi e conservato per rianalizzarlo domani. Questa visione enfatizza l’importanza dei dati digitali nella diagnosi e nel trattamento delle malattie.
Scenari futuri
Con un’accuratezza del 78,5%, questo strumento potrebbe rivoluzionare lo screening del deterioramento cognitivo. Automatizzando il processo e rendendolo accessibile tramite un’app per smartphone, si apre la strada a diagnosi più rapide e meno costose.
La malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Disease) è una patologia neurodegenerativa a decorso cronico e progressivo. Si tratta della causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei Paesi sviluppati. Attualmente si stima ne sia colpita circa il 5% della popolazione al di sopra dei 65 anni e circa il 20% degli ultra-85enni. tuttavia, può manifestarsi anche un esordio precoce intorno ai 50 anni di vita.
L’intelligenza artificiale è in sala operatoria
RubricheLa chirurgia digitale ha guadagnato popolarità negli ultimi anni, parallelamente al diffondersi di nuove tecnologie. Convinto sostenitore dell’innovazione è il chirurgo Francesco Selvaggi, direttore dell’U.O.C. di Chirurgia colorettale alla Vanvitelli di Napoli. «L’intelligenza artificiale è ormai applicata a diverse aree della chirurgia – spiega – a livello preoperatorio, intraoperatorio e postoperatorio. Nel preoperatorio, può aiutare a diagnosticare e classificare clinicamente i pazienti nel modo più accurato possibile e offrire un piano di trattamento personalizzato.
In sala operatoria
Nel post-operatorio, può integrare il percorso per un migliore recupero dopo l’intervento, automatizzare la valutazione della patologia e supportare la ricerca. Tutti questi elementi contribuiscono a migliorare gli esiti dei pazienti e forniscono risultati promettenti.
Francesco Selvaggi
A livello intraoperatorio, potrebbe contribuire a migliorare le capacità del chirurgo durante le procedure laparoscopiche e robotiche. Lo sviluppo di sistemi basati sull’intelligenza artificiale potrebbe supportare il rilevamento dell’anatomia e attivare allarmi, fornendo una guida chirurgica sulle manovre rischiose e nelle fasi cruciali dell’intervento».
Il contributo dell’intelligenza artificiale
Selvaggi ricorda anche che oggi gli algoritmi di intelligenza artificiale vengono usati per identificare gli strumenti chirurgici quando entrano nel campo operatorio e per identificare i punti di riferimento anatomici, come le strutture vascolari e nervose e gli organi. «Un contribuito importante è uno studio di Kolbinger e colleghi pubblicato nel 2023. Basandosi su video di resezioni rettali assistite da robot, si sono concentrati sullo sviluppo di un algoritmo per il rilevamento automatico delle fasi chirurgiche e l’identificazione delle strutture anatomiche.
In particolare, l’algoritmo ha ottenuto i migliori risultati nel rilevamento del mesocolon, del mesoretto, della fascia di Gerota, della parete addominale e dei piani di dissezione durante l’escissione mesorettale. Sulla scia di questo lavoro altri autori hanno sviluppato un algoritmo capace di rilevare automaticamente il tessuto mesorettale utilizzando un software. Garantendo che la rimozione del retto per cancro possa essere eseguita in modo sicuro ed efficace».
Mai adagiarsi
Ma è lo stesso Selvaggi a ricordare che l’intelligenza artificiale è, e deve sempre continuare ad essere, un ausilio per il chirurgo. «Il rischio è quello di appiattirsi e perdere lo stimolo ad aggiornarsi. Invece, il progresso tecnologico deve spingere tutti noi ad aumentare le nostre conoscenze per governare il cambiamento e non subirlo».
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Articolo pubblicato su IL MATTINO il giorno 21 aprile 2024 a Firma di Renato Bellotti con la collaborazione del network editoriale PreSa – Prevenzione Salute
Solitudine aumenta il rischio di ictus
Anziani, News, News, Prevenzione, Psicologia, Ricerca innovazione, Stili di vitaLa solitudine è un fattore di rischio per molte malattie ed è sempre più considerata un problema di salute pubblica. Le conseguenze impattano, non solo sul benessere dei cittadini, ma anche sull’economia. Uno studio recente della Harvard T.H. Chan School of Public Health, pubblicato sulla rivista eClinicalMedicine, evidenzia come la solitudine cronica, quindi vissuta per diversi anni consecutivi, possa aumentare significativamente il rischio di ictus negli adulti e negli anziani.
Solitudine e rischio di ictus
L’ictus è una delle principali cause di disabilità a lungo termine e mortalità a livello mondiale. Secondo l’autrice principale dello studio, Yenee Soh, sentirsi soli svolge un ruolo rilevante nell’incidenza dell’ictus. Ricerche precedenti avevano già collegato questo stato d’animo a un maggiore rischio di malattie cardiovascolari.
Lo studio della Harvard T.H. Chan School of Public Health
I ricercatori hanno valutato l’associazione tra la solitudine percepita e l’incidenza di ictus in un campione iniziale di 12.161 individui, tutti di età pari o superiore a 50 anni. Tra il 2006 e il 2008, il livello di solitudine dei partecipanti è stato misurato utilizzando la Revised UCLA Loneliness Scale. Questa valutazione è stata ripetuta quattro anni dopo (2010-2012) su una parte del campione iniziale, composta da 8.936 individui.
I partecipanti sono stati suddivisi in quattro gruppi in base ai loro punteggi di questa sensazione nel tempo. Coloro che hanno mostrato lo stato d’animo solo alla prima misurazione avevano un rischio di ictus del 25% più alto rispetto a coloro che non erano risultati soli. Invece, i partecipanti che hanno mostrato solitudine in entrambi i momenti temporali avevano un rischio di ictus superiore del 56% rispetto a quelli che non hanno mostrato questa condizione per tutto il periodo dello studio.
Implicazioni a lungo termine
I risultati dello studio indicano che l’impatto di questo stato d’animo sul rischio di ictus si manifesta soprattutto nel lungo termine. La solitudine cronica è quindi un fattore di rischio significativo per l’ictus, con effetti che si accumulano nel tempo.
I ricercatori suggeriscono che il sentirsi soli possa aumentare il rischio di ictus attraverso vari meccanismi. La condizione emotiva è associata a una minore aderenza alle terapie in corso e a stili di vita non salutari, come il fumo, il consumo di alcol e una scarsa qualità del sonno. Inoltre, questo stato d’animo può influenzare condizioni organiche come l’infiammazione cronica e la pressione alta, che causano danni vascolari, metabolici e immunitari.
Scenari futuri
La solitudine cronica è un significativo fattore di rischio per l’ictus. Gli anziani sono la fascia maggiormente a rischio. Nei prossimi vent’anni, dieci milioni di italiani vivranno da soli, quasi una persona su cinque, che per gli over 65 significa passare dagli attuali 4,2 milioni a circa 6 milioni nel 2040.
Le scoperte di questo studio potrebbero influenzare le politiche sanitarie, incoraggiando l’implementazione di programmi di sostegno sociale e interventi mirati per mitigare la sensazione di essere soli a lungo. La prevenzione e il benessere emotivo, soprattutto tra gli anziani, potrebbero ridurre l’incidenza dell’ictus a livello globale.
Maculopatia, cure più veloci con i nuovi farmaci
News, RubricheOltre i 60 anni è bene guardarsi dalla degenerazione maculare legata all’età (DMLE), più conosciuta come maculopatia. La macula è la zona centrale della retina, la più nobile e delicata perché coinvolta nella percezione dettagliata delle immagini. È importante comprendere che la macula stessa può essere coinvolta in tantissime malattie della retina, diverse dalla DMLE, come diagnosi, terapia e soprattutto prognosi.
Abbiamo parlato delle possibili implicazioni e delle terapie oggi disponibili per trattare la maculopatia legata all’età con il con dottor Mario Sbordone, direttore dell’U.O.C. di Oculistica all’Ospedale di Pozzuoli e tra i maggiori esperti del campo. «Si tratta di un fenomeno degenerativo legato all’involuzione dei tessuti nel tempo, non causato da un elemento specifico ma favorito da una serie di fattori di rischio come l’obesità, il fumo, le patologie cardiovascolari e dismetaboliche. E le più colpite sono le donne».
Due diverse forme di maculopatia
Il dottor Sbordone spiega poi che si distinguono due forme principali di maculopatia legata all’età: una umida e una secca. La prima consiste nello sviluppo di un gomitolo di capillari cresciuti in modo anomalo proprio al centro della retina, con accumulo di siero e sangue che deforma la macula e innesca dei meccanismi tossici per il tessuto stesso: le due cose insieme provocano perdita progressiva della visione centrale.
«L’esordio della malattia è spesso brusco, con sintomi molto evidenti per il paziente, a volte bilaterale, però questa forma trova oggi per fortuna una terapia in grado di contrastarne in qualche modo l’evoluzione: da anni infatti sottoponiamo questi pazienti a dei cicli di iniezioni intravitreali di farmaci nell’occhio del paziente in grado di inibire quei fenomeni che sono alla base della crescita di quei capillari “cattivi” e delle sue conseguenze». Una lotta spesso lunga e sfibrante per il paziente, ma grazie a queste terapie si riesce oggi a lasciare a molti una visione sufficiente per essere più o meno autonomi, laddove prima non potevamo fare altro che constatare la malattia.
Nuovo trattamento
La novità, dice poi il dottor Sbordone, è che «dopo molti anni, sono finalmente disponibili nelle nostre strutture farmaci nuovi, dai quali per il momento possiamo aspettarci una riduzione della frequenza del numero di iniezioni, con minori disagi per i pazienti e minore aggravio per le strutture sanitarie». Altra forma di DMLE è quella che viene chiamata “secca”, perché non si assiste alla crescita di capillari con perdita di siero e sangue, ma semplicemente ad una lenta e progressiva perdita di quelle cellule che costituiscono la struttura vedente della macula, che si assottiglia piano piano ed evolve verso un calo della vista non brusco, al quale i pazienti inizialmente si adattano senza grandi limitazioni.
Se il fenomeno raggiunge livelli più gravi il paziente si accorge del suo handicap e si rivolga allo specialista. Qui il discorso delle cure è diverso: è scientificamente provato che la somministrazione per bocca di integratori a base di luteina ed altri oligoelementi è utile a rallentare la progressione della patologia.
Iniezione intraoculare
«Nell’immediato si è reso disponibile un modo diverso di somministrazione di questi prodotti che è la iontoforesi retinica, un procedimento che sfrutta le correnti galvaniche per far penetrare nell’occhio una quantità di prodotto, applicato in gocce sulla superficie oculare nel corso di una breve seduta ambulatoriale di terapia, pari ad una somministrazione per bocca di sei mesi. Gli studi clinici hanno avvalorato la validità di questo nuovo metodo di somministrazione, ma come sempre sarà la sua applicazione su vasta scala a rispondere ai quesiti che riguardano il rapporto costi-benefici, la tollerabilità e il gradimento da parte dell’utenza.
Possiamo anticipare che negli USA è stata recentemente approvata una nuova terapia con una nuova iniezione intraoculare che può rallentare la progressione della DMLE secca avanzata. Siamo dunque in attesa che le autorità europee e italiane possano mettersi al passo per questo importante aggiornamento e che infine la ricerca che intanto prosegue sull’impiego delle cellule staminali in questo settore possa un domani fornire un contributo utile e soprattutto accessibile per i nostri pazienti con maculopatia senile».
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Articolo pubblicato su IL MATTINO il giorno 21 aprile 2024 a Firma di Renato Bellotti con la collaborazione del network editoriale PreSa – Prevenzione Salute
Malattie rare: Cad ha mortalità introspedaliera più elevata
Economia sanitaria, Farmaceutica, News, Ricerca innovazioneLe malattie rare sono patologie che colpiscono un numero molto piccolo di persone. Ne fa parte la malattia da agglutinine fredde (Cad): una rara anemia emolitica autoimmune, con una prevalenza in Italia da 1 a 9 casi per milione. Si tratta di una patologia ematologica cronica, poco conosciuta, ma con un elevato burden di malattia.
“La Cad comporta un elevato rischio trombotico, richiede frequenti e ripetute trasfusioni che impattano negativamente la vita dei pazienti. Negli ultimi anni la ricerca ha fatto interessanti progressi per capirne la patogenesi e le relative cure, mirate soprattutto a inibire la produzione di autoanticorpi e l’attivazione del complemento, responsabile della gravità dell’emolisi e della conseguente anemizzazione”. Lo ha dichiarato la Responsabile della UOS Fisiopatologia delle Anemie presso la UOC Oncoematologia, Fondazione IRCCS Ca’ Granda – Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, Wilma Barcellini, intervenendo webinar, “Affrontare la CAD: diagnosi e gestione quotidiana della malattia da crioagglutinine”.
La discussione online è stata promossa in collaborazione con il CEIS-EEHTA dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e con il contributo non condizionante di Sanofi. Clinici, associazioni dei pazienti ed esponenti delle istituzioni, hanno discusso gli aspetti della patogenesi e della diagnosi della CAD, della gestione clinica delle complicanze e delle opzioni terapeutiche, oltre che del burden sociale di una malattia spesso misconosciuta e quindi ignorata.
Malattie rare: Lo studio sulla Cad
“In media, nel periodo in studio sono state stimate ogni anno circa 400 ospedalizzazioni per la malattia da agglutinine fredde, con una durata media di ospedalizzazione di 13 giorni”, è quanto affermato dal Professor Matteo Scortichini – Ricercatore EEHTA del CEIS, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma Tor Vergata. “Circa 2 ricoveri su 3 sono relativi a diagnosi ematologiche ed esiste una quota rilevante di ricoveri relativi a eventi cardiovascolari e o respiratori acuti. Va inoltre sottolineato che alla CAD è associato un elevato rischio per il paziente di transitare in terapia intensiva, ed una mortalità intraospedaliera più elevata rispetto a quella osservata in media, pari al 6,6%”, ha aggiunto Scortichini.
Diagnosi precoce
“La promozione della salute si attua anche attraverso la diagnosi precoce e garantendo la possibilità di accesso alle cure e all’innovazione per tutti. In una prospettiva di superamento delle diseguaglianze sociosanitarie che da sempre caratterizzano il nostro Paese. Temi particolarmente importanti per le persone con malattie rare e per i loro familiari. Come Cittadinanzattiva ci impegniamo da anni per il riconoscimento dei loro diritti”, ha dichiarato la dott.ssa Tiziana Nicoletti – Responsabile Coordinamento Nazionale Malati Cronici e Rari (CNAMC), Cittadinanzattiva, intervenendo alla Tavola Rotonda.
Prurito cronico, l’innovazione potrà fermarlo
News, RubricheIl prurito può essere un fastidio comune, ma quando diventa costante e implacabile può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Questo è il caso della Prurigo Nodularis, una malattia cronica debilitante che colpisce molti pazienti, spesso costretti ad affrontare la patologia con farmaci prevalentemente sintomatici, ottenendo risultati deludenti e transitori. Per comprendere meglio cos’è la Prurigo Nodularis e com’è possibile affrontarla, ne abbiamo parlato con la professoressa Maddalena Napolitano, esperta dermatologa e associato di Dermatologia e Venereologia all’Università di Napoli Federico II.
Sintomi
«Questa patologia si distingue per la presenza di prurito intenso e caratteristiche lesioni nodulari secondarie al grattamento, localizzate sugli arti e sul tronco, spesso simmetricamente», ci spiega. «I noduli, che talvolta possono confluire a formare placche, hanno tipicamente un alone violaceo periferico e una superficie erosa». È una condizione debilitante, anche sotto il profilo psicologico. Tuttavia, la professoressa ci dice che presto sarà possibile usare anche in Italia il primo farmaco biologico già approvato in Europa per questa patologia, potendo così trasformare lo standard di cura per i pazienti affetti da questa debilitante malattia. Potremmo, insomma, arrivare ad un drastico cambio di paradigma, controllando il complesso processo infiammatorio alla base della Prurigo Nodularis. Il dramma più grave per chi soffre di questa patologia è oggi proprio quello di non avere un trattamento specifico.
Trattamenti
La professoressa Maddalena Napolitano
Finora, i trattamenti disponibili si sono sempre basati su corticosteroidi topici, infiltrazioni intralesionali di corticosteroidi e terapie sistemiche con cortisone e ciclosporina. «Trattamenti utili, certo, ma che possono solo alleviare temporaneamente i sintomi e non possono essere utilizzati a lungo termine a causa dei loro possibili effetti collaterali». Il farmaco biologico consente invece di migliorare significativamente la qualità di vita dei pazienti, riducendo il prurito e il numero di noduli già a partire dalla dodicesima settimana di trattamento, come evidenziato dagli studi registrativi, offrendo ben più che una speranza a coloro che hanno sofferto per anni senza una soluzione efficace. «Gli attacchi di prurito – prosegue la professoressa Napolitano – possono arrivare in qualsiasi momento della giornata e possono durare anche ore. Una condizione devastante».
Qualità di vita
Non meraviglia che questa malattia faccia registrare uno dei più alti impatti sulla qualità di vita (tra le patologie cutanee infiammatorie con prurito cronico, ndr). Peggiore addirittura delle conseguenze di condizioni come il diabete o l’ictus. E i costi sociali sono altissimi. «Chi soffre di Prurigo Nodularis, talvolta non riesce a lavorare, dormire, compiere le più semplici attività quotidiane. Nella mia esperienza – dice Napolitano – ho visto pazienti devastati da un prurito ingestibile che hanno dovuto lasciare il lavoro per tempi molto lunghi, rischiando il licenziamento». Per non parlare di quanti restano incompresi, al punto da omettere le reali motivazioni del loro assenteismo. Questa situazione può generare un profondo senso di stress e abbandono sanitario, con i pazienti che si sentono soli, alla mercé della propria sofferenza. Ecco perché, conoscere meglio questa malattia è essenziale, così come lo è comprendere i meccanismi che la generano.
Infiammazione di tipo 2
«La maggior parte dei casi si osserva tra i 45 e i 50 anni, ma la malattia può colpire pazienti di qualsiasi età», precisa la dermatologa. A livello mondiale, più di 680.000 persone convivono con la Prurigo Nodularis. «Si tratta di una malattia cronica nella quale l’infiammazione di tipo 2 gioca un ruolo cruciale, similmente alla dermatite atopica. Infatti, in circa la metà dei pazienti, la patologia è associata a condizioni atopiche, come la dermatite atopica o l’asma. Nell’altra metà dei casi, la malattia si associa a patologie sistemiche come il diabete, l’insufficienza renale, infezioni gravi o condizioni paraneoplastiche». Tuttavia, la patogenesi della malattia rimane ancora poco chiara.
Intervenire precocemente e bene
«La diagnosi di Prurigo Nodularis è principalmente clinica, supportata in alcuni casi da una biopsia che conferma aspetti istologici specifici. È fondamentale non solo arrivare a una diagnosi corretta, ma anche inquadrare adeguatamente il paziente per gestire al meglio la malattia. Presso il policlinico Federico II abbiamo attivo tutti i giorni un ambulatorio dedicato ai pazienti con Prurigo Nodularis e Dermatite Atopica presso il quale cerchiamo di applicare nella pratica clinica quotidiana quanto emerge dalle nuove evidenze scientifiche.
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Articolo pubblicato su IL MATTINO il giorno 21 aprile 2024 a Firma di Marcella Travazza con la collaborazione del network editoriale PreSa – Prevenzione Salute
Nuovi farmaci: Cina ha superato EU nel 2023
Economia sanitaria, Farmaceutica, News, Ricerca innovazioneNel 2023, per la prima volta la Cina ha superato l’Europa nell’immissione in commercio di nuovi farmaci. Inoltre si avvicina agli Stati Uniti che sono ancora i primi in classifica a livello globale. I numeri del nuovo report pubblicato da Efpia mostrano il rapido cambiamento dello scenario del mercato farmaceutico globale.
In particolare, delle 90 nuove molecole arrivate sul mercato lo scorso anno, 28 sono state sviluppate in Usa, 25 in Cina e 17 in Europa. Sono solo alcuni dei dati del rapporto annuale dell’European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations (l’associazione europea delle imprese farmaceutiche).
Il report sottolinea la rapida crescita del mercato e dell’ambiente di ricerca nelle economie emergenti come Brasile, Cina e India. Una tendenza che porta a una graduale migrazione delle attività economiche e di ricerca dall’Europa verso questi mercati che vivono una rapida crescita.
“Nel periodo 2018-2023 i mercati brasiliano, cinese e indiano sono cresciuti rispettivamente del 12,3%, del 5,4% e del 9,9% rispetto a una crescita media del 7,4% per i primi 5 mercati dell’Unione Europea e dell’8,4% per il mercato statunitense”, si legge nella nota di Efpia. “Anche per questo le aziende farmaceutiche chiedono all’Europa una politica più incisiva in campo farmaceutico e una strategia unitaria per la competitività dell’Europa nelle scienze della vita”.
“Nonostante i benefici per la salute e l’economia siano altamente rilevanti per 500 milioni di europei, questo settore è spesso visto come ‘un’aggiunta’ a più dipartimenti dell’Ue, con conseguenti politiche disgiunte”, afferma in una nota la direttrice generale dell’Efpia, Nathalie Moll. “Riconquistare la posizione dell’Europa come leader mondiale nella scienza medica richiede un’attenzione strategica e dedicata a livello dell’Ue”, conclude.
Neuroprotesi, ecco il progetto Mnesys
News, Ricerca innovazioneSi chiamano neuroprotesi e sono sedie a rotelle avanzate o esoscheletri controllati con il pensiero, sono tecnologie che rappresentano il futuro ma anche il presente per molte persone che hanno subito lesioni al midollo spinale o danni cerebrali a causa di un ictus. Queste innovazioni, frutto della ricerca nel campo delle neuroprotesi, mirano a ripristinare la connessione tra muscoli e cervello, fornendo soluzioni a problemi di salute per i quali oggi non esiste una cura definitiva.
Il progetto Mnesys: pioniere della ricerca sul cervello in Italia
Un contributo significativo a questi sviluppi arriva dal progetto Mnesys, il più ampio programma di ricerca sul cervello mai realizzato in Italia. Tra i vari macroprogetti in cui è articolato, lo Spoke 4 è particolarmente rilevante. Presentando alcuni risultati al primo Forum Nazionale di Neuroscienze, Patrizia Fattori, ordinaria di Fisiologia all’Università di Bologna e coordinatrice dello Spoke 4, ha spiegato come questo progetto si occupi di indagare il modo in cui il cervello interagisce con l’ambiente, esplorando ad esempio come vista e tatto vengono utilizzati per il movimento.
Identificazione delle aree cerebrali per guidare le neuroprotesi
Uno degli studi condotti dal gruppo di ricerca guidato da Fattori ha identificato due nuove aree cerebrali che rappresentano delle ottime candidate per un ipotetico impianto neuroprotesico. “Queste conoscenze di base consentiranno di aiutare pazienti con deficit motori, come chi ha una lesione del midollo spinale,” afferma Fattori. Queste scoperte potrebbero rivoluzionare l’approccio alla riabilitazione motoria, permettendo una maggiore indipendenza e miglior qualità della vita per molte persone.
Il ruolo del microbiota nelle malattie neurodegenerative
Non è solo il cervello a influenzare il comportamento del corpo; anche il corpo può influenzare il cervello. Un esempio significativo è l’impatto del microbiota su alcune malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. Una ricerca condotta dalle professoresse Laura Calzà e Luciana Giardino dell’Università di Bologna ha dimostrato come l’invecchiamento precoce del microbioma possa causare un’infiammazione del colon, che a sua volta anticipa l’insorgenza dei difetti di memoria tipici dell’Alzheimer. “Conoscere questa fase pre-sintomatica apre possibilità preventive e terapeutiche completamente nuove, ad esempio regolando opportunamente i segnali che derivano dal microbiota,” spiega Calzà, ordinaria di Anatomia degli animali domestici all’Università di Bologna.
Un futuro di speranza grazie alle neuroprotesi
Le neuroprotesi del futuro potrebbero fornire soluzioni a problemi di salute oggi irrisolvibili, trasformando radicalmente la vita di milioni di persone. Il progetto Mnesys, con i suoi avanzamenti nella comprensione delle interazioni tra cervello e corpo, è al cuore di questa rivoluzione. Con ricerche innovative che spaziano dalla riabilitazione motoria alla prevenzione delle malattie neurodegenerative, l’Italia si pone all’avanguardia nella ricerca neuroscientifica globale, offrendo nuove speranze e opportunità terapeutiche.
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Infezioni sessuali in aumento tra i giovani
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Soligoi (ISS): infezioni sessuali in aumento tra i giovani, spesso asintomatiche
In attesa della pubblicazione del Notiziario ufficiale dell’Istituto Superiore di Sanità, i primi dati dei sistemi di sorveglianza sentinella delle IST (che non raccoglie i dati di tutti i casi di IST in Italia, ma solo la “punta dell’iceberg”) coordinati dal Centro Operativo AIDS dell’ISS rilevano significativi incrementi nella diffusione delle IST.
Barbara Soligoi (Iss)
“I dati del 2022 mostrano un incremento delle IST soprattutto tra i giovani – sottolinea Barbara Suligoi, Direttore COA dell’ISS – Per la Gonorrea sono stati segnalati al sistema sentinella circa 1200 casi, che rispetto agli 820 del 2021 implicano un aumento del 50%. Per la Sifilide, siamo passati da 580 casi del 2021 a 700, con un aumento quindi del 20%. Questa crescita nei numeri – prosegue – non è solo un effetto della maggiore socializzazione che si è verificata dopo le fasi più acute della pandemia da Covid-19”.
Difatti, si riscontra anche rispetto al 2019, quando i casi di Gonorrea erano stati 610 (quindi rispetto ad allora sono aumentati del 100%), mentre quelli di Sifilide erano 470, incrementati quindi di oltre il 50%. “Anche sulla Clamidia il riscontro è analogo – prosegue – dagli 800 casi del ’19, si è giunti nel 2022 a 993, con un aumento del 25%. L’aspetto più rilevante è il coinvolgimento giovanile, in particolare le ragazze under 25: la prevalenza della Clamidia tra le giovani di questa fascia d’età è del 7%, mentre sopra i 40 anni è appena 1%. In 3 casi su 4 l’infezione è asintomatica, quindi molte ragazze non se ne accorgono per lungo tempo”.
Sterilità, malattie infantili e danni al sistema nervoso tra le conseguenze
Le conseguenze delle IST possono essere varie. La Sifilide può arrivare a colpire anche il sistema nervoso centrale. La Clamidia può sviluppare malattia infiammatoria pelvica, che a sua volta può comportare problemi di fertilità o complicanze nella gravidanza, tanto che un ampio numero di casi di procreazione medicalmente assistita sono riconducibili a questa causa. L’infezione si può manifestare con uretrite e cervicite, proctite, faringiti. Inoltre, la trasmissione dell’infezione dalla madre al bambino al momento del parto può comportare l’insorgenza di problemi oculari o polmoniti nel neonato.
L’infezione da gonococco può portare a gravidanze ectopiche, infertilità, aumento di trasmissibilità di altre IST come l’HIV, uretriti, proctiti, faringiti. La preoccupazione è data anche dalla crescente resistenza del batterio agli antibiotici, giunta in Italia al 22% per l’azitromicina, con un aumento significativo rispetto alle percentuali più basse degli anni scorsi. Considerando che sopra il 5% la resistenza è ritenuta grave, questo dato si colloca in scia con la posizione critica dell’Italia nella lotta all’antimicrobico resistenza.
Giovani poco informati
“Oltre a una scarsa informazione sulle IST diffusa nella popolazione generale, vi sono alcune cause specifiche che coinvolgono la popolazione giovanile – evidenzia Barbara Suligoi. “I giovani, infatti, spesso non sanno dove reperire le informazioni e dove eseguire i necessari controlli, non si recano regolarmente presso uno specialista come avviene in età adulta con il ginecologo e l’andrologo. Inoltre, spesso si informano sul web, con fonti approssimative se non fuorvianti. Questi elementi avviano un circuito di non consapevolezza, che aumenta esponenzialmente nei momenti di socialità, in cui si abbassa la soglia della prudenza, con la perdita delle inibizioni e delle protezioni”.
“Inoltre – prosegue – alcuni ragazzi fanno uso di droghe o di chemsex, ma, considerando queste attività occasionali, non le ritengono, erroneamente, situazioni di rischio. Servirebbe quindi una maggiore informazione, un’educazione all’affettività a livello scolastico, percorsi chiari sul territorio per chi abbia bisogno di una consulenza tempestiva in caso di sospetto di aver contratto una IST”. Questi temi saranno ripresi anche nel X Congresso Nazionale della SIMaST – Società Interdisciplinare per lo studio delle Malattie Sessualmente Trasmissibili a Roma in autunno.
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