Tempo di lettura: 5 minutiSarcopenia e patologie cardiovascolari sono tra le principali cause di perdita di autosufficienza negli anziani e un grave fattore di rischio di ospedalizzazione e decesso. Intervenire sull’attività fisica, sulla dieta e sui controlli cardiologici regolari può ritardare la comparsa di disabilità anche di 30 anni. L’Italia è uno dei Paesi più anziani del mondo – il secondo dopo il Giappone – con ulteriori prospettive di invecchiamento. I dati recenti pubblicati dall’Annuario ISTAT 2024 certificano una realtà consolidata che richiede un impegno affinché gli anni di vita guadagnati siano vissuti in buone condizioni di salute. Questo è il messaggio ribadito anche dalla SIGOT – Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio, durante il 38° Congresso Nazionale concluso di recente a Roma.
Italia, oltre 14 milioni di over 65, ma la disabilità è evitabile
Come rilevano i dati ISTAT, tra il 2004 e il 2024, l’età media della popolazione è aumentata da 42,3 a 46,6 anni. I residenti di 65 anni e più sono incrementati di oltre 3 milioni, e oggi sono 14 milioni 358 mila (+5,1 punti percentuali rispetto al 2004). Di questi, oltre la metà ha almeno 75 anni: 7 milioni 439 mila. Il calo della mortalità (661 mila decessi in meno) si traduce in una speranza di vita alla nascita di 83,1 anni. L’invecchiamento della popolazione aumenterà ancora nei prossimi due decenni. Nel 2050, si prevede che le persone over 65 anni saranno tre volte più numerose dei giovani con meno di 15 anni.
“Il mondo sta invecchiando – commenta il Prof. Lorenzo Palleschi – Presidente SIGOT Nazionale, Direttore Unità Operativa Complessa di Geriatria e del Dipartimenti Internistico dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni-Addolorata, Roma. Gli ultra80enni sono la classe a più rapida espansione: dal 2001 al 2020, nei Paesi europei sono passati dal 3,4% a quasi il 6%. Con l’avanzare dell’età aumenta il numero di persone che non è più in grado di soddisfare autonomamente alcuni dei bisogni primari. L’ultimo report dell’OMS, eseguito su 37 Paesi, ha stimato come parzialmente disabili il 14% degli over 60, pari a 71 milioni di persone.
Il declino funzionale non è però un percorso ineluttabile per tutti, ma dipende da tre fattori: il patrimonio genetico, l’ambiente in cui viviamo e lo stile di vita, che riguarda i comportamenti durante tutto il corso dell’esistenza, anche in età matura e anziana. A tale proposito, l’attività fisica è fondamentale per il mantenimento e il benessere dell’organismo, mentre il disuso è il veicolo di malattie e invecchiamento precoce. L’altra variabile che condiziona un corretto stile di vita e l’invecchiamento in salute è la dieta. Intervenendo su questi fattori si può ritardare la comparsa delle patologie o i loro effetti più gravi di oltre 30 anni”.
Anziani: fondamentale attività fisica e screening cardiologici
Dal 2016, i Paesi dell’OMS hanno condiviso l’obiettivo dell’invecchiamento in salute, il cosiddetto healthy aging. Ciò non implica una totale assenza di patologie, ma mira a rendere gli effetti di queste ultime marginali, permettendo una buona qualità di vita e un grado sufficiente di autonomia. La prevenzione inizia da nutrizione, attività ed esercizio fisico. Tra le patologie che possono provocare maggiore disabilità e mortalità vi sono la sarcopenia e le malattie cardiovascolari.
Anziani e rischio sarcopenia
“La sarcopenia si caratterizza per la progressiva e generalizzata perdita di massa, forza muscolare e performance, che porta ad aumentato rischio di disabilità fisica, cadute, fratture, scarsa qualità di vita, complicanze e mortalità – evidenzia il Prof. Lorenzo Palleschi -. Secondo l’OMS, la sarcopenia è una delle maggiori cause di perdita di indipendenza e un grande fattore di rischio per sviluppare altre malattie in età più avanzata. Come rilevano diversi studi, la sarcopenia è frequente nella popolazione anziana e modifica l’impatto a seconda del contesto in cui si trova il soggetto: in comunità colpisce il 5-10%, in strutture di lungodegenza il 15-30%, in ospedale il 20-25%.
Ha un notevole impatto sulla qualità di vita: è stato osservato un tasso più elevato di mortalità tra i soggetti sarcopenici rispetto ai non sarcopenici con un odds ratio (OR) combinato di 3.596. Inoltre, i soggetti sarcopenici hanno un rischio significativamente più alto di esperire un declino funzionale. Per far fronte a una diagnosi di sarcopenia e migliorare la qualità di vita si può intervenire proprio sui comportamenti: come rileva la letteratura, anche una semplice camminata di circa 25 minuti al giorno è sufficiente per migliorare la condizione durante un ricovero ospedaliero acuto”.
Anziani e attività fisica
“L’esercizio fisico rappresenta uno strumento utile anche per mantenere il ritmo cardiaco nella norma – sottolinea il Prof. Francesco Vetta – Direttore UOC Cardiologia UTIC Ospedale di Avezzano e Professore di Cardiologia Unicamillus. È un dato assai rilevante, in quanto l’invecchiamento della popolazione si riflette anche su un incremento della prevalenza e dell’incidenza delle malattie cardiovascolari”.
“La Fibrillazione Atriale – prosegue – nella popolazione generale negli ultimi vent’anni è raddoppiata, passando da poco meno dell’1% a poco meno del 2%, e tenderà ad aumentare di altre due volte entro il 2050. Già oggi nella popolazione con più di 75 anni è superiore al 10%. Parallelamente, nell’anziano vi è un rischio di morte improvvisa per aritmie ventricolari, che aumenta fino a 80 anni, prima di raggiungere un plateau. A determinare la stretta relazione tra aritmie e decessi negli anziani concorrono anche altre comorbidità come la sarcopenia, che modifica le fibre muscolari, riducendo la qualità del metabolismo”.
“Da questo dato si evince l’importanza dei molteplici risvolti di un corretto stile di vita, che in relazione alle aritmie può ridurre il rischio di morte del 20-35%. Tuttavia, diversi studi mettono in luce anche il fatto che al crescere dell’impegno muscolare e della durata dell’attività fisica, si riduce il beneficio, tanto più se è uno stress vigoroso. Se un soggetto giovane fa attività fisica, il rischio di morte improvvisa per malattie cardiovascolari aumenta di 2,5 volte, mentre negli anziani aumenta a 5 volte. Se poi una persona in età anziana che non è abituata ad allenarsi decide improvvisamente di attivarsi, il rischio di sindrome coronarica acuta e di morte improvvisa aumenta di 50 volte. Servono quindi screening cardiologici preliminari per favorire anche l’effetto positivo dell’attività fisica”.
Pacing fisiologico per ridurre i rischi del cuore
In ambito cardiovascolare, il pacing fisiologico è una nuova tecnica di stimolazione cardiaca tramite pacemaker. “Con il pacing fisiologico si va a stimolare un diverso punto del cuore, in particolare il fascio di His e la branca sinistra – spiega il Prof. Francesco Vetta – Si rivela particolarmente rilevante per alcune patologie cardiache, in particolare per la stimolazione dopo sincope, per la stimolazione dopo la sostituzione di valvola aortica, per la terapia di resincronizzazione cardiaca (CRT) per lo scompenso cardiaco, per la prevenzione della cardiomiopatia indotta da stimolazione, per diverse cardiomiopatie”.
“Con la stimolazione apicale del ventricolo destro che si attua con il pacing tradizionale vi è il rischio di un deterioramento dell’attività elettrica e della funzionalità meccanica atriale e ventricolare: può aumentare del 15-20% il rischio di scompenso cardiaco e del 50% il rischio di fibrillazione atriale. Le nuove metodiche di pacing fisiologico, come la stimolazione dell’His o la stimolazione della branca sinistra, in alcuni pazienti permettono di ridurre il rischio di queste complicanze, migliorando la prognosi sia per il decesso che per la riospedalizzazione. I dati più recenti mostrano anche come l’uso di un unico elettrocatetere che stimoli direttamente la branca possa essere molto vantaggioso per migliorare le performance cardiache e lo stato di benessere del paziente affetto da Scompenso Cardiaco. Questi progressi sono pertanto altrettanto fondamentali per favorire un invecchiamento in salute”.
Infezioni e antibiotico-resistenza, nuove minacce
Associazioni pazienti, Benessere, Economia sanitaria, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneLe infezioni tropicali sono tra le nuove sfide da affrontare, insieme all’antibiotico-resistenza che sarà anche al centro del prossimo G7 Salute, a ottobre ad Ancona. L’Italia porterà l’attenzione sulle strategie in termini di ricerca, investimenti e sistemi di controllo. Il rischio di infezioni prima assenti alle nostre latitudini è spinto dal riscaldamento globale e lo spostamento delle popolazioni.
Infezioni tropicali e antibiotico-resistenza
Infezioni tropicali e antibiotico-resistenza sono alcune minacce da fronteggiare come conseguenza della globalizzazione. Se ne è parlato in un incontro al Ministero della Salute nell’ambito del progetto “La Sanità che vorrei…”, promosso dalla Simit – Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, in collaborazione con altre società scientifiche (in questa occasione AMCLI, SIMA, SIMM, SIMeVeP, ISAC-CNR), associazioni di pazienti, rappresentanze della società civile e delle imprese (Assobiotec, Farmindustria, CARB-X), decisori politici, istituzioni.
Nuove infezioni tropicali: Dengue, Zika, West Nile, Chikungunya
“Il cambiamento climatico cui assistiamo è ormai irreversibile. Da anni ci troviamo di fronte a una serie di infezioni tropicali che saranno sempre più presenti alle nostre latitudini, a causa dei frequenti spostamenti di popolazione e del riscaldamento globale – ha sottolineato il Prof. Mastroianni, Past President SIMIT –. Possiamo ipotizzare con ragionevolezza che i casi di Dengue, Zika, West Nile, Chikungunya già diffusi in passato si presentino nuovamente, soprattutto nella stagione estiva, con sempre maggiore frequenza. Servono pertanto sistemi di sorveglianza attivi sulla circolazione dei microrganismi, diagnosi precoci, oltre che una prevenzione vaccinale.
Nel 2050 14,5 milioni di morti in più per il cambiamento climatico
Sandro Fuzzi, Membro Comitato ONU per i cambiamenti climatici e associato di ricerca del CNR ISAC (Istituto Scienza Atmosfera e Clima), di Bologna, ha rilevato che le stime attuali ci portano per il 2050 a identificare a causa del cambiamento climatico 14,5 milioni di morti addizionali, con un danno economico stimato in 12mila 500 miliardi di dollari. Inoltre, mezzo miliardo di persone saranno esposte a patologie provocate da vettori (dati del World Economic Forum, Quantifying the Impact of Climate Change on Human Health, January 2024.).
Il Prof. Prisco Piscitelli, Vicepresidente SIMA – Società Italiana Medicina Ambientale, ha ricordato che nel 2023, dalla primavera all’autunno scorsi, in Italia vi sono stati 350 casi di West Nile, distribuiti in quasi tutte le regioni. Le isole di calore urbano e le piantumazioni utili ad assorbire il “climate change” sono solo alcune delle contromisure attuate. Numeri che fanno eco alle cifre segnalate dall’ISS, che ha contato 197 casi di infezione da virus Dengue dall’inizio dell’anno al 13 maggio 2024.
Antibiotico-resistenza al centro del prossimo g7 salute
L’Italia resta il primo Paese europeo per numero di infezioni e di morti, con più di 10 mila decessi l’anno stimabili come causati da microrganismi resistenti agli antibiotici. Come indicato dall’OMS, nel 2050 l’antibiotico-resistenza potrebbe diventare la prima causa di morte a livello globale, con 10 milioni di decessi. “L’antibiotico-resistenza già uccide più di un milione di persone nel mondo – ha spiegato Damiano De Felice di CARB-X, realtà internazionale no profit impegnata nello sviluppo di nuovi antibiotici, vaccini e strumenti diagnostici sulla base di un partenariato pubblico-privato. “La resistenza dei batteri agli antibiotici è un fenomeno naturale, ma stiamo perdendo la capacità di innovare e non stiamo investendo nella manutenzione continua dell’armamentario antibatterico, che invece è necessaria”.
Dal dibattito è emersa la necessità di incentivare investimenti in ricerca, interazione tra pubblico e privato, misure di infection control per le infezioni ospedaliere e la consapevolezza della cittadinanza. Come ha rilevato in conclusione il Prof. Mauro Cozzoli, Professore Emerito di Teologia Morale, Pontificia Università Lateranense, servirà un’attenzione etica e responsabile, che interpelli le nostre coscienze: la posta in gioco è grande e servirà una “solidarietà cosmica” come anima dell’approccio One Health.
Madri lavoratrici italiane tra sensi di colpa e bisogni inascoltati
Genitorialità, Madri-padri, News, Prevenzione, Psicologia, RubricheIn Italia le madri lavoratrici vivono tra sensi di colpa e totale assenza di tempo dedicato a se stesse. A tracciare i bisogni inascoltati delle mamme è stata Me First, una start up innovativa italiana, ideata dalla psicoterapeuta Cristina Di Loreto. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con lo spin-off accademico dell’Università degli Studi di Firenze – LabCom Ricerca e Azione per il benessere psicosociale. Attraverso un questionario online, l’indagine ha esplorato il benessere delle madri lavoratrici nel nostro Paese, approfondendone la percezione di qualità di vita e la soddisfazione personale.
Madri sacrificanti, stereotipo mantenuto a un prezzo carissimo
Cristina Di Loreto, psicologa, psicoterapeuta, autrice di “Mamma, rimettiti al primo posto!” e “Time mamagement”
“Le prospettive da cui si analizza l’attuale e fragile situazione della conciliazione vita lavoro delle madri in Italia continuano ad osservare la donna nel suo ruolo di accuditrice, senza chiedersi quale sia il livello di salute psicosociale della donna lavoratrice con figli nel nostro Paese – spiega Cristina Di Loreto, psicologa e ideatrice di Me First. “La ricerca che abbiamo svolto in collaborazione con LabCom dimostra, non solo che lo stereotipo della madre sacrificante è ancora diffuso, ma che questo ruolo nella società odierna viene mantenuto a un costo altissimo, l’annullamento della propria identità personale e l’esaurimento emotivo” continua la psicoterapeuta, sottolineando l’importanza dell’empowerment psicologico del genitore.
Il progetto che porta avanti si occupa di intervenire su organizzazioni e persone e “offrire strumenti psicologici in grado di gestire gli ostacoli emotivi, come ad esempio il senso di colpa e inadeguatezza è già una fortissima risposta a questa forma di disagio”. “I dati ci dicono – aggiunge – che l’alto senso di colpa si correla a scarso benessere e alto esaurimento emotivo. Di fatti imparando a gestire il senso di colpa, la madre inizia a dedicarsi del tempo, risponde ai propri bisogni individuali e alleggerisce i livelli di esaurimento emotivo, migliorando così anche il benessere psicologico che abbiamo scoperto avere un decremento dopo la nascita dei figli.” Alla domanda se le donne siano le protagoniste di questo cambiamento, risponde: “protagonista è la società, la cultura, di cui uomini e donne fanno parte. Sicuramente lo stereotipo, i dati ci raccontano, essere anche dentro di noi come sempre accade per uno stereotipo culturale. Gli uomini sono nostri alleati e la cogenitorialità diventa la risorsa necessaria per alleggerire carico, esaurimento e senso di inadeguatezza. La disciplina psicologica in ogni caso ci insegna che essere protagoniste del proprio cambiamento permette di uscire dalla frustrazione e ci pone di fronte a nuovi orizzonti con grande soddisfazione e piacere”, conclude.
Lo studio analogo sui padri
Il team di psicologi e psicoterapeuti di Me First sta portando avanti un tavolo di lavoro da fine 2023 con 13 aziende. “Produrrà a fine 2024 un inspiring paper proprio per incentivare il supporto alla sostenibilità psicosociale in azienda su madri e padri e nel 2024 faremo la ricerca sui papà”, spiega Di Loreto. “Sebbene non si utilizzi quasi mai il termine ‘working dad’, i padri lavoratori esistono eccome. Conoscerli è il miglior modo per supportarli e dare rilievo al loro ruolo”, conclude l’esperta.
Madri lavoratrici. I risultati dell’indagine
Alla ricerca hanno partecipato a livello nazionale oltre 2691 mamme lavoratrici, di età media 39,13 anni, ognuna con 1,67 figli. Hanno aderito da tutte le regioni italiane, ma con prevalenza al nord. Dai risultati emerge che 74,3% delle madri lavoratrici è sposata o convivente, oltre la metà delle donne ha figli nella fascia di età 0-6. In particolare, il 40% delle mamme con figli in questa fascia di età dichiara di non avere tempo per gli hobby, rispetto al 25% rappresentato dalle mamme con figli maggiori di 7 anni. L’82,3% del campione è costituito da donne con un lavoro dipendente e di queste il 74,6% sono impiegate.
Fra le donne che lavorano come dipendenti il 72,2% non usufruisce del telelavoro. Il 69,9% dichiara di aver avuto la necessità di una modifica del contratto con la maternità, il 45,8% ne ha fatto richiesta e il 31% ha vista accolta la domanda. Le mamme dichiarano che avrebbero bisogno o sarebbero interessate a un supporto da parte della realtà per cui lavorano nel 91,7% dei casi. Solo l’11,1% delle donne dichiara di aver ricevuto supporto dalla propria azienda. Infine, nel 91% dei casi le donne non hanno tempo per dedicarsi a un’attività di svago o una passione personale.
Madri lavoratrici
L’analisi sulle madri lavoratrici in Italia
“Il benessere di vita delle donne con bambini nella fascia di età 0-6 anni mostra un peggioramento rilevante dopo la maternità – analizza Di Loreto. La flessibilità cognitiva risulta un importante fattore protettivo per le donne essendo correlata positivamente con benessere, soddisfazione lavorativa, il sentirsi apprezzate (mattering) e negativamente con il burn-out, il senso di colpa e il maternal wall. La flessibilità cognitiva, tuttavia, sembra un’abilità acquisita e consapevole solo per le mamme con figli più grandi (oltre i 6 anni).
Infatti, “le madri con figli più piccoli risentono di maggiori ostacoli e barriere da fronteggiare”, evidenzia Moira Chiodini presidente di LabCom. “Fare di più si può. Per esempio, grazie ai percorsi che Me First ha attivato anche all’interno delle aziende, sono state riportate le madri a fare sport, ottenere promozioni, affrontare una seconda maternità che veniva procrastinata, normalizzare difficoltà, vivere più serene la propria genitorialità e i propri ruoli professionali”.
Cristina Di Loreto, psicologa, psicoterapeuta e autrice che ha fondato Me First
Dopo un ictus si scopre bilingue grazie all’IA
Ricerca innovazione, NewsTornare a parlare dopo un ictus e scoprirsi bilingue grazie all’IA. La storia di Pancho, come lo chiamano gli amici, è di quelle che colpisce per le possibilità che lascia intravedere. Il giovane ha vissuto un’esperienza drammatica: a soli 20 anni ha subito un ictus che ha paralizzato gran parte del corpo e ha perso la capacità di palare. A 30 anni, ha incontrato Edward Chang, un neurochirurgo dell’Università della California di San Francisco, che ha iniziato a studiare gli effetti dell’ictus sul suo cervello. Nel 2021, Pancho è diventato il protagonista di uno studio rivoluzionario: il team di Chang gli ha impiantato elettrodi sulla corteccia cerebrale per registrare l’attività neurale e tradurla in parole visibili su uno schermo.
Il supporto dell’IA
Facile comprendere perché questa storia ha attirato l’attenzione dei media, già alta grazie alle imprese scientifiche del chip Neuralink di Elon Musk. Ora, per la prima volta, un impianto cerebrale ha permesso a una persona bilingue, impossibilitata a parlare, di comunicare in entrambe le lingue grazie a un sistema di intelligenza artificiale. Questo sistema decodifica in tempo reale ciò che Pancho cerca di dire in spagnolo e in inglese, rappresentando un importante passo avanti nella comprensione del linguaggio umano.
Scenari futuri
I risultati, pubblicati su Nature Biomedical Engineering, offrono nuove conoscenze su come il cervello elabora il linguaggio e potrebbero portare allo sviluppo di dispositivi duraturi in grado di ripristinare il linguaggio multilingue per chi non può comunicare verbalmente. Sergey Stavisky, neuroscienziato dell’Università della California, ha elogiato lo studio (pur non essendo coinvolto) affermando che “questo nuovo studio rappresenta un contributo significativo al campo emergente delle neuroprotesi per il ripristino del linguaggio”. Nonostante la ricerca abbia coinvolto un solo partecipante, Stavisky crede che “questa strategia funzionerà con maggiore precisione in futuro, combinata con altri recenti progressi”.
La rinascita dopo l’ictus
Pancho, di madrelingua spagnola, ha imparato l’inglese solo dopo l’ictus, ma lo spagnolo rimane la lingua che evoca in lui sentimenti di familiarità e appartenenza. Il team di Chang, guidato da Alexander Silva, ha sviluppato un sistema di intelligenza artificiale per decifrare il suo parlato bilingue. Pancho ha addestrato il sistema cercando di pronunciare circa 200 parole, creando schemi neurali distinti registrati dagli elettrodi. L’intelligenza artificiale, con moduli separati per spagnolo e inglese, ha raggiunto un’accuratezza dell’88% nel distinguere le lingue e del 75% nella decodifica corretta delle frasi.
Nuove conoscenze
Questi risultati hanno rivelato nuovi aspetti dell’elaborazione del linguaggio nel cervello. Contrariamente a precedenti studi che suggerivano che lingue diverse attivassero parti distinte del cervello, i segnali registrati direttamente nella corteccia di Pancho hanno mostrato che “gran parte dell’attività, sia per lo spagnolo che per l’inglese, proveniva dalla stessa area”, secondo Silva. Inoltre, le risposte neurologiche di Pancho erano simili a quelle dei bambini cresciuti bilingui, nonostante avesse imparato l’inglese a circa 30 anni. Questi dati indicano che le diverse lingue condividono alcune caratteristiche neurologiche, suggerendo una possibile generalizzazione ad altre persone.
Apnee notturne, rischi e terapie
Adolescenti, Anziani, News, PrevenzioneLe apnee notturne sono un grave fattore di rischio, spesso conseguenza del sovrappeso, perché causa di infarti e incidenti stradali. Colpiscono sia adulti che bambini tra i 4 e i 6 anni. Oggi si stima che nel mondo ne soffrano più di un miliardo di persone tra i 30 e i 69 anni. I disturbi respiratori nel sonno e le apnee notturne sono finiti sotto i riflettori del 110° Congresso Nazionale dal titolo “Il Futuro in ascolto” della SIOeChCf – Società Italiana di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico Facciale appena concluso a Bergamo.
“Il tema delle Apnee notturne e, quindi, della cosiddetta Osas – malattia ostruttiva delle vie respiratorie nel sonno -, è diventato negli ultimi anni di grande attualità perchè si sono finalmente posti al centro e approfonditi i tantissimi problemi e patologie correlate che influiscono in maniera sostanziale sulla qualità di vita del paziente – ha detto il professor Giovanni Danesi, presidente del 110° Congresso. “È giusto che questo argomento trovi il suo canale di sensibilizzazione verso i pazienti affinchè non si sottovaluti questo problema che ha un impatto sociale sia in termini assistenziali che terapeutici non indifferenti”.
Apnee e problemi respiratori per 30 milioni di italiani
“È una patologia che interessa ben 30 milioni di italiani, uomini e donne. La maggior parte dei casi è in forma lieve e si manifesta di solito con un russamento semplice – ha spiegato il Dottore Andrea De Vito, Direttore dell’UO di Otorinolaringoiatria negli ospedali di Forlì e Faenza, dottorato PhD in Medicina del Sonno e coordinatore della commissione scientifica nazionale sui disturbi del sonno della SIO&ChCf. “Ci sono, però, ben 4 milioni di italiani a rischio di gravi conseguenze perché, nei loro casi, l’interruzione del respiro notturno avviene per 15 o più volte l’ora. Ciò significa che per 15 volte, tutti gli organi del corpo soffrono di un’ischemia temporanea”.
Cos’è l’apnea notturna e perché può essere pericolosa
L’apnea è un’occlusione delle vie respiratorie a livello faringeo. Avviene di notte perché dormendo perdiamo tono muscolare e, conseguentemente, è più facile che le strutture anatomiche della bocca e della gola collassino. Negli adulti la principale causa di apnee notturne è l’obesità e più in generale l’essere in condizioni di sovrappeso. Il deposito di grasso sia sul collo che sull’addome determina l’occlusione delle vie respiratorie a livello faringeo mentre si dorme, causando l’apnea respiratoria. A questo si possono poi aggiungere fattori genetici e fattori anatomici come le malformazioni connesse a sindromi rare o più semplicemente l’aumento di volume di alcune strutture della gola, per esempio le tonsille. In tutto il mondo, perciò, le apnee notturne crescono all’aumentare del sovrappeso nella popolazione.
Apnee notturne nei bambini
Anche nei bambini le apnee sono frequenti (tra l’1 e il 5% della popolazione italiana) e si manifestano principalmente tra i 4 e i 6 anni (ma possono iniziare anche a 2 anni). La causa principale è l’ipertrofia cioè l’ingrandimento adeno-tonsillare. “È importante la vigilanza dei genitori nel cogliere le irregolarità nel respiro notturno – riprende De Vito – perché chi soffre di apnee da bambino, se non viene trattato ne soffrirà sicuramente anche da adulto”. Oggigiorno, 8 bambini su 10 che si sottopongono all’asportazione chirurgica delle tonsille, lo fanno in seguito a diagnosi di apnea.
Rischio patologie cardiovascolari
Ma è negli adulti che le conseguenze delle apnee notturne sono più gravi. “Quando gli episodi superano i 15 all’ora – prosegue il dottor De Vito – l’apnea diventa un fattore di rischio indipendente per le patologie cardiovascolari e favorisce l’insorgenza del diabete, del reflusso gastroesofageo e dell’ipertensione, a loro volta causa di malattie dell’apparato cardiocircolatorio. Le apnee notturne, inoltre, creano forte sonnolenza diurna, diventando una causa pericolosissima di incidenti stradali e colpi di sonno alla guida”.
Come trattare le apnee notturne
Oggi le cure mediche messe a punto per questa patologia possono essere considerate
all’avanguardia. “La perdita di peso rappresenta la principale forma di prevenzione e cura delle apnee notturne. A fianco, ci sono gli ultimi ritrovati scientifici – ha spiegato il dottor De Vito che, oltre ad essere membro della Rete formativa/didattica dell’Università di Ferrara per i medici in formazione in Otorinolaringoiatria, è tra gli autori dei nuovi PDTA delle Malattie nel Sonno in approvazione per l’AUSL Romagna (1,2 mln di utenti) -. “Oltre alla terapia ventilatoria che rimane sempre la prima scelta, tra le cure d’avanguardia discusse al 110° Congresso della SioChCf si contano le cosiddette ‘oral appliances’, ovvero un byte notturno da mettere in bocca simile a quelli impiegati dai dentisti e utile ad aumentare lo spazio contenuto all’interno della bocca e di conseguenza aprire il palato, mantenendo aperte le vie aeree”.
“Un’altra opzione è quella di un neurostimolatore che, inserito chirurgicamente nella zona del mento, ha la funzione di stimolare mentre si dorme, grazie alla prossimità al nervo ipoglosso, i muscoli della lingua e facilitare la respirazione notturna. Si tratta di un’applicazione medica ancora non ancora diffusa in Italia ma utilizzata su larga scala negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei”. In entrambi i casi l’efficacia della terapia dipende, in parte, dalla stabile riduzione del peso corporeo. Ad oggi però anche la chirurgia ricostruttiva del faringe (faringoplastica) rappresenta, in casi selezionati, una valida terapia per le apnee nel sonno.
Perché è importante affrontare le apnee notturne dal punto di vista sanitario e comunicativo
“Le apnee notturne interessano almeno 1 miliardo di persone al mondo, ma è molto probabile siano di più, dato che la patologia è sottostimata e sottodiagnosticata – ha spiegato il dottor Andrea De Vito -. É una patologia insidiosa che crea gravi danni alla salute e alla sicurezza delle persone. Basti pensare che la stanchezza nei guidatori dovuta alle apnee causa una distrazione e un rischio equiparabile ad un tasso alcolemico doppio rispetto alla soglia consentita dalla legge. Esiste infatti una dimostrata correlazione tra le apnee respiratorie e il tasso alcolemico nel sangue, riconosciuto oggi come una delle principali cause di incidenti stradali”.
“Uno studio ha dimostrato come l’avere tra i 15 e i 29 episodi di apnea all’ora equivalga ad avere un tasso alcolemico sopra allo 0.14, dunque molto elevato. L’invecchiamento della popolazione e la crescita nell’incidenza di obesità e sovrappeso aumentano il rischio di apnee notturne che, a loro volta, aumentano il rischio di patologie croniche e invalidanti che pesano su servizi sociosanitari già in affanno. Per questo – ha concluso De Vito – prevenzione e trattamento tempestivo rappresentano la migliore opzione sia per la salute delle persone che per la sostenibilità della sanità”.
Bambino Gesù, giornata di sport adattato
Bambini, SportUna giornata di sport e di entusiasmo presso la sede di Palidoro dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. L’Open Day dedicato allo sport adattato per bambini e ragazzi con malformazioni o agenesia degli arti superiori si è tenuto venerdì e ha visto la presenza di numerose famiglie. Un’occasione per i giovani pazienti di sperimentare diversi sport adattati, tra cui basket integrato, scherma e tennis da tavolo.
Percorso terapeutico e riabilitativo
L’Open Day, organizzato con il supporto del Comitato Italiano Paralimpico, il Centro Sportivo Italiano di Roma, e le associazioni delle famiglie Raggiungere ed Energy Family, aveva l’obiettivo di coinvolgere le famiglie e promuovere l’importanza dello sport adattato nel percorso terapeutico e riabilitativo dei pazienti. La sede di Palidoro ospita infatti l’unità operativa complessa di Day Hospital di neuroriabilitazione e attività sportiva adattata, che si dedica alla definizione di programmi di Attività Fisica Adattata (APA) personalizzati per bambini e ragazzi con disabilità intellettiva, motoria e sensoriale.
L’open day
Nel 2023, sono stati 1.517 i pazienti seguiti, bambini dell’età media di 7,6 anni, di cui il 58,2% maschi e il 41,8% femmine. Quasi la metà (il 48,6%) proveniente dal Lazio e il restante 51,4% da altre regioni italiane. L’Open Day è iniziato con l’intervento della dottoressa Gessica Della Bella, responsabile dell’unità operativa, che ha sottolineato come lo sport adattato sia diventato parte integrante del progetto riabilitativo.
Lo sport e la linea di confine
“La linea di confine tra riabilitazione e sport adattato è infatti sempre più sottile. Il nostro obiettivo è quello di integrare lo sport nel progetto riabilitativo, perché abbiamo avuto modo di verificare che lo sport adattato facilita il recupero o l’acquisizione di una o più funzioni attraverso il gioco e il divertimento”, ha spiegato la dottoressa Della Bella.
Il parterre
A seguire, sono intervenuti Marco Iannuzzi, presidente del Comitato Italiano Paralimpico Lazio, e Alessandro Pellas, vicepresidente territoriale del Centro Sportivo Italiano di Roma. Due ospiti speciali hanno condiviso le loro esperienze con i giovani partecipanti: Carlo Di Giusto, direttore tecnico delle nazionali di basket in carrozzina, e Andrea Pellegrini, medaglia d’oro nella sciabola alle Paralimpiadi di Atene 2004.
Inclusione e terapia
L’evento ha visto anche la partecipazione delle associazioni Raggiungere ed Energy Family, che offrono sostegno alle famiglie di bambini nati con agenesia o malformazioni agli arti, o che li hanno persi a seguito di traumi. L’iniziativa ha ricordato a tutti l’importanza dello sport come strumento di inclusione e terapia, sottolineando come, attraverso il gioco e il divertimento, i giovani pazienti possano non solo migliorare le proprie abilità fisiche, ma anche trovare una fonte di gioia e speranza nel loro percorso di vita.
Anziani, disabilità si può ritardare di 30 anni
Anziani, Economia sanitaria, News, PrevenzioneSarcopenia e patologie cardiovascolari sono tra le principali cause di perdita di autosufficienza negli anziani e un grave fattore di rischio di ospedalizzazione e decesso. Intervenire sull’attività fisica, sulla dieta e sui controlli cardiologici regolari può ritardare la comparsa di disabilità anche di 30 anni. L’Italia è uno dei Paesi più anziani del mondo – il secondo dopo il Giappone – con ulteriori prospettive di invecchiamento. I dati recenti pubblicati dall’Annuario ISTAT 2024 certificano una realtà consolidata che richiede un impegno affinché gli anni di vita guadagnati siano vissuti in buone condizioni di salute. Questo è il messaggio ribadito anche dalla SIGOT – Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio, durante il 38° Congresso Nazionale concluso di recente a Roma.
Italia, oltre 14 milioni di over 65, ma la disabilità è evitabile
Come rilevano i dati ISTAT, tra il 2004 e il 2024, l’età media della popolazione è aumentata da 42,3 a 46,6 anni. I residenti di 65 anni e più sono incrementati di oltre 3 milioni, e oggi sono 14 milioni 358 mila (+5,1 punti percentuali rispetto al 2004). Di questi, oltre la metà ha almeno 75 anni: 7 milioni 439 mila. Il calo della mortalità (661 mila decessi in meno) si traduce in una speranza di vita alla nascita di 83,1 anni. L’invecchiamento della popolazione aumenterà ancora nei prossimi due decenni. Nel 2050, si prevede che le persone over 65 anni saranno tre volte più numerose dei giovani con meno di 15 anni.
“Il mondo sta invecchiando – commenta il Prof. Lorenzo Palleschi – Presidente SIGOT Nazionale, Direttore Unità Operativa Complessa di Geriatria e del Dipartimenti Internistico dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni-Addolorata, Roma. Gli ultra80enni sono la classe a più rapida espansione: dal 2001 al 2020, nei Paesi europei sono passati dal 3,4% a quasi il 6%. Con l’avanzare dell’età aumenta il numero di persone che non è più in grado di soddisfare autonomamente alcuni dei bisogni primari. L’ultimo report dell’OMS, eseguito su 37 Paesi, ha stimato come parzialmente disabili il 14% degli over 60, pari a 71 milioni di persone.
Il declino funzionale non è però un percorso ineluttabile per tutti, ma dipende da tre fattori: il patrimonio genetico, l’ambiente in cui viviamo e lo stile di vita, che riguarda i comportamenti durante tutto il corso dell’esistenza, anche in età matura e anziana. A tale proposito, l’attività fisica è fondamentale per il mantenimento e il benessere dell’organismo, mentre il disuso è il veicolo di malattie e invecchiamento precoce. L’altra variabile che condiziona un corretto stile di vita e l’invecchiamento in salute è la dieta. Intervenendo su questi fattori si può ritardare la comparsa delle patologie o i loro effetti più gravi di oltre 30 anni”.
Anziani: fondamentale attività fisica e screening cardiologici
Dal 2016, i Paesi dell’OMS hanno condiviso l’obiettivo dell’invecchiamento in salute, il cosiddetto healthy aging. Ciò non implica una totale assenza di patologie, ma mira a rendere gli effetti di queste ultime marginali, permettendo una buona qualità di vita e un grado sufficiente di autonomia. La prevenzione inizia da nutrizione, attività ed esercizio fisico. Tra le patologie che possono provocare maggiore disabilità e mortalità vi sono la sarcopenia e le malattie cardiovascolari.
Anziani e rischio sarcopenia
“La sarcopenia si caratterizza per la progressiva e generalizzata perdita di massa, forza muscolare e performance, che porta ad aumentato rischio di disabilità fisica, cadute, fratture, scarsa qualità di vita, complicanze e mortalità – evidenzia il Prof. Lorenzo Palleschi -. Secondo l’OMS, la sarcopenia è una delle maggiori cause di perdita di indipendenza e un grande fattore di rischio per sviluppare altre malattie in età più avanzata. Come rilevano diversi studi, la sarcopenia è frequente nella popolazione anziana e modifica l’impatto a seconda del contesto in cui si trova il soggetto: in comunità colpisce il 5-10%, in strutture di lungodegenza il 15-30%, in ospedale il 20-25%.
Ha un notevole impatto sulla qualità di vita: è stato osservato un tasso più elevato di mortalità tra i soggetti sarcopenici rispetto ai non sarcopenici con un odds ratio (OR) combinato di 3.596. Inoltre, i soggetti sarcopenici hanno un rischio significativamente più alto di esperire un declino funzionale. Per far fronte a una diagnosi di sarcopenia e migliorare la qualità di vita si può intervenire proprio sui comportamenti: come rileva la letteratura, anche una semplice camminata di circa 25 minuti al giorno è sufficiente per migliorare la condizione durante un ricovero ospedaliero acuto”.
Anziani e attività fisica
“L’esercizio fisico rappresenta uno strumento utile anche per mantenere il ritmo cardiaco nella norma – sottolinea il Prof. Francesco Vetta – Direttore UOC Cardiologia UTIC Ospedale di Avezzano e Professore di Cardiologia Unicamillus. È un dato assai rilevante, in quanto l’invecchiamento della popolazione si riflette anche su un incremento della prevalenza e dell’incidenza delle malattie cardiovascolari”.
“La Fibrillazione Atriale – prosegue – nella popolazione generale negli ultimi vent’anni è raddoppiata, passando da poco meno dell’1% a poco meno del 2%, e tenderà ad aumentare di altre due volte entro il 2050. Già oggi nella popolazione con più di 75 anni è superiore al 10%. Parallelamente, nell’anziano vi è un rischio di morte improvvisa per aritmie ventricolari, che aumenta fino a 80 anni, prima di raggiungere un plateau. A determinare la stretta relazione tra aritmie e decessi negli anziani concorrono anche altre comorbidità come la sarcopenia, che modifica le fibre muscolari, riducendo la qualità del metabolismo”.
“Da questo dato si evince l’importanza dei molteplici risvolti di un corretto stile di vita, che in relazione alle aritmie può ridurre il rischio di morte del 20-35%. Tuttavia, diversi studi mettono in luce anche il fatto che al crescere dell’impegno muscolare e della durata dell’attività fisica, si riduce il beneficio, tanto più se è uno stress vigoroso. Se un soggetto giovane fa attività fisica, il rischio di morte improvvisa per malattie cardiovascolari aumenta di 2,5 volte, mentre negli anziani aumenta a 5 volte. Se poi una persona in età anziana che non è abituata ad allenarsi decide improvvisamente di attivarsi, il rischio di sindrome coronarica acuta e di morte improvvisa aumenta di 50 volte. Servono quindi screening cardiologici preliminari per favorire anche l’effetto positivo dell’attività fisica”.
Pacing fisiologico per ridurre i rischi del cuore
In ambito cardiovascolare, il pacing fisiologico è una nuova tecnica di stimolazione cardiaca tramite pacemaker. “Con il pacing fisiologico si va a stimolare un diverso punto del cuore, in particolare il fascio di His e la branca sinistra – spiega il Prof. Francesco Vetta – Si rivela particolarmente rilevante per alcune patologie cardiache, in particolare per la stimolazione dopo sincope, per la stimolazione dopo la sostituzione di valvola aortica, per la terapia di resincronizzazione cardiaca (CRT) per lo scompenso cardiaco, per la prevenzione della cardiomiopatia indotta da stimolazione, per diverse cardiomiopatie”.
“Con la stimolazione apicale del ventricolo destro che si attua con il pacing tradizionale vi è il rischio di un deterioramento dell’attività elettrica e della funzionalità meccanica atriale e ventricolare: può aumentare del 15-20% il rischio di scompenso cardiaco e del 50% il rischio di fibrillazione atriale. Le nuove metodiche di pacing fisiologico, come la stimolazione dell’His o la stimolazione della branca sinistra, in alcuni pazienti permettono di ridurre il rischio di queste complicanze, migliorando la prognosi sia per il decesso che per la riospedalizzazione. I dati più recenti mostrano anche come l’uso di un unico elettrocatetere che stimoli direttamente la branca possa essere molto vantaggioso per migliorare le performance cardiache e lo stato di benessere del paziente affetto da Scompenso Cardiaco. Questi progressi sono pertanto altrettanto fondamentali per favorire un invecchiamento in salute”.
Osteoporosi, in arrivo una rivoluzione
News, Prevenzione, Ricerca innovazioneUna nuova piccola proteina potrebbe rivoluzionare la lotta all’osteoporosi. Uno studio, pubblicato sulla rivista Cell Reports Medicine, rivela che questa proteina ha la duplice capacità di fermare il riassorbimento e la perdita ossea e di favorire la formazione di nuovo osso sano. Per ora lo studio, coordinato da Helen McGrettick dell’Università di Birmingham, è stato condotto solo su animali, ma i risultati sono stati più che incoraggianti.
Come una pepita
La piccola proteina in questione si chiama “Pepitem”, nome che ne riassume bene l’importanza, e potrebbe assumere un ruolo centrale nella lotta all’osteoporosi perché stimola la formazione di nuovo osso dall’interno, sfruttando i meccanismi fisiologici endogeni.
Cos’è l’osteoporosi?
Per comprendere a pieno l’importanza della scoperta, occorre però comprendere quanto sia impattante questa malattia. L’osteoporosi è una patologia metabolica delle ossa caratterizzata da una riduzione della densità minerale ossea e dal deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo. La conseguenza è un maggior rischio di fratture, specialmente nelle ossa del polso, dell’anca e della colonna vertebrale. È una “malattia silenziosa”, perché si sviluppa gradualmente e spesso non presenta sintomi evidenti fino a quando non si verifica una frattura.
I danni dell’osteoporosi
Le conseguenze dell’osteoporosi possono essere gravi e debilitanti. Le fratture osteoporotiche, in particolare quelle dell’anca e della colonna vertebrale, possono causare dolore cronico, disabilità, e una significativa riduzione della qualità della vita. Nei casi più gravi, le fratture dell’anca possono richiedere un intervento chirurgico e una lunga riabilitazione, e possono anche aumentare il rischio di mortalità nei pazienti anziani. Le fratture vertebrali possono portare a deformità della colonna, perdita di altezza e dolore persistente, influenzando negativamente la mobilità e l’indipendenza della persona colpita.
Diagnosi dell’osteoporosi
La diagnosi precoce dell’osteoporosi è fondamentale per prevenire le fratture e le loro complicazioni. Uno degli strumenti diagnostici più efficaci è la densitometria ossea (DEXA). Questo test, considerato il gold standard per la diagnosi dell’osteoporosi, misura la densità minerale ossea utilizzando una bassa dose di raggi X. Il risultato, espresso come T-score, indica la densità ossea rispetto a quella di un giovane adulto sano. Sono anche fondamentali gli esami del sangue e delle urine. Questi possono essere utilizzati per valutare i livelli di calcio, fosforo, vitamina D e altri marker metabolici che possono influenzare la salute delle ossa.
Valutazione clinica
Per arrivare ad una diagnosi serve, tuttavia, un’approfondita valutazione clinica, che include la raccolta di una dettagliata storia medica del paziente, l’analisi dei fattori di rischio (come l’età, il sesso, la storia familiare di osteoporosi, e l’uso di farmaci che possono influire sul metabolismo osseo), e un esame fisico per rilevare segni di fratture o deformità ossee.
Affrontare l’osteoporosi
La gestione dell’osteoporosi si basa su un approccio multidisciplinare che comprende cambiamenti nello stile di vita, terapie farmacologiche, e misure di prevenzione delle cadute. Ecco alcune delle principali strategie:
L’arma della prevenzione
Facile comprendere perché l’osteoporosi rappresenta una seria minaccia per la salute delle ossa, soprattutto nelle persone anziane. La prevenzione e la diagnosi precoce sono essenziali per ridurre il rischio di fratture e le conseguenze debilitanti che ne derivano. Un approccio combinato che include uno stile di vita sano, trattamenti farmacologici adeguati e misure preventive può aiutare a gestire efficacemente questa condizione e migliorare la qualità della vita dei pazienti affetti da osteoporosi.
Poliposi nasale per 2 mln di italiani, aumentano rinosinusiti
Farmaceutica, News, Ricerca innovazioneNon si conoscono con esattezza le cause, né si può garantire la guarigione: le Rinosinusiti croniche (che in sé colpiscono il 11% della popolazione) quando associate a Poliposi nasale (circa il 4% della popolazione, ossia 2 mln di italiani adulti), possono durare tutta la vita. Causano danni alla mucosa nasale e all’olfatto, impattano sulla qualità della vita e del sonno delle persone affette.
La poliposi nasale
“La poliposi nasale è uno stato di infiammazione cronica che porta ad un edema della mucosa ed una eccessiva produzione di muco nel naso. Riduce o fa perdere l’olfatto ed è, a sua volta, causa di infezioni secondarie di natura batterica ai seni paranasali non più sufficientemente ventilati” spiega il Professor Fabio Pagella, Otorinolaringoiatra all’Università di Pavia e coordinatore del Comitato scientifico di Rinologia SIOeChCF durante il 110° Congresso Nazionale della Società Italiana di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico Facciale in corso a Bergamo.
Cause sconosciute, legame con allergie
Non si conoscono le origini di queste patologie. Sebbene si manifestino nel naso, spesso le infiammazioni interessano tutto l’apparato respiratorio (sia le alte sia le basse vie aeree). Spesso l’otorinolaringoiatra necessita di coordinare un’equipe multidisciplinare costruita attorno al paziente.
“Sappiamo, per esempio, che esiste una connessione tra le Riniti allergiche, condizioni che colpiscono quasi un terzo della popolazione e sono in aumento in tutti i Paesi industrializzati. Essenziale è la diagnosi precoce delle allergie, e il loro trattamento al fine di ridurre il rischio di sviluppare poliposi e infiammazioni croniche nel naso”.
Poliposi spesso necessita di terapie per tutta la vita
Il problema principale della Poliposi è la durata del trattamento. “Spesso i pazienti si stancano di assumere farmaci tutti i giorni – spiega Pagella – ma è importante comunicare che il trattamento deve essere quotidiano e, potenzialmente, per tutta la vita. In una Poliposi o una Rinosinusite cronica ben inquadrata e con aderenza alla terapia i sintomi possono essere trattati molto efficacemente. Molto importante, anche e soprattutto nei bambini con riniti/sinusiti, è l’igiene e il lavaggio nasale con soluzioni saline così da ottimizzare la terapia topica”.
Ruolo dello specialista nella scelta della terapia
“Attenzione, però, ad andare in farmacia senza una prescrizione dello specialista, sottolinea lo specialista. I prodotti sono tanti ma anche molto diversi tra loro; alcuni da usare solo pochi giorni, altri più a lungo. In generale, possiamo dire che l’applicazione topica (locale) del cortisone offre ottimi risultati: riduce l’infiammazione senza gli effetti collaterali associati all’assunzione sistemica”.
“Anche la chirurgia endoscopica del naso – prosegue – permette di intervenire rimuovendo i polipi refrattari a farmaci e, ove tutto questo non fosse sufficiente per restituire benessere e qualità della vita, l’ultima frontiera in questo ambito è data dai farmaci biologici. Questi farmaci agiscono a monte sul percorso dell’infiammazione e stanno dando buoni risultati sebbene la loro prescrizione sia regolata in maniera molto rigida e restrittiva”.
Poliposi severa e farmaci biologici
“I farmaci biologici o innovativi vengono prescritti dall’otorinolaringoiatra per una poliposi severa, cioè una sinusite cronica polipoide refrattaria alle terapie mediche normalmente utilizzate (lavaggi nasali, corticosteroide topico e eventualmente 2 cicli anno di corticosteroide sistemico), cui può seguire l’approccio chirurgico. Qualora tutto questo non dia risultati, allora si può passare alla terapia biologica in aggiunta alla terapia ottimale che rimane sempre il lavaggio nasale e l’impiego di corticosteroidi – interviene il professor Giancarlo Ottaviano, Otorinolaringoiatra dell’Università di Padova.
Nuove terapie per la poliposi
”Per la poliposi nasale – prosegue Ottaviano – oggi abbiamo tre tipi di anticorpi monoclonali che permettono sostanzialmente di bloccare la cascata infiammatoria in maniera molto specifica. Vengono dati appunto come terapia aggiuntiva ogni due settimane sottocute oppure una volta al mese, a seconda del farmaco biologico e delle caratteristiche del paziente. Sono farmaci che possono essere considerati innovativi perché queste patologie coinvolgono sia le alte che le basse vie respiratorie, quindi sia il naso e i seni paranasali ma anche i bronchi, in pazienti che hanno spesso asma, allergie, intolleranza all’aspirina per esempio. Dare un farmaco biologico significa agire sostanzialmente a livello sistemico bloccando la cascata infiammatoria non solo a livello nasale ma anche a livello bronchiale”.
Importante aderenza alla terapia e approccio multidisciplinare
“In definitiva – prosegue il Professor Fabio Pagella – Rinosinusiti croniche e Poliposi nasale possono essere trattate sì in maniera efficace, ma rimane il fatto che diagnosi specialistica, aderenza alla terapia e un approccio multidisciplinare che veda il paziente al centro di un’equipe di specialisti, sono i requisiti per preservare o recuperare qualità della vita e salute delle vie aeree”.
“Da decenni le rinosinusiti croniche (con o senza poliposi) vengono trattate con farmaci come antibiotici, cortisonici e antiistaminici, senza che si abbia poi una perfetta conoscenza dei meccanismi fisiopatologici alla base di queste patologie. Negli ultimi anni sta diventando sempre più evidente che vi sono diverse forme di rinosinusite cronica, caratterizzate da profili biologici differenti. È pertanto fondamentale che i pazienti ricevano una diagnosi precoce ed accurata, definita attraverso un percorso multidisciplinare (otorinolaringoiatra, allergologo e pneumologo sono i più importanti nell’elenco degli specialisti coinvolti) e un trattamento (medico e chirurgico, laddove indicato) il più possibile personalizzato” conclude il presidente SIOeChCF professor Piero Nicolai, Ordinario di Otorinolaringoiatria presso l’Università degli Studi di Padova.
Alzheimer, prevenzione possibile nel 40% dei casi
Anziani, NewsSono oltre sei milioni le persone in Italia interessate direttamente o meno dalle demenze. Si stima che siano circa 1,1-1,2 milioni di persone, a cui si devono aggiungere circa quattro milioni di familiari e badanti coinvolti e circa 900mila persone con deficit cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment – MCI). Non esistono cure, ma è possibile una prevenzione che eviti o ritardi la comparsa dei sintomi nel 40% dei casi. Le strategie contro l’alzheimer e tutte le demenze vanno da un corretto stile di vita, base dell’invecchiamento in salute, alla stimolazione cognitiva e alla socializzazione, fino ad una gestione geriatrica che abbia una visione complessiva della persona. Se n’è discusso al 38° Congresso Nazionale della Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio che si chiude oggi.
Alzheimer, i 12 fattori di rischio
La prevenzione dell’Alzheimer e delle demenze in generale è possibile intervenendo sui fattori di rischio nel corso di tutta la vita. Include la possibilità di stimolazione cognitiva (per esempio strategie di allenamento della memoria), socializzazione, attività fisica e dieta secondo i principi dell’invecchiamento attivo o healthy aging, e quanto dimostrato dalla ricerca scientifica.
“Il declino cognitivo è evitabile, ma dipende dal patrimonio genetico, dall’ambiente in cui viviamo e dallo stile di vita, ossia i comportamenti durante tutto il corso dell’esistenza, a partire dall’attività fisica e dalla dieta – spiega Luca Cipriani, Direttore UO Geriatria ASL Roma 1 e Vicepresidente SIGOT –. La letteratura scientifica sull’Alzheimer identifica dodici fattori di rischio modificabili: istruzione inadeguata, ipertensione, deficit uditivo, fumo, obesità, depressione, inattività fisica, diabete, scarso contatto sociale, lesioni cerebrali traumatiche, abuso di alcol, inquinamento atmosferico. Il rischio potenzialmente modificabile è del 40%. Le azioni specifiche che si possono prendere includono il mantenimento della pressione sanguigna sistolica al di sotto di 130 mm Hg nella mezza età, la promozione dell’uso di apparecchi acustici, la riduzione dell’esposizione all’inquinamento atmosferico e al fumo passivo, la prevenzione delle lesioni cerebrali, la limitazione del consumo di alcol, lo scoraggiamento del fumo, un buon livello di istruzione, il contrasto all’obesità e al diabete, una buona qualità del sonno. Occorre inoltre attribuire un ruolo centrale alla geriatria, affinché possa prendere in carica la persona anziana che è a maggior rischio di sviluppo di demenza”.
Mancanza di un nuovo piano nazionale demenze dal 2014
Più del 40% degli ultra 75enni vive da solo ed è a rischio di solitudine. Inoltre, essendo aumentata la vita media, la probabilità di incorrere nel decadimento cognitivo e nella demenza è molto più alta rispetto al passato. I dati più recenti emergono dal Report dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato a inizio 2024, che stima anche il costo annuo della demenza in 23 miliardi di euro, il 63% dei quali a carico delle famiglie.
“La prevalenza dell’Alzheimer e delle demenze in generale è in aumento, in quanto si tratta di un tema legato all’invecchiamento, fenomeno che interessa da vicino il nostro Paese – sottolinea Andrea Fabbo, direttore della UO di Geriatria della AUSL di Modena e Vicepresidente SIGOT. – La demenza è una sindrome ad alto impatto, che aumenterà nei prossimi anni, creando ulteriori difficoltà e stress nelle famiglie, viste le complicanze legate ai disturbi del comportamento (agitazione, problemi del sonno). Si deve pertanto potenziare l’assistenza sia a domicilio che nelle strutture, visto che il 70% delle 350mila persone ricoverate nelle RSA ha una qualche forma di demenza. Al tempo stesso si deve creare una rete che permetta alle persone con demenza e ai loro caregiver di poter essere gestiti nella comunità.
Il Fondo nazionale Alzheimer di 35 milioni di euro permetterà alle regioni di proseguire i progetti iniziati nell’organizzazione della rete dei centri per i disturbi cognitivi e le demenze. L’obiettivo a cui stiamo lavorando al tavolo tecnico coordinato dal Ministero della Salute è un nuovo Piano Nazionale, visto che il precedente risale al 2014 e non si occupa della residenzialità. Questo ambizioso obiettivo potrà essere raggiunto se inserito nell’agenda politica del Paese”.
Il modello di Modena
Un esempio virtuoso nella prevenzione e nella gestione dei disturbi cognitivi è quello di Modena dove è strutturata una rete di servizi (dall’ospedale al territorio) che si occupa non solo della diagnosi, cura ed assistenza delle persone con demenza e del suo caregiver, ma anche degli anziani “a rischio”, per esempio attraverso progetti di comunità come “le Palestre della memoria”, luoghi di aggregazione dove le persone esercitano le proprie funzioni cognitive in compagnia.
“L’approccio alla patologia non risiede solo nella capacità di cura di un farmaco, ma nel ricorso a diverse azioni che possono risolvere specifici aspetti dell’Alzheimer – spiega Andrea Fabbo che ne è responsabile –. Oggi abbiamo la possibilità di erogare trattamenti di tipo non farmacologico (i cosiddetti ‘interventi psicosociali’), che possono rallentare il decorso della demenza e che eroghiamo nella nostra rete di cura. Offriamo poi supporto ai familiari con interventi sia a domicilio che nelle residenze, interventi educativi e terapia occupazionale, di affiancamento, tutoring, sostegno socio-relazionale al caregiver, percorsi di sostegno psicologico individuale o di gruppo e interventi di supporto psico-educativo, iniziative di formazione”.
Presa Weekly 24 Maggio 2024
PreSa Weekly