Tempo di lettura: 4 minutiChi è affetto dalla sindrome metabolica ha un rischio maggiore di incorrere in neoplasie. Gli ultimi studi sul legame tra patologie come l’obesità e i tumori sono stati presentati durante il 30° Congresso nazionale delle Malattie Digestive dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE).
Obesità e tumori
Fra le componenti della sindrome metabolica, in particolare, “l’obesità incrementa la disponibilità dei fattori stimolanti l’insulina che aumentano, a loro volta, l’infiammazione e il rischio di sviluppare neoplasie del tratto gastro-intestinale. Come è stato dimostrato, i pazienti che sommano obesità e insulino-resistenza sono esposti a un rischio elevato di sviluppare un tumore al fegato, ma anche al colon ed altri tratti dell’apparato digerente”, spiega Luca Miele, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Perdere peso riduce rischio
La perdita di peso per i pazienti con sindrome metabolica è il mezzo migliore per abbassare il rischio cancro. “I nuovi farmaci per la riduzione del peso potrebbero essere efficaci a medio e lungo termine anche nella prevenzione delle neoplasie epatiche,” spiega il professor Miele. “Inoltre, le tecniche di chirurgia bariatrica hanno già dimostrato di abbassare il rischio di tumore al fegato, confermando così la loro efficacia a lungo termine nel ridurre le probabilità di cancro al fegato”.
Obesità e rischi tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas
I tumori più frequenti dell’apparato digerente, legati alla sindrome metabolica, sono il tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas. “Meno frequenti – commenta Filomena Morisco, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Napoli Federico II – sono quelli dello stomaco e dell’esofago, sebbene ci sia comunque una correlazione. La sindrome metabolica presenta un insieme di varie componenti, come obesità, dislipidemia, diabete e ipertensione arteriosa, ed ognuna di esse ha un peso diverso, in relazione ai diversi tumori. Per esempio, nel caso del tumore del colon-retto, la componente più importante è legata all’obesità, al basso livello di colesterolo HDL e al diabete. Nel tumore del fegato, gioca un ruolo maggiore il diabete, ma pure l’obesità e la steatosi epatica. È chiaro che i pazienti, vista la correlazione, debbano essere periodicamente controllati. Quello che dovrebbe emergere, specie nell’ambito medicina generale, è che il rischio di cancro del colon-retto e del fegato è alto nei soggetti obesi e diabetici, legata alla presenza di steatosi epatica e steatoepatite, ed è consigliabile, almeno per i soggetti a più alto rischio mantenere un regime di sorveglianza, tramite un’ecografia”.
Nuovi farmaci
Lo scorso anno la nomenclatura Metabolic Dysfunction-Associated Steatotic Liver Disease (MASLD) ha sostituito la vecchia Non-alcoholic fatty liver disease (NAFLD), al fine di mettere in risalto la radice metabolica di questa epatopatia. “Con la nuova nomenclatura – spiega Elisabetta Bugianesi, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Torino – viene descritta la condizione in cui il paziente ha una malattia sistemica, con alterazioni dismetaboliche in vari organi e la possibilità di manifestare outcome diversi, quale il rischio di mortalità cardiovascolare oltre che epatica. La nuova nomenclatura – aggiunge – mette in evidenza la necessità di un approccio multidisciplinare: non si può infatti curare solo il fegato, bensì anche le comorbidità presenti, come diabete e dislipidemia. Il primo step della terapia è quindi controllare i fattori dismetabolici che l’hanno causata”.
“Come epatologi – sottolinea la professoressa Bugianesi – ci stiamo occupando di fermare o rallentare la progressione della fibrosi nella MASLD e in particolare della MASH (Metabolic-dysfunction associated steatohepatitis), che potrebbe condurre a cirrosi e aumentare il rischio di epatocarcinoma. Finora – continua – i trial farmacologici sono stati compiuti su pazienti non cirrotici e, nel momento in cui i farmaci verranno approvati, i pazienti trattabili saranno quelli con MASH, caratterizzata da necrosi epatocitaria accompagnata da fibrosi di grado moderato o severo”.
Trattare l’obesità per ridurre rischio
Dei farmaci più promettenti in sperimentazione, che agiscono sulle cause dismetaboliche, “ci sono GLP-1 receptor agonists, in particolare la semaglutide (in fase III), e dual GLP-1/GIP o GLP-1/GCGR receptor agonist (in fase II)”, ricorda la professoressa dell’Università di Torino. “Sono farmaci molto potenti – osserva – perché non solo riducono il peso e riducono il danno istologico nel fegato, ma hanno anche un’azione cardio-protettiva. Tuttavia non sono stati ancora approvati per la MASH. L’unico farmaco approvato finora dall’FDA è il resmetirom, un agonista del recettore beta degli ormoni tiroidei sul fegato, che ha un’azione molto potente sulla steatosi poiché aumenta l’ossidazione dei grassi a livello dell’organo e migliora l’attività mitocondriale nelle cellule epatiche. Nella fase III, ha mostrato una risoluzione della MASH, ma anche della fibrosi nel 25% dei casi”.
Un’altra classe di farmaci che agiscono sulle cause dismetaboliche è rappresentata dal pioglitazone, consigliato nelle precedenti linee guida per il trattamento della MASH (anche se non approvato per la MASH ma solo per il trattamento del diabete tipo 2). Il pioglitazone elimina il grasso viscerale ed epatico, riportandolo nel tessuto adiposo sottocutaneo. “In questo momento – commenta la professoressa – è in sperimentazione, in fase III, un farmaco della stessa classe (pan-PPAR-agonist), il lanifibranor, che agisce in termini di risoluzione della MASH e di miglioramento della fibrosi”.
Dieta mediterranea
Secondo le ricerche scientifiche, nella prevenzione dei tumori dell’apparato gastrointestinale gioca un ruolo importante l’alimentazione. “La dieta Mediterranea tradizionale è stata descritta per la prima volta in un lavoro scientifico nel 1957”, rammenta Ludovico Abenavoli, professore associato di Gastroenterologia dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro. Da allora, “una serie di studi importanti sono stati sviluppati per dimostrare l’efficacia nella prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili. Oggi sappiamo che la dieta altamente ricca di frutta, verdura e di alimenti funzionali ricchi di antiossidanti esercita un’azione effettivamente preventiva delle patologie croniche, fra cui i tumori dell’apparato digerente. È una dieta vincente per l’azione sinergica di tutti gli alimenti”.
Cibi che combattono il rischio
Alcuni cibi hanno dimostrato proprietà eccellenti negli studi. Per esempio, la buccia della mela annurca contiene l’acido clorogenico, efficace nel prevenire i tumori dell’apparato gastrointestinale. Il bergamotto contiene la bergamottina, un potentissimo antiossidante, che riduce lo sviluppo di cloni cellulari tumorali fra cui quello a seno, endometrio e apparato gastrointestinale. L’olio extra vergine d’oliva ha un’alta concentrazione di acidi grassi saturi (omega 3 e 6) che prevengono dal rischio cardiovascolare, ma è ricco anche di antiossidanti che agiscono sull’apparato digerente”.
Dieta mediterranea e microbiota
“Riguardo all’azione della dieta Mediterranea sul microbiota – prosegue lo specialista – cioè sui miliardi di batteri che popolano l’intestino (in particolare il piccolo intestino) gli studi rilevano che quando è alterato e subentra una disfunzione, chiamata disbiosi, sale il rischio che si sviluppi la poliposi e il tumore del colon, maggiormente in crescita negli ultimi anni. “Per non alterare il microbiota – conclude l’esperto –, occorre seguire una dieta Mediterranea ricca di frutta e verdura con l’integrazione di probiotici, somministrati a cicli e mai in maniera continuativa. I ceppi batterici che hanno maggior validità scientifica sono in particolare i lattobacilli”.
Obesità e insulino-resistenza insieme aumentano rischio tumore al fegato
Alimentazione, Associazioni pazienti, Farmaceutica, Prevenzione, Ricerca innovazioneChi è affetto dalla sindrome metabolica ha un rischio maggiore di incorrere in neoplasie. Gli ultimi studi sul legame tra patologie come l’obesità e i tumori sono stati presentati durante il 30° Congresso nazionale delle Malattie Digestive dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE).
Obesità e tumori
Fra le componenti della sindrome metabolica, in particolare, “l’obesità incrementa la disponibilità dei fattori stimolanti l’insulina che aumentano, a loro volta, l’infiammazione e il rischio di sviluppare neoplasie del tratto gastro-intestinale. Come è stato dimostrato, i pazienti che sommano obesità e insulino-resistenza sono esposti a un rischio elevato di sviluppare un tumore al fegato, ma anche al colon ed altri tratti dell’apparato digerente”, spiega Luca Miele, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Perdere peso riduce rischio
La perdita di peso per i pazienti con sindrome metabolica è il mezzo migliore per abbassare il rischio cancro. “I nuovi farmaci per la riduzione del peso potrebbero essere efficaci a medio e lungo termine anche nella prevenzione delle neoplasie epatiche,” spiega il professor Miele. “Inoltre, le tecniche di chirurgia bariatrica hanno già dimostrato di abbassare il rischio di tumore al fegato, confermando così la loro efficacia a lungo termine nel ridurre le probabilità di cancro al fegato”.
Obesità e rischi tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas
I tumori più frequenti dell’apparato digerente, legati alla sindrome metabolica, sono il tumore del fegato, del colon-retto e del pancreas. “Meno frequenti – commenta Filomena Morisco, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Napoli Federico II – sono quelli dello stomaco e dell’esofago, sebbene ci sia comunque una correlazione. La sindrome metabolica presenta un insieme di varie componenti, come obesità, dislipidemia, diabete e ipertensione arteriosa, ed ognuna di esse ha un peso diverso, in relazione ai diversi tumori. Per esempio, nel caso del tumore del colon-retto, la componente più importante è legata all’obesità, al basso livello di colesterolo HDL e al diabete. Nel tumore del fegato, gioca un ruolo maggiore il diabete, ma pure l’obesità e la steatosi epatica. È chiaro che i pazienti, vista la correlazione, debbano essere periodicamente controllati. Quello che dovrebbe emergere, specie nell’ambito medicina generale, è che il rischio di cancro del colon-retto e del fegato è alto nei soggetti obesi e diabetici, legata alla presenza di steatosi epatica e steatoepatite, ed è consigliabile, almeno per i soggetti a più alto rischio mantenere un regime di sorveglianza, tramite un’ecografia”.
Nuovi farmaci
Lo scorso anno la nomenclatura Metabolic Dysfunction-Associated Steatotic Liver Disease (MASLD) ha sostituito la vecchia Non-alcoholic fatty liver disease (NAFLD), al fine di mettere in risalto la radice metabolica di questa epatopatia. “Con la nuova nomenclatura – spiega Elisabetta Bugianesi, Professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università di Torino – viene descritta la condizione in cui il paziente ha una malattia sistemica, con alterazioni dismetaboliche in vari organi e la possibilità di manifestare outcome diversi, quale il rischio di mortalità cardiovascolare oltre che epatica. La nuova nomenclatura – aggiunge – mette in evidenza la necessità di un approccio multidisciplinare: non si può infatti curare solo il fegato, bensì anche le comorbidità presenti, come diabete e dislipidemia. Il primo step della terapia è quindi controllare i fattori dismetabolici che l’hanno causata”.
“Come epatologi – sottolinea la professoressa Bugianesi – ci stiamo occupando di fermare o rallentare la progressione della fibrosi nella MASLD e in particolare della MASH (Metabolic-dysfunction associated steatohepatitis), che potrebbe condurre a cirrosi e aumentare il rischio di epatocarcinoma. Finora – continua – i trial farmacologici sono stati compiuti su pazienti non cirrotici e, nel momento in cui i farmaci verranno approvati, i pazienti trattabili saranno quelli con MASH, caratterizzata da necrosi epatocitaria accompagnata da fibrosi di grado moderato o severo”.
Trattare l’obesità per ridurre rischio
Dei farmaci più promettenti in sperimentazione, che agiscono sulle cause dismetaboliche, “ci sono GLP-1 receptor agonists, in particolare la semaglutide (in fase III), e dual GLP-1/GIP o GLP-1/GCGR receptor agonist (in fase II)”, ricorda la professoressa dell’Università di Torino. “Sono farmaci molto potenti – osserva – perché non solo riducono il peso e riducono il danno istologico nel fegato, ma hanno anche un’azione cardio-protettiva. Tuttavia non sono stati ancora approvati per la MASH. L’unico farmaco approvato finora dall’FDA è il resmetirom, un agonista del recettore beta degli ormoni tiroidei sul fegato, che ha un’azione molto potente sulla steatosi poiché aumenta l’ossidazione dei grassi a livello dell’organo e migliora l’attività mitocondriale nelle cellule epatiche. Nella fase III, ha mostrato una risoluzione della MASH, ma anche della fibrosi nel 25% dei casi”.
Un’altra classe di farmaci che agiscono sulle cause dismetaboliche è rappresentata dal pioglitazone, consigliato nelle precedenti linee guida per il trattamento della MASH (anche se non approvato per la MASH ma solo per il trattamento del diabete tipo 2). Il pioglitazone elimina il grasso viscerale ed epatico, riportandolo nel tessuto adiposo sottocutaneo. “In questo momento – commenta la professoressa – è in sperimentazione, in fase III, un farmaco della stessa classe (pan-PPAR-agonist), il lanifibranor, che agisce in termini di risoluzione della MASH e di miglioramento della fibrosi”.
Dieta mediterranea
Secondo le ricerche scientifiche, nella prevenzione dei tumori dell’apparato gastrointestinale gioca un ruolo importante l’alimentazione. “La dieta Mediterranea tradizionale è stata descritta per la prima volta in un lavoro scientifico nel 1957”, rammenta Ludovico Abenavoli, professore associato di Gastroenterologia dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro. Da allora, “una serie di studi importanti sono stati sviluppati per dimostrare l’efficacia nella prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili. Oggi sappiamo che la dieta altamente ricca di frutta, verdura e di alimenti funzionali ricchi di antiossidanti esercita un’azione effettivamente preventiva delle patologie croniche, fra cui i tumori dell’apparato digerente. È una dieta vincente per l’azione sinergica di tutti gli alimenti”.
Cibi che combattono il rischio
Alcuni cibi hanno dimostrato proprietà eccellenti negli studi. Per esempio, la buccia della mela annurca contiene l’acido clorogenico, efficace nel prevenire i tumori dell’apparato gastrointestinale. Il bergamotto contiene la bergamottina, un potentissimo antiossidante, che riduce lo sviluppo di cloni cellulari tumorali fra cui quello a seno, endometrio e apparato gastrointestinale. L’olio extra vergine d’oliva ha un’alta concentrazione di acidi grassi saturi (omega 3 e 6) che prevengono dal rischio cardiovascolare, ma è ricco anche di antiossidanti che agiscono sull’apparato digerente”.
Dieta mediterranea e microbiota
“Riguardo all’azione della dieta Mediterranea sul microbiota – prosegue lo specialista – cioè sui miliardi di batteri che popolano l’intestino (in particolare il piccolo intestino) gli studi rilevano che quando è alterato e subentra una disfunzione, chiamata disbiosi, sale il rischio che si sviluppi la poliposi e il tumore del colon, maggiormente in crescita negli ultimi anni. “Per non alterare il microbiota – conclude l’esperto –, occorre seguire una dieta Mediterranea ricca di frutta e verdura con l’integrazione di probiotici, somministrati a cicli e mai in maniera continuativa. I ceppi batterici che hanno maggior validità scientifica sono in particolare i lattobacilli”.
Diabete, Fand: uniformare accesso alle cure
News PresaGarantire l’accesso equo alle cure a livello nazionale, rafforzare il territorio e l’assistenza sociosanitaria. Sono questi i punti chiave emersi nel corso della quarantaduesima Assemblea Nazionale di Fand – Associazione italiana diabetici, svoltasi di recente. Un’occasione per fare il punto sullo stato dell’assistenza alle persone con diabete nel nostro Paese, elaborare proposte e linee di intervento rispetto alle principali criticità, e presentare i nuovi progetti che l’Associazione metterà in campo a sostegno dei pazienti.
Il Presidente Fand Emilio Augusto Benini ha sottolineato l’importanza di equità nell’accesso alle cure. «Sviluppare un sistema in cui l’assistenza e i diritti delle persone con diabete siano garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale costituisce un obiettivo prioritario – dichiara il Presidente Benini – Su questo occorre un lavoro comune e sinergico, a partire dal mondo dei pazienti, affinché il tema dell’equità e dell’uguaglianza per tutte le persone con diabete rispetto a trattamento e assistenza, sia posto all’attenzione della politica e sia al centro dell’agenda istituzionale».
Diabete e assistenza territoriale
«Accanto a questo occorre uno sviluppo dell’assistenza a livello territoriale – sottolinea il Presidente Fand – Non possiamo sprecare l’occasione unica che il PNRR offre per un rafforzamento del territorio, ovvero per un’assistenza che sia più a misura delle persone con diabete e della loro quotidianità. Penso, in questo quadro, anche all’opportunità di sviluppare sempre più la farmacia dei servizi, con la sua indiscutibile caratteristica di prossimità, come importante valore aggiunto di questo percorso di rafforzamento del territorio che auspichiamo». Un percorso in cui, senza che il territorio vada a depauperare il ruolo dell’ospedale, si attui un’integrazione, con il potenziamento dei centri diabetologici e del loro team, del ruolo dei medici di medicina generale, delle case di comunità e appunto della farmacia dei servizi, provvedendo al contempo a un sistema informatico che sia in grado di supportarla. «Occorre mettere in campo le risorse adeguate al funzionamento del nostro Sistema Sanitario – sottolinea il Presidente Benini – come chiesto autorevolmente in una lettera da quattordici scienziati, fra cui il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi: è impensabile che alla sanità in Italia nel 2025 sia destinato solo il 6,2 per cento del PIL, ovvero molto meno di quell’8 per cento che rappresenta lo standard dei Paesi europei avanzati. Come organizzazione di pazienti invitiamo la politica ad ascoltare l’appello degli scienziati e a provvedere a un piano di finanziamento straordinario del nostro Sistema Sanitario».
Diabete, informare sui corretti stili di vita
«Bisogna, infine, assicurare alle persone con diabete il pieno accesso all’informazione, all’educazione terapeutica, alla sana alimentazione, ai corretti sili di vita, nonché al supporto psicologico – sottolinea il Presidente Benini -, tutelandone i diritti nelle attività quotidiane, per esempio in ambito scolastico, sportivo e, soprattutto, lavorativo. Occorre sviluppare la rete diabetologica sociosanitaria, valorizzando anche il contributo fondamentale del “diabetico guida” nell’ambito del team diabetologico, per esempio nel suo ruolo di “navigator” che accompagna la persona con diabete supportandola in tutto il suo percorso anche da un punto di vista organizzativo». Proprio a questo scopo, Fand ha presentato durante l’Assemblea Nazionale il suo Corso di Diabetico Guida, che, giunto quest’anno alla quarta edizione, si è affermato, lo scorso dicembre, in occasione del Congresso Idf – International diabetes federation, come un riconosciuto modello a livello internazionale.
Corso di Diabetico Guida
L’edizione di quest’anno si svolgerà da maggio a ottobre, con l’obiettivo di formare figure di “diabetici qualificati”, cioè esperti nell’autocontrollo e nella autogestione del diabete e in grado di fornire aiuto e sostegno alle persone con diabete e ai loro familiari. Il corso, rivolto a un massimo di 80 partecipanti, si articola in 11 lezioni ed è realizzato in collaborazione con la scuola di formazione dell’Amd – Associazione medici diabetologi, e con il contributo della Sid – Società italiana di diabetologia. Al centro del corso l’apprendimento di diverse competenze, fra le quali: il sostegno ai pazienti nelle varie attività (scuola, sport, lavoro), contribuendo a chiarire eventuali problematiche che possono insorgere nei vari ambiti; l’educazione a un corretto stile di vita giornaliero (attività fisica); l’informazione su una alimentazione sana ed equilibrata; la formazione su un “corretto” e oculato impiego delle strisce reattive, sull’utilizzazione pratica degli strumenti per la misurazione della glicemia e dei corpi chetonici, sulle modalità di conservazione e trasporto dell’insulina, nonché sull’esatta tecnica di esecuzione della somministrazione dell’insulina e sull’accurata compilazione del diario delle glicemie. Un insieme di competenze quindi, fra le quali non ultima quella a rappresentare, a partire dal proprio comportamento, un esempio per un migliore approccio alla “malattia”, in un’ottica di massima integrazione di questa figura nella rete sociosanitaria diabetologica e in una visione proattiva di contributo da parte delle persone con diabete alla risoluzione delle problematiche socioassistenziali.
Sindrome dell’intestino irritabile, flora batterica intestinale ha un ruolo centrale
News PresaLa sindrome dell’intestino irritabile è un disturbo della funzione motoria del tratto digestivo. Coinvolge sia l’intestino tenue sia il colon e colpisce tra l’8 e il 13% della popolazione occidentale.
Il disturbo è uno dei temi trattati dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE), durante il 30° Congresso Nazionale delle Malattie Digestive a cura della Federazione italiana delle società delle malattie dell’apparato digerente (Fismad).
“La sindrome – spiega Bruno Annibale, ordinario di Gastroenterologia all’Università Sapienza Roma – è diffusa soprattutto nella popolazione femminile, specie tra le fasce giovanili, con un secondo picco tra i cosiddetti boomer (60-70enni) che seguono uno stile di vita giovanile e hanno modalità di lavoro ancora attive. Inoltre spesso si associa una grande co-morbidità con i disturbi dell’umore, anche psichiatrici, come depressione e ansia”.
Sintomi della sindrome dell’intestino irritabile
I sintomi sono: gonfiore, mal di pancia, alterazione della evacuazione e soprattutto dolore. Stando alle linee guida Roma IV per i criteri diagnostici dei disturbi gastrointestinali, elaborate dalla Rome Foundation, la sindrome dell’intestino irritabile viene diagnosticata solo in caso di dolore. Secondo questi studi, la diagnosi è clinica, compiuta ascoltando il paziente, valutando attentamente i sintomi con questionari standardizzati. Un lavoro difficile, lungo e complesso che richiede molta attenzione da parte del medico. “Le terapie possono essere diverse – conferma il docente – tanto è vero che la sindrome dell’intestino irritabile ancora oggi in realtà riceve un trattamento sintomatico, ma è decisivo avere un colloquio costante col paziente per identificare la possibile cura”.
Negli ultimi anni, “Sempre maggiori evidenze scientifiche hanno associato la sindrome dell’intestino irritabile alla flora batterica, presente non solo nel tratto digestivo basso, ma anche in quello alto, con microorganismi variabili sia per numero che per tipologia a seconda della sede intestinale”, sottolinea Luca Frulloni, Presidente della SIGE e ordinario di Gastroenterologia dell’Università di Verona. “Tuttavia – prosegue – i precisi meccanismi attraverso i quali la flora batterica intestinale modifica la funzionalità intestinale non sono ancora stati chiaramente definiti, per l’enorme numero di microorganismi presenti, per la varietà di specie rappresentate, e per la loro variabilità anche nei soggetti sani. “Sono molti e diversi – riprende il professor Annibale – i fattori che influenzano la composizione della flora batterica intestinale, quali ad esempio farmaci, l’alimentazione, le malattie. È intuibile come sia ancora difficile comprendere la complessità di tutti questi elementi nel singolo paziente”.
Oggi nessuna cura o test specifico
Ne consegue che la manipolazione ed il miglioramento in senso qualitativo delle popolazioni batteriche, virali e fungine che compongono il microbiota è ancora difficile. “Quel che è certo – osserva Annibale – è che ad oggi le conoscenze sul microbioma, ovvero l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei microrganismi dell’intestino, del microbiota sono ancora sperimentali e stentano ad arrivare alla pratica clinica. Di conseguenza, sia farmaci che strategie terapeutiche in grado di modulare con efficacia questo nostro patrimonio intestinale sono di difficile ottenimento”.
Riguardo all’utilità clinica dell’impiego dei test fecali del microbiota, messi a disposizione da diverse strutture anche on line, ci sono ancora dei dubbi. “Si tratta di test per lo più commerciali – conclude il professor Bruno Annibale – che dimostrerebbero eventuali riduzioni, modificazioni della numerosità, anche di una specie batterica singola, che però le società scientifiche internazionali non hanno mai validato. Di fatto, l’interpretazione di questi test fecali è assolutamente ancora lontana dal farne un esame diagnostico perché, ad esempio, ciò che sta nelle feci non corrisponde esattamente a quello che invece è clinicamente significativo e rilevabile nell’epitelio intestinale, ma ottenibile solo con biopsie attraverso la colonscopia”.
Prevenzione vaccinale in gravidanza, Fondazione Onda ETS: ancora poca informazione
Bambini, Genitorialità, PrevenzioneOltre la metà delle donne in gravidanza non conosce la vaccinazione disponibile. Solo una su 4 conosce al massimo un vaccino disponibile tra Covid, DTPa e influenza. Sono i risultati di un’indagine presentata daFondazione Onda ETS ETS, insieme alla mappatura, svolta nell’ambito della prevenzione primaria in gravidanza di 210 ospedali Bollino Rosa sul territorio nazionale al cui interno è presente un reparto di Ginecologia e Ostetricia.
Prevenzione in gravidanza
La prevenzione vaccinale tutela la salute della donna e del bambino nell’ambito della gravidanza, ma c’è ancora molto lavora da fare per accrescere la consapevolezza. La sintesi emerge dall’incontro “La vaccinazione in gravidanza. L’importanza della prevenzione primaria” al Senato della Repubblica su iniziativa della Senatrice Maria Domenica Castellone in collaborazione con Fondazione Onda ETS e SIGO – Società italiana di ginecologia e ostetricia. Nel corso dell’evento sono stati presentati i risultati di una mappatura, condotta nei Reparti di Ginecologia e Ostetricia degli ospedali Bollino Rosa, volta a conoscere l’offerta dei servizi dedicati alla prevenzione primaria in gravidanza e i dati di un’indagine realizzata da Fondazione Onda ETS in collaborazione con l’Istituto di ricerca Elma Research, che ha indagato l’atteggiamento delle donne in gravidanza e delle neomamme nei confronti della prevenzione primaria, con focus sulle vaccinazioni in gravidanza. Il progetto prevede la diffusione presso gli ospedali Bollino Rosa dell’opuscolo divulgativo rivolto alle donne “Prevenzione in gravidanza. Un’opportunità di salute attuale e futura”.
Indagine sulla vaccinazione in gravidanza
L’indagine ha coinvolto, attraverso interviste online, 300 donne in gravidanza o neomamme (la maggior parte alla prima esperienza), in prevalenza lavoratrici e con un titolo di studio elevato. Durante la gravidanza – emerge dall’indagine – le donne si fanno seguire principalmente dal ginecologo in attività privata (65 per cento dei casi), che rappresenta per loro un importante punto di riferimento. Il partner risulta una figura estremamente presente nella condivisione delle decisioni sanitarie. Le donne intervistate aderiscono per il 22 per cento alla vaccinazione per il COVID-19, per il 33 per cento a quella per l’influenza, per il 42 per cento a quella per tetano, difterite, pertosse. Più della metà del campione conosce i vaccini: solo 1 donna su 4 conosce al massimo un vaccino disponibile per le donne in gravidanza tra vaccinazione Covid, DTPa e influenza. Spesso, tuttavia, il tema della prevenzione primaria in gravidanza risulta associato più facilmente all’esecuzione di test genetici/screening prenatali, a uno stile di vita sano e all’effettuazione di regolari controlli clinici che non al concetto di vaccinazione. Le principali motivazioni che spingono le donne in gravidanza a vaccinarsi sono: il desiderio di proteggere la salute del bambino (53 per cento), la percezione di esposizione al rischio di contrarre la malattia (48 per cento), unite al consiglio medico (37 per cento). Dall’indagine emerge come il 92 per cento delle donne desideri ricevere informazione da parte delle figure sanitarie, che assumono anche sotto questo profilo un ruolo chiave: l’85 per cento di loro vorrebbe ricevere informazioni dal ginecologo, mentre il 33 per cento vorrebbe riceverle dal medico di medicina generale.
Facilitare accesso
«I risultati dell’indagine sulla prevenzione vaccinale in gravidanza presentano un quadro migliorabile che richiede di fornire una risposta adeguata. Emerge come fondamentale la necessità di incrementare l’awareness sui vaccini disponibili in gravidanza, trattando il tema come parte integrante della prevenzione primaria e sensibilizzando soprattutto sugli alti rischi associati alle patologie e sui bassi rischi delle vaccinazioni», dichiara Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda ETS, «Occorre inoltre incrementare l’adesione ai vaccini, con il coinvolgimento delle Istituzioni per sensibilizzare sul tema ad alto livello e dei professionisti della salute (in primis il ginecologo), per un’informazione mirata che sappia rassicurare e motivare le donne. È infine necessario semplificare l’accesso alle vaccinazioni, ovvero facilitare l’iter di prenotazione, ridurre i tempi di attesa, offrire la possibilità di effettuare i vaccini vicino alla residenza o nello stesso sito di altre visite ed esami, per eseguirle contestualmente».
«La vaccinazione è strumento di salute pubblica importantissimo in generale e soprattutto per i soggetti fragili», dichiara Roberta Siliquini, Presidente SITI, Società Italiana di Igiene, «Pensiamo solo sempre ad anziani e malati dimenticandoci che i neonati, per loro natura, sono soggetti fragili in quanto privi della capacità di rispondere adeguatamente ad insulti infettivi. È pertanto necessario proteggerli da subito anche attraverso la vaccinazione della futura mamma che potrà trasmettere gli anticorpi necessari. Sono molte le patologie per le quali abbiamo a disposizione vaccini sicuri ed efficaci in gravidanza: influenza, pertosse/difterite/tetano, Sars CoV2 e virus respiratorio sinciziale. Per quest’ultimo, forse poco noto ma estremamente diffuso e che causa un importante numero di ricoveri ospedalieri anche nei primi mesi di vita, abbiamo a disposizione vaccini e anticorpi monoclonali».
Nel corso dell’evento Fondazione Onda ETS ha consegnato delle pergamene agli ospedali che hanno partecipato alla mappatura come ringraziamento per l’adesione e per l’attenzione e l’impegno sul tema della prevenzione primaria in gravidanza. La mappatura ha coinvolto un campione di 290 ospedali con il Bollino Rosa che hanno al loro interno un reparto di Ginecologia e Ostetricia e di questi 210 strutture sul territorio nazionale hanno partecipato. Quasi tutti hanno dichiarato di avere al loro interno un Punto Nascita (solo 12 non ce l’hanno), con un volume di attività che supera i 500 parti annui e la maggior parte rispetta i “cardini” della prevenzione primaria, ovvero garantisce alle donne interventi specifici di educazione alla corretta alimentazione (oltre il 90 per cento, 196 ospedali) e promuove l’attività fisica in gravidanza (88 per cento, 185 ospedali), al di là delle informazioni fornite durante le visite ambulatoriali. L’impegno diffuso tra gli ospedali nell’assicurare una corretta presa in carico avviene perlopiù tramite il corso di accompagnamento alla nascita anche se, in molti casi, vengono organizzate altre tipologie di attività dedicate (es. agenda gravidanza, counselling con nutrizionista, campagne informative anti-alcol). Emerge una buona copertura per il trattamento di ansia e depressione in gravidanza (78 per cento, 165 ospedali) e questo dato denota come la prevenzione primaria da parte degli ospedali avvenga anche in ottica di cogliere i primi segnali di psicopatologie in gravidanza. Le vaccinazioni sono nella maggior parte dei casi rimandate al territorio: 118 ospedali su 210 infatti non erogano il servizio internamente. Di questi 118 ospedali, pochi non predispongono materiale utile a fornire informazioni su dove recarsi a livello territoriale per accedere al servizio vaccinale (22 ospedali). Degli ospedali che offrono direttamente un servizio di vaccinazione (totale 92 strutture), la maggioranza dispone anche di un Ambulatorio dedicato alle donne in gravidanza (50 ospedali).
Vaccinazione in gravidanza previene difetti genetici
«Sul piano materno-fetale i vaccini rappresentano un importante strumento di prevenzione dei difetti congeniti e di malattie materno-fetoneonatali. L’offerta attiva (informazione adeguata, indicazione scritta in cartella) aumenta sensibilmente la copertura vaccinale», commenta Vito Trojano, Presidente SIGO, Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia.
«Oramai è ampiamente riconosciuta l’importanza della prevenzione in gravidanza. Un plauso a tutte le iniziative finalizzate ad una maggiore sensibilizzazione della componente sanitaria, ad un più facile accesso alla prestazione e ad una più estesa informazione alle donne per una scelta sempre più libera e consapevole», conclude Maria Rosaria Campitiello, Capo Segreteria tecnica, Ministero della Salute.
L’evento si è svolto con il patrocinio di AGUI – Associazione ginecologi universitari italiani, AOGOI – Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani, FNOPO – Federazione nazionale degli ordini della professione di ostetrica, SIMG – Società italiana di medicina generale e delle cure primarie, SIN – Società italiana di neonatologia e SITI – Società italiana di igiene.
Alzheimer: diabete e disturbi del sonno tra i probabili fattori di rischio
Anziani, Eventi e premi, Farmaceutica, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneI pazienti con Alzheimer sono sempre più anziani. La scienza però ha identificato alcuni probabili fattori di rischio, tra cui: il diabete, l’insulino-resistenza, le malattie del fegato e i disturbi del sonno. Con la diagnosi precoce crescono nel frattempo le opportunità per frenare la malattia.
“Per l’Alzheimer si riduce l’incidenza e aumenta la prevalenza. Gli ottantenni di oggi sono meno colpiti, ma l’invecchiamento della popolazione porta in assoluto a un incremento di pazienti” spiega il prof. Alessandro Padovani, Direttore della Clinica di Neurologia e Prorettore alla Ricerca dell’Università degli Studi di Brescia.
Alzheimer, scienza svela fattori di rischio probabili
Nuovi studi sui fattori di rischio della malattia di Alzheimer propongono scenari inediti per effettuare una diagnosi precoce, che potrebbe ritardare la comparsa dei sintomi o evitare che questi insorgano. Sono stati, infatti, identificati alcuni fattori di rischio come diabete, insulino-resistenza, malattie del fegato, disturbi del sonno, che molto probabilmente concorrono a determinare questa patologia. Se queste ricerche fossero confermate sarebbe un significativo passo avanti nella prevenzione, visto che le terapie, nonostante alcune potenzialità, non presentano significative novità. Questi studi sono stati al centro del 24° Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Psicogeriatria – AIP. Tre giorni al Palazzo dei Congressi a Firenze con oltre 500 specialisti tra geriatri, neurologi, psichiatri.
Aumenta prevalenza, ma incidenza in diminuzione
L’Alzheimer è la prima forma di demenza tra le malattie neurodegenerative in tutto il mondo. In Italia ci sono 1,1-1,2 milioni di persone affette da demenza, di cui il 60-80% affetti da Alzheimer, quindi si stimano circa 800mila persone. “Negli ultimi anni però sono stati riscontrati due trend opposti, una riduzione dell’incidenza e un aumento della prevalenza – sottolinea il prof. Alessandro Padovani, Direttore della Clinica di Neurologia e Prorettore alla Ricerca dell’Università degli Studi di Brescia –. Confrontando coorti d’età di diversi periodi emerge una riduzione della malattia: gli ottantenni di oggi rispetto a quelli del passato sono dunque meno colpiti; il controllo dei fattori di rischio ritarda la comparsa della malattia. Tuttavia, l’invecchiamento della popolazione e l’aumento del numero di anziani porta a un incremento della prevalenza, con la cifra assoluta che complessivamente è superiore rispetto al passato. Questi trend sono presenti anche nel micro, come dimostra l’osservatorio dell’Ospedale di Brescia, dove i 17mila pazienti affetti da Alzheimer sono per incidenza sempre più anziani, ma la presenza in coloro che hanno tra i 70 e gli 80 anni si è ridotta”.
Alzheimer, biomarcatori e nuovi fattori di rischio
La ricerca scientifica negli ultimi anni si è concentrata sul fatto che le prime alterazioni neuropatologiche si rilevano già 19 anni prima l’insorgenza dei sintomi veri e propri, con un aumento del tasso di proteina beta-amiloide a cui segue l’alterazione della proteina tau. In generale, un approccio preventivo si basa su socializzazione, alimentazione corretta, attività fisica. Gli studi dell’ultimo anno hanno identificato possibili fattori di rischio che precedono l’accumulo di beta-amiloide.
“I fattori di rischio che stanno emergendo come correlati alle caratteristiche neuropatologiche della malattia di Alzheimer sono il diabete o la cosiddetta insulinoresistenza della sindrome metabolica attraverso l’infiammazione sistemica, che favoriscono l’accumulo di beta-amiloide da cui poi deriverebbe il processo neurodegenerativo – sottolinea il Prof. Alessandro Padovani. Altri due elementi sembrerebbero correlati all’infiammazione sistemica: l’insufficienza epatica non alcolica, spesso legata all’obesità e ai disturbi dell’alimentazione, e la steatosi epatica alcolica, spesso aggravata dal consumo di alcol anche in età avanzata. Il fegato, infatti, svolgerebbe una funzione di filtro o di eliminazione dell’amiloide circolante. Ancora non ci sono dimostrazioni scientifiche, ma è un ipotesi accreditata su cui diversi gruppi stanno lavorando. Un terzo aspetto che emerge sull’individuazione dei fattori di rischio è legato ai disturbi del sonno: un sonno disturbato, inferiore alle 6 ore, aumenta il rischio di decadimento cognitivo; da recenti studi emerge che alcuni farmaci che agiscono sull’orexina non solo migliorano il sonno e le prestazioni cognitive, ma agiscono sui biomarcatori correlati allo sviluppo della malattia di Alzheimer”.
Nuovi biomarcatori
“Le recenti ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer identificano importanti segni che un individuo andrà incontro a una demenza – sottolinea il Prof. Diego De Leo, Presidente AIP –. Si tratta di una puntura lombare che preleva il liquor cefalo-rachidiano che circonda il sistema nervoso. Nuove modalità di analisi dei biomarcatori si possono oggi fare anche tramite analisi del sangue, con un accesso più semplice e generalizzato, intervenendo quindi anche in persone che non presentano segni di malattia. Tuttavia, questa disponibilità pone questioni etiche oltre che organizzative, per identificare le persone da sottoporre a questi test”.
Dagli anticorpi monoclonali agli oligonucleotidi antisenso
L’importanza della prevenzione e dell’identificazione dei fattori di rischio è data dalla mancanza di terapie risolutive della patologia. Negli ultimi anni, la ricerca si è concentrata su anticorpi monoclonali che agiscono contro i primi meccanismi patogenetici dei precursori dell’amiloide, ma gli studi sono ancora in corso e mancano valutazioni da parte delle autorità regolatorie. Attualmente quindi la strategia terapeutica più frequente resta quindi quella di un cocktail di farmaci. “Tra le potenziali novità, vi è una terapia che prevede l’uso di oligonucleotidi antisenso – sottolinea il Prof. Padovani – È una terapia che in Italia è condotta in sei centri, tra cui il nostro a Brescia. Finora non sono emersi effetti collaterali e attendiamo di verificare l’effetto a distanza di un anno, ma i dati sono incoraggianti: potrebbe essere una nuova strada che combina farmaci antiamiloide e antitau”.
Invecchiamento, le priorità per allungare gli anni in salute
PrevenzioneIn Italia, il 70 per cento delle risorse sanitarie è dedicato al 25% della popolazione. La prospettiva di vivere sempre più a lungo, ma da ammalati, non è più sostenibile. Comunità age-friendly; salute di iniziativa, cure domiciliari e un approccio alla prevenzione che inizi nei primi 1000 giorni di vita. Sono queste le proposte degli esperti riuniti dalla rete Fare Sanità riuniti al meeting a Roma nell’incontro ‘100 anni di malattia: la necessità dell’invecchiamento in salute per la tenuta del SSN”.
“L’Italia è il Paese dell’Unione Europea con l’età mediana più alta pari a 48.4 anni. Siamo un Paese in cui si vive più a lungo di altri. Ma si vive anche meglio? No, perché la speranza di vita in buona salute è molto più bassa della speranza di vita (82,6 anni Vs. 60,1 anni) – è intervenuta Marinella D’Innocenzo, co-autrice del libro bianco 2024-2027. Il triennio che può cambiare la sanità. Auspici per la XIX Legislatura – ecco perché è necessario realizzare politiche che favoriscano l’invecchiamento in salute e garantiscono misura adeguate di prevenzione e gestione della fragilità e cronicità”.
L’evento è stato organizzato da Fare Sanità – la rete che unisce gli attori e le attrici della filiera sanitaria per condividere le competenze di decisori pubblici, medici, manager e industrie medicali, oltre che rappresentanti delle professioni e del terzo settore al fine di seminare i nuovi processi che guideranno il cambiamento e l’innovazione in sanità.
“Nei prossimi decenni, in Italia il numero di anziani disabili e, quindi, non autosufficienti è destinato ad aumentare in misura significativa con importanti ripercussioni sulla richiesta di servizi di cura e sui costi sociali ed economici connessi alla necessità di fornire cure di lungo termine – ha detto il Professore Dario Leosco Università di Napoli Federico II e presidente eletto della SIGG Società Italiana di Gerontologia e Geriatria -. Ci stiamo adoperando in collaborazione ai principali stakeholder per sviluppare un modello di interventi o “buone pratiche” per la promozione dell’invecchiamento in salute. Tra le principali iniziative spicca la spinta culturale, educazionale e divulgativa rivolta alla prevenzione, buoni stili di vita e rispetto del Piano Nazionale Vaccini”.
“È fondamentale poi costruire comunità “age-friendly” che pongano attenzione all’ambiente fisico e sociale e a quei fattori che possono facilitare o ostacolare la possibilità per gli anziani di partecipare alla vita sociale – ha confermato la dottoressa Maria Teresa Menzano dal Ministero della Salute -. Per favorire un invecchiamento sano e attivo è necessario il coinvolgimento di tanti ambiti diversi: dall’urbanistica (con la progettazione di aree verdi pubbliche o la rimozione delle barriere architettoniche) al mondo del volontariato e dell’educazione; dal ruolo della comunicazione (con l’uso dei mass media, ma anche di social network e campagne di marketing), alle azioni di sensibilizzazione. Altrettanto importante è saper guidare un cambiamento di prospettiva: la prevenzione deve durare tutta la vita ed iniziare già a partire dai primi 1000 giorni, cioè nel periodo che intercorre tra il concepimento e i primi due anni di vita del bambino, un arco temporale decisivo per gettare le basi della salute degli individui, i cui effetti dureranno tutta la vita e si rifletteranno anche sulle generazioni successive e sulla comunità intera”.
“L’invecchiamento non deve più essere visto come un momento di declino e isolamento – ha sottolineato l’onorevole Paolo Ciani, Segretario Commissione XII Affari Sociali alla Camera dei Deputati – ma come una fase della vita in cui è possibile mantenere un ruolo attivo nella società prevenendo situazioni di isolamento e marginalizzazione. In questa prospettiva gli aspetti sanitari e assistenziali vanno considerati come una parte delle politiche verso la terza età, evitando di essere l’unica dimensione in cui l’anziano viene considerato. Questo, insieme ad un sistema sociosanitario di prossimità alla persona, crea un sistema virtuoso di cui beneficia la collettività ed il funzionamento stesso del SSN, perché una società a misura di fragili è una società migliore per tutti”.
“Siamo dunque convinti che i continui cambiamenti epidemiologici, demografici, devono costringere le organizzazioni sanitarie verso l’adozione concreta di un modello di salute di iniziativa, proattivo e di prossimità, tale da garantire alla persona soprattutto se anziano e anche fragile, interventi adeguati e differenziati in rapporto al livello di rischio – ha concluso infine Marinella D’Innocenzo – È necessaria una concreta rivisitazione della risposta sociosanitaria che dev’essere differenziata in base alla tipologia di bisogno. Un modello di vita e di abitare, come approdo naturale della senescenza, basato sulla dimora naturale che faciliti il percorso di vita alla persona che invecchia garantendo nell’integrazione con i servizi sociosanitari un continuum della vita indipendente verso la vita assistita, in un modello di welfare diffuso ispirato all’intensità di cura applicata alla domiciliarità.
La discussione, coordinata da Marco Magheri, Segretario generale di Comunicazione Pubblica è stata aperta dal Senatore Ignazio Zullo, Membro dell’Intergruppo Parlamentare per l’invecchiamento Attivo e componente della 10° Commissione permanente al Senato Affari Sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale. Sono inoltre intervenuti Cristina De Capitani, Primo Tecnologo del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso CNR IPCB; Marinella D’Innocenzo, Presidente L’Altra Sanità; prof. Dario Leosco, Presidente Eletto Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG); Maria Teresa Menzano Dirigente Sanitario – Medico Ministero della Salute; Giovanni Scapagnini Professore di Biochimica e Biologia Molecolare presso il Dipartimento di Medicina e Scienze della Salute dell’Università degli Studi del Molise; e l’Onorevole Paolo Ciani, Segretario Commissione XII Affari Sociali alla Camera dei Deputati, vicecapogruppo PD alla Camera, Segretario Demos – Democrazia Solidale.
Cure mediche: italiani non accedono e rinunciano. Report Gimbe
News PresaLe liste d’attesa sono un problema conclamato da tempo che ostacola il diritto alla salute. Così sono molti gli italiani costretti a curarsi privatamente. Tuttavia, chi non ha disponibilità economiche sufficienti molto spesso è costretto a rinunciare alle cure. Secondo le stime sono 4,2 milioni le famiglie che nel 2022 hanno limitato le spese per la salute. In particolare sono oltre 1,9 milioni gli italiani che hanno rinunciato a curarsi per motivi economici. I numeri emergono dall’ultimo report di Fondazione Gimbe, che certifica la maggiore difficoltà del Meridione.
“È evidente che l’aumento del numero di famiglie che vivono sotto la soglia della povertà assoluta avrà un impatto residuale sulla spesa out-of-pocket, ma aumenterà la rinuncia alle cure, condizionando il peggioramento della salute e la riduzione dell’aspettativa di vita delle persone più povere del Paese”, ha dichiarato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.
Spesa privata aumenta
Secondo il report, nel 2022 le famiglie italiane hanno sostenuto direttamente una spesa sanitaria di quasi 37 miliardi di euro. Oltre 25,2 milioni di famiglie italiane hanno speso in media 1.362 quell’ano per curarsi, si tratta di oltre 64 euro in più rispetto al 2021.
Secondo il sistema dei conti Istat-SHA, sempre nel 2022 la spesa sanitaria totale in Italia ammonta a 171.867 milioni di euro. Si tratta di 130.364 milioni di spesa pubblica (75,9%) e 41.503 milioni di spesa privata, di cui 36.835 milioni (21,4%) out-of-pocket e 4.668 milioni (2,7%) intermediata da fondi sanitari e assicurazioni. Il trend rivela che nel periodo 2012-2022 la spesa out-of-pocket è aumentata in media dell’1,6% annuo, per un totale di 5.326 milioni in 10 anni.
Pesano le cure
L’impatto della spesa sanitaria sulle famiglie è aumentato nel 2022, registrando un incremento di oltre €64 e portando la spesa media per la salute a €1.362 a famiglia. Questo aumento è stato ancora più pronunciato al centro-sud del Paese, dove si è registrato un ulteriore incremento di oltre €100.
Cure, limitazioni delle spese
Circa il 16,7% delle famiglie ha dichiarato di aver dovuto ridurre le spese per visite mediche e accertamenti preventivi a causa di difficoltà economiche. Questo fenomeno è stato particolarmente diffuso nel Mezzogiorno, dove più di una famiglia su quattro ha dovuto affrontare questa situazione.
Indisponibilità economica temporanea
Molte famiglie italiane hanno dichiarato di non disporre di fondi sufficienti per far fronte alle spese sanitarie in determinati periodi dell’anno. Circa il 4,2% delle famiglie ha dichiarato di non avere abbastanza soldi per affrontare le spese relative alle malattie in alcuni momenti dell’anno. Questo problema è più diffuso nel Mezzogiorno del Paese, dove la percentuale di famiglie con problemi economici è stata significativamente più alta rispetto alle altre regioni.
Rinuncia alle cure
Una delle conseguenze più gravi delle difficoltà economiche e il mancato accesso alle cure del Ssn è stata la rinuncia alle cure sanitarie da parte di molti italiani. Nel 2022, oltre il 7% della popolazione ha rinunciato alle cure mediche, nonostante ne avesse bisogno, per motivi economici. Questo ha coinvolto oltre 4,13 milioni di persone che hanno dichiarato di non potersi permettere visite specialistiche o esami diagnostici a causa di problemi economici. Alcune regioni che hanno registrato tassi di rinuncia alle cure particolarmente elevati.
Povertà assoluta e cure
Infine, l’incremento della spesa sanitaria e la diminuzione della disponibilità economica delle famiglie hanno contribuito a un aumento del tasso di povertà assoluta nel Paese. Nel corso del 2022, quasi il 2,1% delle famiglie italiane ha vissuto al di sotto della soglia di povertà assoluta, rappresentando un aumento rispetto all’anno precedente. L’aumento della spesa sanitaria e la diminuzione della disponibilità economica delle famiglie italiane ostacolano l’accesso alle cure. La rinuncia alle cure per motivi economici riguarda tutto il territorio nazionale, ma in modo particolare il Mezzogiorno.
Insonnia, chi dorme poco rischia grosso
News, Stili di vitaIl sonno è molto più di un semplice momento di riposo. È un fondamentale processo di rigenerazione fisica e mentale, durante il quale il nostro corpo e il nostro cervello si riorganizzano e si ricaricano. Tuttavia, la vita di tutti i giorni, soprattutto per quanti vivono e lavorano in città, ha portato a una diffusa carenza di sonno di qualità, con conseguenze gravi sulla salute.
Insonnia
Il professor Giuseppe Plazzi, esperto in disturbi del sonno presso l’Istituto di scienze neurologiche di Bologna, sottolinea che l’insonnia è solo uno dei molti disturbi del sonno, ma è sicuramente il più diffuso. È essenziale capire che il sonno di scarsa qualità o insufficiente non è solo un fastidio temporaneo, ma potrebbe essere un campanello d’allarme per problemi più gravi.
Conseguenze
La mancanza cronica di sonno può avere conseguenze devastanti sulla salute fisica e mentale. Secondo il professor Plazzi, il sonno non solo ci riposa, ma svolge un ruolo cruciale nella memorizzazione delle informazioni, nel regolamento dei nostri ormoni, nella salute cardiovascolare e persino nell’immunità. La mancanza di sonno può portare a disturbi dell’umore, della memoria, dell’attenzione, oltre a problemi metabolici come resistenza insulinica, aumento di peso e ipertensione.
Malattie neurodegenerative
Ma le implicazioni non si fermano qui. Uno dei rischi più gravi è rappresentato dalle malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer e il Parkinson. Ricerche recenti hanno evidenziato che il sonno svolge un ruolo cruciale nella pulizia del cervello da proteine nocive che possono contribuire allo sviluppo di queste malattie.
Stile di vita
Plazzi sottolinea che comprendere e affrontare la mancanza di sonno non riguarda solo la diagnosi e la terapia dei disturbi del sonno, ma anche uno stile di vita sano e equilibrato. Lo stress e i ritmi frenetici della vita moderna possono compromettere gravemente la qualità del sonno. Ad esempio, il lavoro a turni, così diffuso nella società contemporanea, può causare disturbi cronici del sonno.
Cambio di passo
Insomma, investire su un buon sonno è fondamentale per tenersi in salute a lungo termine. Consultare un medico per la diagnosi e la gestione dei disturbi del sonno è il primo passo, ma è altrettanto importante adottare uno stile di vita che favorisca un sonno di qualità. Prendersi cura del proprio sonno potrebbe fare la differenza tra una vita sana e una condotta dai problemi di salute debilitanti come l’Alzheimer e il Parkinson.
Cos’è e come si affronta il glaucoma secondario
PrevenzioneSi chiama glaucoma secondario, è molto difficile da diagnosticare e costituisce il 12% delle diagnosi di glaucoma. In Campania, l’Unità Operativa Complessa di Oculistica del Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli diretta dal dottor Mario Sbordone è un vero e proprio Centro di riferimento, tanto che specialisti da tutta Italia si ritroveranno domani (venerdì 12) per una giornata di formazione su sintomi, diagnosi e terapie.
Insidioso
«Queste particolari forme di glaucoma – spiega il primario Sbordone – sono a tutti gli effetti delle secondarietà di altre patologie quali il diabete, le vasculopatie o infiammazioni oculari. Possono addirittura insorgere come conseguenza di interventi chirurgici o a causa dell’abuso di farmaci». Ciò che è importante comprendere è che il glaucoma secondario ha delle caratteristiche peculiari, che lo rendono ancor più insidioso del glaucoma tradizionale. «È una forma molto aggressiva, spesso colpisce solo un occhio ed è molto difficile da trattare con terapie in collirio», aggiunge Sbordone, che ribadisce l’importanza per i medici di sottoporsi ad un continuo aggiornamento.
Ad ogni età
A rendere indispensabile un training costante è anche il fatto che il glaucoma secondario può colpire i giovanissimi, ad esempio come conseguenza di un’uveite, e spesso l’unica soluzione è quella chirurgica. «Le terapie classiche il più delle volte non funzionano, così come sono inappropriate le tecniche chirurgiche tradizionali, persino quelle mininvasive. Serve una chirurgia che si avvale di dispositivi specifici, molto diversi da quelli adoperati di solito per il glaucoma. Si tratta di valvole che sono adatte ad essere impiantate su occhi già compromessi da altre patologie». Dispositivi e tecniche grazie alle quali nell’Unità Operativa Complessa diretta dal dottor Sbordone si riesce nella maggior parte dei casi a contrastare gli effetti devastanti di questa malattia.
Storie di vita e di speranza
Eventi d'interesse, NewsVincenzo ha festeggiato in ospedale il suo venticinquesimo anno di matrimonio, è stato ricoverato in gravi condizioni per 105 giorni al Monaldi, prima di ricevere il cuore che gli ha permesso di tornare alla vita. Ad Adelaide è stata diagnosticata una malattia rara e, dopo essere stata sottoposta a un delicato trapianto di polmone, è ora seguita in follow up presso l’Azienda Ospedaliera dei Colli. Pasquale ha ricevuto il trapianto diciassette anni fa, il giorno del suo diciannovesimo compleanno. Sono solo alcune delle storie che oggi sono state raccontate ai ragazzi degli istituti superiori della Campania che hanno affollato l’aula Magna dell’Ospedale Monaldi di Napoli per l’evento “DAI – Un sì per la vita”, organizzato e promosso dallo Sportello Amico Trapianti dell’Azienda Ospedaliera dei Colli in sinergia con il Centro Regionale Trapianti della Campania per la settimana dedicata alla donazione di organi e tessuti.
Protagonisti
Più di 300 studenti, insieme a donatori di sangue, pazienti e associazioni di pazienti hanno partecipato alla giornata di promozione della cultura della donazione ascoltando le testimonianze di chi è in attesa di un organo e di chi il dono lo ha già ricevuto. La giornata, grazie al contributo artistico di Mauro Maurizio Palumbo, è stata condotta da Gigi e Ross e ha visto la partecipazione straordinaria di Ciro Giustiniani, degli Arteteca e di Lucianna De Falco, attrice di Un posto al sole, che ha raccontato di essere stata sottoposta due volte a trapianto di cornea.
Videomessaggi
Massimiliano Gallo, Clemente Russo, Vincenzo De Lucia, gli attori di Un Posto al Sole Patrizio Rispo, Ilenia Lazzarin, Luisa Amatucci, Stefano Amatucci, Alberto Rossi, Miriam Candurro, Daniela Ioia, Vladimir Randazzo, Giorgia Giannatiempo, Antonella Prisco hanno inviato videomessaggi per promuovere la cultura della donazione di organi. «Ringrazio i tanti artisti che gratuitamente sono intervenuti e hanno reso speciale questa giornata. Ringrazio le scuole e i loro docenti. Quella di oggi è stata una grande festa per promuovere l’importanza della donazione di organi e tessuti. Abbiamo scelto di parlare ai giovani dando voce a pazienti e donatori con l’auspicio di ridurre il tasso di opposizione alla donazione toccando le coscienze dei singoli» è il commento di Anna Iervolino, direttore generale dell’Azienda Ospedaliera dei Colli.
Dichiarazione di volontà
Durante tutta la settimana sarà possibile esprimere, presso appositi punti informativi, dichiarazioni di volontà alla donazione di organi e tessuti. Domenica 14 aprile, Giornata nazionale della donazione di organi e tessuti, proprio per accendere ulteriormente i riflettori sulla tematica, l’Azienda Ospedaliera dei Colli si illuminerà di rosso.