Tempo di lettura: 6 minutiLa consapevolezza sulla salute dell’apparato respiratorio cresce in maniera lenta, ma costante. Tuttavia, restano ancora delle zone d’ombra. I pazienti che convivono con un tumore del polmone rivendicano una maggiore informazione sulla malattia e sul percorso di cura. Da un’analisi emerge poca attenzione agli aspetti della vita quotidiana, tra cui la riabilitazione dopo l’intervento chirurgico e il supporto psicologico. Viene richiesto un maggior contatto con il medico curante e una più stretta collaborazione tra gli operatori sanitari dell’ospedale e del territorio. L’informazione ricevuta dallo specialista sulle terapie da adottare, invece, è ritenuta soddisfacente. Mentre, c’è ancora da lavorare per ampliare sul territorio l’accesso ai test genetici, oggi offerti a poco più di 1 paziente su 2.
La fotografia è stata scattata dall’indagine conoscitiva sul tumore del polmone condotta nell’ambito dell’iniziativa ‘In Contatto’, promossa dalle 45 Associazioni del Gruppo ‘La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere’. L’analisi ha indagato le esperienze e le esigenze dei pazienti e delle pazienti durante il percorso di cura per portare all’attenzione delle Istituzioni i disagi, i bisogni non soddisfatti e proposte per soluzioni adeguate. I dati sono stati presentati in una diretta Facebook, nell’ambito di una serie di incontri.
Accesso ai test per terapie mirate
“Nell’indagine il dato che spicca tra tutti è la non conoscenza del tumore polmonare tra i pazienti e i caregiver”, sottolinea Annamaria Mancuso, Presidente Salute Donna OdV e Coordinatrice del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere. “Vuol dire che la popolazione generale non è sufficientemente informata su questa patologia neoplastica, sui segnali da attenzionare e sui percorsi di cura e assistenza. Il dato è molto preoccupante e ci pone davanti a numerose sfide, in primis quella di potenziare le campagne di sensibilizzazione. Un lavoro che intendiamo promuovere con determinazione perché solo attraverso un’informazione adeguata e capillare cresce la conoscenza, che permette ai cittadini e ai medici di medicina generale di mettere in atto azioni volte a prevenire primariamente il tumore del polmone”.
“Molto c’è ancora da fare – prosegue – per rendere accessibili ad un sempre maggior numero di pazienti i test genetici che sono fondamentali per profilare il tumore dal punto di vista molecolare e impostare le terapie. Un altro punto che ci spinge a sostenere i pazienti è quello della presa in carico globale con team multidisciplinari degli stessi malati e un’attenzione particolare al percorso della riabilitazione post-intervento chirurgico, al sostegno psicologico del paziente e del caregiver e ad alcuni aspetti della vita quotidiana che, stando alle testimonianze, ci sembrano gravemente trascurati o sottovalutati”.
Indagine sul vissuto dei pazienti con tumore del polmone
I pazienti e le pazienti hanno riportato il percorso di cura, gestione e impatto della malattia sulla quotidianità. Oltre metà del campione è di sesso femminile e ha un’età compresa tra i 61 e i 75 anni, mentre il 23% ha tra i 51 e i 60 anni. Il 45% degli intervistati al momento dell’indagine era in trattamento, il 32,5% in follow up mentre il 14,5% e l’13,2% erano rispettivamente in mantenimento o appena operati. L’indagine ha rivelato che sul fronte della prevenzione c’è ancora molto lavoro da fare. Inoltre, lo pneumologo, figura di riferimento per le malattie polmonari, non è ancora ben noto come colui al quale rivolgersi in caso di sintomi dell’apparato respiratorio.
Solo il 20,1% del campione si è sottoposto da più di 3 anni ad un Rx del torace, al 55,1% degli intervistati non è mai stato prescritto dal medico di famiglia un Rx del torace e addirittura l’88% dei rispondenti non si è mai sottoposto ad una TAC spirale del torace. Inoltre, la maggioranza del campione non si è mai recato dallo pneumologo per una visita. Riguardo la fase della malattia al momento della diagnosi, il 35% del campione presentava un tumore localizzato e operabile. Il 23,1% un tumore localmente avanzato non operabile e il 30,8% un tumore in fase metastatica. La prevenzione, quindi, resta cruciale per diagnosticare precocemente la malattia.
Fumo principale fattore di rischio
L’indagine evidenzia il ruolo del fumo quale principale fattore di rischio per l’insorgenza di un tumore del polmone. Il 20,5% del campione non ha mai fumato, il 12,4% è un fumatore, il 26,1% è stato un fumatore ma ha smesso da oltre 10 anni e il 13,2% è stato un fumatore ma ha smesso da meno di 5 anni mentre il 12% è stato un fumatore ma ha smesso da meno di 10 anni. Ciononostante, il 78,2% ha dichiarato di non aver avuto problematiche respiratorie. Il 72% del campione ha abitato in città. Inoltre, il 67,5% dei rispondenti non ha casi di tumore polmonare tra i consanguinei più stretti contro un 29,5% che ha risposto affermativamente.
La malattia è stata scoperta nel 38,5% dei casi durante controlli di routine, nel 23,5% a seguito di sintomi aspecifici condivisi con il medico di famiglia. Solo il 13,2% ha scoperto il tumore grazie a sintomi sospetti mentre il 2% a seguito di esami effettuati per familiarità. Ancora poco conosciuta è la R.I.S.P. Rete Italiana Screening Polmonare, il programma di screening gratuito per i forti fumatori attivo in 18 Centri italiani. Il 69,2% del campione non sa cosa sia, mentre il 30,8% del campione ne ha sentito parlare attraverso internet oppure tramite il medico specialista o grazie a materiali informativi in ospedale.
Tumore del polmone sempre più femminile
“I dati della survey vanno a confermare quanto le pubblicazioni scientifiche e i registri affermano, ossia che il tumore polmonare è, purtroppo, una malattia sempre più (anche) femminile. E il fumo di sigaretta, come abitudine attiva o pregressa, resta il fattore di rischio principale”. Lo mette in luce Silvia Novello, Professore Ordinario di Oncologia medica Università degli Studi di Torino e Responsabile SSD Oncologia Polmonare AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano, Presidente WALCE – Women Against Lung Cancer in Europe.
“Il livello di informazione rispetto alla campagna di prevenzione secondaria e primaria (RISP) è assolutamente inadeguato – continua – sia fra la popolazione che tra i medici di base. Un investimento andrà pertanto fatto in tale contesto per diffondere questa possibilità di poter fare finalmente screening anche per la patologia oncologica polmonare, che ancora oggi è la principale causa di morte per cancro”.
Informazione carente
L’informazione è un punto di forte criticità. Solo il 2,1% del campione ritiene di essere ‘molto’ informato sulla malattia anche se oltre la metà degli intervistati dichiara di non avere sottovalutato i possibili campanelli d’allarme. Inoltre, il 68,4% afferma di sapere che il tumore del polmone può essere correlato a mutazioni genetiche e addirittura il 65,4% sa che in questi casi il tumore viene curato con terapie a bersaglio molecolare. Il 62,8% del campione ha effettuato test genetici per la caratterizzazione molecolare del tumore.
Si rivela più che soddisfacente, invece, l’informazione ricevuta sulle scelte terapeutiche. Il 46,2% del campione si dichiara ‘molto’ informato e coinvolto dall’oncologo sulle strategie terapeutiche, il 44,9% ‘abbastanza’ informato. Solo il 9% lamenta di non essere ‘per niente’ informato. Il 39% del campione è stato curato con target therapy, il 36,8% con chemioterapia, il 36,3% con la chirurgia, il 30,3 con radioterapia, infine, un 18% è stato trattato con l’immunoterapia e un 9,4% con combinazione di chemio/immunoterapia. Tuttavia, soltanto al 41,5% degli intervistati il medico curante ha spiegato l’importanza dell’attività fisica e di uno stile di vita sano durante e dopo il percorso di cura.
Impatto psicologico
L’indagine mette in evidenza alcune importanti lacune. Il 70,6% del campione non è stato sottoposto dopo l’intervento chirurgico ad alcuna terapia riabilitativa e solo la metà è stato seguito da un team multidisciplinare, mentre il 62% non ha ricevuto alcun supporto psicologico. La vita quotidiana dopo una diagnosi di tumore del polmone subisce diverse limitazioni a causa degli effetti collaterali delle terapie (26,1%), dell’ansia/depressione (17,1%), e anche per la mancanza di contatto con il medico curante (15,4%).
La continuità assistenziale ospedale-territorio è un nodo cruciale. Si riscontra un gap tra l’assistenza ospedaliera e quella offerta sul territorio. Difficoltosa l’organizzazione dei controlli, con evidenti difficoltà nel conciliare la vita lavorativa e la gestione della malattia. Infine, la maggioranza del campione è stato seguito presso un Centro di riferimento della propria Regione e oltre la metà del campione è stato operato nello stesso Centro di riferimento.
Tumore del polmone, stigma per ex fumatori
“I risultati dell’indagine ci hanno colpito molto perché denotano quanto restino ancora oggi ampiamente sottovalutati i primi segnali/sintomi del tumore polmonare, patologia che peraltro è gravata da una forte ritrosia a parlarne. Tutti ne parlano pochissimo: i pazienti, perché ne temono lo stigma (sopratutto se sono stati ex fumatori), gli stessi medici di famiglia, i mezzi di informazione. Lo afferma Elena Castagnetti, socia fondatrice e membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione IPOP– e benché si cominci a vedere un certo cambiamento dovuto soprattutto alla ricerca scientifica che contribuisce almeno in certi casi a cronicizzare la malattia, la strada da fare è ancora lunga. Bisogna agire sulla cultura tra la popolazione generale e i medici attraverso un’opera di sensibilizzazione massiccia.
IPOP in questi ultimi anni si è impegnata a organizzare webinar dedicati, con l’aiuto di specialisti dei vari ambiti medico-scientifici al fine di contribuire alla continuità delle informazioni specie per quanto riguarda i progressi scientifici. Inoltre, collaboriamo attivamente con altre Associazioni e stakeholder interessati al tumore del polmone. Sul tema del sostegno psicologico, tanto importante per il paziente e per la sua famiglia, abbiamo organizzato già durante la pandemia una serie di incontri con gli psiconcologi, che stiamo portando avanti. Il tumore del polmone è una malattia complessa che colpisce tutto il nucleo familiare, in particolare quando ad essere malato è un genitore giovane con i figli adolescenti. Inoltre, la letteratura scientifica dimostra che sostenere psicologicamente i pazienti produce notevoli benefici in termini di aderenza alle terapie e alla loro efficacia”, conclude.
Tumore del polmone: test genetici essenziali ma carenti
Associazioni pazienti, Benessere, Economia sanitaria, Eventi d'interesse, News Presa, PrevenzioneLa consapevolezza sulla salute dell’apparato respiratorio cresce in maniera lenta, ma costante. Tuttavia, restano ancora delle zone d’ombra. I pazienti che convivono con un tumore del polmone rivendicano una maggiore informazione sulla malattia e sul percorso di cura. Da un’analisi emerge poca attenzione agli aspetti della vita quotidiana, tra cui la riabilitazione dopo l’intervento chirurgico e il supporto psicologico. Viene richiesto un maggior contatto con il medico curante e una più stretta collaborazione tra gli operatori sanitari dell’ospedale e del territorio. L’informazione ricevuta dallo specialista sulle terapie da adottare, invece, è ritenuta soddisfacente. Mentre, c’è ancora da lavorare per ampliare sul territorio l’accesso ai test genetici, oggi offerti a poco più di 1 paziente su 2.
La fotografia è stata scattata dall’indagine conoscitiva sul tumore del polmone condotta nell’ambito dell’iniziativa ‘In Contatto’, promossa dalle 45 Associazioni del Gruppo ‘La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere’. L’analisi ha indagato le esperienze e le esigenze dei pazienti e delle pazienti durante il percorso di cura per portare all’attenzione delle Istituzioni i disagi, i bisogni non soddisfatti e proposte per soluzioni adeguate. I dati sono stati presentati in una diretta Facebook, nell’ambito di una serie di incontri.
Accesso ai test per terapie mirate
“Nell’indagine il dato che spicca tra tutti è la non conoscenza del tumore polmonare tra i pazienti e i caregiver”, sottolinea Annamaria Mancuso, Presidente Salute Donna OdV e Coordinatrice del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere. “Vuol dire che la popolazione generale non è sufficientemente informata su questa patologia neoplastica, sui segnali da attenzionare e sui percorsi di cura e assistenza. Il dato è molto preoccupante e ci pone davanti a numerose sfide, in primis quella di potenziare le campagne di sensibilizzazione. Un lavoro che intendiamo promuovere con determinazione perché solo attraverso un’informazione adeguata e capillare cresce la conoscenza, che permette ai cittadini e ai medici di medicina generale di mettere in atto azioni volte a prevenire primariamente il tumore del polmone”.
“Molto c’è ancora da fare – prosegue – per rendere accessibili ad un sempre maggior numero di pazienti i test genetici che sono fondamentali per profilare il tumore dal punto di vista molecolare e impostare le terapie. Un altro punto che ci spinge a sostenere i pazienti è quello della presa in carico globale con team multidisciplinari degli stessi malati e un’attenzione particolare al percorso della riabilitazione post-intervento chirurgico, al sostegno psicologico del paziente e del caregiver e ad alcuni aspetti della vita quotidiana che, stando alle testimonianze, ci sembrano gravemente trascurati o sottovalutati”.
Indagine sul vissuto dei pazienti con tumore del polmone
I pazienti e le pazienti hanno riportato il percorso di cura, gestione e impatto della malattia sulla quotidianità. Oltre metà del campione è di sesso femminile e ha un’età compresa tra i 61 e i 75 anni, mentre il 23% ha tra i 51 e i 60 anni. Il 45% degli intervistati al momento dell’indagine era in trattamento, il 32,5% in follow up mentre il 14,5% e l’13,2% erano rispettivamente in mantenimento o appena operati. L’indagine ha rivelato che sul fronte della prevenzione c’è ancora molto lavoro da fare. Inoltre, lo pneumologo, figura di riferimento per le malattie polmonari, non è ancora ben noto come colui al quale rivolgersi in caso di sintomi dell’apparato respiratorio.
Solo il 20,1% del campione si è sottoposto da più di 3 anni ad un Rx del torace, al 55,1% degli intervistati non è mai stato prescritto dal medico di famiglia un Rx del torace e addirittura l’88% dei rispondenti non si è mai sottoposto ad una TAC spirale del torace. Inoltre, la maggioranza del campione non si è mai recato dallo pneumologo per una visita. Riguardo la fase della malattia al momento della diagnosi, il 35% del campione presentava un tumore localizzato e operabile. Il 23,1% un tumore localmente avanzato non operabile e il 30,8% un tumore in fase metastatica. La prevenzione, quindi, resta cruciale per diagnosticare precocemente la malattia.
Fumo principale fattore di rischio
L’indagine evidenzia il ruolo del fumo quale principale fattore di rischio per l’insorgenza di un tumore del polmone. Il 20,5% del campione non ha mai fumato, il 12,4% è un fumatore, il 26,1% è stato un fumatore ma ha smesso da oltre 10 anni e il 13,2% è stato un fumatore ma ha smesso da meno di 5 anni mentre il 12% è stato un fumatore ma ha smesso da meno di 10 anni. Ciononostante, il 78,2% ha dichiarato di non aver avuto problematiche respiratorie. Il 72% del campione ha abitato in città. Inoltre, il 67,5% dei rispondenti non ha casi di tumore polmonare tra i consanguinei più stretti contro un 29,5% che ha risposto affermativamente.
La malattia è stata scoperta nel 38,5% dei casi durante controlli di routine, nel 23,5% a seguito di sintomi aspecifici condivisi con il medico di famiglia. Solo il 13,2% ha scoperto il tumore grazie a sintomi sospetti mentre il 2% a seguito di esami effettuati per familiarità. Ancora poco conosciuta è la R.I.S.P. Rete Italiana Screening Polmonare, il programma di screening gratuito per i forti fumatori attivo in 18 Centri italiani. Il 69,2% del campione non sa cosa sia, mentre il 30,8% del campione ne ha sentito parlare attraverso internet oppure tramite il medico specialista o grazie a materiali informativi in ospedale.
Tumore del polmone sempre più femminile
“I dati della survey vanno a confermare quanto le pubblicazioni scientifiche e i registri affermano, ossia che il tumore polmonare è, purtroppo, una malattia sempre più (anche) femminile. E il fumo di sigaretta, come abitudine attiva o pregressa, resta il fattore di rischio principale”. Lo mette in luce Silvia Novello, Professore Ordinario di Oncologia medica Università degli Studi di Torino e Responsabile SSD Oncologia Polmonare AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano, Presidente WALCE – Women Against Lung Cancer in Europe.
“Il livello di informazione rispetto alla campagna di prevenzione secondaria e primaria (RISP) è assolutamente inadeguato – continua – sia fra la popolazione che tra i medici di base. Un investimento andrà pertanto fatto in tale contesto per diffondere questa possibilità di poter fare finalmente screening anche per la patologia oncologica polmonare, che ancora oggi è la principale causa di morte per cancro”.
Informazione carente
L’informazione è un punto di forte criticità. Solo il 2,1% del campione ritiene di essere ‘molto’ informato sulla malattia anche se oltre la metà degli intervistati dichiara di non avere sottovalutato i possibili campanelli d’allarme. Inoltre, il 68,4% afferma di sapere che il tumore del polmone può essere correlato a mutazioni genetiche e addirittura il 65,4% sa che in questi casi il tumore viene curato con terapie a bersaglio molecolare. Il 62,8% del campione ha effettuato test genetici per la caratterizzazione molecolare del tumore.
Si rivela più che soddisfacente, invece, l’informazione ricevuta sulle scelte terapeutiche. Il 46,2% del campione si dichiara ‘molto’ informato e coinvolto dall’oncologo sulle strategie terapeutiche, il 44,9% ‘abbastanza’ informato. Solo il 9% lamenta di non essere ‘per niente’ informato. Il 39% del campione è stato curato con target therapy, il 36,8% con chemioterapia, il 36,3% con la chirurgia, il 30,3 con radioterapia, infine, un 18% è stato trattato con l’immunoterapia e un 9,4% con combinazione di chemio/immunoterapia. Tuttavia, soltanto al 41,5% degli intervistati il medico curante ha spiegato l’importanza dell’attività fisica e di uno stile di vita sano durante e dopo il percorso di cura.
Impatto psicologico
L’indagine mette in evidenza alcune importanti lacune. Il 70,6% del campione non è stato sottoposto dopo l’intervento chirurgico ad alcuna terapia riabilitativa e solo la metà è stato seguito da un team multidisciplinare, mentre il 62% non ha ricevuto alcun supporto psicologico. La vita quotidiana dopo una diagnosi di tumore del polmone subisce diverse limitazioni a causa degli effetti collaterali delle terapie (26,1%), dell’ansia/depressione (17,1%), e anche per la mancanza di contatto con il medico curante (15,4%).
La continuità assistenziale ospedale-territorio è un nodo cruciale. Si riscontra un gap tra l’assistenza ospedaliera e quella offerta sul territorio. Difficoltosa l’organizzazione dei controlli, con evidenti difficoltà nel conciliare la vita lavorativa e la gestione della malattia. Infine, la maggioranza del campione è stato seguito presso un Centro di riferimento della propria Regione e oltre la metà del campione è stato operato nello stesso Centro di riferimento.
Tumore del polmone, stigma per ex fumatori
“I risultati dell’indagine ci hanno colpito molto perché denotano quanto restino ancora oggi ampiamente sottovalutati i primi segnali/sintomi del tumore polmonare, patologia che peraltro è gravata da una forte ritrosia a parlarne. Tutti ne parlano pochissimo: i pazienti, perché ne temono lo stigma (sopratutto se sono stati ex fumatori), gli stessi medici di famiglia, i mezzi di informazione. Lo afferma Elena Castagnetti, socia fondatrice e membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione IPOP– e benché si cominci a vedere un certo cambiamento dovuto soprattutto alla ricerca scientifica che contribuisce almeno in certi casi a cronicizzare la malattia, la strada da fare è ancora lunga. Bisogna agire sulla cultura tra la popolazione generale e i medici attraverso un’opera di sensibilizzazione massiccia.
IPOP in questi ultimi anni si è impegnata a organizzare webinar dedicati, con l’aiuto di specialisti dei vari ambiti medico-scientifici al fine di contribuire alla continuità delle informazioni specie per quanto riguarda i progressi scientifici. Inoltre, collaboriamo attivamente con altre Associazioni e stakeholder interessati al tumore del polmone. Sul tema del sostegno psicologico, tanto importante per il paziente e per la sua famiglia, abbiamo organizzato già durante la pandemia una serie di incontri con gli psiconcologi, che stiamo portando avanti. Il tumore del polmone è una malattia complessa che colpisce tutto il nucleo familiare, in particolare quando ad essere malato è un genitore giovane con i figli adolescenti. Inoltre, la letteratura scientifica dimostra che sostenere psicologicamente i pazienti produce notevoli benefici in termini di aderenza alle terapie e alla loro efficacia”, conclude.
Due milioni italiani con malattie rare, 15% si sposta per curarsi
Associazioni pazienti, Economia sanitaria, Eventi d'interesse, Farmaceutica, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneIn Italia sono circa 2 milioni le persone con una malattia rara. Il 15% dei pazienti è costretto a spostarsi lungo il Paese per cercare le cure migliori. I centri a più elevata specializzazione legati alla rete europea sono assenti in 7 regioni. In particolare, i due terzi dei centri accreditati sono al Nord Italia, così come le strutture in grado di somministrare le terapie più avanzate e innovative. L’obiettivo del nuovo Piano Nazionale Malattie Rare 2023-2026 è cercare di rispondere ai bisogni dei pazienti e alle loro famiglie. Lo scorso 9 novembre ha ottenuto il parere favorevole in Conferenza Stato-Regioni al decreto di riparto dei fondi destinati alla sua attuazione (50 milioni di euro dal Fondo sanitario nazionale).
Cosa prevede il Piano Nazionale Malattie Rare 2023-2026
Il testo del Piano, frutto di tre anni di lavoro, con il contributo di UNIAMO – l’ente di rappresentanza della comunità delle persone con malattia rara – definisce un perimetro di interventi precisi. Le Regioni entro dicembre dovranno recepire formalmente il Piano ed entro il 31 gennaio 2024 dovranno revisionare la Rete Nazionale per le Malattie Rare, individuando i centri di eccellenza, riferimento e coordinamento sul territorio, di cui dovranno certificare le attività svolte in una relazione riassuntiva, da presentare entro il 31 gennaio 2025.
Punti di forza e criticità
Il Rapporto MonitoRare 2023 evidenzia alcuni punti di forza del sistema delle Malattie Rare in Italia. Per esempio, è cresciuto il numero di trattamenti disponibili per le persone affette da malattia rara: dai 31 del 2018 ai 45 del 2022. Tuttavia, ci sono ancora criticità che vanno affrontate, come la disomogeneità nell’accesso ai servizi socio-sanitari e l’incompleta attivazione degli screening neonatali, fondamentali per una diagnosi precoce e una migliore presa in carico dei pazienti.
Presa in carico delle malattie rare
“Le Regioni stanno recependo il Piano Nazionale Malattie Rare”, ha sottolineato Annalisa Scopinaro, Presidente di UNIAMO, durante un recente incontro sul tema. “Permetterà una più efficace presa in carico delle persone che vivono con malattia rara con l’obiettivo di un supporto terapeutico costante e soprattutto omogeneo su tutto il territorio nazionale. Stiamo lavorando tutti insieme per dare concretezza a un documento che necessita del supporto delle istituzioni, delle associazioni dei pazienti, dei clinici, della comunità scientifica, nonché del comparto farmaceutico. Il Piano affronta in modo diretto e preciso gli obiettivi su diagnosi, trattamenti, formazione e informazione per migliorare il più possibile la qualità di vita della comunità dei malati rari”.
Accesso precoce all’innovazione
“Il Nuovo Piano Nazionale Malattie Rare rappresenta un importante traguardo. Interviene in modo concreto su importanti misure come la diagnosi precoce, i trattamenti farmacologici, i corretti percorsi di presa in carico dei pazienti definendone obiettivi, azioni e strumenti per misurarne gli effetti. Tuttavia, sappiamo che c’è ancora tanto da fare. Appuntamenti come quello di oggi sono importanti, perchè siamo tutti riuniti, Istituzioni, Associazioni e Aziende per un unico e grande obiettivo comune quando pensiamo a migliorare la Vita di un paziente “raro”: una diagnosi precoce e accurata e un equo e tempestivo accesso alle cure, uniforme su tutto il territorio nazionale.
Per fare questo, è necessario agire per eliminare i freni normativi e burocratici che ostacolano l’innovazione, l’equo accesso alle cure e l’attrattività del nostro mercato. È necessario introdurre nuove regole per gestire l’innovazione e definire nuovi meccanismi di accesso precoce ai farmaci innovativi. I pazienti con malattie rare non possono aspettare e dobbiamo garantire loro il diritto alla tutela della Salute”. Lo ha ribadito Nicoletta Luppi, Presidente e Amministratrice Delegata di MSD Italia. L’incontro è stato realizzato, con il contributo non condizionante di MSD Italia, da UNIAMO.
Virus respiratori, dai nuovi vaccini alle terapie innovative
Anziani, Farmaceutica, News PresaL’allungamento della vita grazie ai progressi della scienza comporta l’invecchiamento costante della popolazione. Aumentano le cronicità e i soggetti fragili, cioè più a rischio di complicanze. Otre agli anziani, in questa fascia rientrano anche i pazienti oncologici, immunocompromessi, con malattie respiratorie o cardiovascolari. Secondo le evidenze scientifiche, oggi i vaccini sono la protezione più efficace contro le complicanze delle infezioni per influenza, Covid, Pneumococco, Herpes Zoster, Virus Respiratorio Sinciziale. A ricordarne l’importanza e i numeri sono gli infettivologi della Simit.
Il Virus Respiratorio Sinciziale provoca oltre 420mila ricoveri ogni anno e 29mila decessi negli adulti, mentre il virus dell’Herpes Zoster è presente in oltre il 90% della popolazione. “L’RSV può esacerbare condizioni come la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), l’asma e l’insufficienza cardiaca cronica e può portare a esiti gravi, come polmonite, ospedalizzazione e morte” spiega Roberto Parrella, Presidente Simit.
Pazienti fragili a rischio
Gli specialisti raccomandano la protezione preventiva per le fasce più fragili e i vaccini restano ad oggi il primo mezzo di prevenzione. Infatti, le condizioni di salute o il controllo della malattia possono essere peggiorati da malattie invece prevenibili o trattabili con vaccini, anticorpi monoclonali e antivirali a seconda dei casi e delle necessità. “I pazienti fragili appartengono a diverse popolazioni – sottolinea il Prof. Andrea Antinori, Direttore Divisione Immunodeficienze Virali, INMI Spallanzani. Si tratta delle persone più anziane, perché il sistema immunitario invecchia con l’età. Vi sono poi coloro che sono affetti da comorbidità concomitanti, come patologie cardiovascolari, malattie polmonari croniche come la BPCO o la fibrosi polmonare, insufficienza renale, epatopatia cronica, diabete, obesità”.
“A queste categorie – prosegue – negli ultimi anni si è aggiunto un crescente numero di persone con deficit del sistema immunitario, pazienti oncologici o oncoematologici, pazienti trapiantati o in attesa di trapianto d’organo, persone sottoposte a terapie immunosoppressive, o con immunodeficienze di varia natura. Inoltre vi sono le persone con infezione da HIV, in particolare quelle che per effetto di una diagnosi avanzata e un’insufficiente risposta alla terapia hanno anche un deficit immunitario e infine altri pazienti con malattie croniche. Questo ampio gruppo di persone trae beneficio dalle vaccinazioni contro Herpes Zoster, Pneumococco, influenza, Virus Respiratorio Sinciziale, SARS-CoV-2. I vaccini sono sicuri ed efficaci – ribadisce lo specialista – consentono di evitare le manifestazioni più severe della patologia e in alcuni casi proteggono dalla stessa infezione. Contestualmente al vaccino per l’influenza, la cui campagna è in corso in queste settimane, si può procedere anche alla co-somministrazione di queste altre vaccinazioni”.
Virus respiratorio sinciziale, le categorie più a rischio
Il Virus Respiratorio Sinciziale – RSV è un virus comune e contagioso che colpisce i polmoni e le vie respiratorie. Può dare complicazioni nei bambini sotto i due anni e negli anziani e immunocompromessi. Nei Paesi industrializzati, negli adulti, provoca oltre 420mila ricoveri ogni anno e 29mila decessi. Se finora non erano disponibili terapie e vaccinazioni, da poco in Italia c’è il primo vaccino per gli adulti, efficace anche nei soggetti con patologie concomitanti. Nello studio cardine ha mostrato una riduzione del 94,1% della malattia grave da RSV e un’efficacia complessiva del vaccino dell’82,6%.
“I soggetti fragili che contraggono il Virus Respiratorio Sinciziale sono ad alto rischio di malattie gravi a causa del declino dell’immunità correlato all’età e delle condizioni sottostanti – spiega Roberto Parrella, Presidente SIMI. Se infatti la maggior parte delle persone guarisce entro una o due settimane, il virus può assumere una forma grave nelle persone vulnerabili, come gli anziani e coloro che hanno malattie polmonari o cardiache e diabete. L’RSV può esacerbare condizioni come la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), l’asma e l’insufficienza cardiaca cronica e può portare a esiti gravi, come polmonite, ospedalizzazione e morte. In generale, chi ha patologie pregresse rischia un aggravamento delle proprie condizioni e va incontro a tassi di ospedalizzazione più elevati. Recenti studi americani rilevano come ogni anno ci siano da 60mila a 120mila ricoveri dovuti all’RSV, di cui circa 6-8mila decessi. Da questi dati si evince l’importanza che può rivestire uno strumento preventivo come il vaccino”.
Virus Herpes Zoster
Tra le patologie infettive, l’Herpes Zoster è una delle principali minacce per gli adulti. L’incidenza è di circa 8 casi per mille abitanti per anno, ma aumenta con l’età, tanto che a 80 anni si ha il 50% di possibilità in più di incorrere in questa patologia. Un rischio che riguarda soprattutto i pazienti fragili, immunocompromessi e coloro che sono affetti da patologie oncologiche o oncoematologiche.
“Il vaccino contro l’Herpes Zoster è prioritario perché questa infezione è presente in oltre il 90% della popolazione – sottolinea il Prof. Massimo Andreoni, Direttore Scientifico SIMIT. La riattivazione del virus è legata proprio all’immunodeficienza legata all’età o alla malattia di base”.
“L’Herpes Zoster comporta una fastidiosa fase acuta e delle sequele, tra cui la più nota è la nevralgia post-erpetica, prosegue lo specialista. Un dolore che colpisce la zona dove si è manifestata l’infezione e che può persistere anche per mesi. La letteratura scientifica più recente ha evidenziato anche complicanze cardio e cerebro-vascolari. La varietà e la gravità di queste conseguenze ci inducono a raccomandare fortemente la vaccinazione. Il vaccino ricombinante adiuvato, da poco disponibile, ha dimostrato un rapporto rischio/beneficio nettamente favorevole, oltre che una persistenza d’effetto di 10 anni. Tale vaccino, inoltre, può essere somministrato anche nei pazienti immunocompromessi, che sono i più esposti all’infezione e rappresentano pertanto i destinatari più indicati per la somministrazione della vaccinazione”.
Monoclonali contro il covid
Per i pazienti fragili immunocompromessi, oltre alla vaccinazione contro il covid – i cui dati sull’adesione alla campagna vaccinale sono ancora molto bassi – è disponibile un trattamento precoce per ridurre ospedalizzazioni e decessi. Si tratta di un nuovo anticorpo monoclonale in grado di prevenire gli effetti più gravi della malattia. Inoltre, ha anche un’azione immunomodulante, per cui potenzia la risposta immunitaria anche nei pazienti immunocompromessi, a differenza degli altri monoclonali precedenti che hanno solo un effetto neutralizzante.
Oltre ai dati virologici e al meccanismo d’azione, ci sono anche aspetti farmacocinetici che compensano la riduzione di efficacia in vitro, in virtù dei quali recenti studi di real world evidence internazionali hanno dimostrato l’efficacia del nuovo farmaco anche nelle più recenti varianti Omicron. Difatti, alcune linee guida europee come quelle inglesi lo raccomandano come alternativa all’antivirale orale laddove questo non possa essere utilizzato.
Cure personalizzate passano dai dati sanitari, il paper dei pazienti
News PresaCure personalizzate passano attraverso l’ascolto, la condivisione e l’utilizzo dei dati sanitari lungo l’intero patient journey. I dati generati dai pazienti possono di conseguenza migliorare la ricerca clinica, la programmazione sanitaria e la sostenibilità dell’SSN. Per farlo, però, serve un utilizzo sistematico e strutturato. Da questo presupposto parte un’indagine condotta nel contesto del progetto PATH con la collaborazione delle Associazioni di Pazienti. I risultati rivelano che per 3 pazienti su 4 la condivisione e l’utilizzo dei dati sanitari è fondamentale per un percorso di cura più efficace. Nella giornata di ieri è stato presentato alle Istituzioni un paper messo a punto dalle Associazioni del gruppo PATH con proposte operative. Il percorso di PATH, avviato nel 2021, ha portato alla generazione e presentazione alle Istituzioni di un Documento programmatico con le proposte dei pazienti per la riorganizzazione della Sanità del futuro, focalizzate su 5 temi chiave: Co-creazione, Territorio, Efficacia, Telemedicina ed Evidence Generation e Data Privacy. L’edizione 2023 si è concentrata sul quinto tema, relativo al valore dai dati generati dai pazienti. Il progetto, realizzato da Roche con 50 Associazioni e Federazioni di pazienti vuole promuovere il coinvolgimento dei pazienti nei processi decisionali.
Raccolta dei dati sanitari e alfabetizzazione
Ascoltare la voce del paziente per migliorare i percorsi di cura attraverso l’utilizzo efficace dei dati sanitari. Per farlo occorrono alfabetizzazione e coinvolgimento di pazienti e dei professionisti della salute, oltre alla sistematizzazione e interoperabilità (interconnessione) degli strumenti di raccolta dei dati sanitari. Questi punti chiave sono al centro delle richieste delle Associazioni di Pazienti del gruppo “PATH – Join our future” alle Istituzioni. Lungo l’intero percorso di cura i dati del paziente possono dare informazioni preziose su esiti di cura e bisogni di salute anche sociali e psicologici dei pazienti stessi. Dall’analisi emerge che il 75% dei pazienti italiani ritiene decisivo utilizzare i dati sanitari per migliorare il percorso di cura, sebbene al momento emerga una certa carenza di informazione (il 46% non conosce il tema).
Dati sanitari, oltre il fascicolo elettronico
Tra i vari strumenti di raccolta dei dati sanitari, il più conosciuto è il Fascicolo Sanitario Elettronico, noto all’82% dei partecipanti alla survey. Seguono i Registri di Patologia (36%) e i Patient Reported Outcomes – PROs (12%). L’ascolto attivo del paziente è una sfida per il Sistema Salute che deve rispondere ai cambiamenti della società e all’avanzare delle nuove tecnologie mediche. Una sfida ancora più attuale alla luce dell’agenda istituita dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che ha tra i suoi obiettivi la crescente digitalizzazione del Sistema Sanitario. Tuttavia, i registri elettronici devono essere accessibili in modo omogeneo in tutte le regioni italiane, per poter essere interoperabili e riportare, oltre i dati sanitari, l’esperienza dei pazienti lungo tutto il percorso di cura. Un approccio che per le associazioni rappresenta la via elettiva nel perseguire una Sanità più integrata, digitale e centrata sul paziente.
Alfabetizzazione, registri dedicati e questionari, le richieste dei pazienti
I punti sono stati raccolti nel paper presentato dal gruppo di Associazioni di Pazienti “PATH – Join our future”. Riguardano l’alfabetizzazione dei pazienti e dei professionisti della salute in merito all’utilizzo dei dati sanitari e l’istituzione di un registro dedicato ad ogni patologia affinché si possa realizzare una programmazione sanitaria sostenibile. Inoltre viene richiesta l’adozione dei questionari per la raccolta degli esiti di cura e delle esperienze col Servizio Sanitario riportati direttamente dal paziente: PROMs e PREMs. Si tratta di strumenti per l’ascolto diretto dei pazienti, standardizzati e divulgati, anche attraverso le Associazioni, a pazienti e operatori sanitari. Uno dei punti chiave è ampliare l’aspetto decisionale dei pazienti in termini di privacy, per renderli capaci di scegliere quali dati condividere e con chi. Le nuove sfide richiedono competenza digitale e politiche strutturate sulla condivisione e tutela dei dati. Con l’obiettivo di spingere le Istituzioni ad impegnarsi in modo effettivo nella realizzazione delle istanze presentate, le Associazioni nel corso dell’evento hanno chiesto loro di firmare il manifesto con i punti chiave del paper. Un gesto che simboleggia l’impegno istituzionale ad ascoltare la voce dei pazienti e realizzare le loro richieste.
Il punto di vista delle Associazioni di Pazienti
Ivan Gardini, Presidente Associazione Epac ETS: “Trovo incoraggiante che un paziente su tre conosca i Registri di Patologia. È un sogno nel cassetto poter disporre di registri dove sono raccolti i dati di tutti i pazienti per ogni singola patologia. L’impatto sulla Sanità pubblica sarebbe estremamente positivo. Il punto di riferimento potrebbe essere il Fascicolo Sanitario Elettronico, all’interno del quale creare sezioni e schede per ogni patologia che, a loro volta ed in automatico, alimentano dei veri e propri registri separati”.
Elisabetta Iannelli, Segretario Generale FAVO e Vicepresidente AIMAC: “Il valore aggiunto di strumenti come i PROs (Patient Reported Outcomes) è quello di rendere oggettivo un dato soggettivo, ossia espresso direttamente dal paziente. Oggettivizzare vuol dire rendere il dato misurabile: questa è la strada per costruire una Sanità a misura di paziente”.
Salvo Leone, Direttore Generale AMICI: “È opportuno comunicare ai pazienti che condividere i propri dati sanitari può significare ricevere una miglior cura e che questi saranno trattati in maniera rispettosa della loro opinione e delle leggi. A tal proposito è necessario: organizzare corsi di formazione per il personale sanitario sulla protezione dei dati e sulla legislazione relativa alla privacy; implementare tecnologie avanzate per garantire la sicurezza dei dati nel FSE, come la crittografia end-to-end e l’autenticazione a più fattori; informare i pazienti sui loro diritti relativi alla privacy dei dati e su come i loro dati sono protetti e utilizzati all’interno del Sistema Sanitario. È importante che il paziente sappia che i dati che mette a disposizione saranno custoditi e che, laddove decidesse di non condividerli più, il suo diritto all’obiezione sarà rispettato”.
Loredana Pau, Vicepresidente Europa Donna Italia: “Il Fascicolo Sanitario Elettronico è un grande facilitatore ma occorre diffonderne l’impiego sull’intero territorio nazionale. La condivisione e l’utilizzo dei dati sanitari non può prescindere dalla digitalizzazione. Interconnettendo gli strumenti di raccolta dati tra tutte le regioni il paziente può avere sotto controllo l’intera sua storia clinica. Il FSE deve però tutelare le situazioni di fragilità onde evitare che diagnosi impattanti sulla vita dei pazienti vengano lette semplicemente accedendo e leggendo il referto sul fascicolo. Sapere di avere un cancro per averlo letto sul referto caricato sul FSE non è certamente una buona soluzione per una comunicazione consapevole”.
Davide Petruzzelli, Presidente La Lampada di Aladino ETS: “L’intento di tutelare la propria privacy può costituire un limite all’utilizzo dei dati. I pazienti si domandano chi sono i destinatari dei dati, come vengono trattati e per quale utilizzo. Occorre, pertanto, un cambiamento culturale su questo tema: noi Associazioni di Pazienti possiamo dare un contributo importante, informando e rassicurando i pazienti”.
Paola Zaratin, Direttore Ricerca Scientifica AISM-FISM: “Il coinvolgimento delle Associazioni di Pazienti è fondamentale per un cambiamento di paradigma: occorre trasferire ai clinici e ricercatori la voce del paziente per trasformarla in progresso scientifico. Sono proprio le Associazioni che ci consentono di coinvolgere un campione di pazienti “rappresentativo” e sufficientemente numeroso. È proprio questa “rappresentatività” che ci permette di trasformare i dati in risultati dal valore scientifico per tutti gli attori del Sistema Salute”.
Il punto di vista degli esperti e delle Istituzioni
Fidelia Cascini, Professore di Igiene e Sanità Pubblica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Esperto di Sanità digitale del Ministero della Salute. Delegato nazionale sul regolamento europeo dello Spazio Dati Sanitari: “Interoperabilità vuol dire trasferimento di informazioni. Oggi le tecnologie rendono possibile questo trasferimento per creare un unico ecosistema sanitario. Resta così traccia nella storia del paziente, che ha sempre a disposizione le informazioni sulla sua situazione clinica, mentre il professionista ha accesso immediato a questa storia e alla sua evoluzione in tempo reale. Per raggiungere l’obiettivo, tutti gli attori del Sistema devono lavorare in sinergia, ispirandosi ad altri Paesi più evoluti da questo punto di vista”.
Elena Bonetti, Deputata membro XII Commissione Affari Sociali: “Il Sistema Sanitario ha mostrato in particolare nella pandemia una inadeguatezza rispetto alla raccolta e all’utilizzo dei dati sanitari. Manca una banca dati condivisa tra le diverse regioni l’interoperabilità dei dati. Per questo abbiamo posto questo come obiettivo strategico del PNRR. Solo attraverso l’interoperabilità tra differenti sistemi di raccolta dei dati è possibile realizzare un percorso di cura più efficace. Occorre, poi, formare medici e pazienti: questi ultimi devono divenire consapevoli delle modalità di impiego dei dati”.
Vanessa Cattoi, Deputata membro V Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione: “Il percorso di PATH rappresenta un ottimo esempio di come le Associazioni di Pazienti, unite nello stesso obiettivo, possano giocare un ruolo attivo nel miglioramento del Sistema Salute e dei percorsi di cura. Il loro coinvolgimento è imprescindibile, e come coordinatrice alla Camera dell’Intergruppo parlamentare “Insieme per un impegno contro il cancro” stiamo lavorando affinché divenga strutturale la loro presenza ai tavoli ministeriali che si occupano di miglioramento della Sanità”.
Simona Loizzo, Deputata membro XII Commissione Affari Sociali: “Penso che la chiave di lettura per la gestione dei dati sanitari sia il rapporto con le Associazioni di Pazienti. Un supporto, quello delle Associazioni, utile anche nel dialogare con altri stakeholders come AIFA. La mozione che presentiamo raccoglie una serie di temi importanti legati anche a quanto discusso in Commissione Europea sullo Spazio Europeo dei Dati Sanitari. Le Associazioni devono essere di supporto per rilevare le disomogeneità in termini di utilizzo degli strumenti di raccolta dei dati sul territorio, e porle all’attenzione del Legislatore”.
Ilenia Malavasi, Deputata membro della XII Commissione Affari Sociali: “L’utilizzo dei dati sanitari non è un problema esclusivamente di risorse, ma anche di educazione dei cittadini e formazione degli operatori del Sistema Sanitario. L’82% dei pazienti conosce il Fascicolo Sanitario Elettronico, che è senz’altro un ‘contenitore’ importante. Ma viene utilizzato male. Noi tutti dobbiamo fare meglio, e di più”.
Elisa Pirro, Senatrice membro della X Commissione permanente Affari sociali, Sanità, Lavoro pubblico e privato, Previdenza sociale: “È importante che le Associazioni di Pazienti siano accanto alla politica per indicare la direzione da seguire. È un discorso valido sia a livello nazionale che regionale. I dati generati dai pazienti sono una risorsa imprescindibile, senza di questi è impossibile effettuare scelte ragionate”.
Melanoma: nanoparticelle ‘caricate’ con microRna per abbatterlo
News PresaNanoparticelle con microRna sono la nuova promessa per curare il melanoma metastatico resistente alle terapie tradizionali. La cura innovativa sarebbe applicabile anche ad altre malattie oncologiche. A suggerirlo è lo studio di un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Iss, pubblicato su Molecular Therapy, disponibile online.
Malanoma matestatico, sfida per la ricerca
Oggi per il melanoma metastatico le terapie convenzionali si basano sull’immunoterapia e sugli inibitori di BRAF/MEK. Tuttavia molti pazienti non rispondono adeguatamente. Il nuovo approccio terapeutico proposto dallo studio, realizzato dal team guidato dalle ricercatrici Nadia Felli e Federica Felicetti del dipartimento di Oncologia e Medicina Molecolare, diretto dal Dr. Mauro Biffoni, si basa sull’utilizzo di nanoparticelle contenenti microRNA (miR126) che mirano direttamente al tumore.
miR126, l’arma contro il melanoma
Il miR126 è stato identificato come un efficacie agente onco-soppressivo nel melanoma, così come in altri tipi di cancro. Per veicolare in modo mirato il miR126, il team di ricerca ha creato nanoparticelle di chitosano funzionalizzate con un anticorpo specifico per una proteina di membrana delle cellule di melanoma. Questo approccio consente alle nanoparticelle di raggiungere selettivamente le cellule tumorali, migliorando l’efficacia del trattamento e riducendo gli effetti collaterali. Le nanoparticelle sono state testate con successo in vitro e in vivo in combinazione con un inibitore della via di trasduzione del segnale PI3K/AKT.
I risultati dello studio
I risultati della ricerca hanno dimostrato una notevole riduzione della crescita del tumore primitivo e l’inibizione della metastatizzazione. “Il sistema proposto da questa ricerca rappresenta un approccio innovativo nel campo della terapia oncologica, consentendo il trasporto mirato del microRna verso le cellule tumorali – sottolineano le ricercatrici. Il passaggio alla fase clinica sarà comunque cruciale per valutare l’efficacia del trattamento su pazienti e determinare la sua reale applicabilità nella lotta contro il melanoma metastatico resistente”. Per la realizzazione di questo progetto il gruppo di ricerca dell’Iss ha collaborato con le ricercatrici della facoltà di chimica dell’Università “Sapienza” di Roma, coordinate dalla Prof.ssa Cleofe Palocci.
Ipertensione arteriosa polmonare, al via “PAHssaparola”
News Presa, PrevenzioneIn Italia sono circa 3 mila le persone affette da ipertensione arteriosa polmonare, una malattia rara e difficile da diagnosticare. Riconoscerla precocemente e agire subito è essenziale per una migliore efficacia terapeutica possibile.
Si manifesta a seguito di un aumento della pressione nel territorio vascolare polmonare, il quale può condurre ad un progressivo malfunzionamento della parte destra del cuore. I sintomi più comuni, quali spossatezza, affanno e svenimenti, sono aspecifici. Sono quindi facilmente confondibili con molte altre malattie. Inoltre, vengono spesso sottovalutati, rendendo la PAH più difficile da diagnosticare. Se non curata, l’ipertensione arteriosa polmonare può culminare in uno scompenso cardiaco destro e, come estrema conseguenza, nella morte prematura del paziente.
Campagna informativa social
Da qui nasce il progetto “PAHssaparola” – vivere consapevolmente con l’ipertensione arteriosa polmonare. Il nuovo progetto di sensibilizzazione, ora on air, è eco-progettato e realizzato da Janssen, con Associazione ipertensione polmonare italiana (AIPI) e Associazione malati ipertensione polmonare (AMIP), con lo scopo di sostenere una diagnosi tempestiva e diffondere la consapevolezza su questa malattia.
Promuovere la sensibilizzazione è il primo passo per una diagnosi precoce e per una efficace strategia terapeutica. La campagna è completamente digitale, declinata sui canali social dedicati all’ipertensione arteriosa polmonare (Instagram PHocus360 e Facebook PHocus360) e sui canali Instagram delle associazioni pazienti coinvolte nel progetto, AMIP e AIPI. Al loro interno, gli utenti possono trovare raccolte in 11 post, informazioni sui sintomi della malattia, sull’iter diagnostico e sull’importanza di un approccio terapeutico tempestivo, per contrastare la progressione della malattia. Il piano editoriale è stato redatto partendo dalle ultime Linee Guida ESC/ERS pubblicate nel 2022.
Ipertensione arteriosa polmonare ancora poco conosciuta
La patologia impatta sulla vita privata, sociale e lavorativa. Da un punto di vista sanitario sono fondamentali i controlli periodici e l’assistenza di medici specialisti, oltre a terapie farmacologiche specifiche. «L’ipertensione arteriosa polmonare è una patologia rara, tutt’ora poco conosciuta», dichiara Pisana Ferrari, Presidente AIPI. «Molti pazienti si rivolgono ad un centro con le competenze specifiche solo quando la malattia è già in fase avanzata, a causa di un ritardo diagnostico che può arrivare a durare anche due anni. Gli obiettivi di AIPI e di questa campagna puntano a favorire la diagnosi precoce con un intervento tempestivo e adeguato sul paziente. La nostra esperienza di associazionismo, infine, può contribuire a far comprendere agli enti competenti le reali esigenze dei pazienti di ipertensione arteriosa polmonare».
«Il vero problema di chi è colpito da ipertensione arteriosa polmonare è che la malattia non è solo rara, ma anche molto poco conosciuta, sia dai medici sia dalla popolazione generale. Per questo, è molto importante creare collaborazioni e progetti come questo per sensibilizzare sulla necessità di una diagnosi precoce e promuovere la ricerca e l’informazione per una patologia così complessa e rara. Questi obiettivi si devono raggiungere anche realizzando rete tra i vari centri specializzati», commenta Vittorio Vivenzio, Presidente AMIP.
Diabete in crescita, solitudine aumenta rischio del 20%
News PresaOggi le sfide di salute e dell’ambiente sono tra i temi più ricorrenti nel dibattito della comunità scientifica e nelle agende politiche. Sebbene le interazioni tra i due ambiti sono ormai dimostrate dalla letteratura e dall’evidenza empirica, questi due filoni spesso viaggiano ancora su binari paralleli. Il Position Paper “Innovazione, Salute e Sostenibilità nell’ambito del diabete”, realizzato da The European House – Ambrosetti con il contribuito non condizionante di Novo Nordisk e presentato oggi a Roma, ha esplorato queste interconnessioni. Il rapporto mette in luce uno scenario socio-demografico e un contesto ambientale sempre più critici in cui le patologie a più alto impatto sistemico come il diabete continuano ad aumentare. Inoltre sottolinea che solo agendo sui fattori di rischio alla base di queste patologie, in gran parte modificabili, e sfruttando le nuove tecnologie e innovazioni è possibile invertire o frenare questa tendenza.
Ambiente responsabile del 24% malattia globale
Il 24% del carico di malattia a livello globale deriva dall’esposizione a fattori di rischio ambientali. Ogni anno causano più di 13 milioni di decessi nel mondo. D’altra parte, gli stessi sistemi sanitari, anche per i crescenti bisogni di salute, sono parte attiva del processo, producendo il 4,4% delle emissioni globali di gas serra e generando una serie di impatti che, sommati, li renderebbe nel complesso il 5° Paese al mondo per CO2 emessa. Lavorare al contrasto dei fattori di rischio, guardando non solo all’inquinamento atmosferico ma anche a inquinamento acustico o luminoso, disponibilità di servizi e prodotti alimentari di qualità o impianti sportivi e coinvolgendo tutti gli stakeholder, dai medici ai pazienti, dai regolatori alle aziende produttrici, genererebbe non solo benefici per il Pianeta ma anche per chi lo abita. Soprattutto per le patologie a più alto impatto, questo si tradurrebbe in benefici sia sulla salute pubblica, riducendo mortalità e disabilità, ma anche sui costi.
I costi del diabete
Il diabete costa ogni anno 20 miliardi di euro al nostro sistema sanitario tra spese dirette (9 miliardi, pari a 2.800 euro pro capite) e indirette (11 miliardi). Si tratta di una delle patologie croniche più condizionate dai fattori di rischio modificabili, sia in fase di insorgenza che nella progressione. Basti pensare che la presenza di servizi di mobilità attiva riduce la probabilità di insorgenza del diabete del 25% quando combinata con una riduzione delle emissioni di CO2, così come la riduzione di fattori stressanti ha un impatto nel decorso della patologia diabetica.
Angelo Avogaro, Presidente della Società Italiana di Diabetologia nonché Presidente della Federazione delle Società Scientifiche di Diabetologia, intervenuto nel corso dell’evento, ha ribadito l’importanza del contesto urbano. “Il ruolo dell’ambiente e dei cambiamenti climatici è sempre più rilevante come causa dell’insorgenza delle malattie croniche non trasmissibili come diabete e cancro. Questo nesso implica la necessità di una sensibilizzazione sempre maggiore sia delle istituzioni sia di tutti gli stakeholders della sanità. Oggi modificare il contesto ambientale necessita di investimenti necessari per prevenire la malattia e preservare il cittadino in uno stato di benessere psico-fisico. Spendere per curare ma anche investire per prevenire.”
Diabete e contesto urbano
Se l’urbanizzazione incontrollata limita gli spazi percorribili a piedi e la connettività sociale, oltre a incentivare abitudini e lavori sedentari, una pianificazione attenta fatta di politiche abitative, di mobilità, sociali e occupazionali efficaci, può rendere la città uno spazio adatto a coltivare abitudini più salutari. Già oggi 1,2 milioni di diabetici italiani vivono nelle Città Metropolitane, un numero destinato ad aumentare nel prossimo futuro. Perché queste politiche siano efficaci serve tuttavia una visione integrata. In caso di elevati tassi di inquinamento atmosferico, primo fattore di rischio ambientale per le patologie cardio-metaboliche, anche i benefici generati dalla cosiddetta “walkability”, ovvero la pedonalità e la disponibilità di spazi verdi in città, infatti, si annullano.
Solitudine aumenta rischio diabete del 20%
Alla camminabilità, indicatore incluso anche nella classifica recentemente pubblicata sulla qualità della vita delle diverse province italiane, si aggiungono altri fattori rilevanti come la disponibilità di servizi alimentari di qualità, adeguati a uno stile di vita attivo e sano, ma anche le condizioni abitative, la stabilità economica ed emotiva, l’esistenza di una rete relazionale. Vivere in una condizione di solitudine espone a un rischio del 20% più alto di sviluppare il diabete rispetto a chi convive, anche quando la relazione non è perfettamente armoniosa.
Come puntualizza Daniela Bianco, Partner e Responsabile dell’Area Healthcare di The European House – Ambrosetti, infatti “La nostra salute è in gran parte il risultato dei comportamenti e del contesto in cui viviamo lungo tutto il corso della vita, sin dal momento del concepimento. Comprendere questa relazione significa poter intervenire per prevenire, intercettare tempestivamente e gestire in maniera efficace le diverse patologie che sono determinate da questi fattori.”
In questo contesto, che si declina con minore o maggiore gravità a livello regionale e locale, a causa delle differenze socio-economiche e culturali che caratterizzano l’Italia, nelle dimensioni di HTA la sostenibilità ambientale e la qualità della vita sono ancora poco rilevanti. D’altra parte, le Linee Guida AIFA raccomandano di includere nella valutazione delle tecnologie sanitarie anche i costi indiretti in un’accezione ampia, ricomprendendo anche gli impatti ambientali, offrendo un importante punto di partenza. Il Position Paper, che ha beneficiato del contributo di un gruppo di esperti multidisciplinare riflette così sulla progressiva apertura al ripensamento e alla sperimentazione di processi di produzione e distribuzione innovativi, di modelli di utilizzo e di smaltimento dei farmaci e dei dispositivi medici più sostenibili, sottolineando la necessità di riconoscere tecnologie sanitarie che oltre a garantire efficacia e sicurezza tutelino l’ambiente e contribuiscano a migliorare la qualità di vita dei pazienti.
Salute in ottica One Health
Secondo Francesco Saverio Mennini, esperto in economia sanitaria presso il Ministro della Salute e Direttore del gruppo di ricerca sull’Economic Evaluation e HTA del Centro di Studi Economici e internazionali di Tor Vergata: “Per concretizzare il concetto di salute in un’ottica One Health e come Investimento servono alcune azioni (caratteristiche dell’HTA), quali: misurare non solo la singola prestazione ma il risultato di tutto il percorso di cura, tenendo conto dei costi evitati e dei vantaggi in termini economici, sociali ed ambientali; misurare la spesa non su un anno ma su un periodo più lungo per valutare l’efficienza dei percorsi di cura, similmente a quanto si fa per gli investimenti. Misurare e valutare devono diventare i pilastri di riferimento.”
Crohn, dieta di esclusione riduce infiammazione. Lo studio
Alimentazione, Ricerca innovazioneLa dieta ha un ruolo chiave nei pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali. Negli ultimi anni le linee guida sono passate da una dieta restrittiva, con l’obiettivo di ridurre i sintomi o il rischio di ostruzione del transito, a un approccio che modula la flora batterica intestinale. L’obiettivo è indurre un’azione antinfiammatoria. Per la malattia di Crohn nel paziente adulto, l’ultima innovazione è la dieta di esclusione. Uno studio è stato presentato di recente al XIV Congresso Nazionale dell’Italian Group for the Study of Inflammatory Bowel Disease (IG-IBD).
“Esistono – spiega la professoressa Maria Teresa Abreu, esperta internazionale di malattie infiammatorie croniche intestinali, Direttrice del Centro per le IBD dell’Università di Miami e Presidente eletta dell’American Gastroenterological Association (AGA).- diverse diete rigorosamente studiate che migliorano i sintomi e l’infiammazione nei pazienti con malattie infiammatorie intestinali. Sfortunatamente, ci sono pochi dietologi che possono aiutare i pazienti e i nostri studi hanno dimostrato che è molto difficile cambiare il comportamento alimentare. A molti pazienti – sottolinea – è stato detto di non mangiare fibre e questo è un peccato poiché è una delle cose che riduce il sintomo della diarrea e migliora il microbioma”.
Crohn, dieta nel paziente pediatrico
L’alimentazione è parte della terapia nella malattia di Crohn. Riduce il rischio di malnutrizione spesso associata alla patologia e aiuta a controllare i sintomi. Inoltre migliora gli indici infiammatori e promuove la guarigione della mucosa intestinale.
Oggi nell’ambito pediatrico-adolescenziale, la nutrizione enterale esclusiva (cioè un’alimentazione artificiale e liquida per un determinato periodo di tempo) è un trattamento per favorire la remissione della malattia di Crohn in fase attiva, senza complicazioni. Per quanto riguarda l’età adulta, invece, mancano ancora delle evidenze certe.
Dieta negli adulti. Lo studio
Il protocollo nutrizionale di esclusione riduce o evita l’esposizione a fattori alimentari che potrebbero peggiorare la malattia.
“La dieta di esclusione per il morbo di Crohn (CDED – Crohn’s Disease Exclusion diet), elaborata da un gruppo di ricercatori israeliani, emerge come un trattamento dietetico, con fondate basi scientifiche nella promozione della remissione della malattia”, spiega Andrea Pasta, specializzando e dottorando in Gastroenterologia presso l’Università degli Studi di Genova Irccs Policlinico San Martino di Genova.
“In base all’analisi intermedia del nostro studio randomizzato sull’applicazione pratica della dieta a esclusione negli adulti con attività lieve-moderata della patologia – continua il dottor Pasta -, abbiamo constatato che dopo dodici settimane, un maggior numero di pazienti nel gruppo che ha seguito la dieta di esclusione ha raggiunto la remissione clinica rispetto al gruppo di controllo. Nonostante una tendenza di lieve calo di peso associata alla dieta, l’analisi della composizione corporea, mediante bioimpedenziometria, ha evidenziato una riduzione della massa grassa e un aumento significativo della massa magra, in particolare della massa cellulare metabolicamente attiva, consegnando quindi una composizione più favorevole rispetto all’avvio della terapia. Questi risultati promettenti, benché preliminari, mostrano un’ottima efficacia nell’indurre la remissione clinica nei pazienti con malattia di Crohn, un’attività clinica lieve-moderata. Suggeriscono altresì che tale approccio possa essere sicuro e ben tollerato”, conclude.
Azzurri con diabete, Giulio Gaetani sul podio della coppa del mondo
Associazioni pazienti, News Presa, SportSi può essere grandi campioni anche con il diabete di tipo 1. Lo dimostrano i risultati ottenuti dai tantissimi atleti affetti da questa patologia. Il diabete giovanile, infatti, non impedisce di praticare uno sport. Inoltre, l’attività fisica aiuta a regolare i valori della glicemia e il compenso metabolico. Il diabete di tipo 1 è tra le malattie cosiddette “autoimmuni”, caratterizzate cioè da una reazione del sistema immunitario contro l’organismo stesso. Il pancreas non è in grado di produrre insulina a causa della distruzione delle beta-cellule che sono deputate alla produzione di questo ormone. La ricerca corre, ma ad oggi non esiste una cura e la patologia impatta sulla qualità della vita di chi ne è affetto.
Lo schermidore con diabete
Lo schermidore Giulio Gaetani è tra gli atleti azzurri affetti dalla patologia che compete e vince. Ora è raggiunto un importante traguardo mondiale. “Siamo molto orgogliosi del risultato ottenuto da Giulio Gaetani, atleta azzurro con diabete che ha conquistato il primo bronzo in Coppa del Mondo nella Spada. Un importantissimo risultato sportivo al quale si aggiunge il messaggio forte sulla lotta allo stigma nei confronti delle persone con diabete, e nello specifico degli atleti con diabete ai quali è precluso ancora oggi l’accesso ai gruppi sportivi militari. Su questo tema come Federazione delle società diabetologiche italiane (FeSDI) stiamo lavorando insieme a Giulio Gaetani e Anna Arnaudo affinché siano riconosciuti gli stessi diritti a tutti gli atleti italiani, con la patologia o meno”.
Lo ha dichiarato Angelo Avogaro, Presidente FeSDI e SID e Riccardo Candido, vicepresidente FeSDI e presidente nazionale AMD. “I successi sportivi dei giovani atleti con la patologia, come Giulio, ci supportano nel veicolare un altrettanto importante messaggio per la promozione della cultura della prevenzione, intesa come adozione di corretti stili vita, per la lotta alle malattie croniche come diabete e obesità, in progressivo aumento nel nostro Paese e in tutta Europa”, hanno concluso.
Covid e fasce a rischio grave. In arrivo vaccino annuale
News PresaTutti gli indicatori del Covid-19 in Italia continuano a crescere. Il virus, però, è diventato meno aggressivo e l’impatto sugli ospedali resta sotto controllo. Tuttavia ci sono fasce più fragili che sono ancora esposte al rischio di eventi gravi e ospedalizzazioni. L’unica protezione efficace ad oggi è il vaccino.
“Basta esitazioni, oltre il 95% della popolazione fragile non è protetta contro il Covid, ed è a rischio. Abbiamo avuto quasi 9mila morti da inizio anno”.
Lo ha ribadito di recente il Prof. Massimo Andreon al XXII Congresso SIMIT – Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali.
Covid, chi sono i pazienti fragili
“Da inizio anno vi sono state quasi 9mila persone decedute per il virus. Parlare di un virus non più aggressivo e che vive con noi non implica che una riduzione della gravità di questo patogeno. Diventa quindi necessario promuovere il richiamo della vaccinazione per il Covid nei soggetti fragili. Purtroppo c’è una grande esitazione dei pazienti, generata dall’impegno che richiedono i periodici richiami. Presto potremmo avere una vaccinazione annuale per il Covid e questo potrebbe in qualche modo facilitare l’adesione alla campagna vaccinale. Adesso serve un coinvolgimento quanto più ampio possibile dei pazienti più a rischio, come anziani, malati cronici, pazienti immunocompromessi: oltre il 95% di questa popolazione ha una protezione nei confronti del virus che non è più efficace, in quanto l’ultimo richiamo vaccinale risale a più di 6 mesi fa”.