Tempo di lettura: 7 minutiLa guerra, la distruzione, la morte, la paura, segnano per sempre la vita dei bambini. Un dramma che interessa molte zone del mondo, dove i bimbi crescono (quando ce la fanno) nel terrore e nella disperazione.
A sei anni dall’inizio del conflitto in Siria, sono 5,8 milioni i bambini che vivono ancora sotto i bombardamenti e un bambino su quattro rischia conseguenze devastanti sulla salute mentale. Sono almeno 3 milioni i piccoli che hanno oggi sei anni e non hanno mai conosciuto altro che la guerra: si stima che siano oltre 470.000 le vittime dall’inizio del conflitto. L’85% della popolazione siriana vive in condizioni di povertà e 4,6 milioni di persone vivono in aree assediate o difficilmente raggiungibili. Sono 6,3 milioni gli sfollati all’interno della Siria e 4,9 milioni – tra cui 2,3 milioni di bambini – sono rifugiati e hanno dovuto lasciare il Paese.
Questa la fotografia della Siria scattata dal nuovo rapporto “Ferite invisibili”, presentato da Save the Children, l’Organizzazione internazionale indipendente che per la prima volta indaga – attraverso interviste e testimonianze raccolte tra adulti e minori all’interno del Paese l’impatto psicologico sui bambini coinvolti nel conflitto siriano.
La ricerca è stata condotta tra dicembre 2016 e febbraio 2017 su 458 tra bambini, adolescenti e adulti all’interno di 7 tra i 14 governatorati della Siria, nelle aree dove attualmente Save the Children e i suoi partner locali hanno la possibilità di lavorare, principalmente in zone controllate dalle forze dell’opposizione, includendo aree assediate o molto difficili da raggiungere.
Due bambini su tre dicono di aver perso qualcuno che amavano, la loro casa è stata bombardata o sono rimasti feriti a causa del conflitto. Il 50% degli adulti denuncia che gli adolescenti ormai fanno uso di droghe per affrontare lo stress, le violenze domestiche sono aumentate e il 59% degli intervistati conosce bambini e ragazzi reclutati nei gruppi armati, alcuni anche sotto i 7 anni. Secondo l’81% degli adulti intervistati, i bambini sono diventati più aggressivi, sia nei confronti dei genitori e dei familiari che degli amici. Sono tantissimi i bambini che soffrono di minzione involontaria e di frequente enuresi notturna (lo riferisce il 71% degli adulti) e quelli che la notte non riescono a dormire per gli incubi, la paura del buio, dei bombardamenti, della perdita della famiglia. La metà degli adulti intervistati denuncia che i bambini che non riescono più a parlare e sono molti anche quelli che commettono atti di autolesionismo, che sfociano spesso in tentativi di suicidio.
“Questa ricerca dimostra che le conseguenze del conflitto sui bambini siriani sono devastanti. Bambini che sognano di morire per poter andare in Paradiso e avere così un posto dove poter mangiare e stare al caldo o che sperano di essere colpiti dai cecchini per arrivare in ospedale e magari poter scappare dalle città assediate. Genitori che preferiscono dare in spose le proprie figlie ancora bambine perché non possono occuparsi di loro, generandone la disperazione che in alcuni casi le porta addirittura al suicidio. Bambini lasciati orfani della guerra che pur di avere qualcosa da mangiare si uniscono ai gruppi armati” denuncia Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia.
Una delle più grandi paure dei bambini che vivono ancora in Siria è proprio quella delle bombe: basta il rumore di un aereo che passa o delle grida per generare terrore nei bambini, anche una porta sbattuta dal vento può provocare reazioni di panico.
“Odio gli aerei, perché hanno ucciso mio padre”, dice continuamente Marwan, un bambino di circa 6 anni di Aleppo che non è più capace di parlare ma sa soltanto gridare.
Sono 3,7 milioni i bambini che sono nati durante il conflitto e quelli che hanno meno di 12 hanno passato già la metà della loro vita in una condizione di continuo imminente pericolo. Molti di loro soffrono di incubi notturni e hanno difficoltà ad addormentarsi per il terrore di non svegliarsi più. La mancanza di sonno e di riposo è estremamente pericolosa per la salute fisica e mentale dei bambini e può portare a gravi conseguenze di natura psichiatrica nonché a malattie a volte mortali.
Sono tantissimi i bambini che smettono di parlare, che soffrono di tremendi mal di testa, difficoltà a respirare e paralisi temporanee degli arti. E tanti i bambini e gli adolescenti che per combattere la paura si rifugiano nelle droghe, nell’alcool o compiono atti di autolesionismo.
In soli due mesi nella città assediata di Madaya, lo staff medico ha segnalato a Save the Children almeno 6 casi di bambini che hanno tentato il suicidio, il più giovane aveva 12 anni.
Una delle principali paure dei bambini è quella di essere strappati alle famiglie e ai loro cari con violenza. Due bambini su tre dicono di aver perso uno dei loro cari. Molti hanno visto uccidere i propri genitori, familiari, amici o li hanno persi perché sono spariti o sono stati arrestati.
Nel febbraio 2017 erano ancora 650.000 le persone all’interno delle 13 aree assediate, tra cui molti bambini rimasti soli. È qui che i bambini vivono il dramma dell’assedio, della mancanza di aiuti, medicine, carburante per scaldarsi e quello della fame.
Bambini che hanno perso i propri cari, che non possono andare a scuola e che devono trovare il modo per sopravvivere diventando improvvisamente adulti per sfuggire alla povertà. Tantissimi vanno a lavorare nei mercati, come ambulanti per la strada, per aiutare i familiari che spesso sono rimasti feriti dalle bombe e non possono più procurarsi una fonte di reddito.
Più della metà degli adulti intervistati ha dichiarato di conoscere bambini che utilizzano pistole e molte sono le testimonianze di bambini anche sotto i sette anni reclutati per combattere.
Questi bambini sono i più vulnerabili dal punto di vista delle conseguenze psicologiche e con loro anche le bambine, spesso costrette a matrimoni precoci, un fenomeno ormai in crescita in molte aree del paese. I genitori, non potendo curarsi di queste bambine, le obbligano a sposarsi con uomini di famiglie più ricche che si possano occupare di loro, pensando di tenerle così lontane anche dal rischio di abusi e violenze sessuali. Alcune tentano il suicidio pur di evitare di finire in spose a uomini che non vogliono. “Nelle nostre strutture abbiamo ricevuto molte giovani ragazze che avevano tentato il suicidio a causa della pressione delle famiglie a sposarsi, perché non volevano farlo o non volevano il partner che era stato scelto per loro. Sono tantissimi anche i casi di abusi sessuali e stupri su ragazze giovanissime”, spiega una psicologa che opera nel sud della Siria.
La mancanza di educazione è una delle più grandi paure dei bambini e l’impossibilità di andare a scuola crea loro grandi problemi oltre che nell’apprendimento, anche nella socializzazione: dall’inizio del conflitto sono più di 4.000 le scuole che sono state attaccate, circa due al giorno. Una scuola su tre è danneggiata da bombe o è stata trasformata in rifugio per sfollati e circa 150.000 tra insegnanti e personale educativo, hanno lasciato il Paese. Le scuole che rimangono in piedi continuano ad essere obiettivi di attacchi indiscriminati e la maggior parte dei bambini e degli adolescenti non può frequentarle. Il 50% dei bambini che frequentano ancora la scuola dicono di avere paura ad andarci perché non si sentono al sicuro e la maggior parte dice di aver perso “il senso del futuro” senza la possibilità di studiare.
“Ci sono bambini come mio fratello che hanno dimenticato tutto quello che avevano imparato a scuola. Lui non sa più fare neanche due più due. Tanti non sanno riconoscere più neanche le lettere dell’alfabeto. Non vado più a scuola da due anni e ho paura del mio futuro. Gli anni passano e io non so cosa farò senza un’istruzione”, racconta Zainab, 11 anni, da un campo di sfollati interno alla Siria.
La mancanza di aiuto e di supporto psicologico
Anche prima dell’inizio della guerra, in Siria non c’erano molti psicologi infantili e solo due ospedali pubblici psichiatrici per 21 milioni di persone. Lo stigma sociale radicato nella cultura del paese nei confronti dei problemi di natura mentale, è un’altra barriera molto forte che ha impedito lo sviluppo di questo ambito di supporto medico per i bambini. La guerra ha esacerbato questo gap, in un momento in cui è invece cresciuta la necessità di intervento. Solo il 20% delle strutture sanitarie attualmente funzionanti offrono servizi di salute mentale di base e la richiesta di posti eccede quelli disponibili. Dopo il conflitto restano pochi specialisti in questa materia e anche loro sono sopraffatti e necessitano di supporto, per aver vissuto eventi traumatici. La mancanza di fondi dedicati a questo tipo di attività è inoltre uno dei problemi fondamentali per consentire agli interventi di supporto psicologico ancora in essere, di non doversi interrompere.
Sono 2,3 milioni i bambini che hanno abbandonato il paese in cerca di sicurezza e aiuto, fuggendo per la maggior parte nei paesi limitrofi, Turchia, Giordania, Libano e Iraq. Questi bambini hanno subito forti traumi e la maggior parte di loro sono stati testimoni di violenze estreme che li hanno costretti a fuggire. La prima causa di stress è rappresentata dalle difficilissime condizioni economiche in cui si trovano le famiglie sfollate: molti adulti non riesco a fare lavori legali in conseguenza del loro status di rifugiati, che impedisce loro anche di accedere a scuole e strutture sanitarie e li fa vivere in una sorta di limbo. Uno studio condotto tra i rifugiati in Turchia, ad esempio, mostra come il 45% dei bambini sfollati in questo paese soffrano di disturbi traumatici da stress (un dato dieci volte più alto rispetto alla media mondiale) e il 44% di loro soffre di depressione.
I bambini rifugiati sono al sicuro da bombardamenti e combattimenti, per cui vivono una condizione difficile ma che può essere alleviata grazie ad un intervento di supporto psicosociale che con il tempo è in grado di ricondurre i bambini ad una condizione di infanzia più serena. Una delle paure più grandi, anche per loro, resta quella dei bombardamenti – spiegano gli operatori psicosociali che li supportano nei campi di sfollati – ma man mano che passa il tempo i bambini riescono a convincersi di essere al sicuro e ricominciano a dormire la notte e a non svegliarsi più ogni volta che sentono un rumore, con la paura di morire. Per i bambini che vivono ancora in Siria, invece, la paura non va mai via.
“La continua esposizione ad eventi traumatici e a esperienze negative ha portato la maggior parte dei bambini siriani a vivere una condizione di stress tossico, con conseguenze sul loro stato di salute mentale e fisica, che può interrompere il loro sviluppo. Nonostante la condizione psicologica di questi bambini sia drammatica, sono comunque estremamente resilienti. Non sono ancora desensibilizzati alla violenza e provano ancora emozioni importanti. Non siamo al punto di non ritorno e per questo è fondamentale intervenire subito e restituire loro quella speranza di futuro di cui hanno bisogno.”conclude Valerio Neri.
A sei anni esatti dall’inizio di una delle tragedie più gravi della nostra epoca Save the Children vuole ancora una volta accendere i riflettori sul conflitto in Siria. Per questo domenica 12 marzo 2017 alle ore 17.30, presso la Galleria Vittorio Emanuele a Milano (lato Silvio Pellico), si terrà l’evento pubblico “Ferite di guerra”. Le note del Maestro Giovanni Allevi e le voci degli attori Cesare Bocci e Isabella Ferrari racconteranno la quotidianità che vivono milioni di bambini siriani, ancora oggi intrappolati nelle città assediate o nel limbo dei campi profughi nei paesi limitrofi.
Il tono dei cinguettii in rete rivela l’andamento di una dieta
Alimentazione, News Presa, Prevenzione, PsicologiaUna ricerca ha studiato la correlazione tra l’esito di una dieta e il tono dei cinguettii espressi sul popolare social network. Insomma, il successo o il fallimento di una dieta è ‘scritto’ nei tweet. Chi dimostra un certo ottimismo attraverso la piattaforma è più probabile che abbia centrato gli obiettivi. La percentuale di accuratezza con cui può essere previsto è del 77 per cento, secondo lo studio, e si basa sui sentimenti espressi nelle frasi e nelle parole sul social basato su un numero limitato di caratteri.
Questa conclusione emerge da una ricerca del Georgia Institute of Technology, che sarà presentata alla 20th ACM Conference on Computer-Supported Cooperative Work and Social Computing, dal 25 febbraio al primo marzo negli Usa. I ricercatori hanno preso in esame più di due milioni di tweet, sommati agli aggiornamenti di una app conta-calorie, MyFitnessPal, relativi a 700 persone.
Dai risultati è emerso che coloro che riuscivano a tenere fede agli obiettivi della dieta esprimevano sentimenti più positivi, erano più proiettati verso il futuro e avevano un network sociale più ampio. Inoltre, si focalizzavano di più su argomenti relativi alla salute e al fitness e interagivano maggiormente con gli altri. “Abbiamo osservato che gli utenti erano molto più propensi a condividere ricette sane, offrire suggerimenti sull’alimentazione e l’esercizio fisico, e riferire i propri progressi- spiega Munmun De Choudhury, autrice principale della ricerca- una più grande rete di amici e seguaci, oltre che un maggiore coinvolgimento, significano per queste persone un sistema di supporto più forte e una probabilità di adesione alla dieta migliore”.
Al contrario, coloro che non erano riusciti a centrare gli obiettivi della dieta mostravano di avere un tono palesemente negativo su Twitter e tendevano ad esprimere più ansia e disagio nei loro ‘cinguettii’. Anche pochi caratteri, quindi, possono dire tanto.
Dal Pascale un nuovo terremoto sulla sanità campana
News PresaE’ una specie di terremoto quello che ormai da settimane sta investendo la sanità campana. Partita da un ospedale di frontiera, il Loreto Mare, l’onda lunga delle inchieste della magistratura è arrivata a travolgere anche l’Istituto Nazionale per i Tumori di Napoli. Stavolta non si tratta di centinaia di arresti, ma di nomi eccellenti sì. A finire ai domiciliari è stato nientedimeno che il direttore generale dell’Asl Napoli 1 Centro, e oltre a lui un noto primario del Pascale e la moglie. A portare avanti le indagini è stata la Guardia di Finanza nell’ambito di un’operazione su irregolarità negli appalti . I reati ipotizzati sono corruzione e turbativa d’asta.
Rabbia e indignazione
Incredulità, stupore ma anche delusione e rabbia sono i sentimenti di chi percorre i viali e i corridoi dell’Istituto. Al Pascale non si parla d’altro. Anzi, non si `sussurra´ d’altro soprattutto tra il personale medico e sanitario. Capannelli di medici e personale sanitario si incontrano all’ingresso degli edifici, nel parcheggio ma quando ci si avvicina subito si dileguano perché «bisogna tornare a lavorare». Nessuno se la sente di commentare quanto accaduto oggi. Ma se chi lavora al Pascale non è di tante parole, ben diverso è l’atteggiamento di chi purtroppo è lì per curarsi o per accompagnare un parente, un amico. Tra i cittadini c’è chi non nasconde la rabbia e chi invece è sorpreso. «La verità è che in Italia e qui in Campania ancora di più – dice un uomo di Caserta, in attesa di un amico che è a fare degli esami – non si sa più cosa sia l’onestà, il rispetto degli altri, del lavoro onesto e sudato. Vogliono solo i soldi e più ne hanno e più ne vogliono. Non c’è più l’umiltà». Monta la rabbia tra i pazienti. «Ai cittadini aumentano le tasse – dice una coppia – il ticket per fare gli esami che qui al Pascale valgono in alcuni casi la vita, ci sono le file d’attesa e poi si scoprono queste cose».
In difesa del Pascale
Ma se c’è chi non nasconde la rabbia, dall’altra c’è anche chi chiede «di non fare di tutta l’erba un fascio». «Ho sentito degli arresti – commenta un uomo over 50 – ma qui c’è anche tanta gente che lavora onestamente, che si prende cura di chi ha bisogno». Dello stesso parere anche una coppia. «Noi purtroppo abbiamo avuto bisogno di cure qui al Pascale – racconta l’uomo – ci siamo trovati benissimo. Siamo stati seguiti e curati. Sentire questi fatti – prosegue – ci lascia increduli e sorpresi». Secondo l’uomo, «il problema è che nella sanità girano troppi soldi e chi ne viene a contatto poi vuole averne sempre di più. Ci auguriamo – concludono – che questa brutta storia non screditi tutto l’ospedale».
L’Ordine dei medici
Per il leader partenopeo dei camici bianchi «ciò che sta accadendo ci spinge ad interrogarci sul valore della deontologia. Anzi sul valore che alcuni colleghi medici danno al giuramento che hanno prestato. E’ il caso che l’Ordine si interroghi e si chieda “cosa si è sbagliato?”, ma soprattutto “cosa si può fare per riportare al centro della professione l’etica e la moralità?”. Allo stesso tempo ribadisco però che questi medici non rappresentano l’intera categoria e non possiamo permettere che l’immagine del medico sia rovinata da questi esempi negativi».
La guerra e le “ferite invisibili” sui bimbi. In Siria uno su 4 ha problemi mentali.
Bambini, News Presa, Prevenzione, PsicologiaLa guerra, la distruzione, la morte, la paura, segnano per sempre la vita dei bambini. Un dramma che interessa molte zone del mondo, dove i bimbi crescono (quando ce la fanno) nel terrore e nella disperazione.
A sei anni dall’inizio del conflitto in Siria, sono 5,8 milioni i bambini che vivono ancora sotto i bombardamenti e un bambino su quattro rischia conseguenze devastanti sulla salute mentale. Sono almeno 3 milioni i piccoli che hanno oggi sei anni e non hanno mai conosciuto altro che la guerra: si stima che siano oltre 470.000 le vittime dall’inizio del conflitto. L’85% della popolazione siriana vive in condizioni di povertà e 4,6 milioni di persone vivono in aree assediate o difficilmente raggiungibili. Sono 6,3 milioni gli sfollati all’interno della Siria e 4,9 milioni – tra cui 2,3 milioni di bambini – sono rifugiati e hanno dovuto lasciare il Paese.
Questa la fotografia della Siria scattata dal nuovo rapporto “Ferite invisibili”, presentato da Save the Children, l’Organizzazione internazionale indipendente che per la prima volta indaga – attraverso interviste e testimonianze raccolte tra adulti e minori all’interno del Paese l’impatto psicologico sui bambini coinvolti nel conflitto siriano.
La ricerca è stata condotta tra dicembre 2016 e febbraio 2017 su 458 tra bambini, adolescenti e adulti all’interno di 7 tra i 14 governatorati della Siria, nelle aree dove attualmente Save the Children e i suoi partner locali hanno la possibilità di lavorare, principalmente in zone controllate dalle forze dell’opposizione, includendo aree assediate o molto difficili da raggiungere.
Due bambini su tre dicono di aver perso qualcuno che amavano, la loro casa è stata bombardata o sono rimasti feriti a causa del conflitto. Il 50% degli adulti denuncia che gli adolescenti ormai fanno uso di droghe per affrontare lo stress, le violenze domestiche sono aumentate e il 59% degli intervistati conosce bambini e ragazzi reclutati nei gruppi armati, alcuni anche sotto i 7 anni. Secondo l’81% degli adulti intervistati, i bambini sono diventati più aggressivi, sia nei confronti dei genitori e dei familiari che degli amici. Sono tantissimi i bambini che soffrono di minzione involontaria e di frequente enuresi notturna (lo riferisce il 71% degli adulti) e quelli che la notte non riescono a dormire per gli incubi, la paura del buio, dei bombardamenti, della perdita della famiglia. La metà degli adulti intervistati denuncia che i bambini che non riescono più a parlare e sono molti anche quelli che commettono atti di autolesionismo, che sfociano spesso in tentativi di suicidio.
“Questa ricerca dimostra che le conseguenze del conflitto sui bambini siriani sono devastanti. Bambini che sognano di morire per poter andare in Paradiso e avere così un posto dove poter mangiare e stare al caldo o che sperano di essere colpiti dai cecchini per arrivare in ospedale e magari poter scappare dalle città assediate. Genitori che preferiscono dare in spose le proprie figlie ancora bambine perché non possono occuparsi di loro, generandone la disperazione che in alcuni casi le porta addirittura al suicidio. Bambini lasciati orfani della guerra che pur di avere qualcosa da mangiare si uniscono ai gruppi armati” denuncia Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia.
Una delle più grandi paure dei bambini che vivono ancora in Siria è proprio quella delle bombe: basta il rumore di un aereo che passa o delle grida per generare terrore nei bambini, anche una porta sbattuta dal vento può provocare reazioni di panico.
“Odio gli aerei, perché hanno ucciso mio padre”, dice continuamente Marwan, un bambino di circa 6 anni di Aleppo che non è più capace di parlare ma sa soltanto gridare.
Sono 3,7 milioni i bambini che sono nati durante il conflitto e quelli che hanno meno di 12 hanno passato già la metà della loro vita in una condizione di continuo imminente pericolo. Molti di loro soffrono di incubi notturni e hanno difficoltà ad addormentarsi per il terrore di non svegliarsi più. La mancanza di sonno e di riposo è estremamente pericolosa per la salute fisica e mentale dei bambini e può portare a gravi conseguenze di natura psichiatrica nonché a malattie a volte mortali.
Sono tantissimi i bambini che smettono di parlare, che soffrono di tremendi mal di testa, difficoltà a respirare e paralisi temporanee degli arti. E tanti i bambini e gli adolescenti che per combattere la paura si rifugiano nelle droghe, nell’alcool o compiono atti di autolesionismo.
In soli due mesi nella città assediata di Madaya, lo staff medico ha segnalato a Save the Children almeno 6 casi di bambini che hanno tentato il suicidio, il più giovane aveva 12 anni.
Una delle principali paure dei bambini è quella di essere strappati alle famiglie e ai loro cari con violenza. Due bambini su tre dicono di aver perso uno dei loro cari. Molti hanno visto uccidere i propri genitori, familiari, amici o li hanno persi perché sono spariti o sono stati arrestati.
Nel febbraio 2017 erano ancora 650.000 le persone all’interno delle 13 aree assediate, tra cui molti bambini rimasti soli. È qui che i bambini vivono il dramma dell’assedio, della mancanza di aiuti, medicine, carburante per scaldarsi e quello della fame.
Bambini che hanno perso i propri cari, che non possono andare a scuola e che devono trovare il modo per sopravvivere diventando improvvisamente adulti per sfuggire alla povertà. Tantissimi vanno a lavorare nei mercati, come ambulanti per la strada, per aiutare i familiari che spesso sono rimasti feriti dalle bombe e non possono più procurarsi una fonte di reddito.
Più della metà degli adulti intervistati ha dichiarato di conoscere bambini che utilizzano pistole e molte sono le testimonianze di bambini anche sotto i sette anni reclutati per combattere.
Questi bambini sono i più vulnerabili dal punto di vista delle conseguenze psicologiche e con loro anche le bambine, spesso costrette a matrimoni precoci, un fenomeno ormai in crescita in molte aree del paese. I genitori, non potendo curarsi di queste bambine, le obbligano a sposarsi con uomini di famiglie più ricche che si possano occupare di loro, pensando di tenerle così lontane anche dal rischio di abusi e violenze sessuali. Alcune tentano il suicidio pur di evitare di finire in spose a uomini che non vogliono. “Nelle nostre strutture abbiamo ricevuto molte giovani ragazze che avevano tentato il suicidio a causa della pressione delle famiglie a sposarsi, perché non volevano farlo o non volevano il partner che era stato scelto per loro. Sono tantissimi anche i casi di abusi sessuali e stupri su ragazze giovanissime”, spiega una psicologa che opera nel sud della Siria.
La mancanza di educazione è una delle più grandi paure dei bambini e l’impossibilità di andare a scuola crea loro grandi problemi oltre che nell’apprendimento, anche nella socializzazione: dall’inizio del conflitto sono più di 4.000 le scuole che sono state attaccate, circa due al giorno. Una scuola su tre è danneggiata da bombe o è stata trasformata in rifugio per sfollati e circa 150.000 tra insegnanti e personale educativo, hanno lasciato il Paese. Le scuole che rimangono in piedi continuano ad essere obiettivi di attacchi indiscriminati e la maggior parte dei bambini e degli adolescenti non può frequentarle. Il 50% dei bambini che frequentano ancora la scuola dicono di avere paura ad andarci perché non si sentono al sicuro e la maggior parte dice di aver perso “il senso del futuro” senza la possibilità di studiare.
“Ci sono bambini come mio fratello che hanno dimenticato tutto quello che avevano imparato a scuola. Lui non sa più fare neanche due più due. Tanti non sanno riconoscere più neanche le lettere dell’alfabeto. Non vado più a scuola da due anni e ho paura del mio futuro. Gli anni passano e io non so cosa farò senza un’istruzione”, racconta Zainab, 11 anni, da un campo di sfollati interno alla Siria.
La mancanza di aiuto e di supporto psicologico
Anche prima dell’inizio della guerra, in Siria non c’erano molti psicologi infantili e solo due ospedali pubblici psichiatrici per 21 milioni di persone. Lo stigma sociale radicato nella cultura del paese nei confronti dei problemi di natura mentale, è un’altra barriera molto forte che ha impedito lo sviluppo di questo ambito di supporto medico per i bambini. La guerra ha esacerbato questo gap, in un momento in cui è invece cresciuta la necessità di intervento. Solo il 20% delle strutture sanitarie attualmente funzionanti offrono servizi di salute mentale di base e la richiesta di posti eccede quelli disponibili. Dopo il conflitto restano pochi specialisti in questa materia e anche loro sono sopraffatti e necessitano di supporto, per aver vissuto eventi traumatici. La mancanza di fondi dedicati a questo tipo di attività è inoltre uno dei problemi fondamentali per consentire agli interventi di supporto psicologico ancora in essere, di non doversi interrompere.
Sono 2,3 milioni i bambini che hanno abbandonato il paese in cerca di sicurezza e aiuto, fuggendo per la maggior parte nei paesi limitrofi, Turchia, Giordania, Libano e Iraq. Questi bambini hanno subito forti traumi e la maggior parte di loro sono stati testimoni di violenze estreme che li hanno costretti a fuggire. La prima causa di stress è rappresentata dalle difficilissime condizioni economiche in cui si trovano le famiglie sfollate: molti adulti non riesco a fare lavori legali in conseguenza del loro status di rifugiati, che impedisce loro anche di accedere a scuole e strutture sanitarie e li fa vivere in una sorta di limbo. Uno studio condotto tra i rifugiati in Turchia, ad esempio, mostra come il 45% dei bambini sfollati in questo paese soffrano di disturbi traumatici da stress (un dato dieci volte più alto rispetto alla media mondiale) e il 44% di loro soffre di depressione.
I bambini rifugiati sono al sicuro da bombardamenti e combattimenti, per cui vivono una condizione difficile ma che può essere alleviata grazie ad un intervento di supporto psicosociale che con il tempo è in grado di ricondurre i bambini ad una condizione di infanzia più serena. Una delle paure più grandi, anche per loro, resta quella dei bombardamenti – spiegano gli operatori psicosociali che li supportano nei campi di sfollati – ma man mano che passa il tempo i bambini riescono a convincersi di essere al sicuro e ricominciano a dormire la notte e a non svegliarsi più ogni volta che sentono un rumore, con la paura di morire. Per i bambini che vivono ancora in Siria, invece, la paura non va mai via.
“La continua esposizione ad eventi traumatici e a esperienze negative ha portato la maggior parte dei bambini siriani a vivere una condizione di stress tossico, con conseguenze sul loro stato di salute mentale e fisica, che può interrompere il loro sviluppo. Nonostante la condizione psicologica di questi bambini sia drammatica, sono comunque estremamente resilienti. Non sono ancora desensibilizzati alla violenza e provano ancora emozioni importanti. Non siamo al punto di non ritorno e per questo è fondamentale intervenire subito e restituire loro quella speranza di futuro di cui hanno bisogno.”conclude Valerio Neri.
A sei anni esatti dall’inizio di una delle tragedie più gravi della nostra epoca Save the Children vuole ancora una volta accendere i riflettori sul conflitto in Siria. Per questo domenica 12 marzo 2017 alle ore 17.30, presso la Galleria Vittorio Emanuele a Milano (lato Silvio Pellico), si terrà l’evento pubblico “Ferite di guerra”. Le note del Maestro Giovanni Allevi e le voci degli attori Cesare Bocci e Isabella Ferrari racconteranno la quotidianità che vivono milioni di bambini siriani, ancora oggi intrappolati nelle città assediate o nel limbo dei campi profughi nei paesi limitrofi.
Dermatite atopica severa, presto nuove terapie
News Presa, Ricerca innovazioneDermatite atopica severa per molti è un termine vuoto, sentito in tv o magari letto su una rivista medica. Per altri, invece, è come una sentenza di condanna, visto che ancora oggi non esiste una terapia adeguata. In Italia, secondo i dermatologi, l’informazione e la raccolta di dati epidemiologici sono ancora insufficienti, soprattutto nei soggetti con una forma severa o grave, che rappresentano una minoranza. Tuttavia, per comprendere la portata del problema, o dei problemi, causati dalla dermatite atopica vale la pena di rifarsi ad un nuovo sondaggio di “Understand AD” condotto su 505 americani adulti (dai 18 anni di età in su) affetti da questa malattia in forma moderata o severa.
Ecco alcuni dati: il 53% ha riportato che la malattia ha avuto un impatto negativo sulla propria vita quotidiana. L’82% ha cambiato il proprio stile di vita per gestire la malattia, ad esempio scegliendo una carriera che limita le interazioni con altre persone. E ancora, il 55% ha riportato che la malattia ha minato la sicurezza in sé stessi, il 49% ha parlato di problemi a riposare. Il 28% è ansioso in ragione della propria dermatite atopica, mentre il 23% delle persone si è detto addirittura depresso (in alcuni casi il paziente arriva a tentare il suicidio). Il 20%, infine, ha confessato che la malattia ha avuto effetti negativi sulla capacità di mantenere la propria occupazione.
Sai cos’è la dermatite atopica? Questa è la domanda che ciascuno dovrebbe porsi, perché la dermatite atopica, le cui cause scatenanti non sono ancora ben comprese, può colpire davvero chiunque. La malattia si manifesta con eruzioni cutanee e prurito che diviene insopportabile, tanto da provocarsi graffi e lacerazioni. Si formano delle croste spesso sanguinanti. Dal prurito si passa poi al dolore.
Gli errori più comuni
Chi soffre di dermatite atopica, anche in forma grave, commette spesso errori legati alla scarsa conoscenza della patologia o anche, purtroppo, alla disperazione. «Alcuni di questi errori – spiega la professoressa Ketty Peris, – Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Dermatologia del Policlinico Gemelli – consistono nel sottoporsi a frequenti docce. Ci si lava in maniera eccessiva, senza considerare che l’acqua secca molto la pelle e quindi può avere un effetto negativo. Dopo ogni doccia sarebbe bene idratarsi in maniera adeguata». Alcuni pazienti, aggiunge la professoressa, non usano una giusta quantità di crema o spesso usano prodotti dannosi. «Per la dermatite atopica il problema non è quantitativo, ma qualitativo». E anche un uso eccessivo di creme può essere un errore. «Spesso vediamo che c’è un abuso di corticosteroidi topici che, usati impropriamente, possono produrre effetti indesiderati».
Nuove terapie
«Il prossimo futuro – conclude la professoressa – ci dà grandi speranze. Ci sono molti farmaci nuovi in arrivo che si somministreranno sotto cute. Questi farmaci saranno presto in commercio e, visto che anche la nostra struttura ha partecipato ai trials clinici, sappiamo che hanno effetti importanti. Risolvono molto bene la sintomatologia, eliminando quel prurito atroce che porta alla disperazione molti pazienti». Oltre le manifestazioni cliniche c’è l’aspetto psicologico. Infatti, trattandosi di una malattia della pelle, troppo spesso vengono sottovalutate le ricadute sulla psiche. Molte persone colpite da dermatite atopica severa tendono a isolarsi, a perdere fiducia in sé. I rapporti con gli altri diventano sempre più rari e difficili, perché gli sguardi delle persone sono spesso inquisitori e insistenti e c’è anche chi crede, sbagliando, che la dermatite atopica possa essere contagiosa. «Sfortunatamente – dice Julie Block, presidente e CEO della l’Associazione Nazionale Eczema degli Stati Uniti (NEA) – c’è la percezione sbagliata che la dermatite atopica sia solo una condizione della pelle che le persone possono affrontare da sole. In realtà è una malattia immunologica a carattere sistemico che ha un impatto enorme sulla vita dei pazienti. Noi vogliamo che le persone che vivono con questa malattia sappiano che non sono soli e che siamo impegnati a sostenere la causa per migliori cure e trattamenti, fornendo supporto e alzando il livello di consapevolezza circa questa seria ma troppo spesso trascurata malattia». La NEA sta supportando, in tutti gli Stati Uniti, la campagna Understand AD per accrescere la consapevolezza e la conoscenza della dermatite atopica severa nei cittadini. In Italia, in cui manca ancora la dimensione reale della patologia così come del suo impatto sociale ed economico, sarebbero quanto mai utili strategie di sensibilizzazione dei cittadini, in attesa che la ricerca possa portare a breve sul mercato soluzioni terapeutiche specifiche ed efficaci.
Congresso Aogoi: in Campania diminuiscono i parti cesarei
News Presa, Ricerca innovazioneLa chirurgia laparoscopica del retro peritoneo nella pelvi che raggiunge tutti i plessi nervosi. E’ questa una delle più importanti novità delle quali si è discusso in occasione del congresso regionale dell’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) tenutosi nel week end a Caserta. «Questa chirurgia – dice Davide De Vita, presidente del congresso – rappresenta un’importante novità nel campo delle patologie pelvi-perineali. Segretario regionale campano Aogoi e responsabile centro dolore pelvico dell’Ospedale di Battipaglia, De Vita spiega che «la stessa tecnica inizia a essere applicata per far recuperare la deambulazione ai paraplegici, sia donne che uomini, attraverso l’applicazione dei neuromodulatori. Un gruppo di esperti internazionali tra cui il professor Vito Chiantera, ginecologo napoletano dell’Università di Palermo, ha iniziato a lavorare sui nervi compromessi dei paraplegici. Per adesso, parliamo ancora di sperimentazione su alcuni casi».
Le eccellenze della Campania
La tre giorni ha visto la partecipazione di 600 tra ostetrici professionisti ospedalieri, del territorio e liberi professionisti e ha portato alla ribalta nazionale le provate capacità dell’avanguardia ostetrico-ginecologica campana. Si è parlato delle ulltime novità nel trattamento dell’endometriosi e del dolore pelvico cronico, del prolasso degli organi pelvici in oncologia ginecologica, dell’innovativa e promettente tecnica del linfonodo sentinella e le linee guida fondamentali nella nuova legge sulla responsabilità professionale.
Formazione
Il dottor De Vita ha anche messo in evidenza come si registri un trend in diminuzione sui parti cesarei in Campania, reso possibile anche per effetto dei corsi periodici svolti sul territorio dall’Aogoi su simulazione in sala parto e sinergia con i neonatologi, che hanno portato ad aumentare la sicurezza di tutti i professionisti. La Regione, come già fatto per la frattura del femore, sta predisponendo un provvedimento che porterà la percentuale dei tagli cesarei nella media nazionale, grazie anche all’introduzione del parto in analgesia in tutti gli ospedali pubblici campani e ad una capillare azione osservazionale, analitica e formativa delle direzioni strategiche aziendali sui tagli cesarei evitabili nelle primigravide. «Nei primi due mesi del 2017 – conclude lo specialista – negli ospedali campani in cui è già partito questo progetto la percentuale del taglio cesareo nelle primigravide è diminuito del 10%, evidenziando un’inversione di tendenza significativa».
Bimbi più a rischio infortuni se madri soffrono di depressione o ansia
Bambini, News Presa, Prevenzione, PsicologiaQuando la madre soffre di ansia o depressione sono maggiori le possibilità che il bambino incappi in un incidente domestico non grave. Lo dimostra uno studio britannico dell’Università di Nottingham, che allo stesso tempo esclude la correlazione tra stati ansioso-depressivi delle mamme e lesioni più gravi nei bambini. I ricercatori hanno riscontrato che i casi di avvelenamento, piccole fratture e scottature di lieve entità in età infantile aumentavano in corrispondenza del manifestarsi degli episodi materni. Tuttavia non sono stati evidenziati correlazioni con lesioni più gravi, come ustioni di terzo grado o fratture del femore. “Le lesioni sono ancora una delle principali cause prevenibili di decesso nei bambini in età prescolare, ma pochi studi hanno esaminato se le patologie mentali delle madri influiscono su tale rischio – spiega Ruth Baker, autrice principale dello studio – La maggior parte degli studi si sono concentrati sulla sola depressione”.
Il team di studiosi ha analizzato i dati di ricovero di oltre 200.000 bambini nati tra il 1998 e il 2013 e li hanno seguiti dalla nascita ai cinque anni. In particolare, hanno riscontrato episodi di depressione e ansia in tutte le cartelle cliniche compilate durante le cure primarie fornite alle madri, nonché prescrizioni di antidepressivi e farmaci per l’ansia. Baker e colleghi si sono concentrato su avvelenamenti, fratture e scottature come le tre lesioni prevenibili più comuni nei bambini piccoli. Un quarto delle madri aveva avuto uno o più episodi di depressione o ansia e le lesioni non intenzionali dei bambini si concentravano in questi periodi. Sono stati segnalati più di 2600 avvelenamenti, 6000 fratture e 4200 scottature. I bimbi avevano un tasso di avvelenamento più elevato del 52% durante gli episodi di depressione materna, 63% più alto durante quelli di ansia e del 230% più elevato durante momenti di depressione con ansia. Anche i tassi di fratture e scottature erano ai massimi livelli durante gli episodi combinati di depressione e ansia.
“Un limite dello studio è che i ricercatori si sono focalizzati sui dati di ospedalizzazione e sulle diagnosi di malattia mentale. Molte lesioni non vengono segnalate e tante madri probabilmente hanno ansia o depressione, anche se non diagnosticata dai medici – scrivono gli autori dello studio sulla rivista Injury Prevention -. Il database britannico usato per lo studio non hanno nemmeno legato i dati sanitari dei bambini ai padri o ad altri caregiver”.
“Nuovi studi stanno esaminando l’associazione tra salute mentale paterna e lesione del bambino e stiamo riscontrando che un maggior coinvolgimento del padre riduce le lesioni – ha affermato Takeo Fujiwara della Tokyo Medical and Dental University in Giappone, non coinvolto nello studio -. Per prevenire le lesioni in età infantile, dobbiamo prenderci cura delle madri e di altri caregiver in termini di salute mentale. Pochi studi si concentrano su come aiutare realmente i nostri caregiver”.
Italiani pigri e fumatori, vizi e stravizi mettono a rischio la salute
Alimentazione, News Presa, Prevenzione, SportIl 19,6 per cento degli italiani fuma (uno su cinque), sono in maggioranza uomini. Otto milioni e mezzo bevono troppo (il numero include soprattutto giovanissimi). Quasi la metà, invece, è in sovrappeso e fanno poca attività fisica. Vizi e stravizi mettono in crisi la salute della popolazione.
I dati sono stati diffusi dall’Istat.
A livello globale, il consumo di tabacco rappresenta una delle prima cause di morte evitabili. Eppure sono oltre dieci milioni i tabagisti. E quasi un connazionale su quattro – il 22,8 per cento – racconta di aver fumato in passato. Tra gli uomini il numero dei fumatori raggiunge il 24,6 per cento. Solo il 15 per cento, invece, tra le donne. Le percentuali si alzano quando si parla di giovani: sono fumatori il 30,4 per cento dei 20-24enni, il 33 per cento dei 25-34enni e il 30,3 per cento degli uomini tra i 35 e i 44 anni.
Anche se i fumatori rappresentano il 19,6 per cento della popolazione, quindici anni fa erano il 23,7 per cento. Nel giro di poco tempo in molti hanno deciso di smettere. Si fuma anche di meno. Nel 2001 il numero medio di sigarette quotidiane era 14,7, oggi arriva a 11,6
Si fuma ovunque, dal Piemonte alla Sicilia, ma la regione con il più alto tasso di fumatori è la Campania (22,2 per cento della popolazione sopra i 14 anni) e al secondo posto si classifica la Liguria (21,4 per cento). Tra le aree più virtuose spiccano invece la provincia di Trento e la Puglia, dove fumano il 14 e il 17 per cento della popolazione.
In Italia, inoltre, ci sono ancora 8 milioni e mezzo di persone che eccedono con l’alcol. Per la maggior parte si tratta di uomini (oltre 6 milioni). Al consumo abituale si è aggiunta da qualche anno la pratica del binge drinking: l’assunzione di grandi quantità di alcolici in breve tempo con l’obiettivo di raggiungere velocemente lo stato di ubriachezza. Sono particolarmente a rischio gli italiani di sesso maschile con sessantacinque anni o più. Oltre il 36 per cento di loro consuma più alcol di quanto raccomandato, soprattutto durante i pasti. Ma creano preoccupazione anche i più giovani. Un rapporto non corretto con gli alcolici interessa il 32,1 per cento dei maschi tra i 18 e 24 anni, ma anche il 22,4 per cento degli 11-17enni. In pratica quasi un adolescente su quattro. L’abuso di alcolici è più diffuso nell’Italia settentrionale, meno al Sud.
Dati alla mano, gli italiani che hanno problemi con la bilancia rappresentano, invece, il 45,1 per cento della popolazione adulta. La maggior parte è in sovrappeso, ma un 10 per cento può essere considerato obeso. L’allarme non risparmia i più piccoli: nel biennio 2014-2015, i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso sono ormai il 24,9 per cento. Oltre il 28 per cento prendendo in considerazione solo il segmento maschile. Non stupisce, così, che più di un italiano su tre ammette di non praticare alcuna attività fisica. Nel 2015 i sedentari erano il 39,9 per cento della popolazione, 23 milioni e mezzo di italiani. Stavolta le cattive abitudini sono più diffuse tra le donne. Ben il 44,3 per cento, contro il 35,1 per cento degli uomini.
Hulk e Spiderman, la “terapia” dei supereroi
News PresaCosa centrano Spiderman e Hulk con dei bambini malati di leucemia? Centrano, se all’improvviso i supereroi decidono di fare visita ai piccoli degenti per incoraggiarli a non mollare e a tenere duro. «Anche dentro di te c’è una forza soprannaturale», ha urlato Hulk. «Tu sei forte come l’acciaio», ha detto Iron Man; seguito a ruota dal «non mollare, continua ad andare avanti» di Flash. I bimbi, increduli nel vedere i loro eroi volare al di fuori delle finestre dell’Ospedale Pediatrico Bambino hanno vissuto una giornata che non dimenticheranno.
The Avengers
Come nel celebre film scritto e diretto da Joss Whedon, Capitan America, Hulk, Flash, Superman, Iron Man e Spiderman hanno reso unica la mattinata dei piccoli pazienti dell’ospedale. Dopo essersi calati dai padiglioni Giovanni Paolo II e Pio XII tra sguardi stupiti e pieni di ammirazione, i supereroi hanno anche regalato ai bambini dei regali. A rendere possibile il tutto è stata l’iniziativa ideata da EdiliziAcrobatica con la collaborazione del Bambino Gesù, con lo scopo di dare vita ad uno spettacolo capace di regalare un carnevale indimenticabile a piccoli che vivono ogni giorno come una battaglia. I supereroi, in realtà, sono alcuni tecnici specializzati di EdiliziAcrobatica, azienda italiana del settore dell’edilizia su fune, che, applicando la tecnica di discesa che utilizzano quotidianamente sul lavoro, hanno regalato un emozionante spettacolo acrobatico al pubblico dei giovani malati.
L’importanza del gioco
Grazie al gioco i bambini costretti in ospedale entrano in relazione con gli altri e con ciò che li circonda. Una vera e propria terapia capace di fare in modo che gli atteggiamenti mentali, fisici ed emozionali superino la staticità e si muovano verso la crescita. Costretti a vivere una realtà come quella ospedaliera, molti bambini sono infatti depressi e ansiosi. Provati dalla malattia risentono anche dell’abbandono del contesto familiare. Per questo motivo iniziative ludiche riescono non solo a regalare un sorriso, ma addirittura a fare in modo che i piccoli pazienti rispondano in alcuni casi meglio alle terapie.
Mieloma multiplo, un “killer seriale” lo può affrontare
Farmaceutica, News PresaContro il mieloma la nuova frontiera è quella delle molecole killer. Nel caso del mieloma multiplo, una nuova molecola che presto arriverà in Italia è capace non solo di stimolare il sistema immunitario, ma anche di uccidere le cellule tumorali in maniera diretta e selettiva. La novità del “daratumumab” (questo il nome dell’anticorpo monoclonale) è proprio questo nuovo meccanismo d’azione, il primo e unico ad aver dimostrato di essere efficace anche in monoterapia. Gli studi realizzati sino ad oggi sui pazienti più difficili da trattare, perché refrattari e quindi non più responsivi alle terapie disponibili, hanno mostrato risultati di efficacia mai raggiunti prima in termini di sopravvivenza libera da progressione di malattia e di risposta generale alla terapia.
Il mieloma multiplo
Il mieloma multiplo è una malattia del midollo osseo di fatto incurabile ad oggi. La terapia tradizionalmente si è basata sui classici chemioterapici mentre negli ultimi 10 anni la ricerca ha portato a significativi progressi scientifici. Una fase successiva di sviluppo si è aperta negli ultimi anni, periodo in cui la ricerca si è mossa nel campo delle classi degli anticorpi monoclonali migliorando ulteriormente sia l’efficacia che la sicurezza delle terapie per il mieloma multiplo.
Un giro di boa
Il farmaco, in fase di approvazione in Italia, rappresenta un giro di boa nel miglioramento della terapia per il mieloma multiplo, delineando un nuovo paradigma di cura per i pazienti affetti da questa forma di tumore del sangue. «In pazienti con mieloma multiplo divenuti resistenti a tutte le classi di nuovi farmaci disponibili sino a questo momento, e con un’attesa di vita di pochi mesi – commenta Michele Cavo, professore ordinario di ematologia all’Istituto di Ematologia e Oncologia Medica “Seràgnoli” dell’Università di Bologna – daratumumab in monoterapia ha prolungato la sopravvivenza di 3 o 4 volte».
Anticorpi monoclonali
«Gli anticorpi monoclonali hanno il potenziale per cambiare radicalmente la strategia terapeutica del mieloma multiplo – spiega Mario Boccadoro, professore ordinario al Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute -. Daratumumab può essere aggiunto alle terapie in corso e ha consentito di ottenere ottimi risultati anche nei pazienti più complessi; in combinazione, in soggetti alla seconda o terza ricaduta ha consentito di ridurre la mortalità fino al 60 per cento. Ora sono in corso studi per utilizzarlo già alla diagnosi e si aprono nuovi orizzonti per cui in futuro potremmo essere in grado di cronicizzare il mieloma multiplo».
Chi dona agli altri trae beneficio anche per se stesso. Lo studio
Associazioni pazienti, News Presa, PrevenzioneIl 56,8% dei donatori ha cambiato le proprie abitudini nutrizionali proprio in virtù dell’appartenenza a un’associazione di volontariato. Il 37,8% ritiene anche importante modificare il consumo giornaliero o settimanale di alcolici e il 42,3% del campione ha modificato i propri comportamenti come fumatore. Uno studio del Cergas – Bocconi certifica il positivo ritorno per la collettività dell’appartenenza a un’associazione di volontariato. La ricerca ha preso in esame la più antica associazione del sangue europea, l’Associazione dei Volontari Italiani del Sangue, di cui ricorre quest’anno il 90° anniversario della Fondazione.
L’indagine è contenuta nel libro curato dal presidente di Avis Nazionale Vincenzo Saturni, da Giorgio Fiorentini e da Elisa Ricciuti dell’Università Bocconi che prosegue le ricerche avviate dall’Associazione con la pubblicazione del “Libro Bianco sul sistema trasfusionale” (2014).
“Per quanto il volontariato non sia nella sua essenza quantificabile – ha affermato Saturni – con questa ricerca abbiamo voluto svelare le ricadute positive sanitarie e sociali del volontariato del sangue, frutto anche di una organizzazione attenta, capillare e basata sulla programmazione. Ci auguriamo che questo testo possa fungere da strumento di approfondimento e di lavoro per tutti i soggetti interessati, a partire dai decisori politici ai vari livelli, Governo e Ministeri competenti, Regioni, Enti Locali, per il mondo del volontariato e dell’associazionismo, per gli operatori sanitari del settore trasfusionale e non solo”.
Con il metodo di valutazione del Social Return on Investment (Sroi – Ritorno sociale sugli investimenti), lo studio ha misurato la capacità di AVIS di generare valore socio-sanitario per i propri soci e per la collettività, attraverso la promozione di attività volte ad accrescere le conoscenze, la consapevolezza, la coesione sociale e la salute fisica dei donatori e dei volontari che conducono la loro esperienza di donazione e/o volontariato in seno all’Associazione.
I dati sono stati studiati e ricavati attraverso i questionari compilati da 1.023 donatori distribuiti su 4 sedi campione. In ambito sanitario e di prevenzione, circa il 13% dei donatori ha potuto usufruire di una diagnosi precoce di qualche patologia attraverso i test di qualificazione sierologica e le visite medico specialistiche che precedono la donazione di sangue. Tutto ciò, oltre a informare in anticipo il donatore sulle mutate condizioni di salute, ha comportato anche significativi risparmi per il Servizio Sanitario Nazionale.
In tema di alimentazione corretta, il 56,8% dei donatori ha cambiato le proprie abitudini nutrizionali. Il 42,3% del campione di studio ha inoltre affermato di aver modificato i propri comportamenti come fumatore, o eliminando del tutto l’abitudine oppure riducendo il consumo giornaliero di sigarette e il 26,2% degli intervistati hanno aumentato le ore settimanali dedicate alla corsa o ad altri sport. Anche il sottogruppo delle persone con più di 40 anni ha modificato questi comportamenti nella misura del 18,4%.
Lo studio ha evidenziato benefici anche in campo relazionale e sociale. Circa il 30% dei donatori volontari ha stretto rapporti interpersonali con altri associati, con una media di 5,1 persone conosciute. Ed è molto alto (circa il 70%) il campione di donatori e volontari Avis che afferma di aver accresciuto il proprio senso di soddisfazione e autorealizzazione dalla partecipazione alle attività dell’associazione.
Un ultimo aspetto che la ricerca ha voluto indagare è l’eventualità che l’esperienza di donazione del sangue possa aver rappresentato l’occasione per sviluppare una maggiore sensibilità nei confronti di altre organizzazioni di volontariato. Dal campione è emerso che il 32% ha rafforzato la propria disponibilità a collaborare per altre Onlus e il 23% a incrementare le erogazioni liberali.