Tempo di lettura: 3 minutiSi può guarire dal neuroblastoma? La storia della piccola Caty (la chiameremo così a tutela della sua privacy) è di quelle che fanno bene al cuore, anche perché il neuroblastoma di Caty è di quelli metastatici ad alto rischio e con mutazioni genetiche, malattia che non lascia molto spazio alla speranza. Tuttavia, trattata con un nuovo farmaco molecolare progettato proprio per colpire queste mutazioni, a 32 mesi dalla fine della terapia la malattia sembra essere scomparsa.
Eliminazione delle cellule tumorali
Mario Capasso, professore di genetica medica all’Università Federico II di Napoli e coordinatore scientifico al Ceinge di Napoli, parla di un risultato incoraggiante e straordinario. Capasso, che è anche coordinatore scientifico al Ceinge di Napoli, centro di ricerca da anni impegnato a studiare le basi genetiche della malattia, spiega che la bambina ha mostrato una risposta completa alla terapia, con la totale eliminazione delle cellule tumorali dal midollo osseo.
Lo studio del St. Jude Children’s Hospital, negli Stati Uniti è stato pubblicato sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine e, benché sarà importante monitorare l’evoluzione del suo stato di salute nei prossimi mesi, 32 mesi liberi da malattia sono un risultato straordinario per una paziente resistente alle terapie standard.
Varianti del neuroblastoma
Tipicamente, infatti, per questa categoria di pazienti l’aspettativa di vita è di soli pochi mesi. Anche il Ceinge, con uno specifico gruppo di lavoro, ha portato avanti nuove ricerche. “Uno dei risultati più significativi del team di Napoli – continua – è stata la scoperta di mutazioni in un gene chiamato Bard1. Queste varianti, come dimostrato dagli studi del nostro gruppo, possono alterare il normale funzionamento delle cellule e sono potenziali bersagli per nuovi trattamenti terapeutici. Da tutto ciò – continua Capasso – si comprende come i fondi destinati alla ricerca genetica possano avere un impatto diretto sulla pratica clinica”.
Nell’immagine un medico che visita una bimba
Lo studio delle mutazioni nei geni per l’individuazione di “bersagli” da colpire per finalità terapeutiche rientra nelle aree di ricerca sostenute dalla Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma, ramo scientifico dell’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma, organizzazione non-profit. “Continueremo a supportare rami di indagine come questo”, conclude Sara Costa, segretaria generale della Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma e presidente dell’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma.
Cos’è il neuroblastoma
Insomma, una storia di ricerca che potrebbe trasformarsi presto in un radicale cambiamento nelle terapie. Ma cos’è il neuroblastoma? Si tratta di uno dei tumori solidi più comuni dell’infanzia, e rappresenta circa il 7-10% di tutti i tumori pediatrici. Si sviluppa nelle prime fasi della vita, prevalentemente nei bambini al di sotto dei cinque anni di età, ed è caratterizzato dalla crescita incontrollata di cellule nervose immature del sistema nervoso simpatico, che è parte del sistema nervoso autonomo.
Origine e localizzazione
Il neuroblastoma origina tipicamente nelle creste neurali, strutture embrionali da cui si sviluppa il sistema nervoso simpatico. Questo sistema regola funzioni involontarie come la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e la digestione. Di conseguenza, il tumore può formarsi in diverse parti del corpo, ma si localizza più frequentemente nelle ghiandole surrenali, situate sopra i reni. Altri siti comuni includono il collo, il torace e la regione pelvica.
Comune nei neonati e nei bimbi
Il neuroblastoma è più comune nei neonati e nei bambini molto piccoli. La sua incidenza è di circa 1 caso ogni 7.000 nascite, e rappresenta quasi il 15% di tutte le morti per cancro infantile. Nonostante la sua rarità rispetto ai tumori negli adulti, è uno dei più temibili in età pediatrica a causa della sua aggressività e della capacità di metastatizzare rapidamente, ossia di diffondersi ad altri organi come ossa, fegato e midollo osseo.
Sintomi
I sintomi del neuroblastoma variano in base alla localizzazione del tumore e alla sua dimensione. Quando il tumore colpisce l’addome, che è la sede più comune, i sintomi possono includere:
- Massa addominale visibile o palpabile
- Dolore addominale
- Perdita di peso
- Problemi intestinali come stitichezza o diarrea
Se il neuroblastoma è localizzato nel torace, può causare:
- Difficoltà respiratorie
- Dolore al petto
- Problemi di deglutizione
La diagnosi
La diagnosi di neuroblastoma è spesso complessa. Un esame clinico approfondito può essere seguito da una risonanza magnetica (MRI), tomografia computerizzata (CT) o una scintigrafia con MIBG (iodio-131-meta-iodobenzilguanidina), una sostanza radioattiva che si accumula nelle cellule del neuroblastoma, rendendole visibili agli esami di imaging.
Esami del sangue e delle urine possono rilevare livelli elevati di catecolamine (ormoni prodotti dalle cellule nervose), che sono caratteristici del neuroblastoma. Una biopsia del tessuto tumorale è solitamente necessaria per confermare la diagnosi.
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Alzheimer: piccole molecole e intelligenza artificiale per fermare la malattia
NewsLe malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson sono tra le sfide più complesse della medicina contemporanea. Oggi, le terapie si concentrano principalmente sul controllo dei sintomi, ma il futuro promette di più. La ricerca scientifica punta a trattare le cause scatenanti della malattia, principalmente l’accumulo aberrante di proteine, come le placche amiloidi nel cervello. Questo è il tratto distintivo dell’Alzheimer e i recenti progressi stanno aprendo nuove strade per affrontare la malattia in modo radicalmente diverso. La tecnologia gioca un ruolo chiave in questa rivoluzione. Intelligenza artificiale (IA) e machine learning stanno accelerando i tempi della ricerca e aumentando le possibilità di trovare trattamenti più efficaci.
Negli ultimi anni, tre terapie basate su anticorpi monoclonali sono state approvate in paesi come Stati Uniti, Giappone, Cina e Regno Unito. Questi farmaci attaccano le aggregazioni proteiche disfunzionali che caratterizzano l’Alzheimer. Tuttavia, secondo Michele Vendruscolo, professore di biofisica all’Università di Cambridge, intervistato dal Sole 24 ore, queste terapie hanno un’efficacia limitata e non sono adatte a trattamenti di massa, a causa degli effetti collaterali e dei costi. L’Europa, ad esempio, non ha ancora approvato questi farmaci. Ciò spinge la comunità scientifica a cercare soluzioni alternative e meno invasive. Tra queste, l’utilizzo di piccole molecole, che potrebbero rappresentare una svolta.
L’era delle small molecules
Le “small molecules” sono il nuovo obiettivo della ricerca scientifica. Questi composti chimici, di dimensioni ridotte rispetto agli anticorpi monoclonali, potrebbero offrire un trattamento più efficace e accessibile. A differenza delle attuali terapie, le small molecules potrebbero essere somministrate facilmente attraverso una semplice pillola, rendendo la cura più sostenibile su larga scala. Vendruscolo sottolinea come l’intelligenza artificiale stia giocando un ruolo fondamentale nella ricerca di queste molecole. Grazie a strumenti di calcolo avanzati, i costi per testare nuove molecole sono crollati da milioni a migliaia di euro, mentre la velocità di sperimentazione è aumentata di due o tre ordini di grandezza.
Si stima che entro i prossimi cinque o dieci anni potrebbero essere disponibili farmaci capaci di rallentare, se non bloccare del tutto, il progresso della malattia. In alcuni casi, queste molecole potrebbero addirittura invertire gli effetti dell’Alzheimer nelle sue fasi iniziali. In questo scenario, gli anticorpi resterebbero una terapia utile solo per i pazienti in fase avanzata. Tuttavia, il cammino verso queste soluzioni richiede tempo e ingenti investimenti, soprattutto in ricerca e sviluppo.
L’impatto economico e sociale dell’alzheimer
Il progresso della ricerca non riguarda solo la medicina, ma anche l’economia. L’aumento dell’aspettativa di vita ha portato a una popolazione sempre più anziana, e l’Alzheimer rappresenta una sfida per i sistemi sanitari di tutto il mondo. Oggi, i costi legati alla cura di questa malattia sono enormi. Solo in Italia, si stima che il costo annuo per paziente superi i 50 mila euro, con una spesa globale che ammonta a centinaia di miliardi.
Questo rende lo sviluppo di nuove terapie una questione cruciale anche dal punto di vista della sostenibilità economica. Le nuove tecnologie di laboratorio, come le scansioni cerebrali avanzate, stanno fornendo informazioni sempre più dettagliate sui meccanismi della malattia, aprendo la strada a terapie più mirate ed efficaci. Questo potrebbe ridurre i costi sanitari, migliorare la qualità della vita dei pazienti e alleggerire il peso sui caregiver e sui sistemi sanitari nazionali.
Le sfide della ricerca multidisciplinare
Michele Vendruscolo sottolinea come la ricerca sia diventata un esercizio collettivo su scala mondiale. Europa e Stati Uniti sono allineati sulla strada da seguire, anche se in Europa si osserva meno intraprendenza negli investimenti rispetto agli Stati Uniti. Il congresso nazionale della Società Chimica Italiana, tenutosi a Milano, ha offerto uno spunto per analizzare i progressi della ricerca. Vendruscolo ha evidenziato come persino un cambiamento nella modalità di somministrazione dei farmaci potrebbe rivoluzionare l’approccio alla malattia. Passare da iniezioni settimanali in ospedale a una pillola da assumere a casa è una soluzione che potrebbe cambiare radicalmente la gestione dell’Alzheimer su larga scala. Un’innovazione di questo tipo renderebbe la terapia più accessibile e meno invasiva.
Un futuro simile alla lotta contro il cancro
Vendruscolo paragona i progressi nella cura dell’Alzheimer a quelli avvenuti nella lotta contro il cancro. Negli anni Settanta, la prima terapia oncologica aprì la strada a decenni di miglioramenti, portando a trattamenti sempre più efficaci e accessibili. Lo stesso potrebbe accadere con l’Alzheimer. Ci vorranno alcuni decenni per raggiungere una maturità paragonabile a quella attuale dell’oncologia, ma la direzione è chiara.
Nel frattempo, le terapie che si stanno sviluppando per l’Alzheimer potrebbero avere ricadute positive anche su altre malattie neurodegenerative, come il Parkinson. Oggi, per il Parkinson non esistono terapie in grado di rallentare il progresso della malattia. I progressi nell’Alzheimer potrebbero quindi aprire la strada a nuove soluzioni anche per queste patologie.
Prevenzione a chiamata dai medici di famiglia
PrevenzioneInizia una nuova era per la prevenzione e la Campania è tra le regioni che dettano il cambio di passo. La rivoluzione si muove attraverso una nuova App, grazie alla quale i medici di medicina generale invitano i loro assistiti agli screening previsti in base all’età. «Stiamo sperimentando con successo una nuova modalità di invito alla prevenzione – spiegano i medici di famiglia della Fimmg Napoli Luigi Sparano e Corrado Calamaro – un sistema che unisce ai vantaggi delle nuove tecnologie l’efficacia del rapporto fiduciario con il paziente, che da sempre contraddistingue la medicina generale».
Passi avanti nella prevenzione
Grazie a questa nuova App in dotazione a tutti i medici di medicina generale, i medici di famiglia stanno rapidamente facendo recuperare terreno agli screening. Ma, soprattutto, stanno salvando centinaia di vite grazie a diagnosi precoci di malattie che nel tempo possono rivelarsi fatali. Dunque, cosa cambia? Di qui in avanti non saranno più esclusivamente le Asl ad occuparsi di arruolare i pazienti per gli screening. Sfruttando i dati e le tecnologie implementate in questi anni con la piattaforma Sinfonia, dati che si sono rivelati preziosissimi durante la pandemia, ogni medico di famiglia può – con un semplice clic del suo smartphone – invitare i propri pazienti alla prevenzione.
Ottima risposta
È il sistema a indicare di volta in volta quali sono le coorti per le quali è arrivato il momento di fare, ad esempio, prevenzione per il carcinoma della mammella, o del colon retto e così via. «Da quando abbiamo avviato questa nuova modalità – concludono Sparano e Calamaro – stiamo notando un’altissima percentuale di risposta. A differenza di quanto è sempre avvenuto con le Asl, che nonostante gli sforzi sono Istituzioni percepite in modo impersonale, i nostri avvisi diretti generano nei pazienti un immediato desiderio di informazione. Dopo ogni invito riceviamo telefonate dei diretti interessati che chiedono di saperne di più e grazie al nostro lavoro di counseling poi si presentano agli screening».
Gli screening
Tre le categorie di screening per le quali stanno partendo i messaggi di invito: Pap Test per la prevenzione del Papilloma Virus per le donne comprese nella fascia di età 25 – 29 anni e 30 -64; ricerca del sangue occulto nelle feci per l’individuazione del carcinoma del colon retto nella fascia di età tra i 50 – 74 anni e mammografia per l’individuazione del carcinoma al seno per le donne che sono tra i 45 – 69 anni.
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Infermieri: condizioni di lavoro impossibili
Stili di vita, Economia sanitariaChe il lavoro di infermiere sia molto pesante è risaputo, ma i dati di uno studio della Columbia University descrivono una realtà veramente scioccante. Dati che trovano purtroppo conferme indirette nella cronaca di tutti i giorni, e forse anche nei recenti suicidi di due infermieri del Sud Italia che, a prescindere, devono far riflettere “sulle condizioni psicologiche dei nostri professionisti sanitari, soprattutto alla luce del palese e netto peggioramento delle condizioni del lavoro quotidiano, all’interno delle corsie dei nostri ospedali”, dicono dal sindacato Nursing Up.
Lo studio sul disagio
Stando a quanto elaborato dai ricercatori, rispetto al tasso di suicidio di 12,6 ogni 100.000 persone (tra coloro che non sono operatori sanitari) il rischio per gli infermieri è addirittura di 16 ogni 100.000. I risultati del report suggeriscono che il peso psicologico del lavoro sanitario ricade più pesantemente sulle donne: su tutte sono le infermiere la categoria più a rischio, con una percentuale del 65% in più, rispetto ai colleghi uomini, di cadere in situazioni di depressioni e di soffrire di stress.
Una professione usurante
Lo studio della Columbia apre la strada a inevitabili confronti e legittime correlazioni con la complessa realtà italiana, visto che, citando testualmente il report, “essere infermieri oggi significa lavorare in un ambiente estremamente complicato e competitivo, dove si è continuamente esposti a situazioni di sofferenza, se non morte”, visto che, aggiungono dal sindacato, la professione infermieristica è palesemente usurante, anche se non ancora riconosciuta come tale.
“Se a tutto questo aggiungiamo anche che molto spesso gli infermieri sono pure costretti a lavorare più del dovuto per coprire le carenze di personale, togliendo, quindi, la possibilità di gestire in modo equilibrato la propria sfera privata, diventa evidente che “è molto facile cadere in disturbi psichici, disturbi del sonno e alimentari, e talvolta depressione”.
Reparti a rischio
In particolar modo, evidenziano dal sindacato, i disagi sono all’ordine del giorno nei pronto soccorsi e nei reparti di emergenza-urgenza, da cui è in atto una vera e propria fuga, all’insegna del “si salvi chi può”. È innegabile che i professionisti “portano sulle proprie spalle” un doppio pesantissimo macigno: prima di tutto c’è quello correlato allo stress quotidiano delle cure, che molto spesso si trasforma in battaglie che vedono coinvolti medici e infermieri in un traumatico faccia a faccia contro la morte.
Il tema della retribuzione
Tra i fattori scatenanti della crisi anche gli stipendi, poco gratificanti e non al passo con il mutato costo della vita. Ad aggravare la situazione ci si mettono la disorganizzazione, i turni massacranti, il demansionamento, le scarse prospettive di carriera, la cronica carenza di personale. Dal Nursing Up sottolineano come tutti questi irrisolti deficit, nell’ambito delicato percorso delle cure assistenziali che competono agli infermieri, rappresentano una ulteriore affilata spada di Damocle, con cui gioco forza i professionisti devono convivere. Cosa fare, come reagire allo stress emotivo che tali situazioni comportano, in quale modo comunicare il tragico evento? Per il Nursing Up questi sono tutti casi che richiederebbero, a buona ragione, la presenza di uno psicologo in corsia.
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Cellulari e tumori al cervello, l’ultimo studio Oms chiarisce dubbi sul rischio
News, Prevenzione, Ricerca innovazioneNegli ultimi trent’anni, il tema è stato al centro di un acceso dibattito scientifico. La questione ruotava intorno alla possibilità che le onde elettromagnetiche emesse dai cellulari potessero causare tumori al cervello, alla testa o al collo. Una nuova revisione condotta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sembra finalmente fare chiarezza.
La revisione di 63 studi: nessuna associazione tra cellulari e tumori
Lo studio, considerato il più ampio e completo condotto fino ad oggi, ha esaminato 63 ricerche scientifiche pubblicate tra il 1994 e il 2022, selezionate da un pool di oltre 5 mila studi complessivi. I risultati, coordinati dall’Australian Radiation Protection and Nuclear Safety Agency (Arpansa), confermano che non ci sono prove di un legame tra l’uso dei cellulari e lo sviluppo di cancro al cervello o altri tumori alla testa e al collo. Anche l’uso prolungato del telefono (per oltre 10 anni) o l’esposizione continua (per molte ore al giorno) non sembrano aumentare il rischio.
A dirlo è Ken Karipidis, professore associato e vicepresidente della Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti, nonché autore principale della revisione: “Le prove non mostrano alcun collegamento tra i telefoni cellulari e il cancro al cervello. Nemmeno con l’utilizzo prolungato nel tempo o con la quantità di esposizione”.
La paura iniziale e l’etichetta di “possibile rischio”
L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc), un organo dell’Oms, aveva inizialmente inserito i campi elettromagnetici a radiofrequenza emessi dai cellulari nella categoria dei “possibili” agenti cancerogeni. Questo classificava i telefonini tra gli agenti potenzialmente pericolosi, insieme a sostanze ben più familiari come i pesticidi o il caffè, sebbene fossero molto lontani da agenti “certamente” cancerogeni come il fumo di sigaretta.
Questa categorizzazione, avvenuta all’inizio degli anni 2000, era basata su alcuni studi preliminari che suggerivano un possibile legame tra un uso intensivo del telefono e l’insorgere di tumori cerebrali. Tuttavia, i risultati di queste ricerche erano spesso limitati da metodologie incerte o piccoli campioni di pazienti, e non sono mai stati pienamente confermati.
Dati rassicuranti: l’aumento dei cellulari, ma non dei tumori
Uno degli aspetti più interessanti emersi dalla revisione riguarda il confronto tra l’aumento esponenziale dell’uso dei cellulari negli ultimi decenni e l’andamento dei tassi di tumori al cervello. Nonostante il numero di utilizzatori di smartphone sia cresciuto vertiginosamente, e il tempo trascorso al telefono sia aumentato di anno in anno, i tassi di tumore al cervello sono rimasti stabili. Un dato che, secondo gli esperti, dimostra l’assenza di una correlazione significativa tra l’esposizione alle onde elettromagnetiche dei cellulari e l’insorgenza di neoplasie.
Le onde elettromagnetiche: come funzionano davvero
I telefoni cellulari, come molti dispositivi wireless, emettono onde elettromagnetiche a radiofrequenza, conosciute anche come onde radio. Queste radiazioni, al contrario delle radiazioni ionizzanti (come quelle emesse dai raggi X), non possiedono abbastanza energia per danneggiare direttamente il DNA o causare mutazioni cellulari, il meccanismo alla base dello sviluppo del cancro.
Questo è un concetto chiave che viene spesso frainteso. La natura delle radiazioni elettromagnetiche dei cellulari è di bassa intensità, e non è in grado di penetrare i tessuti biologici in profondità né di indurre mutazioni genetiche come fanno le radiazioni ionizzanti. Le conclusioni dello studio Oms si basano su queste fondamenta scientifiche, oltre che sui dati empirici raccolti nel corso di quasi trent’anni di ricerca.
La ricerca sui cellulari e la percezione del rischio
Nonostante queste rassicurazioni, la percezione del rischio associato ai telefoni cellulari rimane elevata in una parte della popolazione. Le paure legate alla salute sono comprensibili, soprattutto in un contesto in cui la tecnologia si evolve rapidamente e spesso prima che la scienza abbia il tempo di studiarne tutti gli effetti.
Karipidis e il suo team riconoscono l’importanza di continuare a monitorare l’evoluzione dell’uso dei cellulari e dei suoi potenziali effetti sulla salute. Gli studi futuri dovranno concentrarsi soprattutto su eventuali nuove tecnologie, come il 5G, e su come queste potrebbero modificare i livelli di esposizione alle onde elettromagnetiche. Tuttavia, i dati attuali non lasciano spazio a dubbi: i cellulari non rappresentano un rischio concreto per lo sviluppo di tumori al cervello o alla testa.
Dopo decenni di incertezze e timori, lo studio condotto dall’Oms sembra mettere la parola fine a una delle questioni più discusse degli ultimi anni. Tuttavia, come sempre accade in questi casi, la percezione del rischio potrà cambiare solo nel tempo, quando i dati rassicuranti e le evidenze scientifiche avranno finalmente superato le paure.
Il caso shock di Elle Macpherson
News, News, One healthFa molto discutere in questi giorni il caso di Elle Macpherson, che nel suo libro di memorie “Life, Lessons, and Learning to Trust Yourself”, racconta di aver adottato un approccio olistico alla malattia, andando contro il consiglio dei medici e della famiglia. Una posizione controversa, che rischia di convincere qualcuno a bypassare le cure mediche per lanciarsi verso terapie non convenzionali.
La posizione dell’oncologa
Ma è proprio vero che la Macpherson si è curata solo con la medicina olistica? In realtà, dice alle agenzie di stampa – commentando il caso – la dottoressa Lucia Del Mastro (direttrice della Clinica di oncologia medica all’Università di Genova/Irccs Ospedale Policlinico San Martino) la medicina olistica non c’entra nulla con la guarigione dal cancro che la modella dichiara di aver ottenuto. L’esperta aggiunge che il messaggio da far passare in modo chiaro è che i tumori non si curano con la medicina olistica ma, nel caso di Elle Macpherson, va fatta chiarezza sul tipo di neoplasia da cui è stata colpita 7 anni fa.
La copertina di Women’s Weekly
Chirurgia
L’oncologa aggiunge poi che il carcinoma che ha colpito la modella per definizione non dà metastasi e si tratta di una specie di lesione precancerosa. Il trattamento standard per questa neoplasia prevede la chirurgia con l’asportazione del nodulo e poi una eventuale radioterapia per prevenire il rischio di recidive locali.
Cos’è il carcinoma intraduttale?
Il carcinoma intraduttale o carcinoma duttale in situ (DCIS) è una forma precoce di tumore al seno che si sviluppa all’interno dei dotti mammari, i canali che trasportano il latte verso il capezzolo. “In situ” significa che le cellule tumorali sono confinate all’interno del dotto e non hanno ancora invaso i tessuti circostanti. Non è considerato un tumore invasivo, ma se non trattato, può evolversi in un carcinoma duttale invasivo, che è una forma più aggressiva di cancro al seno.
Sintomi e diagnosi
Spesso il carcinoma intraduttale non causa sintomi evidenti e viene scoperto durante una mammografia di routine. In alcuni casi, potrebbe manifestarsi con la presenza di un nodulo al seno o una secrezione dal capezzolo. La diagnosi avviene principalmente attraverso la mammografia, che può rilevare microcalcificazioni tipiche del DCIS. Per confermare la diagnosi, viene eseguita una biopsia, che permette di analizzare il tessuto prelevato e determinarne le caratteristiche.
Trattamento
Il trattamento del carcinoma intraduttale dipende dall’estensione e dal grado del tumore, ma generalmente include:
Va detto, comunque, che il carcinoma intraduttale ha una prognosi eccellente se diagnosticato e trattato precocemente, con tassi di sopravvivenza molto elevati. La diagnosi tempestiva, grazie agli screening mammografici, è fondamentale per prevenire l’evoluzione verso forme di cancro più invasive.
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Caty, il neuroblastoma è sparito
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Eliminazione delle cellule tumorali
Mario Capasso, professore di genetica medica all’Università Federico II di Napoli e coordinatore scientifico al Ceinge di Napoli, parla di un risultato incoraggiante e straordinario. Capasso, che è anche coordinatore scientifico al Ceinge di Napoli, centro di ricerca da anni impegnato a studiare le basi genetiche della malattia, spiega che la bambina ha mostrato una risposta completa alla terapia, con la totale eliminazione delle cellule tumorali dal midollo osseo.
Lo studio del St. Jude Children’s Hospital, negli Stati Uniti è stato pubblicato sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine e, benché sarà importante monitorare l’evoluzione del suo stato di salute nei prossimi mesi, 32 mesi liberi da malattia sono un risultato straordinario per una paziente resistente alle terapie standard.
Varianti del neuroblastoma
Tipicamente, infatti, per questa categoria di pazienti l’aspettativa di vita è di soli pochi mesi. Anche il Ceinge, con uno specifico gruppo di lavoro, ha portato avanti nuove ricerche. “Uno dei risultati più significativi del team di Napoli – continua – è stata la scoperta di mutazioni in un gene chiamato Bard1. Queste varianti, come dimostrato dagli studi del nostro gruppo, possono alterare il normale funzionamento delle cellule e sono potenziali bersagli per nuovi trattamenti terapeutici. Da tutto ciò – continua Capasso – si comprende come i fondi destinati alla ricerca genetica possano avere un impatto diretto sulla pratica clinica”.
Nell’immagine un medico che visita una bimba
Lo studio delle mutazioni nei geni per l’individuazione di “bersagli” da colpire per finalità terapeutiche rientra nelle aree di ricerca sostenute dalla Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma, ramo scientifico dell’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma, organizzazione non-profit. “Continueremo a supportare rami di indagine come questo”, conclude Sara Costa, segretaria generale della Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma e presidente dell’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma.
Cos’è il neuroblastoma
Insomma, una storia di ricerca che potrebbe trasformarsi presto in un radicale cambiamento nelle terapie. Ma cos’è il neuroblastoma? Si tratta di uno dei tumori solidi più comuni dell’infanzia, e rappresenta circa il 7-10% di tutti i tumori pediatrici. Si sviluppa nelle prime fasi della vita, prevalentemente nei bambini al di sotto dei cinque anni di età, ed è caratterizzato dalla crescita incontrollata di cellule nervose immature del sistema nervoso simpatico, che è parte del sistema nervoso autonomo.
Origine e localizzazione
Il neuroblastoma origina tipicamente nelle creste neurali, strutture embrionali da cui si sviluppa il sistema nervoso simpatico. Questo sistema regola funzioni involontarie come la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e la digestione. Di conseguenza, il tumore può formarsi in diverse parti del corpo, ma si localizza più frequentemente nelle ghiandole surrenali, situate sopra i reni. Altri siti comuni includono il collo, il torace e la regione pelvica.
Comune nei neonati e nei bimbi
Il neuroblastoma è più comune nei neonati e nei bambini molto piccoli. La sua incidenza è di circa 1 caso ogni 7.000 nascite, e rappresenta quasi il 15% di tutte le morti per cancro infantile. Nonostante la sua rarità rispetto ai tumori negli adulti, è uno dei più temibili in età pediatrica a causa della sua aggressività e della capacità di metastatizzare rapidamente, ossia di diffondersi ad altri organi come ossa, fegato e midollo osseo.
Sintomi
I sintomi del neuroblastoma variano in base alla localizzazione del tumore e alla sua dimensione. Quando il tumore colpisce l’addome, che è la sede più comune, i sintomi possono includere:
Se il neuroblastoma è localizzato nel torace, può causare:
La diagnosi
La diagnosi di neuroblastoma è spesso complessa. Un esame clinico approfondito può essere seguito da una risonanza magnetica (MRI), tomografia computerizzata (CT) o una scintigrafia con MIBG (iodio-131-meta-iodobenzilguanidina), una sostanza radioattiva che si accumula nelle cellule del neuroblastoma, rendendole visibili agli esami di imaging.
Esami del sangue e delle urine possono rilevare livelli elevati di catecolamine (ormoni prodotti dalle cellule nervose), che sono caratteristici del neuroblastoma. Una biopsia del tessuto tumorale è solitamente necessaria per confermare la diagnosi.
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Disagio giovanile: cellulari e social media sotto accusa ma non solo
Bambini, Adolescenti, Benessere, Genitorialità, News, Prevenzione, PsicologiaIl crescente disagio giovanile fa mettere sotto accusa cellulari e social media, ma il fenomeno ha cause molto più complesse. La paura di essere inadeguati, la solitudine e l’ansia di dover raggiungere il successo sono tutti fattori in gioco. Sembrano esserci molteplici influenze che, combinate, possono contribuire al crescente malessere tra i giovani.
I numeri del disagio giovanile in Italia ed Europa
Il disagio giovanile è confermato dai numeri. In Italia, un’indagine di Telefono Azzurro rivela che un ragazzo su cinque soffre di ansia. A livello europeo, 9 milioni di adolescenti hanno problemi di salute mentale. Un’altra ricerca, pubblicata dai Quaderni di Fondazione Cariplo, mostra un incremento costante del disagio in Lombardia, iniziato ben prima della pandemia. Nel 2019, 143 mila utenti in età pediatrica hanno avuto almeno un contatto con il servizio sanitario per disturbi neuropsichici. La prevalenza è passata da 76,63 per mille nel 2016 a 82,65 nel 2019. Dopo la pandemia, i comportamenti autolesivi e suicidari tra le ragazze di età 14-18 sono aumentati più di tre volte rispetto al periodo precedente.
Social media e tecnologie digitali, come influenzano salute mentale
Si discute molto sul ruolo dei social media nel disagio giovanile. Spesso vengono indicati come i principali responsabili, ma le opinioni degli esperti sono più articolate. Un articolo su Nature avverte che attribuire tutti i problemi ai telefoni è fuorviante e non sostenuto dalla scienza. La vera crisi di salute mentale ha cause più profonde e complesse. Il quotidiano spagnolo El Pais sottolinea un aspetto diverso: oltre all’uso eccessivo dei cellulari a danneggiare, ma la mancanza di attività all’aperto. I dati supportano questa tesi: solo il 27% dei bambini gioca regolarmente per strada, contro il 71% della generazione dei baby boomer.
Il ruolo delle relazioni reali e del gioco libero
Secondo gli scienziati, la mancanza di relazioni reali è il problema legato all’uso della tecnologia. Le relazioni sociali richiedono un costante adattamento e confronto, elementi che favoriscono la maturazione. Le cause del disagio giovanile sono multifattoriali: relazioni familiari difficili, solitudine, scarse interazioni sociali, insicurezza verso il futuro e la pressione sociale sono tutte concause.
Fuga nel mondo digitale e ansia da prestazione
Molti giovani preferiscono le relazioni online a quelle reali. Questo fenomeno solleva domande sulla capacità dei ragazzi di affrontare il confronto diretto. Rifugiarsi nel mondo virtuale può avere effetti negativi sullo sviluppo psicologico, portando a sentimenti di isolamento e inadeguatezza.
L’ansia da prestazione è un altro fenomeno in crescita tra i giovani. Questo tipo di ansia è spesso legato alla paura di non essere all’altezza delle aspettative, siano esse familiari o sociali. La pressione a essere perfetti, competitivi e di successo può diventare schiacciante.
Laurea honoris causa a Marcello Cattani dall’Università Pegaso
News“Un leader intraprendente e innovatore nel campo biofarmaceutico, che ha plasmato il panorama industriale con la sua visione e il suo impegno”. Con questa motivazione, Marcello Cattani, presidente e amministratore delegato di Sanofi e presidente di Farmindustria, ha ricevuto la Laurea honoris causa in Scienze Economiche dall’Università Digitale Pegaso. Tra i presenti alla cerimonia al Maxxi di Roma, il ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, Gianni Letta, Fabio Vaccarono, amministratore delegato di Multiversity, e Pier Paolo Limone, rettore dell’Università Pegaso.
La motivazione
L’Università Pegaso, parte del Gruppo Multiversity, ha riconosciuto in Cattani un leader capace di innovare il settore biofarmaceutico. “Un leader intraprendente e innovatore”, ha dichiarato Limone, sottolineando come Cattani abbia trasformato sfide in opportunità, elevando gli standard del settore e promuovendo l’innovazione a beneficio della società.
Le dichiarazioni di Cattani
“Questo riconoscimento – ha spiegato il presidente – chiude il cerchio rispetto al mio percorso di studi che è tutto scientifico, perché oggi quando si parla di salute, di innovazione, di ricerca e di possibilità di cure si parla automaticamente di economia”.
Questa visione dinamica che unisce innovazione e crescita economica è al centro delle strategie di Sanofi e di Farmindustria, ponendo al primo posto la ricerca, la tecnologia e il miglioramento della qualità di vita, ha spiegato Cattani.
Industria farmaceutica in italia
Cattani ha ricordato i successi dell’industria farmaceutica italiana, primo settore al mondo per crescita dell’export tra il 2021 e il 2023, con un saldo positivo di 17 miliardi di euro nel 2023. La produzione ha raggiunto i 52 miliardi di euro, con oltre 49 miliardi destinati all’export. Gli investimenti in ricerca e sviluppo hanno toccato i 3,6 miliardi, impiegando 70 mila addetti, molti dei quali giovani e donne, in un settore con un welfare aziendale all’avanguardia.
“Voglio idealmente condividere questo importante riconoscimento con le colleghe e i colleghi di Sanofi, di Farmindustria e di tutte le nostre imprese perché le rappresento e perché mi sostengono nell’obiettivo comune di rinforzare e valorizzare l’eccellenza, unica, del settore farmaceutico italiano”, ha concluso.
Le dichiarazioni del ministro Bernini
“Cattani è un protagonista di questi tempi, dove la contaminazione delle competenze è un valore aggiunto, o addirittura un valore necessario. Ricerca scientifica e impresa viaggiano insieme”, ha spiegato il ministro Anna Maria Bernini.
“Con la Laurea honoris causa a Marcello Cattani si riconosce il valore di un approccio: l’impegno dell’uomo di scienza con la capacità di fare impresa”, ha continuato. “L’Innovazione e la ricerca scientifica sono i pilastri su cui deve essere fondata la formazione universitaria perché si possa promuovere la trasformazione digitale in corso, in linea con un cambiamento epocale che impatta ogni giorno le nostre vite”, ha concluso.
Ritorno a scuola: i rischi
Adolescenti, Genitorialità, Stili di vitaPiù di 7 milioni di bambini e adolescenti in Italia si preparano a tornare sui banchi di scuola dopo tre mesi di vacanze estive. Durante questo periodo, molti giovani tendono a modificare il loro ritmo sonno-veglia e a seguire un’alimentazione con orari irregolari. Gli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) avvertono che questo è il momento ideale per riportare ordine nelle abitudini quotidiane, in particolare nel riposo notturno, fondamentale per il benessere fisico e mentale.
Importanza del sonno per bambini e adolescenti
Il sonno è un fattore cruciale per la salute dei giovani in età scolare. Secondo l’ISS, i bambini tra i 6 e i 13 anni dovrebbero dormire tra le 9 e le 11 ore a notte, mentre gli adolescenti tra i 14 e i 17 anni necessitano di un riposo compreso tra le 8 e le 10 ore. La mancanza di sonno può avere effetti negativi sul comportamento e sulle capacità cognitive dei giovani, influenzando la loro capacità di gestire le emozioni e il controllo degli impulsi.
Secondo gli esperti, un bambino che dorme poco può diventare irritabile, scontroso e persino aggressivo, con ripercussioni sui rapporti interpersonali a scuola, sia con i compagni sia con gli insegnanti. Inoltre, la mancanza di sonno è strettamente legata a un aumento del rischio di sviluppare dipendenze comportamentali, come l’uso eccessivo di videogiochi, smartphone e social media.
Sonno insufficiente e dipendenze
L’indagine condotta dall’ISS, intitolata “Dipendenze comportamentali nella Generazione Z”, ha rivelato dati allarmanti. Il 50% degli 11-13enni più a rischio di sviluppare dipendenze da social media dorme meno di 6 ore a notte. Inoltre, quasi il 30% di questi ragazzi impiega più di 45 minuti per addormentarsi, segnale di difficoltà nel rilassarsi prima di coricarsi.
Anche per quanto riguarda i videogiochi, i dati sono preoccupanti: il 30% degli studenti a rischio di dipendenza da videogiochi ha dormito meno di 6 ore per notte nel mese antecedente all’indagine, e quasi il 25% di loro riporta difficoltà nell’addormentarsi. I disturbi del sonno sono associati anche a dipendenze alimentari: tra gli 11 e i 13 anni, il 41% di chi soffre di dipendenza da cibo grave dorme meno di 6 ore a notte.
Ripristinare buone abitudini prima dell’inizio della scuola
Gli esperti Claudia Mortali, primo ricercatore del Centro nazionale Dipendenze, e Marco Silano, direttore del Dipartimento malattie cardiovascolari dell’ISS, sottolineano l’importanza di ristabilire una routine regolare per i bambini e gli adolescenti prima dell’inizio dell’anno scolastico. Questo significa anticipare gradualmente gli orari del sonno e del risveglio nei giorni precedenti al ritorno a scuola, così da favorire una transizione più fluida.
I genitori giocano un ruolo fondamentale nel creare regole che favoriscano un riposo adeguato e una corretta gestione delle attività tecnologiche. Regole come limitare l’uso di smartphone e videogiochi prima di dormire possono migliorare significativamente la qualità del sonno dei più giovani.
L’importanza di una corretta alimentazione
Oltre al sonno, gli esperti dell’ISS pongono l’accento sull’importanza di ripristinare abitudini alimentari sane, con particolare attenzione alla prima colazione. Secondo i dati, il 26,8% degli adolescenti dichiara di non fare mai colazione, un’abitudine che può influire negativamente sulla concentrazione e sulle performance scolastiche. Riprendere una routine alimentare regolare, iniziando con una colazione equilibrata, è essenziale per fornire ai giovani l’energia necessaria per affrontare la giornata scolastica.
Il ruolo dei genitori
Il ritorno a scuola è un momento ideale per rimettere in ordine le abitudini quotidiane dei bambini e degli adolescenti, in particolare per quanto riguarda il sonno e l’alimentazione. Dormire a sufficienza e seguire una dieta equilibrata non solo migliorano le prestazioni scolastiche, ma contribuiscono anche al benessere generale, riducendo il rischio di sviluppare dipendenze comportamentali. È fondamentale che i genitori stabiliscano regole chiare e aiutino i propri figli a riprendere una routine salutare, affinché possano affrontare al meglio il nuovo anno scolastico.
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La Nutella diventa vegana
Alimentazione, AdolescentiAnche la Nutella è diventata vegana. La notizia ha fatto saltare dalla sedia milioni di consumatori in tutta Italia, che legano al barattolo di crema spalmabile alle nocciole alcuni dei ricordi più dolci della loro infanzia. Per i puristi della Nutella, infatti, la nuova ricetta vegana trasforma il prodotto in qualcosa di differente. Come dire: la Nutella è una e non si cambia. A controbilanciare la presa di posizione dei consumatori più critici ci sono però i tantissimi che sono intolleranti al lattosio e ai derivati del latte. Insomma, il nuovo tappo verde della Nutella vegana ha creato un bel po’ di rumore e, di certo, farà ancora molto parlare.
Gli ingredienti
Ma quanto cambia la ricetta della Nutella tradizionale da quello della Nutella vegana? In realtà non molto. Partiamo col dire che il suo nome commerciale aggiunge al marchio la dicitura Plant-Based. Molti degli ingredienti nella versione vegana, si dice sul sito di Ferrero, è quella tradizionale: manca, ovviamente, sia il latte che il glutine. Come la classica, la nuova versione contiene sia olio di palma che zucchero. Le nocciole, naturalmente, e il cacao. Cambia un po’ la confezione, che comunque richiama molto quella alla quale siamo abituati.
Nutella adatta agli intolleranti, non agli allergici
È bene sottolineare che la nuova spalmabile di casa Ferrero è perfetta per chi è intollerante al lattosio, ma non a chi è allergico. La produzione avviene infatti sulle stesse linee che vengono adoperate per la nutella tradizionale e quindi possono essere presenti delle piccole tracce di lattosio. La Plant-Based, si legge è certificata “vegan approved” dalla Vegetarian Society.
Ceci e sciroppo di riso
Ma, se il latte non c’è, cosa lo sostituisce? Ceci e lo sciroppo di riso. Sono alimenti che sono stati accuratamente identificati dal team di Ricerca e Sviluppo come la giusta combinazione di ingredienti vegetali in grado di sostituire il latte e garantire il sapore tipico della spalmabile più amata d’Italia. I produttori assicurano che lo sciroppo di riso consente di ottenere la stessa delicata dolcezza del latte in polvere, mentre i ceci hanno un gusto ed una consistenza così bilanciate da integrarsi perfettamente con gli altri ingredienti della ricetta.
Olio di palma
I più critici, non solo della versione Plat-Based, puntano il dito contro l’olio di palma. Questa sostanza non è di certo raccomandata dai nutrizionisti, soprattutto se la si assume in grandi quantità. L’olio di palma e quello di palmisto contengono, infatti, quantità importanti di acidi grassi saturi, pericolosi per la salute di arterie e cuore. Ma, come sempre, la differenza la quantità. In un’alimentazione equilibrata, e in assenza di specifiche patologie, l’assunzione di piccole quantità di olio di palma non è un problema. Dal canto suo la Ferrero assicura che l’olio di palma utilizzato nella ricetta è un olio di frutta di alta qualità sicuro quanto qualsiasi altro olio vegetale di pari livello.
Linee guida
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità l’olio di palma non ci espone a rischi cardiovascolari più di altri alimenti simili (il burro ad esempio). Si studiano anche i contaminanti derivati dalla lavorazione dell’olio di palma, come 3-Mcpd. Di recente l’EFSA ha rivisto la nocività di 3-Mcpd e ha raddoppiato la dose giornaliera tollerabile raccomandando cautele solo per i neonati nutriti con latte artificiale. Piuttosto che puntare il dito contro un ingrediente, converrebbe ragionare sulla qualità complessiva della dieta. Le linee guida consigliano un consumo quotidiano di grassi saturi non superiore al 10% rispetto all’introito energetico complessivo.
Fenomeno commerciale
È chiaro che l’arrivo di questo nuovo prodotto, e le polemiche che sono scaturite, ha dato vita ad un nuovo fenomeno di mercato. La Nutella vegetariana, che è già in distribuzione nei supermercati, ha subito fatto registrare un boom delle vendite. Cosa che successe anche quando la casa madre lanciò i suoi (allora) introvabili biscotti. Fenomeni di marketing che si alimentano anche e soprattutto grazie ai social. Quanto alla domanda che tutti si pongono: “fa bene e o fa male?” la risposta non può che essere nella moderazione e nel buon senso: ogni eccesso fa male!
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