Adolescence è una serie di Netflix che ha raccolto oltre 66 milioni di visualizzazioni nelle prime due settimane dal lancio (marzo 2025), diventando la miniserie più vista nella storia della piattaforma. Racconta la storia di un tredicenne accusato dell’omicidio di una coetanea. Nella serie viene mostrata la radicalizzazione maschile online: compaiono simboli, codici e influencer come Andrew Tate (ex campione di kickboxing, famoso per i video con messaggi misogini e violenti). La narrazione si svolge attorno al mondo degli “incel” (involuntary celibates), gruppi che esprimono odio verso le donne e rivendicano una mascolinità fondata sul dominio. Tutti elementi riconducibili alla “manosfera”, un insieme di spazi online in cui si alimentano narrazioni ostili sui rapporti di genere.
Nella narrazione, questi elementi costruiscono un contesto in cui si ipotizza che il protagonista possa essere stato influenzato o radicalizzato da questi ambienti. La serie non offre una risposta definitiva, ma usa questi riferimenti per inquadrare il problema dell’esposizione degli adolescenti ai contenuti online.
Adolescence, perché fa così paura
La serie ha generato un’ondata di reazioni in tutto il mondo: partendo dai media come BBC, Rolling Stone e Harper’s Bazaar e ha dominato le discussioni su Reddit e altri social media.
In Gran Bretagna, il primo ministro Keir Starmer ha deciso di proiettare gratuitamente la serie nelle scuole. Adolescence è anche arrivata in concomitanza con un episodio di cronaca che ha sconvolto il Paese: l’omicidio di tre donne della stessa famiglia, il cui assassino aveva cercato online podcast misogini e guardato video di Andrew Tate poche ore prima di uccidere.
In altri Paesi, alcuni politici hanno rilanciato il tema del divieto degli smartphone in classe, una misura già introdotta in alcune regioni australiane. Ma questa risposta, secondo tre ricercatrici, rivela qualcosa di più profondo: una paura collettiva verso il rapporto tra ragazzi, sessualità e mondo digitale.
Una lettura distorta: quando il problema sono sempre i giovani
L’analisi di Andrea Waling (Lancaster University), Alexandra James e Lily Moor (entrambe di La Trobe University), pubblicata su The Conversation, mette in luce i limiti di una narrazione basata sulla paura.
Le autrici sottolineano come reazioni simili siano parte di una lunga storia di “panico morale”, che tende a individuare nei giovani il bersaglio privilegiato delle ansie collettive. Un esempio è il recente divieto australiano dell’uso dei social media per i minori di 16 anni, giustificato dalla necessità di proteggerli da contenuti sessuali, stereotipi e influencer dannosi. Ma questa misura è arrivata in risposta a un aumento degli omicidi di donne tra le mura domestiche. Un collegamento indiretto, che sposta l’attenzione dalla violenza maschile adulta per focalizzarsi sui giovani come “problema da risolvere”.
Questo tipo di risposta evita le domande più scomode, secondo le ricercatrici. Invece di chiedersi quali modelli culturali e sociali siano alla base di quella violenza, si preferisce agire sulle sue presunte origini digitali, vietando, limitando, censurando.
I ragazzi non sono solo destinatari passivi
I dati raccolti dalle tre ricercatrici mostrano che gli adolescenti – ragazzi compresi – non sono utenti passivi del digitale. Sanno distinguere le fonti, cercano informazioni da più canali, confrontano contenuti, valutano credibilità e rilevanza. Questa attività rappresenta un processo cognitivo attivo, non una semplice esposizione.
I social e le piattaforme online diventano spazi dove i giovani colmano le lacune educative lasciate da scuola e famiglia. In particolare, per quanto riguarda il sesso e le relazioni. In mancanza di contesti educativi strutturati e aperti, l’unica strada rimane quella dell’autodidattica digitale.
Ma l’accesso ai contenuti online non basta. Senza supporto, confronto, guida, le informazioni rischiano di essere interpretate male. Ed è qui che entrano in gioco figure come Andrew Tate. Con oltre 10 milioni di follower su Twitter, Tate propone una visione misogina e violenta della mascolinità. Il suo successo si alimenta del silenzio educativo che circonda i ragazzi, del vuoto che si crea quando non viene offerto loro uno spazio per chiedere, esprimersi, confrontarsi.
Quando i ragazzi non possono parlare
Uno degli aspetti più critici dell’attuale approccio, secondo le autrici, è l’esclusione sistematica dei ragazzi cisgender ed eterosessuali dai discorsi sull’educazione sessuale e affettiva. Invece di coinvolgerli in un dialogo, si tende a rivolgersi a loro in modo autoritario, senza ascolto.
La pornografia viene spesso demonizzata, senza offrire ai ragazzi strumenti per decodificarla. Il risultato è un vuoto comunicativo che li isola. In quel vuoto si insinuano modelli pericolosi, perché sono gli unici disponibili. La censura non è una risposta, secondo le autrici. Impedire l’accesso ai social o ai contenuti non cancella la domanda, ma la reprime. E lascia spazio a chi è pronto a fornire risposte semplici e pericolose.
Anche gli insegnanti si trovano in difficoltà. Parlare di sesso a scuola è ancora un tabù. Le responsabilità sono confuse: tocca agli insegnanti, ai genitori, o alla polizia? Si domandano, in tono provocatorio, le ricercatrici. In questo vuoto, le discussioni vengono evitate e gli adolescenti cercano risposte altrove.
Un nuovo approccio: formazione, ascolto, presenza
Secondo le ricercatrici, serve un cambiamento strutturale. Non bastano le campagne allarmistiche o i divieti. Serve formare chi lavora con i giovani, dare strumenti ai docenti, riconoscere la complessità dell’esperienza adolescenziale.
Bisogna incontrare i ragazzi dove sono. Nelle scuole, certo, ma anche online. Offrire competenze digitali e relazionali. Creare spazi dove possano porre domande, senza paura di essere giudicati. Solo così sarà possibile interrompere la catena che porta molti di loro a rifugiarsi in visioni distorte della sessualità e delle relazioni.
“I giovani non hanno bisogno di Adolescence per capire internet”, concludono le autrici. Lo conoscono già. Quello che manca è uno spazio sicuro in cui decifrare ciò che vedono. “Un contesto che li accolga e li formi, senza paura e senza moralismi”, concludono.