Tempo di lettura: 6 minutiLe pazienti e i pazienti con tumore al seno rivendicano più informazioni al momento della diagnosi. Difatti quasi il 20 per cento del campione non ha saputo indicare il sottotipo di tumore mammario che le è stato diagnosticato. Il vissuto dei pazienti è stato indagato da un questionario da cui emerge l’importanza di avere un team multidisciplinare, più supporto psicologico, più tempo per i colloqui con i medici e più informazioni sulla malattia e i percorsi. L’adesione allo screening mammografico offerto gratuitamente dal SSN appare soddisfacente. Molto, invece, resta da fare per rendere accessibili a tutti i pazienti i test genetici, che al momento sono offerti a meno di 1 paziente su 2. L’indagine conoscitiva sul tumore al seno è stata condotta nell’ambito dell’iniziativa “In Contatto”, promossa dalle 45 Associazioni del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”. I dati sono stati presentati in una diretta sul web dedicata ai tumori della mammella.
Buona presa in carico ma scarsi test genetici
«Sono decine di migliaia ogni anno le persone cui viene diagnosticato un tumore della mammella, in maggioranza donne sovente in età ancora produttiva e sono in aumento i casi giovanili – dichiara Annamaria Mancuso, Presidente di Salute Donna ODV e Coordinatrice del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”, che aggiunge. L’indagine mette in luce un aspetto molto importante, vale a dire che sul nostro territorio nazionale la presa in carico e l’assistenza di questi pazienti è decisamente buona, di alta qualità e ampiamente diffusa a livello regionale. Certo le criticità su cui lavorare non mancano: bisogna ampliare l’offerta dei test genetici e ampliare lo screening ad altre fasce d’età specie per i soggetti giovani con storia famigliare e a maggiore rischio. E poi bisogna pensare a potenziare le strutture, migliorare l’organizzazione, i percorsi per i controlli, allungare i tempi di incontro medico-paziente, il sostegno psicologico e rivolgere maggiore attenzione alla quotidianità dei pazienti con uno sguardo alla riabilitazione e ai postumi dell’intervento chirurgico».
Dall’indagine emerge una buona conoscenza della prevenzione secondaria con adesione di 1 paziente su 2 allo screening mammografico gratuito cui consegue nella maggioranza dei casi la scoperta della malattia in fase iniziale, un dato che fa la differenza in termini di possibilità di cura e sopravvivenza. Tuttavia, l’accesso ai test genetici appare ancora lacunoso sul territorio nazionale mentre vi è un’ampia disponibilità di opzioni terapeutiche utilizzate nei diversi tipi di neoplasia e nelle diverse fasi di malattia.
Attraverso l’indagine è stata richiesta la testimonianza delle pazienti e dei pazienti che in 1 caso su 2 hanno un’età compresa tra i 61 e i 75 anni, mentre nel 10,8% dei casi sono ancora in età fertile.
Screening per tumore al seno
La prevenzione secondaria (mammografia – ecografia) del tumore almeno è abbastanza nota nella maggior parte del campione. Quasi il 54% aderisce con costanza ai programmi di screening biennali offerti gratuitamente del SSN. Tuttavia, circa l’11,7% del campione non rientra nella fascia d’età prevista dallo screening mentre il 12,1% non è stato mai raggiunto da una comunicazione su questa opportunità. Riguardo l’autoesame delle mammelle, il 43% del campione lo effettua con regolarità ma oltre il 50% lo effettua di rado o mai.
Un dato molto positivo emerso dall’indagine è la scoperta in fase precoce della malattia in oltre il 90% del campione. Al momento della diagnosi, infatti, il tumore della mammella era in fase iniziale (meno di 2 centimetri senza linfonodi coinvolti) nel 53,4% dei rispondenti e in fase iniziale (più di 2 centimetri con interessamento dei linfonodi ascellari) nel 32,3% mentre era in fase avanzata nell’11,2% e con metastasi a distanza in un residuo 3,1% del campione. La maggioranza del campione (49,3%) è stata presa in carico all’interno di una Breast Unit oppure da un reparto oncologico (33,2%); solo il 13% è stato assistito in un reparto di chirurgia generale.
La Breast Unit
«L’indagine dimostra quanto sia cruciale quando si tratta di tumori la comunicazione rivolta alla popolazione generale e ai pazienti – sottolinea Nicla La Verde, Direttore UOC di Oncologia, ASST Fatebenefratelli Sacco PO Luigi Sacco di Milano. «Un dato che rafforza e conferma l’importanza dei programmi di screening – continua – è la diagnosi del tumore mammario che viene fatta in fase precoce nella maggioranza del campione. Un altro dato importante è che in Italia la presenza delle Unità di senologia è molto alta e piuttosto capillarmente diffusa, certamente disponibile negli ospedali di tutte le grandi città. La Breast Unit è una struttura altamente specializzata per la diagnosi e cura del carcinoma della mammella che consente ai pazienti la presa in carico da parte di una équipe che risponda al bisogno di cura a 360 gradi grazie alla collaborazione tra i diversi professionisti (chirurgo, oncologo, radiologo, radioterapista, anatomo patologo, psiconcologo) e garantisce i migliori standard in termini di trattamenti chirurgici e medici. Tutto ciò per i pazienti è una garanzia sia in termini di scelte terapeutiche sia in termini di efficienza organizzativa».
Il 40,8% del campione si sottopone alla visita senologica una volta l’anno e il 26% ogni due anni resta, tuttavia uno zoccolo duro, pari al 28,3% del campione, che non si è “mai” o “raramente” sottoposta a questo semplice esame clinico.
La scoperta del tumore al seno avviene per caso sentendo un nodulo durante l’autopalpazione (40%), il 5,8% lo ha scoperto osservando i cambiamenti del capezzolo, il 25,6% a seguito dello screening e l’8,1% durante controlli per familiarità.
Sostegno psicologico
«Sono ancora molti gli unmet needs su cui è necessario lavorare – dichiara Marina Morbiducci, Patient Advocate Fondazione IncontraDonna – Nell’ambito della gestione quotidiana della malattia l’assenza di un sostegno psicologico è l’aspetto maggiormente segnalato dall’indagine. In Italia, infatti, si evidenzia una notevole disuguaglianza nell’offrire interventi psico-oncologici la cui carenza implica che pazienti, famiglie e caregiver si trovano a dover affrontare da soli il carico psicologico che aggrava il percorso di cura. Sebbene l’indagine abbia evidenziato buona consapevolezza rispetto ai temi riguardanti la salute del seno, è ancora fondamentale lavorare sulla centralità della prevenzione primaria e su come questa giochi un ruolo cruciale nel prevenire molti fattori di rischio per i tumori, salvaguardando lo stato naturale di salute degli individui e contribuendo alla sostenibilità del nostro sistema sanitario.»
Tumore al seno e terapie
Il tipo di tumore mammario più frequente (46,6%) è quello positivo al recettore ormonale (HR), seguito dal tumore HER2 positivo (24,2%) e dal tumore triplo negativo (10,3%). Circa il 18,8% del campione non ha saputo indicare il sottotipo di tumore mammario che le è stato diagnosticato. Questo dato mette in luce una criticità nella comunicazione durante il percorso diagnostico. L’intervento chirurgico resta il trattamento d’elezione, quando è possibile operare, allo scopo di eradicare, cioè, asportare tutto il tumore. Terapia ormonale (64,1%), radioterapia, (63,7%), chemioterapia (44,8%), farmaci target (11,2%) e immunoterapia (10,3%) sono le opzioni terapeutiche impiegate routinariamente, si tratta di terapie farmacologiche sempre più targettizzate e con minori effetti collaterali, spesso utilizzate in combinazione e facili da assumere a domicilio per evitare i ricoveri e aumentare l’adesione alla cura.
Riguardo la familiarità, meno di un paziente su 2 riferisce una storia familiare per tumore della mammella in parenti di I e II grado. Tuttavia al 58,7% del campione non è stato suggerito di effettuare il test genetico che è stato prescritto solo ad un terzo dei pazienti.
Consapevolezza
Le pazienti e i pazienti con tumore della mammella hanno una percezione molto chiara dell’impatto che la neoplasia ha nella vita di tutti i giorni, limitandone le attività anche più basilari: il 34,1% dei rispondenti ha lamentato ansia/depressione, il 18,8% ha accusato postumi dell’intervento chirurgico, notevoli i disagi vissuti a causa della distanza tra casa e ospedale, il 17% ha riferito difficoltà di comunicazione con l’oncologo curante mentre il 16,6% ha lamentato l’assenza di un supporto psicologico, infine, oltre il 16,1% ha avuto problemi nella gestione delle terapie e dei controlli per i quali la maggiore criticità sta nell’organizzazione.
«Il tumore al seno è una malattia che impatta pesantemente sulla qualità della vita e come evidenzia l’indagine – dice Mariangela Fantin, Presidente A.N.D.O.S. Udine – Associazione Nazionale Donne Operate al Seno –, le pazienti e i pazienti hanno una percezione molto chiara dei loro bisogni. Questi pazienti non vanno lasciati da soli. Nella realtà di Udine, l’Associazione si avvale di due psicologi che mettiamo in contatto diretto con le pazienti che si rivolgono a noi; un altro importante servizio è l’offerta della parrucca, oltre alla consulenza di un medico che si occupa del database della Breast Unit dell’Ospedale di Udine. Infine, attraverso attività di raccolta fondi doniamo strumentazioni diagnostiche innovative».
Rispetto al percorso di cura le esigenze più sentite tra le pazienti e i pazienti sono la presenza di un team plurispecialistico per affrontare un approccio integrato alla persona, (38,6%), tempi più lunghi per i colloqui con i medici curanti (29,1%), maggiore informazione sulla malattia e le terapie disponibili (23,3%), la necessità di avere un supporto psicologico (20,6%), maggiore tutela dei diritti in ambito lavorativo e sociale (20,6%), percorsi facilitati in ambulatorio e day hospital (11,7%) e più informazioni su centri di riferimento (7,2%).
Cancro al seno, percorsi e criticità dei pazienti. L’indagine
News Presa, PrevenzioneLe pazienti e i pazienti con tumore al seno rivendicano più informazioni al momento della diagnosi. Difatti quasi il 20 per cento del campione non ha saputo indicare il sottotipo di tumore mammario che le è stato diagnosticato. Il vissuto dei pazienti è stato indagato da un questionario da cui emerge l’importanza di avere un team multidisciplinare, più supporto psicologico, più tempo per i colloqui con i medici e più informazioni sulla malattia e i percorsi. L’adesione allo screening mammografico offerto gratuitamente dal SSN appare soddisfacente. Molto, invece, resta da fare per rendere accessibili a tutti i pazienti i test genetici, che al momento sono offerti a meno di 1 paziente su 2. L’indagine conoscitiva sul tumore al seno è stata condotta nell’ambito dell’iniziativa “In Contatto”, promossa dalle 45 Associazioni del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”. I dati sono stati presentati in una diretta sul web dedicata ai tumori della mammella.
Buona presa in carico ma scarsi test genetici
«Sono decine di migliaia ogni anno le persone cui viene diagnosticato un tumore della mammella, in maggioranza donne sovente in età ancora produttiva e sono in aumento i casi giovanili – dichiara Annamaria Mancuso, Presidente di Salute Donna ODV e Coordinatrice del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”, che aggiunge. L’indagine mette in luce un aspetto molto importante, vale a dire che sul nostro territorio nazionale la presa in carico e l’assistenza di questi pazienti è decisamente buona, di alta qualità e ampiamente diffusa a livello regionale. Certo le criticità su cui lavorare non mancano: bisogna ampliare l’offerta dei test genetici e ampliare lo screening ad altre fasce d’età specie per i soggetti giovani con storia famigliare e a maggiore rischio. E poi bisogna pensare a potenziare le strutture, migliorare l’organizzazione, i percorsi per i controlli, allungare i tempi di incontro medico-paziente, il sostegno psicologico e rivolgere maggiore attenzione alla quotidianità dei pazienti con uno sguardo alla riabilitazione e ai postumi dell’intervento chirurgico».
Dall’indagine emerge una buona conoscenza della prevenzione secondaria con adesione di 1 paziente su 2 allo screening mammografico gratuito cui consegue nella maggioranza dei casi la scoperta della malattia in fase iniziale, un dato che fa la differenza in termini di possibilità di cura e sopravvivenza. Tuttavia, l’accesso ai test genetici appare ancora lacunoso sul territorio nazionale mentre vi è un’ampia disponibilità di opzioni terapeutiche utilizzate nei diversi tipi di neoplasia e nelle diverse fasi di malattia.
Attraverso l’indagine è stata richiesta la testimonianza delle pazienti e dei pazienti che in 1 caso su 2 hanno un’età compresa tra i 61 e i 75 anni, mentre nel 10,8% dei casi sono ancora in età fertile.
Screening per tumore al seno
La prevenzione secondaria (mammografia – ecografia) del tumore almeno è abbastanza nota nella maggior parte del campione. Quasi il 54% aderisce con costanza ai programmi di screening biennali offerti gratuitamente del SSN. Tuttavia, circa l’11,7% del campione non rientra nella fascia d’età prevista dallo screening mentre il 12,1% non è stato mai raggiunto da una comunicazione su questa opportunità. Riguardo l’autoesame delle mammelle, il 43% del campione lo effettua con regolarità ma oltre il 50% lo effettua di rado o mai.
Un dato molto positivo emerso dall’indagine è la scoperta in fase precoce della malattia in oltre il 90% del campione. Al momento della diagnosi, infatti, il tumore della mammella era in fase iniziale (meno di 2 centimetri senza linfonodi coinvolti) nel 53,4% dei rispondenti e in fase iniziale (più di 2 centimetri con interessamento dei linfonodi ascellari) nel 32,3% mentre era in fase avanzata nell’11,2% e con metastasi a distanza in un residuo 3,1% del campione. La maggioranza del campione (49,3%) è stata presa in carico all’interno di una Breast Unit oppure da un reparto oncologico (33,2%); solo il 13% è stato assistito in un reparto di chirurgia generale.
La Breast Unit
«L’indagine dimostra quanto sia cruciale quando si tratta di tumori la comunicazione rivolta alla popolazione generale e ai pazienti – sottolinea Nicla La Verde, Direttore UOC di Oncologia, ASST Fatebenefratelli Sacco PO Luigi Sacco di Milano. «Un dato che rafforza e conferma l’importanza dei programmi di screening – continua – è la diagnosi del tumore mammario che viene fatta in fase precoce nella maggioranza del campione. Un altro dato importante è che in Italia la presenza delle Unità di senologia è molto alta e piuttosto capillarmente diffusa, certamente disponibile negli ospedali di tutte le grandi città. La Breast Unit è una struttura altamente specializzata per la diagnosi e cura del carcinoma della mammella che consente ai pazienti la presa in carico da parte di una équipe che risponda al bisogno di cura a 360 gradi grazie alla collaborazione tra i diversi professionisti (chirurgo, oncologo, radiologo, radioterapista, anatomo patologo, psiconcologo) e garantisce i migliori standard in termini di trattamenti chirurgici e medici. Tutto ciò per i pazienti è una garanzia sia in termini di scelte terapeutiche sia in termini di efficienza organizzativa».
Il 40,8% del campione si sottopone alla visita senologica una volta l’anno e il 26% ogni due anni resta, tuttavia uno zoccolo duro, pari al 28,3% del campione, che non si è “mai” o “raramente” sottoposta a questo semplice esame clinico.
La scoperta del tumore al seno avviene per caso sentendo un nodulo durante l’autopalpazione (40%), il 5,8% lo ha scoperto osservando i cambiamenti del capezzolo, il 25,6% a seguito dello screening e l’8,1% durante controlli per familiarità.
Sostegno psicologico
«Sono ancora molti gli unmet needs su cui è necessario lavorare – dichiara Marina Morbiducci, Patient Advocate Fondazione IncontraDonna – Nell’ambito della gestione quotidiana della malattia l’assenza di un sostegno psicologico è l’aspetto maggiormente segnalato dall’indagine. In Italia, infatti, si evidenzia una notevole disuguaglianza nell’offrire interventi psico-oncologici la cui carenza implica che pazienti, famiglie e caregiver si trovano a dover affrontare da soli il carico psicologico che aggrava il percorso di cura. Sebbene l’indagine abbia evidenziato buona consapevolezza rispetto ai temi riguardanti la salute del seno, è ancora fondamentale lavorare sulla centralità della prevenzione primaria e su come questa giochi un ruolo cruciale nel prevenire molti fattori di rischio per i tumori, salvaguardando lo stato naturale di salute degli individui e contribuendo alla sostenibilità del nostro sistema sanitario.»
Tumore al seno e terapie
Il tipo di tumore mammario più frequente (46,6%) è quello positivo al recettore ormonale (HR), seguito dal tumore HER2 positivo (24,2%) e dal tumore triplo negativo (10,3%). Circa il 18,8% del campione non ha saputo indicare il sottotipo di tumore mammario che le è stato diagnosticato. Questo dato mette in luce una criticità nella comunicazione durante il percorso diagnostico. L’intervento chirurgico resta il trattamento d’elezione, quando è possibile operare, allo scopo di eradicare, cioè, asportare tutto il tumore. Terapia ormonale (64,1%), radioterapia, (63,7%), chemioterapia (44,8%), farmaci target (11,2%) e immunoterapia (10,3%) sono le opzioni terapeutiche impiegate routinariamente, si tratta di terapie farmacologiche sempre più targettizzate e con minori effetti collaterali, spesso utilizzate in combinazione e facili da assumere a domicilio per evitare i ricoveri e aumentare l’adesione alla cura.
Riguardo la familiarità, meno di un paziente su 2 riferisce una storia familiare per tumore della mammella in parenti di I e II grado. Tuttavia al 58,7% del campione non è stato suggerito di effettuare il test genetico che è stato prescritto solo ad un terzo dei pazienti.
Consapevolezza
Le pazienti e i pazienti con tumore della mammella hanno una percezione molto chiara dell’impatto che la neoplasia ha nella vita di tutti i giorni, limitandone le attività anche più basilari: il 34,1% dei rispondenti ha lamentato ansia/depressione, il 18,8% ha accusato postumi dell’intervento chirurgico, notevoli i disagi vissuti a causa della distanza tra casa e ospedale, il 17% ha riferito difficoltà di comunicazione con l’oncologo curante mentre il 16,6% ha lamentato l’assenza di un supporto psicologico, infine, oltre il 16,1% ha avuto problemi nella gestione delle terapie e dei controlli per i quali la maggiore criticità sta nell’organizzazione.
«Il tumore al seno è una malattia che impatta pesantemente sulla qualità della vita e come evidenzia l’indagine – dice Mariangela Fantin, Presidente A.N.D.O.S. Udine – Associazione Nazionale Donne Operate al Seno –, le pazienti e i pazienti hanno una percezione molto chiara dei loro bisogni. Questi pazienti non vanno lasciati da soli. Nella realtà di Udine, l’Associazione si avvale di due psicologi che mettiamo in contatto diretto con le pazienti che si rivolgono a noi; un altro importante servizio è l’offerta della parrucca, oltre alla consulenza di un medico che si occupa del database della Breast Unit dell’Ospedale di Udine. Infine, attraverso attività di raccolta fondi doniamo strumentazioni diagnostiche innovative».
Rispetto al percorso di cura le esigenze più sentite tra le pazienti e i pazienti sono la presenza di un team plurispecialistico per affrontare un approccio integrato alla persona, (38,6%), tempi più lunghi per i colloqui con i medici curanti (29,1%), maggiore informazione sulla malattia e le terapie disponibili (23,3%), la necessità di avere un supporto psicologico (20,6%), maggiore tutela dei diritti in ambito lavorativo e sociale (20,6%), percorsi facilitati in ambulatorio e day hospital (11,7%) e più informazioni su centri di riferimento (7,2%).
Mettere al centro la persona, ridurre costi e attese. Il progetto Dignitas Curae
Benessere, Eventi d'interesse, News Presa, PrevenzioneRidurre le liste d’attesa, limitare gli spostamenti fra strutture ospedaliere e garantire un’unica equipe multidisciplinare che ruota intorno alla persona. Sono le principali finalità espresse nel Manifesto della Fondazione Dignitas Curae ETS, presentato nella Sala della Regina di Palazzo Montecitorio.
Presieduta dal professor Massimo Massetti, ordinario di cardiochirurgia dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Roma e responsabile dell’Area cardiovascolare e cardiochirurgica del Policlinico universitario “Agostino Gemelli”, la Fondazione propone un paradigma per ridurre la frammentazione della cura, e di conseguenza ritardi e disservizi.
“La strada delineata – ha spiegato Massetti – può rappresentare un’innovazione unica nella sanità nazionale: un modello che riporti al centro i valori della medicina, riconosca il bene della persona e del curante e sfrutti le migliori competenze specialistiche. È questo un possibile modello della sanità che vogliamo, aperto alle innovazioni e aderente alla persona”.
Il Manifesto della Fondazione Dignitas Curae vede il sostegno di Papa Francesco, che ha firmato per primo il documento, del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e del Ministro della Salute, Orazio Schillaci. Il Ministro durante la presentazione ha annunciato che verrà avviato un tavolo di lavoro per valutare l’applicazione più estesa del percorso proposto.
“Il progetto di revisione del sistema sanitario non riguarda solo gli ambiti prettamente organizzativi e gestionali. Occorre portare avanti un modello di cura che non si limiti a curare l’evento patologico, ma deve prendersi cura del paziente nella sua totalità. Si tratta di riorganizzare una sanità che deve essere centrata sul malato e non sulle malattie o sulle singole prestazioni sanitarie. Ma c’è bisogno del contributo di tutti gli attori coinvolti nella rifondazione del sistema sanitario, nel rispetto delle differenze dei compiti e dei ruoli, perché ciascuno dei soggetti interessati, il Ministero della Salute, le Regioni, le aziende sanitarie, il personale sociosanitario, il mondo del volontariato determinerà con il proprio contributo quale sanità consegneremo al futuro”, afferma il Ministro della Salute Schillaci.
Il progetto Dignitas Curae si declina nel corso dell’anno, nel coinvolgimento diretto degli operatori sanitari, a cominciare da medici e infermieri. Già oggi, grazie al progetto Cuore, avviato in collaborazione con la Fondazione Roma nell’area del Gemelli diretta dal professor Massetti, viene applicato il paradigma. “I risultati ad oggi valutati – conferma il professore – su alcuni percorsi diagnostici e terapeutici dimostrano che cambiando l’organizzazione si migliora la qualità, perché si riduce il tasso di mortalità e di complicanze, e si incrementa l’appropriatezza delle prestazioni e l’efficienza, perché si abbattono i tempi d’attesa e i costi. In sintesi – conclude – con questo modello curiamo il malato, non soltanto la malattia”.
In particolare, i dati dello studio condotto all’interno dell’area e pubblicato sul Journal of the American Heart Association sono promettenti. Il campione si è basato su oltre mille pazienti con cardiopatia valvolare ad elevata complessità clinica. L’heart team ha raccomandato un trattamento interventistico per l’80% dei pazienti e una gestione conservativa per il restante 20%. Nei pazienti inviati al trattamento, la mortalità precoce osservata (1,7%) è stata significativamente inferiore a quella attesa.
Il testo del Manifesto, scritto a quattro mani dal professor Massetti e da monsignor Mauro Cozzoli, già docente di teologia morale all’Università Lateranense, oggi consultore del Dicastero per la dottrina della fede, è stato rivisto negli aspetti giuridici dai giuristi Natalino Irti, professore emerito della Università Sapienza di Roma, e Teresa Pasquino, docente ordinario di Istituzioni di diritto privato dell’Università di Trento.
Tumore al collo dell’utero, tutte le fasi della prevenzione
News Presa, PrevenzioneGennaio è il mese dedicato alla prevenzione del cervico carcinoma, meglio conosciuto come tumore al collo dell’utero. Si tratta della terza neoplasia più frequente nella popolazione femminile che colpisce soprattutto le donne tra i 55 e i 64 anni. Oggi, grazie alle tecniche di screening e alla diffusione del vaccino, è possibile fare prevenzione.
A fare il punto è il dottor Roberto Senatori, medico ginecologo, consigliere del direttivo della Società Italiana di Colposcopia e Patologia Cervico Vaginale e responsabile del Centro HPV della Clinica Villa Margherita. “Il tumore al collo dell’utero si sviluppa in un lungo lasso di tempo – ha sottolineato – in seguito ad una lesione dovuta all’acquisizione del virus dell’HPV. Scoperta che, nel 2008, valse il Nobel al suo autore il dott. Harald zur Hausen che, nello specifico, identificò l’HPV -il papillomavirus umano- quale agente eziologico del cancro della cervice uterina.”
Hpv e tumore al collo dell’utero
“Nonostante la diffusione dell’HPV sia statisticamente alta – ha continuato Senatori – nella maggior parte dei casi l’infezione regredisce spontaneamente nell’arco di due anni, persistendo nel tempo e solo nel 10% – 15% delle donne colpite, provocando lesioni. Infatti, la presenza del virus è una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo del tumore, quindi eliminando il virus si azzera anche il rischio di incorrere in patologie più gravi. Quindi, grazie alla prevenzione che si compone attualmente di tre fasi, nei paesi più industrializzati è possibile abbattere l’incidenza della malattia.”
Prevenzione primaria
“La prevenzione primaria è rappresentata della vaccinazione, da effettuare preferibilmente in età preadolescenziale, ovvero prima dei contatti sessuali che aumentano notevolmente il rischio di contagio, in ragazzi di ambo i sessi. Si tratta di una procedura essenziale dal momento che i vaccini di ultima generazione coprono i nove sierotipi più pericolosi del virus. Sono estremamente sicuri ed efficaci. Possono prevenire oltre il 90% delle forme tumorali associate all’HPV e sono stati somministrati in sicurezza a milioni di ragazze e ragazzi in tutto il mondo. Per aumentarne l’adesione, la vaccinazione è offerta gratuitamente a tutte le ragazze fino ai 26 anni d’età non compiuti; e dal 2020 per tutte le donne precedentemente trattate per lesioni di alto grado al fine di ridurne le recidive”.
“Per le donne al di sopra dei 26 anni – ha spiegato – il vaccino è disponibile a un social price che varia di regione in regione per tutte e tre le dosi. Tuttavia, benché si ambisca a vaccinare il 95% della popolazione, ad oggi la copertura vaccinale è ancora bassa e si aggira attorno al 60%. Inoltre, per abbattere in modo sostanziale i contagi, la campagna vaccinale dovrebbe coinvolgere in modo importante anche i ragazzi. L’ideale sarebbe seguire l’esempio australiano ove è stata introdotta la vaccinazione a tappeto in ambito scolare (intorno agli 11 anni di età) per tutti i ragazzi di ambo i sessi”.
Prevenzione secondaria del tumore al collo dell’utero
“La prevenzione secondaria – ha proseguito – che consiste in screening periodici, varia a seconda delle età. Nelle donne entro i 30 anni, lo screening si basa sul PAP test con cui si evidenzia non la presenza del virus ma le alterazioni cellulari che potrebbero essere da esso provocate. Dopo i 30 anni si procede direttamente all’HPV test, volto ad individuare la presenza del virus. Se negativo, lo “screening organizzato” prevede la ripetizione del test dopo 5 anni, altrimenti, se positivo, viene effettuato il PAP test. Qualora il pap test attesti per alterazioni si procede all’esame colposcopico e, se necessario, dalla terza fase di prevenzione, ovvero il trattamento delle lesioni.”
Terza fase della prevenzione
“La differenziazione degli screening in base all’età è dovuta al fatto che prima dei trent’anni il virus è molto diffuso ma, dato che tende a negativizzarsi spontaneamente, effettuare direttamente l’HPV genererebbe inutili allarmismi, mentre valutarne solo le alterazioni più pericolose risulta maggiormente efficace ai fini della prevenzione e della cura. La terza fase della prevenzione subentra in caso di lesioni istologicamente comprovate e consiste nella loro rimozione chirurgica.”
“Date queste considerazioni – ha concluso l’esperto –iniziative come questa sono fondamentali per sensibilizzare l’intera popolazione sull’importanza della prevenzione.”
Fuoco di Sant’Antonio, il segreto per sconfiggerlo
PrevenzioneSe c’è una condizione che può far rabbrividire chiunque è il fuoco di Sant’Antonio, noto anche come herpes zoster. Ma cosa è esattamente questa eruzione cutanea dolorosa? Come si trasmette? E soprattutto, c’è un modo per sconfiggerla?
Nemico nascosto
L’herpes zoster si presenta sotto forma di eruzione cutanea ed è causato dal virus varicella-zoster (VZV), lo stesso virus responsabile della varicella. Questo virus può rimanere nascosto, dormiente, nel tessuto nervoso per anni, solo per riemergere in seguito, scatenando il temuto fuoco di Sant’Antonio.
Contagiosità e cause
Ma è contagioso? Assolutamente sì. Chiunque non abbia mai contratto il virus della varicella può essere infettato entrando in contatto con le vescicole aperte dell’eruzione. Ma quali sono le cause della sua riattivazione? Le situazioni che possono abbassare le difese immunitarie, come lo stress, certi farmaci, o l’età avanzata, possono favorire la sua riemersione.
Sintomi e diagnosi
I sintomi del fuoco di Sant’Antonio sono molto caratteristici: eruzione cutanea dolorosa, mal di testa, febbre e brividi. La diagnosi solitamente avviene attraverso l’esame visivo dell’eruzione, ma in casi ambigui possono essere necessari test di laboratorio.
Trattamento e prevenzione
Fortunatamente, esiste trattamento. Farmaci antivirali e antidolorifici possono aiutare ad accelerare la guarigione e alleviare il dolore. Inoltre, è possibile prevenire ulteriori episodi di herpes zoster attraverso la vaccinazione.
Sconfiggere il fuoco di Sant’Antonio è possibile
Il fuoco di Sant’Antonio può essere un vero incubo, anche perché si tratta di una condizione che spesso è molto dolorosa, comprendere le sue cause e quali sono i trattamenti è cruciale e può aiutare a gestire questa condizione in modo relativamente semplice. Ricorda, la prevenzione è la chiave: considera la vaccinazione se sei a rischio e consulta sempre un medico per una diagnosi accurata e un trattamento adeguato. Sconfiggere il fuoco di Sant’Antonio è possibile, e la conoscenza è il primo passo verso la guarigione.
Terapia genica gli consente di sentire
Bambini, Ricerca innovazioneNato sordo, ha recuperato l’udito grazie ad un’innovativa terapia genica che agisce direttamente modificando il Dna. La storia è quella di un bambini cresciuto in Marocco e poi trasferitosi in Spagna, lo chiameremo Said – con un nome di fantasia – per proteggerne la privacy. Il piccolo Said si è sempre dovuto arrangiare, da piccolo ha addirittura inventato una sua lingua dei segni per poter comunicare le sue emozioni e le sue esigenze agli altri.
La svolta
Tutto è cambiato al compimento dei suoi 11 anni. Arrivato all’attenzione di uno specialista, al piccolo (o meglio ai suoi genitori) è stata proposta una terapia genica innovativa. Un trattamento che modifica il materiale genetico (Dna) all’interno delle cellule con lo scopo di curare alcune patologie. E così lo scorso ottobre il ragazzino è stato sottoposto al trattamento al Children Hospital di Philadelphia. Grazie alla terapia genica il piccolo Said ha recuperato l’udito; lui è il primo a ottenere la terapia genica per sordità congenita. Al New York Times ha detto “Non c’è un suono che non mi piace”, ha detto al New York Times.
Nuova strada
La terapia alla quale è stato sopposto il bambino fa parte di quel ramo della medicina che punta a “riparare” il Dna. La terapia genica sfrutta l’introduzione di materiale genetico nelle cellule target per correggere i difetti genetici responsabili di determinate malattie. Ci sono diverse modalità per eseguire la terapia genica, che includono:
Demenza da Ipertensione, nuove tecnologie anticipano sintomi
Anziani, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneLe tecniche avanzate di Risonanza Magnetica possono diagnosticare precocemente i danni che l’ipertensione causa al cervello di un paziente, molto prima della comparsa di segni clinici. Questa nuova ricerca apre la strada a un possibile intervento terapeutico contro le alterazioni cerebrali che, nel corso del tempo, possono portare alla demenza. Il lavoro è stato condotto dal Dipartimento di Angiocardioneurologia e Medicina Traslazionale dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS) e rappresenta un passo importante nella prevenzione della demenza.
Lo studio per prevenire la demenza
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Hypertension, è partito dalle osservazioni su alcuni pazienti ipertesi, nei quali il gruppo di ricercatori Neuromed ha usato tecniche avanzate di diagnostica per immagini. L’imaging a Tensore di diffusione (DTI) ha portato all’individuazione di alterazioni microscopiche alle strutture cerebrali. Questi risultati hanno rappresentato la base di partenza per una serie di ricerche su animali di laboratorio, individuando anche in questo caso danni cerebrali specifici, tra cui cambiamenti strutturali, microstrutturali ed emodinamici. Tra le scoperte, lo studio ha evidenziato danni microstrutturali nella materia bianca (costituita dalle fibre che interconnettono i neuroni) e una riduzione del flusso sanguigno cerebrale correlati ad una diffusa rarefazione dei capillari cerebrali.
“I nostri risultati – spiega l’ingegner Lorenzo Carnevale, ricercatore del Dipartimento di AngioCardioNeurologia e Medicina Traslazionale dell’IRCCS Neuromed – rappresentano un ulteriore sviluppo nel lavoro che portiamo avanti da molti anni per gettare nuova luce sul modo in cui l’ipertensione può determinare il decadimento cognitivo e contribuire all’insorgenza di malattie neurodegenerative. Oltre agli effetti noti dell’ipertensione su altri organi, come cuore e reni, per i quali abbiamo esami specifici, anche il cervello subisce alterazioni significative. Oggi abbiamo la possibilità di rilevare tempestivamente queste alterazioni mediante tecniche di imaging avanzate. Potrebbe rappresentare un passo in avanti importante nel contesto della gestione clinica dell’ipertensione e nella comprensione dei suoi effetti a lungo termine sul cervello”.
Nuove prospettive terapeutiche
Ma lo studio è andato più in profondità, rivelando il ruolo patogenico di un meccanismo neuroinfiammatorio mediato dai linfociti T CD8+ che producono interferone-γ. Questa ulteriore scoperta apre la strada a nuove prospettive terapeutiche capaci di rallentare il processo di deterioramento cognitivo.
“Quando qui in Neuromed parliamo di ricerca traslazionale – commenta il professor Giuseppe Lembo, Professore Ordinario di Scienze e Tecniche Mediche Traslazionali all’Università La Sapienza di Roma e direttore del Dipartimento di AngioCardioNeurologia e Medicina Traslazionale dell’IRCCS Neuromed – non ci stiamo riferendo a una generica collaborazione tra laboratori di ricerca e clinica. Questo studio mostra in modo chiaro la concretezza del concetto di traslazionalità: la cura dei pazienti stimola osservazioni nuove. E queste idee le portiamo in laboratorio, dal quale possiamo attenderci sviluppi concreti che torneranno ai pazienti stessi in forma di nuove tecniche diagnostiche e nuove terapie”.
Gastrite e reflusso, come liberarsene
AlimentazioneSe negli ultimi tempi soffri di gastrite, reflusso gastroesofageo, ma anche intestino irritabile, consolati pensando che non sei il solo. Anzi, per questi disturbi si è registrata in Italia una vera e propria impennata di casi, e la ragione è lo stress. Per Luca Frulloni, presidente della Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva (Sige), siamo sempre più stressati e ansiosi a causa della pandemia, della guerra Russia-Ucraina, della crisi economica e oggi del conflitto tra Israele e Hamas.
I rimedi
Al di là delle cause, quello che ci interessa capire è come possiamo ritrovare il benessere perduto. La risposta è spesso legata a modifiche degli stili di vita, ma per fortuna esistono approcci pratici e naturali che possono aiutare a gestire e ridurre questi problemi.
Seguendo questi consigli pratici, è possibile alleviare i sintomi di reflusso gastroesofageo, gastrite e intestino irritabile, migliorando così la qualità della vita. Ma ricorda, se i disturbi persistono, è sempre bene consultare un professionista della salute per approfondire e ottenere una guida specifica e personalizzata basata sulle tue esigenze individuali.
La dieta ipocalorica ha sorprendenti effetti benefici
AlimentazioneUna dieta ipocalorica è spesso il segreto della longevità. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Aging e condotto dalla Columbia University dimostra che la cosiddetta “restrizione calorica” può, a lungo termine, rallentare il processo di invecchiamento biologico negli adulti. L’equazione alla quale guardano i ricercatori è dunque: meno calorie più anni di vita. Naturalmente, i fattori da tenere in considerazione sono moltissimi, ma le prove che una riduzione proporzionata delle calorie faccia bene ci sono tutte.
I dati
La ricerca scientifica ha identificato un promettente legame tra la riduzione calorica prolungata e il rallentamento del processo di invecchiamento umano. Uno studio condotto su adulti magri o leggermente sovrappeso ha rivelato che una diminuzione del 12% dell’apporto calorico per due anni ha portato a un significativo rallentamento dell’invecchiamento, stimato tra il 2-3%. Sebbene l’effetto possa sembrare modesto, si accumula nel tempo, suggerendo un possibile impatto significativo sulla longevità e sulla salute.
Età biologica vs anagrafica
L’età biologica di una persona, misurata attraverso l’accumulo di danni, cambiamenti fisiologici e perdita di funzione fisica nel tempo, raramente coincide con l’età anagrafica. Questo è dovuto a diversi stili di vita che influenzano il processo di invecchiamento. Due individui della stessa età anagrafica possono infatti presentare un’età biologica differente in base alle loro abitudini quotidiane.
Cambiamenti molecolari e restrizione calorica
Lo studio dalla Columbia University ha approfondito la relazione tra la restrizione calorica a lungo termine e i cambiamenti molecolari associati all’invecchiamento. Misurando le modifiche al DNA in adulti giovani e di mezza età, i ricercatori hanno scoperto che coloro che hanno ridotto le calorie del 12% hanno rallentato la loro velocità di invecchiamento tra il 2-3%. Utilizzando un “contachilometri” basato sui cambiamenti del DNA, è stato possibile determinare il tasso annuale di invecchiamento biologico.
Invecchiamento rallentato
I risultati hanno dimostrato che i partecipanti che hanno adottato una dieta a ridotto apporto calorico hanno registrato un rallentamento tangibile nel processo di invecchiamento rispetto a coloro che hanno mantenuto un’alimentazione normale. Questo rallentamento del 2-3% può sembrare modesto, ma le ricerche precedenti indicano che un simile effetto potrebbe ridurre il rischio di mortalità del 10-15%.
Il DNA
L’aspetto più interessante è che ci sono ora prove concrete del fatto che la riduzione calorica a lungo termine può influenzare positivamente i processi molecolari associati all’invecchiamento, aprendo la strada a nuove prospettive sulla modifica dell’invecchiamento del DNA. L’osservazione che la restrizione calorica (spesso associata alo stile alimentare vegano) può rallentare i cambiamenti legati all’invecchiamento suggerisce la possibilità di intervenire e modulare questo processo. Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche, questo studio apre la strada a nuove strategie per promuovere una vita sana e prolungata attraverso scelte alimentari oculate nel lungo termine: un vero e proprio elisir di lunga vita.
Vita senza barriere, oltre 820 mila euro raccolti per 80 progetti
Benessere, Eventi d'interesseAttraverso la piattaforma è possibile scegliere e finanziare i progetti nati per favorire l’inclusione sociale, attraverso la creatività, lo sport e tanto altro. Oltre 820 mila euro sono stati raccolti dal 2018 ad oggi, con più di 5.700 sostenitori. Con il co-finanziamento di MSD di 350 mila euro è stato possibile realizzare 80 progetti su tutto il territorio nazionale. L’iniziativa ha festeggiato il suo quinto anno di attività.
La disabilità, la malattia o altra forma di condizione sfavorevole non dovrebbero costituire un limite. MSD CrowdCaring nasce per supportare progetti innovativi per migliorare la Salute e la Qualità di Vita delle Persone favorendo l’Inclusione e la Diversità. Il progetto è ‘ospitato’ da Eppela, la principale piattaforma italiana di crowdfunding che, con un sistema di “finanziamento dal basso”. Permette di creare diverse tipologie di raccolte fondi: dalle campagne di solidarietà alla realizzazione di prodotti o eventi.
I progetti finanziati
I progetti selezionati che raggiungono gli obiettivi di “finanziamento dal basso” accedono ad un co-finanziamento da parte di MSD Italia nel ruolo di “Mentor”, con l’obiettivo di contribuire al finanziamento e alla realizzazione dei migliori progetti relativi in particolare: all’abbattimento delle barriere e dei limiti causati da disabilità, malattia o diversità; alla creazione di un network inter-generazionale, favorendo l’abbattimento del gap generazionale; ad iniziative che promuovono l’uguaglianza di genere, lo sviluppo di ambienti di lavoro inclusivi, la creazione/sviluppo di network di supporto reciproco per le donne.
“È una iniziativa che vede nelle sue fondamenta due fattori chiave, nonché due pilastri dello sviluppo sociale, economico, culturale del Paese, ovvero la sostenibilità – nel senso più ampio del termine – e l’innovazione”, ha dichiarato Nicoletta Luppi, Presidente e Amministratrice Delegata di MSD Italia.
Finanziamento dal basso
“Attraverso la piattaforma di Eppela, il finanziamento dal basso diventa un catalizzatore per quei progetti che ambiscono a trasformare la società, promuovendo l’uguaglianza di genere, il supporto intergenerazionale e abbattendo le barriere imposte dalla disabilità e dalla malattia”, afferma Nicola Lencioni, Presidente Unico Eppela.
Pfas cancerogeni, quali sono e dove si trovano
Benessere, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneNuova classificazione per la cancerogenicità delle sostanze chimiche Pfoa e Pfos. Si tratta di sostanze chimiche, l’acido perfluorottanoico (Pfoa) e l’acido perfluorottansulfonico (Pfos), molto utilizzate in un gruppo di composti chiamati Pfas. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha recentemente concluso la revisione, evidenziando gli impatti sulla salute umana.
Ricerca sui pfas
Già da anni numerosi studi e ricerche avevano associato l’esposizione ai pfas a patologie gravi come il cancro ai testicoli, ai reni, oltre a disordini a livello endocrino. Ora Airc ha confermato che il Pfoa è stato ritenuto cancerogeno per l’uomo “sulla base di sufficienti evidenze di cancro negli animali da esperimento e di forti evidenze meccanicistiche (per alterazioni epigenetiche e immunosoppressione) nell’uomo esposto”.
Il Pfos è risultato probabilmente cancerogeno per l’uomo “sulla base di forti evidenze meccanicistiche in tutti i sistemi di prova, compresi gli esseri umani esposti (per le alterazioni epigenetiche e l’immunosoppressione, oltre a diverse altre caratteristiche chiave degli agenti cancerogeni)”.
Lo studio è stato effettuato da un team di 30 esperti internazionali provenienti da 11 Paesi. I risultati dimostrano gli effetti dannosi di queste sostanze, tant’è che in molti Paesi i PFAS sono stati messi al bando da tempo.
Dove si trovano
Tutte le oltre 10 mila sostanze del gruppo dei PFAS, sono anche detti inquinanti eterni per via della loro permanenza nell’ambiente per tempi estremamente lunghi. Anche per questo sono presenti ovunque, anche tra i prodotti di uso comune, come imballaggi alimentari, tappeti, materiali da costruzione, cosmetici, pentole, capi impermeabili e schiume antincendio.
I Pfas sono stati rinvenuti anche nell’acqua potabile, sia in Veneto che in Lombardia. Cinque nazioni europee (Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) hanno proposto di mettere al bando l’uso e la produzione in Europa.