Tempo di lettura: 6 minutiLa Celiachia è una malattia intestinale infiammatoria permanente con tratti di auto-immunità. Nei soggetti geneticamente predisposti viene scatenata dall’assunzione del glutine. Si stima che solo il 3% delle persone predisposte sviluppi effettivamente la malattia. Il glutine è un complesso proteico che si trova in alcuni cereali, come frumento, segale, orzo, farro, spelta, grano Khorasan (spesso in commercio come KAMUT®), triticale.
Sintomi
La celiachia ha un quadro clinico molto variabile, sia per gravità sia per gli organi che colpisce. Si va dalla forma classica (diarrea, dolori addominali, perdita di peso) a forme più atipiche che portano a sintomi extra-intestinali (ad esempio: vomito, affaticamento, perdita di capelli, ulcere e lesioni ricorrenti nella bocca, infertilità, abortività spontanea, disturbi del comportamento alimentare). Le persone celiache spesso tendono a sviluppare malattie autoimmuni, come tiroidite, lupus, diabete di tipo 1.
Una variante epidermica della Celiachia è la Dermatite Erpetiforme che provoca lesioni cutanee che regrediscono dopo l’eliminazione del glutine dalla dieta. La diagnosi di Celiachia inizia dal medico di medicina generale e dal pediatra, prevede analisi del sangue di specifici anticorpi e biopsia dell’intestino tenue, eseguiti mentre la dieta comprende ancora
glutine. La dieta senza glutine è l’unica terapia disponibile e va seguita per tutta la vita.
Numeri della celiachia in Italia
Sono 251.939 le persone celiache in Italia (dati Ministero della Salute, 2022). Le donne sono oltre il doppio degli uomini. Inoltre consolidate evidenze scientifiche epidemiologiche stimano che la celiachia riguardi l’1% della popolazione, in Italia e nel mondo. Nel nostro paese, quindi, sono circa 400 mila i casi non ancora diagnosticati.
Giornata mondiale della Celiachia
“La celiachia e il diabete di tipo 1 hanno un impatto sulla salute e sul servizio sanitario che non deve essere sottovalutato e l’Italia con il programma di screening nazionale per la popolazione pediatrica sta dando un segnale rilevante di attenzione e di impegno. Un impegno continuo e costante, in sinergia con le associazioni e il Parlamento, che va dalla prevenzione ai contributi per la dieta, dalla formazione all’informazione fino alla ricerca”. Con queste parole, il Ministro della Salute, Prof. Orazio Schillaci, ha aperto i lavori di un incontro tenutosi a palazzo Giustiniani, in concomitanza con la Giornata Mondiale della Celiachia che si celebra il 16 maggio. Un evento promosso dalla Sen. Elena Murelli, presidente dell’Intergruppo Parlamentare Malattia Celiaca, Allergie Alimentari e Alimenti ai Fini Medici Speciali che ha visto il confronto tra rappresentanti delle istituzioni, clinici, esponenti delle associazioni di pazienti e del mondo advocacy.
Ruolo dell’informazione
In Italia il 56 per cento della popolazione dichiara di essere affatto o poco informato sulla celiachia e il 30 per cento ritiene che questa condizione patologica non sempre può essere grave. Una fotografia, offerta da un’analisi condotta dall’Istituto Bhave,in collaborazione con la rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief (IHPB), che conferma la sottovalutazione nel percepito di questa malattia cronica autoimmune e che, in buona parte, ci dice del molto che ancora resta da fare per informare, sensibilizzare, organizzare e formare.
Tutti presupposti, questi, per rendere più omogeneo ed efficiente in tutte le regioni la risposta sanitaria e innalzare il livello della qualità della vita di oltre 250 mila pazienti celiaci già diagnosticati, ma anche per favorire l’identificazione e la diagnosi certa di un segmento di popolazione – si stima che sia di almeno 350mila persone – che non è mai stato diagnosticato. Una malattia che, secondo la relazione al Parlamento del Ministero della Salute, registra 9/10.000 casi ogni anno, colpendo il 70 per cento della popolazione femminile e il restante 30 per cento di quella maschile, con una tendenza in crescita costante.
Scopo dell’incontro, a un anno dalla costituzione dell’Intergruppo Parlamentare, dare conto delle attività sviluppate da questo organismo alla luce di un preciso patto di legislatura e dello stato dell’arte del Disegno di Legge 623 (Protezione dei soggetti malati di celiachia e disposizioni per la prevenzione e l’informazione in merito alla malattia) attualmente all’esame del Senato – del quale la stessa Sen. Murelli è prima firmataria – ma anche valutare lo stato di attuazione della Legge 130/2023 in materia di programmi diagnostici per l’individuazione della celiachia e del diabete in età pediatrica, oltre a raccogliere elementi per l’attività da sviluppare in futuro da parte dei membri del Comitato Tecnico-scientifico e Sociale (CTSS) che affianca il lavoro dell’Intergruppo Parlamentare.
Celiachia spesso non diagnosticata
“La celiachia è una malattia autoimmune sempre più frequente e i casi non diagnosticati sono molti, come molte e in aumento sono le allergie alimentari. Queste problematiche nutrizionali hanno estrema necessità di una nuova stagione basata su una “convergenza sociale” sempre più ampia tra sanità, azioni educativo-scolastiche, formazione e, più in generale, cultura dell’intervento” – ha dichiarato la Sen. Elena Murelli in apertura dei lavori – sono queste le direttrici alla base dell’impegno del nostro intergruppo parlamentare, concepite all’insegna di una costruttiva collaborazione con il Ministero della Salute e il Governo. Per quanto riguarda il Disegno di legge di cui sono prima firmataria – ha proseguito la Sen. Murelli – è prevista la circolarità, sull’intero territorio nazionale dei buoni utilizzati mensilmente dai celiaci per comprare prodotti senza glutine, che ora hanno valenza regionale. Inoltre, è prevista la dematerializzazione dei buoni nelle quattro Regioni che ancora li utilizzano in modo cartaceo.
Riteniamo poi fondamentale l’informazione, non solo nelle scuole, ma soprattutto la formazione, in primis quella degli operatori HO.RE.CA. È anche previsto l’inserimento nella certificazione HACCP di un modulo specifico per la celiachia, in modo tale che siano tutti informati sul pericolo della contaminazione nel processo di preparazione e somministrazione dei cibi per garantire un pasto senza glutine per tutti. Abbiamo fatto passi avanti, molti sono i negozi specializzati e le aziende che hanno diversificato la produzione, aprendo ai prodotti gluten free. L’opera di sensibilizzazione è importante – aggiunge la senatrice – specie per i più giovani, per non subire discriminazioni con possibili ricadute psicologiche”.
Linee guida
Linee guida concepite con un riferimento alle più avanzate esperienze internazionali e definite in sintonia con le associazioni dei pazienti, formazione e sensibilizzazione nel mondo della scuola, oltre che nel settore dell’hospitality e della ristorazione, semplificazione/sburocratizzazione e omogeneità di accesso sul territorio ai cibi gluten-free, potenziamento e valorizzazione dell’attività di screening per una diagnosi precoce sulla popolazione, specie in ambito pediatrico, grazie ad una solida formazione dei clinici. “Questi sono i pilastri sui quali deve poggiare la nuova stagione di un più efficiente contrasto della celiachia – ha dichiarato Rossella Valmarana, Presidente dell’Associazione Italiana Celiachia – un tema di salute pubblica che interessa la vasta platea dei pazienti celiaci, oltre a due milioni di persone colpite da allergie alimentari in Italia”.
Formazione dei clinici
Dell’importanza dell’adeguata formazione dei clinici ai fini di una diagnosi precoce si è occupata durante i lavori la Prof.ssa Antonella Polimeni, rettrice della Sapienza Università di Roma, che nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza come la formazione basata sulla conoscenza scientifica della malattia celiaca nella medicina specialistica sia il vero traguardo per lo screening precoce della malattia e come le lesioni sentinella possano talora essere l’unica osservazione clinica della stessa.
Il Dott. Giuseppe Cerrone, capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Merito e Pubblica Istruzione e membro del CTSS dell’Intergruppo Parlamentare, ha sottolineato che “l’obiettivo del Ministero dell’istruzione e del merito è, da un lato, quello di rafforzare la formazione professionale dei docenti prevedendo, grazie ad uno specifico intervento previsto nel Disegno di legge 623, che durante il percorso annuale di formazione e prova del personale docente ed educativo vengano svolte attività formative e di sensibilizzazione sulla celiachia e sulla dieta senza glutine e, dall’altro, quello di favorire la promozione di attività e iniziative didattiche all’interno di tutte le scuole del sistema nazionale di istruzione che rendano consapevoli i giovani studenti sulla rilevanza delle intolleranze alimentari. Con particolare riguardo, poi, agli istituti alberghieri, il Ministero dell’istruzione e del merito si impegnerà, altresì, a supportare la previsione del Disegno di legge 623 affinché i relativi percorsi di studio prevedano il rafforzamento da parte degli studenti di specifiche competenze relative alla preparazione e al servizio di prodotti per la malattia celiaca e la dieta senza glutine”.
La centralità della formazione riguarda anche il segmento sociale di coloro che sono impegnati nel variegato mondo degli operatori/preparatori/somministratori alimentari, dal cui operato dipende la sicurezza delle persone con celiachia. Il Dott. Umberto Scognamiglio della Società Italiana di Nutrizione Umana ha affermato: “Tutti i professionisti della nutrizione hanno l’importante compito di educare non solo i pazienti affetti da celiachia o i loro familiari, ma anche quanti a vario titolo sono responsabili delle offerte alimentari nel settore pubblico e commerciale. Ci riferiamo alla aziende di ristorazione collettiva così come alla ristorazione commerciale i cui operatori devono avere contezza delle buone pratiche per la gestione degli alimenti per i soggetti celiaci, della loro preparazione e conservazione, al fine di limitare il più possibile i pericoli legati alla contaminazione di glutine nell’alimento consumato dal celiaco”.
L’indagine condotta dall’Istituto Bhave, ha posto in evidenza anche un altro dato piuttosto interessante: tra le preoccupazioni dei genitori di bambini celiaci si pone al primo posto – 26 per cento – il rischio che il bambino possa mangiare qualcosa di non idoneo alla sua dieta, condividendo il cibo con altri bambini; un esempio, questo, che indica una volta di più quali e quante siano le problematiche che caratterizzano la quotidianità di pazienti e famiglie; problematiche che troverebbero buona parte della soluzione con attività di sensibilizzazione nelle scuole, contribuendo alla crescita di cittadini capaci di accettare le differenze alimentari. In questo l’attività quotidiana delle associazioni pazienti può essere un valido aiuto per le istituzioni e gli enti pubblici.
Dieta senza glutine, unica terapia
La dieta senza glutine, rigorosa e da seguire tutta la vita, è l’unica terapia per chi ha la celiachia. A
supporto dei pazienti e delle famiglie e allo scopo di prevenire le gravi complicanze della malattia
non curata, il Servizio Sanitario Nazionale garantisce ai celiaci una assistenza integrativa prevista nei
Livelli Essenziali di Assistenza – LEA. Per facilitare i pazienti e le famiglie nella selezione degli
alimenti idonei alla propria dieta tra quelli considerati a rischio, AIC realizza e pubblica ogni anno il
Prontuario degli Alimenti, un manuale che raccoglie circa 20.000 prodotti reperibili sul mercato,
inseriti dopo un accurato controllo degli ingredienti e dei processi produttivi.
Il Prontuario viene distribuito a tutti gli associati AIC, ai servizi di ristorazione, alle mense, ai
ristoranti, ai dietisti e, per i soci, è consultabile anche online e dalla APP AIC Mobile.
Tiroide, oltre 6 milioni di italiani con patologie
Associazioni pazienti, Economia sanitaria, News, PrevenzioneIn Italia le persone che soffrono di patologie della tiroide sono più di 6 milioni. In occasione della Settimana Mondiale della Tiroide (SMT) le organizzazioni dei pazienti invitano la popolazione ad informarsi attivamente da fonti qualificate sui temi della salute. Inoltre chiedono, insieme alla comunità scientifica che l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosca le malattie tiroidee quali malattie non trasmissibili, croniche.
Le malattie non trasmissibili sono la principale causa di morte e di disabilità nel mondo. Appartengono a questa categoria le malattie cardiovascolari, il cancro, le malattie respiratorie croniche, il diabete e anche l’obesità. L’interesse principale nel far riconoscere le malattie della tiroide nell’ambito delle malattie croniche risiede nel fatto che la ricerca biomedica in questo settore richiede finanziamenti cospicui. Riconoscerle come croniche consentirebbe l’accesso a maggiori finanziamenti per nuovi studi i cui risultati andrebbero a beneficio della popolazione, sottolineano le associazioni.
Settimana Mondiale della Tiroide 2024
«La Settimana Mondiale della Tiroide 2024 – ha spiegato in occasione della presentazione Rossella Elisei, Presidente Associazione Italiana Tiroide (AIT) e coordinatrice della SMT – è patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e promossa dalle principali società scientifiche endocrinologiche, mediche e chirurgiche, quali Associazione Italiana della Tiroide (AIT), Associazione Medici Endocrinologi (AME), Società Italiana di Endocrinologia (SIE), Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG), Società Italiana Unitaria di Endocrino Chirurgia (SIUEC), Associazione Italiana Medicina Nucleare (AIMN), European Thyroid Association (ETA), insieme a CAPE Comitato delle Associazioni dei Pazienti Endocrini e sostenuta con un contributo incondizionato da parte di Eisai, IBSA Farmaceutici e Merck Serono».
Maggior parte dei casi di natura “autoimmune”
«La maggior parte delle malattie della tiroide possono entrare di diritto nel gruppo delle malattie non trasmissibili, infatti, sia l’ipertiroidismo che l’ipotiroidismo sono patologie croniche, nella maggior parte dei casi di natura “autoimmune”, ovvero causate da una reazione immunitaria anomala che si rivolge contro le cellule della tiroide, causandone distruzione nel caso dell’ipotiroidismo o eccessiva stimolazione nel caso dell’ipertiroidismo.
In entrambi i casi si tratta di patologie che hanno necessità di essere periodicamente controllate, senza eccedere nel numero dei controlli e nel tipo di esami da eseguire ciclicamente. Ad esempio, il dosaggio degli autoantianticorpi, il cui valore numerico può variare indipendentemente dalla variazione clinica della malattia, non va ripetuto ad ogni controllo, ma solo in particolari momenti del percorso di cura identificati dallo specialista», afferma Gianluca Aimaretti, Presidente SIE.
Tiroide, monitorare anziani
«È importante tuttavia sottolineare che, se è vero che da un lato la frequente ripetizione di esami clinici e strumentali non strettamente necessari, rappresenta una delle voci più dispendiose, per quanto riguarda il bilancio del nostro SSN, dall’altro non deve essere dimenticata, come invece purtroppo spesso accade, la necessità del monitoraggio della funzione tiroidea nei pazienti anziani con nota patologia, soprattutto se in terapia con ormone tiroideo o farmaci antitiroidei», ha spiegato Fabio Monzani, Delegato SIGG.
«Proprio per la natura cronica della maggior parte delle patologie tiroidee», ha evidenziato Renato Cozzi, Presidente AME, «è indispensabile che l’endocrinologo avvicini con empatia questi pazienti, che spesso incontrano lo specialista dopo lunghi periodi di attesa, ascoltando con attenzione i sintomi che lamentano, visitandoli mettendo anche la mano sul collo e rassicurandoli, una volta visti gli esami, che i loro sintomi sono curabili in maniera efficace quando dipendenti da una reale patologia tiroidea».
Noduli della tiroide
«Anche la patologia nodulare tiroidea è una patologia cronica», ha proseguito Laura Fugazzola, Presidente ETA. «La presenza di noduli di ridotte dimensioni, a volte più piccoli di 1 cm, è molto comune nella popolazione generale adulta (50 per cento degli over 50) ma la loro rilevanza clinica è molto scarsa. Per tale motivo l’esecuzione di ecografie tiroidee su grandi segmenti di popolazione, eseguite senza una motivazione clinica, è oggi sconsigliata perché evidenzierà noduli che avranno una scarsissima importanza clinica, ma che provocheranno inutile preoccupazione nel soggetto in cui sono stati casualmente rilevati.
Diversamente, i noduli di dimensioni più grandi rispetto a quelli sopra descritti devono essere valutati per la possibilità di alterare la funzione tiroidea e per verificarne la loro natura. Noduli benigni che non alterano la funzione ghiandolare dovranno comunque essere controllati periodicamente e l’inserimento di questa condizione clinica tra le malattie croniche potrebbe contribuire a ridurre la spesa sanitaria attraverso una migliore programmazione dei controlli clinici, evitando quindi la ripetizione di esami inutili. Allo stesso tempo si potrebbe prevedere di inserire questa patologia, in quanto cronica, tra le esentabili dal pagamento del ticket», ha concluso Fugazzola.
Profilassi con sale iodato
È invece molto più importante, secondo Antonella Olivieri, ISS, Dipartimento di Malattie Cardiovascolari, Endocrino-Metaboliche e dell’Invecchiamento, «fare prevenzione attraverso la profilassi con sale iodato: la patologia nodulare tiroidea è infatti fortemente condizionata dalla carenza di iodio. Sebbene in Italia, grazie alla campagna sull’uso del sale iodato iniziata nel 2005, la nutrizione iodica sia molto migliorata, occorre che la popolazione continui ad essere sensibilizzata ad utilizzare poco sale e solo iodato già a partire dall’età pediatrica, al fine di contrastare in maniera rilevante la formazione del “gozzo” e dei noduli tiroidei».
Tumori della tiroide
Parlando dei tumori della tiroide, in particolare la forma papillare, Rossella Elisei ha aggiunto: «sono senz’altro da considerare tra le malattie croniche non trasmissibili in quanto spessissimo, e fortunatamente, guariscono o cronicizzano con una bassa probabilità di recidivare ma, essendo comunque i pazienti tiroidectomizzati e sottoposti a terapia con ormone tiroideo, devono essere seguiti per lungo tempo. Anche per questa patologia vi sono dei fattori di rischio che possono essere positivamente modificati, ad esempio evitando o minimizzando l’esposizione della regione del collo alle radiazioni ionizzanti.
L’identificazione della malignità del nodulo avviene con l’agoaspirazione e l’esame citologico che però oggi vengono riservati solo a noduli di dimensioni maggiori di un centimetro e con caratteristiche ecografiche sospette. È importante ricordare che solo il 5% dei noduli tiroidei è di natura maligna e raramente si presenta in forma avanzata con lesioni a distanza. La terapia chirurgica e, quando opportuno la terapia radiometabolica, possono risolvere completamente la malattia. Viste le caratteristiche di queste malattie molto diffuse, ma spesso, non gravi e curabili con successo, è particolarmente importante promuovere un’informazione esauriente ma non allarmistica, evitando approfondimenti diagnostici non motivati».
Ruolo della medicina nucleare
«Nella gestione delle patologie croniche della tiroide anche la medicina nucleare svolge un ruolo importante, in particolare, due procedure comuni utilizzate sono la scintigrafia tiroidea e la terapia con iodio radioattivo (RAI). Queste procedure richiedono la valutazione accurata del paziente, la scelta appropriata della procedura, dosaggi precisi, monitoraggio attento e gestione responsabile dei rifiuti radioattivi. Queste pratiche contribuiscono a garantire risultati efficaci e sicuri per i pazienti affetti da patologie tiroidee croniche», ha evidenziato Marco Maccauro, delegato AIMN.
«È quindi importante che giungano a valutazione chirurgica, sia per patologia benigna che tumorale, i soggetti che trovino effettiva indicazione e che al paziente venga proposto il percorso e l’eventuale opzione chirurgica più idonea. Non esiste un trattamento standard per tutti ma numerose opzioni terapeutiche da verificare caso per caso in cui, dopo una attenta valutazione di tutti fattori di rischio, il colloquio tra l’endocrinologo, il chirurgo ed ovviamente l’interessato riveste un ruolo fondamentale nel proporre il trattamento più adeguato», ha ribadito Giovanni Docimo, Presidente SIUEC.
Screening disponibili
«Ricordiamo che l’unico screening di massa necessario per le patologie tiroidee (in atto, per legge, da molto tempo nel nostro paese) è lo screening per l’ipotiroidismo congenito, che ancora oggi rappresenta la più frequente endocrinopatia dell’infanzia e che grazie allo screening consente di identificare i neonati affetti, e iniziare subito la terapia che risolverà il quadro clinico, ma che dovrà essere portata avanti per tutta la vita. Lo screening per l’ipotiroidismo congenito, durante i suoi 50 anni di storia, ha permesso, grazie all’intervento tempestivo, di prevenire il ritardo psico-motorio e mentale nei soggetti affetti dalla citata patologia», aggiunge Malgorzata Wasniewska, presidente eletto SIEDP.
«Siamo impegnati a portare e facilitare, attraverso tutte le nostre iniziative sul territorio, un’adeguata e corretta informazione che pensiamo possa aiutare il paziente a “convivere” con queste patologie croniche. Il loro eventuale riconoscimento all’interno delle malattie croniche non trasmissibili comporterà un beneficio sia clinico che economico per i pazienti che ne sono portatori», spiega Anna Maria Biancifiori, Presidente CAPE
Presa Weekly 17 Maggio 2024
PreSa WeeklyVegano è meglio, ecco perché
Alimentazione, NewsVegano è meglio? Domanda per nulla semplice e motivo di discussione tra i sostenitori delle proteine animali e i puristi del veg a tutti i costi. Se non una risposta definitiva, ma almeno un’indicazione molto chiara arriva da uno studio di revisione tutto italiano, pubblicato sulla rivista Plos One. È stato necessario analizzare vent’anni di studi sull’alimentazione per poter affermare che sì, lo stile alimentare vegano o vegetariano fa bene, non a caso sono generalmente associate a uno stato migliore rispetto a vari fattori medici e a un minor rischio di malattie cardiovascolari, cancro e morte, ma non possono essere adottate da tutti e a prescindere da tutto.
Vegano sì, ma serve equilibrio
Insomma, secondo gli esperti queste diete devono essere equilibrate ed è importante che vengano associate a un corretto stile di vita. Davide Gori (Dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna) e Federica Guaraldi (Irccs Istituto delle Scienze neurologiche di Bologna) mettono in guardia da raccomandazioni su larga scala di diete a base vegetale, in primo luogo perché alcune diete a base vegetale possono introdurre carenze di vitamine e minerali in persone che hanno una specifica predisposizione. Per esempio, evidenzia Guaraldi, bisogna evitare magari quei regimi green troppo stringenti in alcuni periodi della vita, come per esempio la gravidanza.
Maggior rischio oncologico
La decisione di rivedere vent’anni di studi sull’alimentazione nasce dalla volontà di comprendere meglio alcuni aspetti emersi sulle diete. Studi precedenti avevano collegato alcuni regimi alimentari con un aumento del rischio di malattie cardiovascolari e cancro, osservano gli autori. Una dieta povera di prodotti vegetali e ricca di carne, cereali raffinati, zucchero e sale è associata a un rischio maggiore di morte. Ed è stato suggerito che ridurre il consumo di prodotti di origine animale a favore di prodotti di origine vegetale possa ridurre questi rischi.
Lo studio
Tuttavia, ragionano gli scienziati, i benefici complessivi di tali diete rimangono poco chiari. Per approfondire, Angelo Capodici (Dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna) e colleghi hanno esaminato poco meno di 50 articoli pubblicati tra gennaio 2000 e giugno 2023, che raccoglievano prove da molteplici studi precedenti. Seguendo un approccio di revisione “a ombrello”, hanno estratto e analizzato i dati sui collegamenti tra diete a base vegetale, salute cardiovascolare e rischio di cancro.
Benefici evidenti
L’analisi rivela che le diete vegetariane e vegane sono strettamente collegate a una migliore salute, riducendo fattori di rischio legati a malattie cardiometaboliche, cancro e mortalità. Queste diete mostrano un impatto positivo su pressione sanguigna, gestione della glicemia e indice di massa corporea. I benefici includono un minore rischio di cardiopatia ischemica, cancro gastrointestinale e prostatico, e mortalità per malattie cardiovascolari. Tuttavia, tra le donne incinte, le vegetariane non presentano differenze significative nel rischio di diabete gestazionale e ipertensione rispetto a quelle che seguono una dieta non vegetariana.
Serve cautela
Gli autori sottolineano che le diete a base vegetale offrono notevoli benefici per la salute, in particolare per la salute cardiovascolare e la prevenzione del cancro. Tuttavia, le differenze tra gli studi in termini di regimi dietetici, dati demografici e durata dello studio limitano la forza di questa associazione. Pertanto, è importante interpretare i risultati con cautela. È essenziale anche garantire che una stile vegano sia equilibrato, evitando l’eccesso di succhi di frutta e frutta e mantenendo la moderazione.
Il peso dell’alimentazione
Gori aggiunge che lo studio ha raggiunto un elevato livello di evidenza aggregando le migliori ricerche disponibili, dimostrando che la dieta è un fattore chiave nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcuni tipi di cancro. Sebbene le ricerche provengano da diverse parti del mondo, il messaggio principale è che consumare meno carne e più verdura può avere un effetto protettivo, un fattore cruciale dato che l’alimentazione ci espone a rischi almeno tre volte al giorno, mentre una dieta corretta può funzionare come una terapia.
Melanoma in aumento, nuove raccomandazioni
Prevenzione, Associazioni pazienti, Bambini, NewsSono state pubblicate sull’European Journal of Cancer le raccomandazioni stilate da esperti provenienti da 5 continenti e da società scientifiche internazionali. Si tratta della prima consensus mondiale di esperti sulla prevenzione dei tumori della pelle, tra cui il melanoma, e sulla corretta fotoprotezione basata su evidenze scientifiche. Secondo gli specialisti l’esposizione intenzionale e imprudente alle radiazioni solari o alle fonti artificiali di radiazioni UV per abbronzarsi è un comportamento malsano e andrebbe evitato perché rappresenta il “driver” principale dell’insorgenza dei tumori della pelle.
La parola d’ordine è: proteggersi con un’adeguata fotoprotezione, utilizzare indumenti, cappello a tesa larga e occhiali da sole. Inoltre applicare senza lesinare una protezione solare con fattore 30-50 + ed etichetta UVA su tutte le aree cutanee che non possono essere protette dagli indumenti. Infine gli specialisti dicono no all’utilizzo dei lettini solari.
Queste raccomandazioni sono state prodotte da esperti internazionali provenienti da 5 continenti – Africa, America, Asia, Australia ed Europa – e dalle società scientifiche European Association of Dermato Oncology, Euromelanoma, Euroskin, European Union of Medical Specialists e Melanoma World Society.
La consensus internazionale di esperti ha visto come coautrici le professoresse Maria Concetta Fargnoli, Vice Presidente SIDeMaST e Professore Ordinario di Dermatologia presso l’Università degli Studi dell’Aquila e Ketty Peris Past President SIDeMaST e Professore Ordinario di Dermatologia presso l’Università Cattolica di Roma. Tra gli italiani anche la professoressa Caterina Longo dell’Università di Modena e Reggio Emilia, il professore Giovanni Pellicani dell’Università Sapienza di Roma e Iris Zalaudek dell’Università di Trieste.
I numeri del melanoma
Nelle popolazioni con la pelle chiara, si stima che fino al 95% dei tumori cheratinocitari maligni, quali il carcinoma basocellulare e squamocellulare, e il 70-95% dei melanomi siano causati dalle radiazioni UV. In altre parole, una percentuale significativa di tumori della pelle può essere prevenuta riducendo le radiazioni UV inutili ed eccessive attraverso un’efficace fotoprotezione.
Vacanze invernali fattore di rischio per scottature
“La maggioranza della popolazione europea va in vacanza al sole, spesso più volte all’anno – evidenzia la professoressa Maria Concetta Fargnoli – questo comportamento è profondamente radicato, sarà difficile da modificare e tale cambiamento potrà richiedere decenni. Dobbiamo quindi iniziare con messaggi chiari e inequivocabili, sicuramente radicali, ma che andrebbero inclusi nell’attività educazionale per il paziente. Si guadagnerebbe inoltre molto tempo se almeno i dermatologi parlassero la stessa lingua”.
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Aumenta incidenza del melanoma
L’aumento dell’incidenza del melanoma, rileva lo studio, può essere evidenziato analizzando l’andamento nel lungo termine. Ad esempio, nel 1950 il Registro dei tumori danese ha documentato un caso di melanoma ogni 100mila abitanti, passando a tre casi ogni 100mila nel 1970, quindi a dieci casi nel 1990, 25 casi nel 1990 e 50-70 casi previsti per il 2036.
L’aumento di 50 volte in meno di 90 anni è unico tra tutti i tumori e l’andamento dell’incidenza dei tumori cheratinocitari è molto simile, secondo gli studi.
Bambini più a rischio
Gli individui di pelle chiara, in particolare i bambini, dovrebbero quindi ridurre al minimo la loro esposizione alle radiazioni UV, adottando misure di protezione solare quando si prevede che l’indice UV, che quantifica l’intensità della radiazione UV solare sulla superficie terrestre, raggiunge il valore di 3 o superiore.
“Un’adeguata fotoprotezione – spiega la Professoressa Ketty Peris – deriva dalla combinazione di più misure quali cercare l’ombra, l’utilizzo di indumenti, cappelli e occhiali e l’applicazione di schermi solari sulle zone scoperte. Tuttavia, nella pratica clinica, le persone tendono a sovrastimare la protezione fornita dagli schermi solari, con una falsa sensazione di rassicurazione quando vanno al mare e si espongono al sole. Questo potrebbe favorire un comportamento a rischio per l’insorgenza dei tumori della pelle”.
Come proteggersi con abiti e occhiali
Secondo gli esperti, risultano strategiche le proprietà protettive di abiti, cappelli e occhiali da sole. Gli studi epidemiologici dimostrano una riduzione del rischio di scottature solari, di sviluppo di nevi nei bambini e di melanoma proprio grazie alla protezione solare offerta dagli abiti rispetto alle creme solari.
Le proprietà protettive degli indumenti variano in base al tipo di fibra (poliestere, nylon > lana, seta > cotone), alla densità della trama, al colore (i coloranti contribuiscono a bloccare i raggi UV), al design (ad esempio, maniche lunghe, colletto) e all’incorporazione di molecole che assorbono i raggi UV. Gli indumenti con un elevato fattore di protezione UV sono inoltre particolarmente utili in condizioni di elevata esposizione ai raggi UV, come gli sport all’aperto e gli sport acquatici. I cappelli dovrebbero avere tese larghe per proteggere il cuoio capelluto, il viso, il collo e le orecchie.
Un’adeguata fotoprotezione, aggiungono le esperte, dovrebbe perciò includere la riduzione della fotoesposizione intenzionale modificando le abitudini di vita in riferimento all’andare al mare e alla ricerca dell’abbronzatura: “Questo consentirebbe di continuare a svolgere le nostre attività professionali o di svago esponendoci al sole in sicurezza e senza danni”.
Prevenzione riduce il peso economico della patologia
La protezione dai raggi UV ha un ritorno positivo in termini di investimento perché consente di ridurre l’incidenza della malattia e quindi il suo peso economico. Dai dati della WHO un tumore su 3 è un tumore della pelle. La riduzione dell’esposizione ai raggi UV rappresenta quindi una strategia cruciale per controllare la recente epidemia di tumori cutanei.
“I politici dovrebbero comunicare al pubblico messaggi forti sulla protezione dai raggi UV e scoraggiare l’uso di fonti di radiazioni UV artificiali commerciali, attraverso una regolamentazione rigorosa o preferibilmente un divieto. Dovrebbero garantire la comunicazione e l’educazione della popolazione sull’indice UV giornaliero, ad esempio con i bollettini meteorologici, e creare strutture con ombra all’aperto nelle scuole e nelle aree ricreative” suggerisce infine la prof Fargnoli.
I cibi Cenerentola della dieta mediterranea
Alimentazione, News, Stili di vitaDici dieta mediterranea e pensi all’olio extravergine d’oliva e alle verdure di stagione. Certo, non è un errore, ma c’è molto di più. A ricordarci degli “alimenti Cenerentola” è una dettagliata indagine condotta da diverse università mediterranee, che ha riscoperto l’importanza di alimenti come noci, semi, spezie, oltre a uova, latticini e persino il vino rosso. Tutti pilastri della dieta mediterranea, troppo spesso trascurati a causa della “standardizzazione alimentare”.
Comprendere la dieta mediterranea
Il Journal of Translational Medicine ha pubblicato una review curata da un consorzio di istituzioni accademiche provenienti da diverse regioni del Mediterraneo, tra cui gli atenei di Catania, Parma, il Politecnico delle Marche, l’Irccs Neuromed di Pozzilli e l’Universidad Europea del Atlántico in Spagna. Questo studio mette in evidenza la necessità di una maggiore consapevolezza e comprensione della dieta mediterranea nella sua interezza.
Il Festival dei Cinque Colori
Un momento importante per riscoprire l’importanza di tutti gli alimenti della dieta mediterranea è il Festival dei Cinque Colori, giunto alla sua seconda edizione e di scena al Maschio Angioino di Napoli. Questi alimenti spesso trascurati, come uova, latticini, noci, semi, spezie e vino rosso, sono al centro dell’attenzione di medici, artisti, sportivi e rappresentanti delle istituzioni. Maria Teresa Carpino, presidente dell’associazione Pancrazio e mente dietro il Festival dei Cinque Colori, spiega che il numero 5 simboleggia i 5 colori del benessere, ognuno legato a specifici alimenti cruciali per un’alimentazione equilibrata. Questi colori rappresentano una vasta gamma di componenti della dieta mediterranea, spesso trascurate nelle discussioni tradizionali.
Dai cereali ai latticini
Giuseppe Morino, pediatra e dietologo dell’ospedale Bambino Gesù nonché direttore scientifico del Festival, ricorda che frutta, verdura e olio d’oliva sono ampiamente studiati, altri alimenti come cereali integrali, legumi, noci, semi, erbe e spezie, uova, latticini e vino rosso hanno ricevuto meno attenzione. Le uova, spesso viste come fonte di colesterolo, sono invece ricche di proteine, vitamine e minerali essenziali. Le prove scientifiche indicano che le proteine delle uova sono facilmente digeribili e forniscono una serie di amminoacidi essenziali. I latticini, come latte, burro, yogurt e formaggi, sono parte integrante della dieta mediterranea da millenni. Nonostante i timori riguardo agli acidi grassi saturi, le evidenze suggeriscono che il loro impatto sul colesterolo LDL sia limitato.
Noci e spezie
Le noci e i semi sono altri elementi chiave spesso trascurati. Mentre le noci sono associate a un minor rischio di malattie cardiometaboliche, l’effetto dei semi sulla salute è ancora oggetto di studio. Le erbe e le spezie, ampiamente utilizzate nella cucina mediterranea, offrono numerosi benefici per la salute, tra cui proprietà antiossidanti e antinfiammatorie. Infine, il vino rosso, consumato moderatamente, è parte integrante della tradizione mediterranea, nonostante le controversie sul consumo di alcol nelle linee guida dietetiche moderne. Naturalmente, serve sempre il buon senso, ma ampliare la consapevolezza sui vari alimenti che compongono la dieta mediterranea può portare a una migliore comprensione dei suoi molteplici benefici per la salute e favorire scelte alimentari più consapevoli e salutari.
Parkinson, studio rivela nuovi meccanismi
News, Ricerca innovazioneLa bradicinesia (lentezza nei movimenti) e la rigidità muscolare – sintomi della malattia di Parkinson – hanno un’evoluzione indipendente e rispondono in maniera diversa ai trattamenti nel corso del tempo. È quanto hanno scoperto i ricercatori dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (Isernia), dell’Università Sapienza di Roma e dell’Università di Grenoble, attraverso uno studio condotto in collaborazione con altri colleghi di istituzioni scientifiche italiane ed internazionali. Prima dei risultati di questa nuova ricerca si pensava infatti che, contrariamente al tremore, bradicinesia e rigidità fossero strettamente correlati tra loro nella progressione della patologia.
La ricerca sul Parkinson
La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Annals of Neurology, ha esaminato i dati clinici di 301 pazienti affetti da malattia di Parkinson trattati con stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation – DBS) e seguiti per quindici anni. Questa terapia prevede l’inserimento di elettrodi all’interno del cervello in grado di regolare il funzionamento di alcuni circuiti nervosi attraverso impulsi elettrici, migliorando i disturbi tipici della malattia di Parkinson. Una sorta di “pacemaker” per il sistema nervoso. L’intervento è noto per il suo impatto positivo sui sintomi motori della malattia di Parkinson, ma finora, la comprensione di come i diversi sintomi rispondano al trattamento nel lungo termine è stata limitata.
Nuove scoperte
“Con il nostro studio – afferma il professor Antonio Suppa, coordinatore della ricerca – abbiamo scoperto che la bradicinesia e la rigidità, pur essendo entrambi sintomi motori, mostrano evoluzioni cliniche differenti dopo l’intervento di stimolazione cerebrale profonda. Questo ci fa pensare che i meccanismi alla base della bradicinesia e della rigidità possano essere diversi tra loro, un dato che apre la strada ad una nuova interpretazione dei meccanismi neuronali implicati nella malattia di Parkinson”.
“La ricerca – conclude il dottor Alessandro Zampogna, primo autore dello studio – indica che una personalizzazione del trattamento, adattandolo alle caratteristiche del singolo paziente, potrebbe migliorare significativamente la qualità della vita dei malati. Per questo motivo le prossime ricerche punteranno proprio ad approfondire le modalità di stimolazione cerebrale profonda e, soprattutto, ad esplorare come le variazioni nei parametri di stimolazione possano influenzare diversamente i sintomi cardine della malattia”.
Celiachia in aumento: 70% donne. Giornata mondiale
Alimentazione, Associazioni pazientiLa Celiachia è una malattia intestinale infiammatoria permanente con tratti di auto-immunità. Nei soggetti geneticamente predisposti viene scatenata dall’assunzione del glutine. Si stima che solo il 3% delle persone predisposte sviluppi effettivamente la malattia. Il glutine è un complesso proteico che si trova in alcuni cereali, come frumento, segale, orzo, farro, spelta, grano Khorasan (spesso in commercio come KAMUT®), triticale.
Sintomi
La celiachia ha un quadro clinico molto variabile, sia per gravità sia per gli organi che colpisce. Si va dalla forma classica (diarrea, dolori addominali, perdita di peso) a forme più atipiche che portano a sintomi extra-intestinali (ad esempio: vomito, affaticamento, perdita di capelli, ulcere e lesioni ricorrenti nella bocca, infertilità, abortività spontanea, disturbi del comportamento alimentare). Le persone celiache spesso tendono a sviluppare malattie autoimmuni, come tiroidite, lupus, diabete di tipo 1.
Una variante epidermica della Celiachia è la Dermatite Erpetiforme che provoca lesioni cutanee che regrediscono dopo l’eliminazione del glutine dalla dieta. La diagnosi di Celiachia inizia dal medico di medicina generale e dal pediatra, prevede analisi del sangue di specifici anticorpi e biopsia dell’intestino tenue, eseguiti mentre la dieta comprende ancora
glutine. La dieta senza glutine è l’unica terapia disponibile e va seguita per tutta la vita.
Numeri della celiachia in Italia
Sono 251.939 le persone celiache in Italia (dati Ministero della Salute, 2022). Le donne sono oltre il doppio degli uomini. Inoltre consolidate evidenze scientifiche epidemiologiche stimano che la celiachia riguardi l’1% della popolazione, in Italia e nel mondo. Nel nostro paese, quindi, sono circa 400 mila i casi non ancora diagnosticati.
Giornata mondiale della Celiachia
“La celiachia e il diabete di tipo 1 hanno un impatto sulla salute e sul servizio sanitario che non deve essere sottovalutato e l’Italia con il programma di screening nazionale per la popolazione pediatrica sta dando un segnale rilevante di attenzione e di impegno. Un impegno continuo e costante, in sinergia con le associazioni e il Parlamento, che va dalla prevenzione ai contributi per la dieta, dalla formazione all’informazione fino alla ricerca”. Con queste parole, il Ministro della Salute, Prof. Orazio Schillaci, ha aperto i lavori di un incontro tenutosi a palazzo Giustiniani, in concomitanza con la Giornata Mondiale della Celiachia che si celebra il 16 maggio. Un evento promosso dalla Sen. Elena Murelli, presidente dell’Intergruppo Parlamentare Malattia Celiaca, Allergie Alimentari e Alimenti ai Fini Medici Speciali che ha visto il confronto tra rappresentanti delle istituzioni, clinici, esponenti delle associazioni di pazienti e del mondo advocacy.
Ruolo dell’informazione
In Italia il 56 per cento della popolazione dichiara di essere affatto o poco informato sulla celiachia e il 30 per cento ritiene che questa condizione patologica non sempre può essere grave. Una fotografia, offerta da un’analisi condotta dall’Istituto Bhave,in collaborazione con la rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief (IHPB), che conferma la sottovalutazione nel percepito di questa malattia cronica autoimmune e che, in buona parte, ci dice del molto che ancora resta da fare per informare, sensibilizzare, organizzare e formare.
Tutti presupposti, questi, per rendere più omogeneo ed efficiente in tutte le regioni la risposta sanitaria e innalzare il livello della qualità della vita di oltre 250 mila pazienti celiaci già diagnosticati, ma anche per favorire l’identificazione e la diagnosi certa di un segmento di popolazione – si stima che sia di almeno 350mila persone – che non è mai stato diagnosticato. Una malattia che, secondo la relazione al Parlamento del Ministero della Salute, registra 9/10.000 casi ogni anno, colpendo il 70 per cento della popolazione femminile e il restante 30 per cento di quella maschile, con una tendenza in crescita costante.
Scopo dell’incontro, a un anno dalla costituzione dell’Intergruppo Parlamentare, dare conto delle attività sviluppate da questo organismo alla luce di un preciso patto di legislatura e dello stato dell’arte del Disegno di Legge 623 (Protezione dei soggetti malati di celiachia e disposizioni per la prevenzione e l’informazione in merito alla malattia) attualmente all’esame del Senato – del quale la stessa Sen. Murelli è prima firmataria – ma anche valutare lo stato di attuazione della Legge 130/2023 in materia di programmi diagnostici per l’individuazione della celiachia e del diabete in età pediatrica, oltre a raccogliere elementi per l’attività da sviluppare in futuro da parte dei membri del Comitato Tecnico-scientifico e Sociale (CTSS) che affianca il lavoro dell’Intergruppo Parlamentare.
Celiachia spesso non diagnosticata
“La celiachia è una malattia autoimmune sempre più frequente e i casi non diagnosticati sono molti, come molte e in aumento sono le allergie alimentari. Queste problematiche nutrizionali hanno estrema necessità di una nuova stagione basata su una “convergenza sociale” sempre più ampia tra sanità, azioni educativo-scolastiche, formazione e, più in generale, cultura dell’intervento” – ha dichiarato la Sen. Elena Murelli in apertura dei lavori – sono queste le direttrici alla base dell’impegno del nostro intergruppo parlamentare, concepite all’insegna di una costruttiva collaborazione con il Ministero della Salute e il Governo. Per quanto riguarda il Disegno di legge di cui sono prima firmataria – ha proseguito la Sen. Murelli – è prevista la circolarità, sull’intero territorio nazionale dei buoni utilizzati mensilmente dai celiaci per comprare prodotti senza glutine, che ora hanno valenza regionale. Inoltre, è prevista la dematerializzazione dei buoni nelle quattro Regioni che ancora li utilizzano in modo cartaceo.
Riteniamo poi fondamentale l’informazione, non solo nelle scuole, ma soprattutto la formazione, in primis quella degli operatori HO.RE.CA. È anche previsto l’inserimento nella certificazione HACCP di un modulo specifico per la celiachia, in modo tale che siano tutti informati sul pericolo della contaminazione nel processo di preparazione e somministrazione dei cibi per garantire un pasto senza glutine per tutti. Abbiamo fatto passi avanti, molti sono i negozi specializzati e le aziende che hanno diversificato la produzione, aprendo ai prodotti gluten free. L’opera di sensibilizzazione è importante – aggiunge la senatrice – specie per i più giovani, per non subire discriminazioni con possibili ricadute psicologiche”.
Linee guida
Linee guida concepite con un riferimento alle più avanzate esperienze internazionali e definite in sintonia con le associazioni dei pazienti, formazione e sensibilizzazione nel mondo della scuola, oltre che nel settore dell’hospitality e della ristorazione, semplificazione/sburocratizzazione e omogeneità di accesso sul territorio ai cibi gluten-free, potenziamento e valorizzazione dell’attività di screening per una diagnosi precoce sulla popolazione, specie in ambito pediatrico, grazie ad una solida formazione dei clinici. “Questi sono i pilastri sui quali deve poggiare la nuova stagione di un più efficiente contrasto della celiachia – ha dichiarato Rossella Valmarana, Presidente dell’Associazione Italiana Celiachia – un tema di salute pubblica che interessa la vasta platea dei pazienti celiaci, oltre a due milioni di persone colpite da allergie alimentari in Italia”.
Formazione dei clinici
Dell’importanza dell’adeguata formazione dei clinici ai fini di una diagnosi precoce si è occupata durante i lavori la Prof.ssa Antonella Polimeni, rettrice della Sapienza Università di Roma, che nel corso del suo intervento, ha messo in evidenza come la formazione basata sulla conoscenza scientifica della malattia celiaca nella medicina specialistica sia il vero traguardo per lo screening precoce della malattia e come le lesioni sentinella possano talora essere l’unica osservazione clinica della stessa.
Il Dott. Giuseppe Cerrone, capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Merito e Pubblica Istruzione e membro del CTSS dell’Intergruppo Parlamentare, ha sottolineato che “l’obiettivo del Ministero dell’istruzione e del merito è, da un lato, quello di rafforzare la formazione professionale dei docenti prevedendo, grazie ad uno specifico intervento previsto nel Disegno di legge 623, che durante il percorso annuale di formazione e prova del personale docente ed educativo vengano svolte attività formative e di sensibilizzazione sulla celiachia e sulla dieta senza glutine e, dall’altro, quello di favorire la promozione di attività e iniziative didattiche all’interno di tutte le scuole del sistema nazionale di istruzione che rendano consapevoli i giovani studenti sulla rilevanza delle intolleranze alimentari. Con particolare riguardo, poi, agli istituti alberghieri, il Ministero dell’istruzione e del merito si impegnerà, altresì, a supportare la previsione del Disegno di legge 623 affinché i relativi percorsi di studio prevedano il rafforzamento da parte degli studenti di specifiche competenze relative alla preparazione e al servizio di prodotti per la malattia celiaca e la dieta senza glutine”.
La centralità della formazione riguarda anche il segmento sociale di coloro che sono impegnati nel variegato mondo degli operatori/preparatori/somministratori alimentari, dal cui operato dipende la sicurezza delle persone con celiachia. Il Dott. Umberto Scognamiglio della Società Italiana di Nutrizione Umana ha affermato: “Tutti i professionisti della nutrizione hanno l’importante compito di educare non solo i pazienti affetti da celiachia o i loro familiari, ma anche quanti a vario titolo sono responsabili delle offerte alimentari nel settore pubblico e commerciale. Ci riferiamo alla aziende di ristorazione collettiva così come alla ristorazione commerciale i cui operatori devono avere contezza delle buone pratiche per la gestione degli alimenti per i soggetti celiaci, della loro preparazione e conservazione, al fine di limitare il più possibile i pericoli legati alla contaminazione di glutine nell’alimento consumato dal celiaco”.
L’indagine condotta dall’Istituto Bhave, ha posto in evidenza anche un altro dato piuttosto interessante: tra le preoccupazioni dei genitori di bambini celiaci si pone al primo posto – 26 per cento – il rischio che il bambino possa mangiare qualcosa di non idoneo alla sua dieta, condividendo il cibo con altri bambini; un esempio, questo, che indica una volta di più quali e quante siano le problematiche che caratterizzano la quotidianità di pazienti e famiglie; problematiche che troverebbero buona parte della soluzione con attività di sensibilizzazione nelle scuole, contribuendo alla crescita di cittadini capaci di accettare le differenze alimentari. In questo l’attività quotidiana delle associazioni pazienti può essere un valido aiuto per le istituzioni e gli enti pubblici.
Dieta senza glutine, unica terapia
La dieta senza glutine, rigorosa e da seguire tutta la vita, è l’unica terapia per chi ha la celiachia. A
supporto dei pazienti e delle famiglie e allo scopo di prevenire le gravi complicanze della malattia
non curata, il Servizio Sanitario Nazionale garantisce ai celiaci una assistenza integrativa prevista nei
Livelli Essenziali di Assistenza – LEA. Per facilitare i pazienti e le famiglie nella selezione degli
alimenti idonei alla propria dieta tra quelli considerati a rischio, AIC realizza e pubblica ogni anno il
Prontuario degli Alimenti, un manuale che raccoglie circa 20.000 prodotti reperibili sul mercato,
inseriti dopo un accurato controllo degli ingredienti e dei processi produttivi.
Il Prontuario viene distribuito a tutti gli associati AIC, ai servizi di ristorazione, alle mense, ai
ristoranti, ai dietisti e, per i soci, è consultabile anche online e dalla APP AIC Mobile.
Post Covid, cos’è la Mip-C
Covid, News, Ricerca innovazioneLa pandemia da Covid è ormai alle spalle, ma come si presupponeva il virus ha ancora in serbo qualche scherzo. Un recente studio condotto da un gruppo di ricercatori internazionali ha portato alla luce una scoperta significativa: la ricerca, pubblicata su eBIOMedicine, ha identificato una nuova condizione autoimmune associata al Sars-CoV-2.
Sindrme autoimmune
Questa nuova sindrome, denominata “autoimmunità Mda5 e polmonite interstiziale contemporanea con Covid” o più semplicemente Mip-C, è il retaggio terribile del virus ed è preoccupante perché può svilupparsi anche in individui che presentano sintomi lievi o addirittura nessun sintomo di Covid. Secondo quanto riportato nello studio, sono stati identificati otto decessi su 60 casi descritti, fatto che mette in evidenza la gravità potenziale di questa condizione.
Non è come il Covid
Tuttavia, gli esperti rassicurano che al momento il numero di casi è limitato e non rappresenta una minaccia. Quindi, benché sia importante portare avanti questi studi, per gli esperti è fondamentale sottolineare che al momento non rappresenta un problema diffuso nella pratica clinica. Sì, il Sars-CoV-2 può innescare reazioni autoimmuni e potenzialmente esacerbare alcune condizioni preesistenti, ma non ci sarebbe motivo di credere che questo possa generare un nuovo allarme.
Monitoraggio
La scoperta solleva importanti questioni sulla comprensione del Covid-19 e delle sue implicazioni a lungo termine sulla salute. Anche se al momento la Mip-C sembra essere un fenomeno raro, la ricerca continua a illuminare i meccanismi complicati di interazione tra il virus e il sistema immunitario umano. Dunque, anche questo studio sottolinea l’importanza di continuare a monitorare da vicino i pazienti post-Covid e di condurre ulteriori ricerche per comprendere appieno le implicazioni a lungo termine del virus.
Maggiore comprensione
Se la scoperta della Mip-C può suscitare preoccupazioni legittime, è importante mantenere una prospettiva equilibrata. Gli esperti sottolineano che, sebbene il Covid-19 abbia portato alla luce nuove sfide mediche, la maggior parte delle persone che si riprendono dall’infezione non sviluppa complicazioni autoimmuni gravi. Tuttavia, la ricerca continua a essere fondamentale per affrontare queste sfide emergenti.
Cellule tumorali dormienti
News, Ricerca innovazioneLe cellule tumorali dormienti sono un vero e proprio enigma nella battaglia contro il cancro. Mentre alcune di queste cellule si staccano dal tumore primario per rimanere inerti, altre si trasformano in metastasi, causando oltre il 90% dei decessi correlati al cancro. Tuttavia, una recente ricerca condotta dall’Università di Heidelberg e dal Centro Tedesco per la Ricerca sul Cancro (DKFZ) ha gettato luce su questo fenomeno, aprendo nuove prospettive per la terapia oncologica.
Lo studio
Pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Cancer a febbraio 2024, lo studio ha svelato un intricato meccanismo che regola il destino delle cellule tumorali dopo il distacco dal tumore primario. Attraverso esperimenti condotti su modelli animali, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sulle metastasi polmonari, identificando una possibile spiegazione per la dormienza cellulare.
Il DNA delle cellule tumorali
Il cuore della scoperta risiede nell’approccio epigenetico. Le modifiche alla struttura del DNA, note proprio come modifiche epigenetiche, influenzano l’espressione genica senza alterare la sequenza del DNA. Tra queste, la metilazione del DNA ha attirato particolare interesse. Gli scienziati hanno osservato che le cellule tumorali con un basso livello di metilazione tendono a rimanere in uno stato di dormienza, mentre quelle con un DNA più metilato sono propense a generare metastasi. Già oggi esistono molte terapie per combattere le metastasi e il rischio che si formino, ma i limiti sono ancora enormi.
Prevenzione del rischio
Mentre alcune cellule si arrestano, insomma, altre proliferano all’interno dei vasi sanguigni, avviando il processo metastatico. Ma cosa significa tutto questo per la terapia del cancro? Secondo gli autori dello studio, questa scoperta potrebbe rivoluzionare il modo in cui affrontiamo il cancro. Utilizzando i dati di metilazione del DNA, potremmo essere in grado di prevedere il rischio di recidiva nei pazienti, consentendo un intervento terapeutico mirato e personalizzato.
Verso nuove cure
Tuttavia, prima di tradurre questi risultati nella pratica clinica, è necessario validare questi meccanismi nei tumori umani. Gli studi futuri dovranno confermare se le scoperte fatte nei modelli animali possano essere applicate alle persone. Questa ricerca non solo fornisce una maggiore comprensione della dormienza delle cellule tumorali, ma offre anche una speranza tangibile nella lotta contro le metastasi. Con ulteriori approfondimenti, potremmo finalmente risolvere uno dei più grandi problemi in campo oncologico: il cancro metastatico.
Post partum, 7-8 neomamme su 10 con malinconia
Bambini, Genitorialità, NewsDopo il parto si affronta un periodo di adattamento che dura generalmente sei settimane. In questo periodo, la madre si trova a fronteggiare una serie di cambiamenti nel suo corpo e nelle sue emozioni, mentre cerca di riorganizzare la sua vita quotidiana. Si stima che 7-8 neomamme su 10 sperimentino, nel post partum, uno stato di malinconia chiamata Baby (o maternity) blues. Si tratta di una fase transitoria che dura normalmente una settimana/dieci giorni, dovuta alla brusca riduzione dei livelli ormonali. È tuttavia importante porre attenzione a questo periodo poiché il 20 per cento delle donne che presentano Baby blues può manifestare successivamente un peggioramento dei sintomi e un’evoluzione in una depressione post partum.
Cosa prevede il SSN
Attualmente, il sistema sanitario nazionale non ha un percorso standardizzato di visite post-parto. Di solito, si programma una visita con un ginecologo o un’ostetrica dopo circa quaranta giorni dal parto. Alcuni ospedali offrono servizi di assistenza post-parto, i principali punti di riferimento sono le strutture locali come i Consultori, che offrono visite a domicilio gratuite da parte di ostetriche, consulenze presso la struttura, supporto telefonico, assistenza all’allattamento, corsi di massaggio infantile, supporto psicologico, visite ginecologiche e consulenze sulla contraccezione post-parto. Inoltre, ci sono associazioni locali che offrono sostegno gratuito alle neomamme e forniscono spazi per il confronto e la condivisione.
Prevenzione post partum, il progetto di Fondazione Onda
Fondazione Onda ha rilanciato il progetto, nato nel 2010, con nuovi strumenti informativi attraverso il sito www.depressionepostpartum.it: FAQ, con il supporto incondizionato di Haleon. Sul sito, oltre alle informazioni utili per affrontare ansia e depressione perinatale, è disponibile l’elenco dei Centri e delle associazioni aderenti all’iniziativa di Fondazione Onda ETS, censiti nella sezione “Trova Aiuto” per la consultazione da parte dell’utenza. Si tratta di una rete di oltre 80 enti sul territorio che offre aiuto concreto neomamme.
Supporto post partum
«Per informare le donne sull’importanza del periodo post partum – dichiara Francesca Merzagora, Presidente Fondazione Onda ETS – e in particolare sugli aspetti emotivi e psicologici che possono emergere in questo delicato momento della vita, abbiamo coinvolto medici esperti che hanno risposto a una serie di domande fornendo informazioni preziose e rassicuranti. Sappiamo quanto sia cruciale sentirsi supportate e ben informate durante il periodo post partum, sia per il benessere della madre che per quello del neonato. È per questo che abbiamo realizzato anche un decalogo e video interviste, con l’intento di non lasciare sole le donne in questa fase delicata, ma di accompagnarle con consigli pratici e approfondimenti utili».
Prevenzione post partum, dall’alimentazione al supporto psicologico
«Il periodo dopo il parto è molto faticoso per la neomamma, sia in termini fisici che emotivi», spiega Irene Cetin, Direttrice Ostetricia Clinica Mangiagalli del Policlinico di Milano, Professoressa Ordinaria di Ginecologia all’Università degli Studi di Milano. «A livello fisico, il pavimento pelvico, cioè il piano muscolare che sostiene la pelvi, viene sottoposto a notevole stress già durante la gravidanza e poi durante il parto: importante quindi seguire i consigli di ostetrica e ginecologo al momento della dimissione dall’ospedale. I 40 giorni dopo il parto che vengono chiamati puerperio sono un periodo molto delicato per la vita della donna, che è appena reduce dal periodo della gravidanza.
In questo periodo inizia anche la fase dell’allattamento che richiede attenzione dal punto di vista di idratazione e alimentazione; sicuramente in questo periodo, dopo tutta la fatica della gravidanza e del parto, è probabile che ci sia bisogno di integrazioni con vitamine e minerali. Il periodo del post-parto, pur essendo un momento tanto atteso, può anche essere accompagnato da qualche difficoltà emotiva perché il calo degli ormoni porta a un aumento di rischio di una vera e propria depressione.
Questa situazione va riconosciuta, affrontata e curata, chiedendo aiuto sia in ospedale che nelle strutture territoriali. La vicinanza e l’ascolto alla neomamma risultano quindi di fondamentale importanza per sostenerla, aiutarla in una corretta alimentazione con una particolare attenzione alla supplementazione, e supportarla psicologicamente per la ripresa di una vita normale».
Anniverno: sintomi non vanno sottovalutati
«L’epoca del post-partum è sovente identificata come un periodo di benessere fisico e mentale per la donna, che dopo la ripresa dal parto si trova ad accompagnarsi al nuovo nato pensato in genere come un periodo di grande soddisfazione materna», commenta Roberta Anniverno, Responsabile Centro Psiche Donna, ASST Fatebenefratelli Sacco – Ospedale Macedonio Melloni. «In realtà il benessere perinatale non è un vantaggio fisiologicamente acquisito, che tutte le donne sperimentano come sovente si immagina. Il periodo del post-partum deve essere infatti attenzionato sia a livello fisico che mentale.
Gravidanze che possono esitare in parti complicati possono lasciare conseguenze sia sul piano ostetrico ginecologico sia sul piano psichico. Tutto è superabile con le indicazioni e le cure giuste, ma con tempi e con esiti diversi da quelli che una puerpera normalmente si attende. Portare attenzione alla fisicità della donna neomamma, al suo sentirsi nel corpo che di nuovo cambia, al suo percepire sintomi che vanno riferiti ed indagati, aiuta a costruire un assetto fisico capace di sostenere la cura per il proprio bambino. “Se sto male e non mi curo non sono di aiuto a me stessa e neppure a mio figlio”. La medesima cosa si incontra sul piano psichico, sappiamo come i primi mesi di post-partum siano quelli più delicati per la comparsa di sintomi ansiosi o di depressione e come non vadano sottovalutate anche le alterazioni emotive relative alla brusca caduta estroprogestinica, che costituiscono il Baby blues e che si dissolvono entro 7-10 gg dopo il parto.
Il benessere mentale della puerpera è importante da proteggere e da attenzionare poiché influisce sulla relazione di cura con il proprio bambino. Non si tratta tanto e solo della capacità di prendersi cura del proprio figlio, di occuparsi dei suoi bisogni primari, quanto di entrare in una graduale sintonizzazione emotiva che permette di costruire quella che viene indicata come una sana relazione di attaccamento che fa evolvere la diade in una sorta di danza armonica e funzionale per il neurosviluppo del proprio bambino».