Tempo di lettura: 5 minutiOgni anno in Italia ci sono tra i 130 mila e i 150 mila nuovi casi di Infarto Miocardico Acuto. Oltre 25 mila pazienti muoiono prima di arrivare al ricovero. Se le cure registrano standard elevati, per quanto riguarda la prevenzione c’è ancora molto da fare. L’8% dei pazienti ricoverati muore entro 30 giorni dalla dimissione dall’ospedale. Circa l’8-10% muore entro un anno. Dal 16 al 20% delle persone che sopravvivono a un infarto muoiono entro 12 mesi dal ricovero ospedaliero.
In generale nel nostro Paese, i pazienti con Infarto Miocardico Acuto ricevono cure di alto livello. Infatti, procedure come l’angioplastica e la coronarografia hanno ridotto la mortalità a 30 giorni dall’evento acuto dal 16% all’8%.
I cardiologi del SSN utilizzano al meglio le risorse farmacologiche, combinando i farmaci più efficaci. Tuttavia, è necessario migliorare la gestione dei fattori di rischio e il percorso di cura per ridurre l’incidenza dell’infarto e la mortalità. Sono alcune delle indicazioni dell’Audit clinico condotto dall‘ANMCO – Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri con il sostegno non condizionante di Amgen e presentato al 55° Congresso nazionale dell’associazione.
Risultati dell’Audit clinico dell’ANMCO
L’Audit clinico ha indagato l’operato di molte strutture e operatori sanitari italiani. In tutto ha coinvolto 50 Centri cardiologici ospedalieri e 500-600 cardiologi. Ogni struttura ha ricevuto un report dettagliato, per poi iniziare una fase di formazione mirata a migliorare gli indicatori principali e la qualità complessiva delle cure.
I risultati hanno mostrato miglioramenti significativi nei percorsi di cura. Il follow up è migliorato: la percentuale di pazienti che hanno fatto una visita di controllo a 4-6 settimane dalla dimissione è salita dal 70% a oltre l’80%. È aumentata anche la percentuale di pazienti che ha raggiunto gli obiettivi terapeutici raccomandati dalle Linee Guida. Inoltre i livelli di sicurezza del colesterolo sono migliorati, salendo dal 65% a oltre l’80%.
Tecniche di rivascolarizzazione
Le tecniche di rivascolarizzazione hanno dimezzato la mortalità entro i 30 giorni, che in passato superava il 15%. Tuttavia, la mortalità fuori ospedale non è migliorata. Questo evidenzia l’importanza di seguire i pazienti adeguatamente anche sul territorio, per assicurare la continuità delle terapie e della riabilitazione cardiologica, sottolinea l’associazione.
Cos’è l’infarto miocardico acuto
Si verifica quando il flusso sanguigno diretto al cuore si interrompe improvvisamente. L’Infarto Miocardico Acuto (IMA) è causato da un restringimento o un’ostruzione (coagulo) di una o più arterie coronarie. Se non si interviene rapidamente per ripristinare il flusso, l’area del cuore coinvolta viene danneggiata dalla mancanza di ossigeno e va incontro a necrosi dei tessuti.
Cause
La causa principale dell’Infarto Miocardico Acuto è l’aterosclerosi (ATS). Questo processo patologico progressivo è dovuto all’accumulo di materiale lipidico (grasso) sulle pareti delle arterie coronarie. Nel tempo, questo porta alla formazione delle cosiddette ‘placche’ (ARTS). Una placca può rompersi all’improvviso e creare un coagulo che può crescere fino ad occludere completamente il vaso arterioso.
Sintomi dell’Infarto Miocardico Acuto
L’Infarto Miocardico Acuto può essere annunciato da diversi sintomi, tra cui il dolore costrittivo e violento al centro del petto, senso di pesante oppressione, dolore bruciante che può irradiarsi alla mascella, alle spalle, alle mani o alla schiena. Altri sintomi possono essere sudorazione fredda, affanno, debolezza o senso di svenimento. Nelle donne, possono manifestarsi anche vertigini, dolore addominale e senso di stordimento.
Fattori di rischio modificabili
I fattori di rischio modificabili includono uno stile di vita sedentario, il fumo di tabacco, un’alimentazione ipercalorica e ricca di grassi e carboidrati, sovrappeso e obesità, colesterolo alto (ipercolesterolemia), ipertensione e diabete. Questi fattori possono essere gestiti attraverso cambiamenti nello stile di vita.
Fattori di rischio non modificabili
I fattori di rischio non modificabili includono l’età, infatti con l’avanzare degli anni il rischio di infarto aumenta. Il sesso è un altro fattore, con l’infarto più frequente negli uomini in età giovanile-adulta, mentre dopo la menopausa il rischio si equipara tra i due sessi. Anche la familiarità gioca un ruolo importante.
Diagnosi dell’infarto miocardico acuto
La diagnosi di infarto miocardico acuto viene effettuata a partire dalla storia familiare e clinica del paziente. Questa viene seguita da esami di laboratorio e indagini strumentali. Le analisi del sangue valutano i markers specifici di necrosi del miocardio, in particolare lo sviluppo di troponine, CK o CK-MB, che vanno ripetute più volte nel tempo.
Le indagini strumentali includono l’elettrocardiogramma (ECG), che segnala i cambiamenti delle onde elettriche del muscolo cardiaco ed eventuali aritmie (battiti anomali del cuore). La radiografia del torace, ecocardiografia e angiografia coronarica, servono, invece, a individuare le ostruzioni presenti nelle arterie coronarie. L’angiografia può essere seguita dalla procedura di angioplastica per ripristinare il flusso di sangue attraverso l’impianto di stent.
Terapie per l’infarto miocardico avuto
Le cure attuate in reparto intensivo dipendono dal tipo di infarto e dalla gravità. Queste sono standardizzate da precise linee guida nazionali e internazionali. L’intervento più importante è il ripristino e il mantenimento del flusso sanguigno nel più breve tempo possibile.
Le terapie farmacologiche includono trombolitici, acido acetilsalicilico, eparina, antidolorifici, nitroglicerina, beta-bloccanti, ipolipemizzanti, morfina e ACE-inibitori. Tra le procedure interventistiche, l’angioplastica con stent coronarici è la più comune. Nei casi più seri, si ricorre all’intervento di bypass coronarico.
Post infarto: prevenzione delle recidive
Dopo la dimissione, il paziente deve adottare una serie di misure per evitare delle recidive. Includono terapie ipolipemizzanti da assumere in maniera continuativa come prescritto dal cardiologo curante, controlli periodici, riabilitazione cardiologica e attenzione allo stile di vita.
Oltre a ridurre il rischio di incorrere in un secondo evento ischemico, l’obiettivo di queste misure è migliorare la qualità della vita del paziente, favorendo un ritorno alla normalità, alla vita lavorativa e di relazione.
«La cardiologia italiana ha un ruolo sempre più centrale e attivo all’interno del Servizio Sanitario Nazionale – dichiara Fabrizio Oliva, Presidente ANMCO e Direttore Cardiologia 1 Ospedale Niguarda di Milano – siamo positivamente colpiti dai dati di Audit clinico che ha verificato l’operato di un cospicuo numero di strutture e operatori sanitari italiani, con un’attenzione particolare alla prevenzione secondaria dei pazienti con Infarto Miocardico Acuto».
Ridurre la mortalità
«Ci sono margini rilevanti per ridurre la mortalità post infartuale dei pazienti italiani e per tali ragioni abbiamo voluto guardare cosa succede dentro le nostre cardiologie e attivare un processo interno di verifica, valutazione e formazione volto a migliorare il governo clinico, l’attività delle strutture cardiologiche ospedaliere e la gestione del paziente con sindrome coronarica acuta – afferma Furio Colivicchi, Past President ANMCO, Direttore Cardiologia Clinica e Riabilitazione Ospedale San Filippo Neri, Roma e Coordinatore nazionale del programma Audit clinico di ANMCO».
Pazienti molto più anziani che in passato e nuove terapie
Oggi i pazienti ricoverati per infarto sono molto più anziani che in passato, con molteplici fattori di rischio e spesso pregressi infarti. La maggior parte dei pazienti è sottoposta ad angioplastica e la quasi totalità è sottoposta a coronarografia. L’Audit ha messo in luce anche la rivoluzione nell’approccio terapeutico dell’ipercolesterolemia. I cardiologi italiani hanno recepito l’indicazione della comunità cardiologica internazionale per l’utilizzo di terapie di combinazione e impiegano in misura crescente farmaci biologici innovativi, come gli anticorpi monoclonali anti PCSK9, per ridurre il colesterolo LDL nella fascia di pazienti più gravi e ad altissimo rischio di successivi eventi ischemici.
Disparità nell’assistenza territoriale
«I risultati ottenuti – commenta Furio Colivicchi – dimostrano l’efficacia dell’Audit clinico come strumento che può favorire il cambiamento e il miglioramento della pratica clinica ed evidenziano il forte impegno della cardiologia ospedaliera italiana nei confronti dei pazienti con infarto per garantire loro trattamenti ottimali, e ridurre così le recidive, abbattere la mortalità e migliorare la qualità di vita.
Parte integrante di questo impegno è la costruzione della continuità assistenziale ospedale-territorio, in modo da non disperdere quanto si fa durante il ricovero e aiutare i pazienti ad affrontare la riabilitazione cardiologica, continuare nel tempo i controlli e proseguire nell’arco della vita le terapie avviate in ospedale. Oggi ci confrontiamo con un’assistenza cardiologica territoriale ancora molto frammentata. L’auspicio è che tale situazione possa migliorare a fronte dei fondi messi a disposizione del PNRR e del futuro nuovo Piano Sanitario Nazionale».
Poliposi nasale per 2 mln di italiani, aumentano rinosinusiti
Farmaceutica, News, Ricerca innovazioneNon si conoscono con esattezza le cause, né si può garantire la guarigione: le Rinosinusiti croniche (che in sé colpiscono il 11% della popolazione) quando associate a Poliposi nasale (circa il 4% della popolazione, ossia 2 mln di italiani adulti), possono durare tutta la vita. Causano danni alla mucosa nasale e all’olfatto, impattano sulla qualità della vita e del sonno delle persone affette.
La poliposi nasale
“La poliposi nasale è uno stato di infiammazione cronica che porta ad un edema della mucosa ed una eccessiva produzione di muco nel naso. Riduce o fa perdere l’olfatto ed è, a sua volta, causa di infezioni secondarie di natura batterica ai seni paranasali non più sufficientemente ventilati” spiega il Professor Fabio Pagella, Otorinolaringoiatra all’Università di Pavia e coordinatore del Comitato scientifico di Rinologia SIOeChCF durante il 110° Congresso Nazionale della Società Italiana di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico Facciale in corso a Bergamo.
Cause sconosciute, legame con allergie
Non si conoscono le origini di queste patologie. Sebbene si manifestino nel naso, spesso le infiammazioni interessano tutto l’apparato respiratorio (sia le alte sia le basse vie aeree). Spesso l’otorinolaringoiatra necessita di coordinare un’equipe multidisciplinare costruita attorno al paziente.
“Sappiamo, per esempio, che esiste una connessione tra le Riniti allergiche, condizioni che colpiscono quasi un terzo della popolazione e sono in aumento in tutti i Paesi industrializzati. Essenziale è la diagnosi precoce delle allergie, e il loro trattamento al fine di ridurre il rischio di sviluppare poliposi e infiammazioni croniche nel naso”.
Poliposi spesso necessita di terapie per tutta la vita
Il problema principale della Poliposi è la durata del trattamento. “Spesso i pazienti si stancano di assumere farmaci tutti i giorni – spiega Pagella – ma è importante comunicare che il trattamento deve essere quotidiano e, potenzialmente, per tutta la vita. In una Poliposi o una Rinosinusite cronica ben inquadrata e con aderenza alla terapia i sintomi possono essere trattati molto efficacemente. Molto importante, anche e soprattutto nei bambini con riniti/sinusiti, è l’igiene e il lavaggio nasale con soluzioni saline così da ottimizzare la terapia topica”.
Ruolo dello specialista nella scelta della terapia
“Attenzione, però, ad andare in farmacia senza una prescrizione dello specialista, sottolinea lo specialista. I prodotti sono tanti ma anche molto diversi tra loro; alcuni da usare solo pochi giorni, altri più a lungo. In generale, possiamo dire che l’applicazione topica (locale) del cortisone offre ottimi risultati: riduce l’infiammazione senza gli effetti collaterali associati all’assunzione sistemica”.
“Anche la chirurgia endoscopica del naso – prosegue – permette di intervenire rimuovendo i polipi refrattari a farmaci e, ove tutto questo non fosse sufficiente per restituire benessere e qualità della vita, l’ultima frontiera in questo ambito è data dai farmaci biologici. Questi farmaci agiscono a monte sul percorso dell’infiammazione e stanno dando buoni risultati sebbene la loro prescrizione sia regolata in maniera molto rigida e restrittiva”.
Poliposi severa e farmaci biologici
“I farmaci biologici o innovativi vengono prescritti dall’otorinolaringoiatra per una poliposi severa, cioè una sinusite cronica polipoide refrattaria alle terapie mediche normalmente utilizzate (lavaggi nasali, corticosteroide topico e eventualmente 2 cicli anno di corticosteroide sistemico), cui può seguire l’approccio chirurgico. Qualora tutto questo non dia risultati, allora si può passare alla terapia biologica in aggiunta alla terapia ottimale che rimane sempre il lavaggio nasale e l’impiego di corticosteroidi – interviene il professor Giancarlo Ottaviano, Otorinolaringoiatra dell’Università di Padova.
Nuove terapie per la poliposi
”Per la poliposi nasale – prosegue Ottaviano – oggi abbiamo tre tipi di anticorpi monoclonali che permettono sostanzialmente di bloccare la cascata infiammatoria in maniera molto specifica. Vengono dati appunto come terapia aggiuntiva ogni due settimane sottocute oppure una volta al mese, a seconda del farmaco biologico e delle caratteristiche del paziente. Sono farmaci che possono essere considerati innovativi perché queste patologie coinvolgono sia le alte che le basse vie respiratorie, quindi sia il naso e i seni paranasali ma anche i bronchi, in pazienti che hanno spesso asma, allergie, intolleranza all’aspirina per esempio. Dare un farmaco biologico significa agire sostanzialmente a livello sistemico bloccando la cascata infiammatoria non solo a livello nasale ma anche a livello bronchiale”.
Importante aderenza alla terapia e approccio multidisciplinare
“In definitiva – prosegue il Professor Fabio Pagella – Rinosinusiti croniche e Poliposi nasale possono essere trattate sì in maniera efficace, ma rimane il fatto che diagnosi specialistica, aderenza alla terapia e un approccio multidisciplinare che veda il paziente al centro di un’equipe di specialisti, sono i requisiti per preservare o recuperare qualità della vita e salute delle vie aeree”.
“Da decenni le rinosinusiti croniche (con o senza poliposi) vengono trattate con farmaci come antibiotici, cortisonici e antiistaminici, senza che si abbia poi una perfetta conoscenza dei meccanismi fisiopatologici alla base di queste patologie. Negli ultimi anni sta diventando sempre più evidente che vi sono diverse forme di rinosinusite cronica, caratterizzate da profili biologici differenti. È pertanto fondamentale che i pazienti ricevano una diagnosi precoce ed accurata, definita attraverso un percorso multidisciplinare (otorinolaringoiatra, allergologo e pneumologo sono i più importanti nell’elenco degli specialisti coinvolti) e un trattamento (medico e chirurgico, laddove indicato) il più possibile personalizzato” conclude il presidente SIOeChCF professor Piero Nicolai, Ordinario di Otorinolaringoiatria presso l’Università degli Studi di Padova.
Alzheimer, prevenzione possibile nel 40% dei casi
Anziani, NewsSono oltre sei milioni le persone in Italia interessate direttamente o meno dalle demenze. Si stima che siano circa 1,1-1,2 milioni di persone, a cui si devono aggiungere circa quattro milioni di familiari e badanti coinvolti e circa 900mila persone con deficit cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment – MCI). Non esistono cure, ma è possibile una prevenzione che eviti o ritardi la comparsa dei sintomi nel 40% dei casi. Le strategie contro l’alzheimer e tutte le demenze vanno da un corretto stile di vita, base dell’invecchiamento in salute, alla stimolazione cognitiva e alla socializzazione, fino ad una gestione geriatrica che abbia una visione complessiva della persona. Se n’è discusso al 38° Congresso Nazionale della Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio che si chiude oggi.
Alzheimer, i 12 fattori di rischio
La prevenzione dell’Alzheimer e delle demenze in generale è possibile intervenendo sui fattori di rischio nel corso di tutta la vita. Include la possibilità di stimolazione cognitiva (per esempio strategie di allenamento della memoria), socializzazione, attività fisica e dieta secondo i principi dell’invecchiamento attivo o healthy aging, e quanto dimostrato dalla ricerca scientifica.
“Il declino cognitivo è evitabile, ma dipende dal patrimonio genetico, dall’ambiente in cui viviamo e dallo stile di vita, ossia i comportamenti durante tutto il corso dell’esistenza, a partire dall’attività fisica e dalla dieta – spiega Luca Cipriani, Direttore UO Geriatria ASL Roma 1 e Vicepresidente SIGOT –. La letteratura scientifica sull’Alzheimer identifica dodici fattori di rischio modificabili: istruzione inadeguata, ipertensione, deficit uditivo, fumo, obesità, depressione, inattività fisica, diabete, scarso contatto sociale, lesioni cerebrali traumatiche, abuso di alcol, inquinamento atmosferico. Il rischio potenzialmente modificabile è del 40%. Le azioni specifiche che si possono prendere includono il mantenimento della pressione sanguigna sistolica al di sotto di 130 mm Hg nella mezza età, la promozione dell’uso di apparecchi acustici, la riduzione dell’esposizione all’inquinamento atmosferico e al fumo passivo, la prevenzione delle lesioni cerebrali, la limitazione del consumo di alcol, lo scoraggiamento del fumo, un buon livello di istruzione, il contrasto all’obesità e al diabete, una buona qualità del sonno. Occorre inoltre attribuire un ruolo centrale alla geriatria, affinché possa prendere in carica la persona anziana che è a maggior rischio di sviluppo di demenza”.
Mancanza di un nuovo piano nazionale demenze dal 2014
Più del 40% degli ultra 75enni vive da solo ed è a rischio di solitudine. Inoltre, essendo aumentata la vita media, la probabilità di incorrere nel decadimento cognitivo e nella demenza è molto più alta rispetto al passato. I dati più recenti emergono dal Report dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato a inizio 2024, che stima anche il costo annuo della demenza in 23 miliardi di euro, il 63% dei quali a carico delle famiglie.
“La prevalenza dell’Alzheimer e delle demenze in generale è in aumento, in quanto si tratta di un tema legato all’invecchiamento, fenomeno che interessa da vicino il nostro Paese – sottolinea Andrea Fabbo, direttore della UO di Geriatria della AUSL di Modena e Vicepresidente SIGOT. – La demenza è una sindrome ad alto impatto, che aumenterà nei prossimi anni, creando ulteriori difficoltà e stress nelle famiglie, viste le complicanze legate ai disturbi del comportamento (agitazione, problemi del sonno). Si deve pertanto potenziare l’assistenza sia a domicilio che nelle strutture, visto che il 70% delle 350mila persone ricoverate nelle RSA ha una qualche forma di demenza. Al tempo stesso si deve creare una rete che permetta alle persone con demenza e ai loro caregiver di poter essere gestiti nella comunità.
Il Fondo nazionale Alzheimer di 35 milioni di euro permetterà alle regioni di proseguire i progetti iniziati nell’organizzazione della rete dei centri per i disturbi cognitivi e le demenze. L’obiettivo a cui stiamo lavorando al tavolo tecnico coordinato dal Ministero della Salute è un nuovo Piano Nazionale, visto che il precedente risale al 2014 e non si occupa della residenzialità. Questo ambizioso obiettivo potrà essere raggiunto se inserito nell’agenda politica del Paese”.
Il modello di Modena
Un esempio virtuoso nella prevenzione e nella gestione dei disturbi cognitivi è quello di Modena dove è strutturata una rete di servizi (dall’ospedale al territorio) che si occupa non solo della diagnosi, cura ed assistenza delle persone con demenza e del suo caregiver, ma anche degli anziani “a rischio”, per esempio attraverso progetti di comunità come “le Palestre della memoria”, luoghi di aggregazione dove le persone esercitano le proprie funzioni cognitive in compagnia.
“L’approccio alla patologia non risiede solo nella capacità di cura di un farmaco, ma nel ricorso a diverse azioni che possono risolvere specifici aspetti dell’Alzheimer – spiega Andrea Fabbo che ne è responsabile –. Oggi abbiamo la possibilità di erogare trattamenti di tipo non farmacologico (i cosiddetti ‘interventi psicosociali’), che possono rallentare il decorso della demenza e che eroghiamo nella nostra rete di cura. Offriamo poi supporto ai familiari con interventi sia a domicilio che nelle residenze, interventi educativi e terapia occupazionale, di affiancamento, tutoring, sostegno socio-relazionale al caregiver, percorsi di sostegno psicologico individuale o di gruppo e interventi di supporto psico-educativo, iniziative di formazione”.
Presa Weekly 24 Maggio 2024
PreSa WeeklyIn Italia è abuso di creme antibiotiche
PrevenzioneL’uso eccessivo e spesso improprio di creme antibiotiche in Italia è diventato un problema di salute pubblica preoccupante. La Società Italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e di Malattie Sessualmente Trasmesse (SIDeMaST) ha lanciato un allarme basato su uno studio condotto da un gruppo di esperti, che ha prodotto un documento di raccomandazioni per contrastare questa tendenza.
I dati sull’abuso delle creme antibiotiche
Secondo i dati raccolti, ogni anno in Italia vengono utilizzate oltre 278 milioni di dosi di creme antibiotiche, di cui più di 168 milioni solo di gentamicina. Questo uso massiccio ha portato a un preoccupante aumento delle infezioni cutanee resistenti agli antibiotici, con un incremento di un terzo rispetto agli anni precedenti.
Gli effetti dell’abuso di antibiotici locali
L’uso eccessivo di antibiotici topici per trattare infezioni cutanee superficiali è stato dichiarato inefficace. Le ferite e le ustioni lievi sono spesso contaminate da una varietà di microrganismi che non rispondono agli antibiotici specifici. Questo abuso riduce drasticamente la sensibilità agli antibiotici comuni come la gentamicina.
La resistenza del staphylococcus aureus
Uno dei risultati più allarmanti dello studio riguarda il staphylococcus aureus, il batterio responsabile del 40% delle infezioni cutanee batteriche. Questo batterio ha mostrato un crescente tasso di resistenza agli antibiotici topici più utilizzati, in particolare alla gentamicina. Su 148 mila campioni prelevati da pazienti in 105 ospedali, solo 98 su 299 ceppi di staphylococcus aureus hanno mostrato sensibilità alla gentamicina, indicando un’alta resistenza batterica.
Le raccomandazioni della SIDeMaST
Giuseppe Argenziano, presidente della SIDeMaST e direttore della Clinica Dermatologica dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” di Napoli, ha sottolineato l’importanza di limitare l’uso di antibiotici locali. “Il ricorso massiccio e improprio alla terapia antibiotica locale anche per le infezioni cutanee superficiali è inefficace e pericoloso”, ha affermato Argenziano. Egli raccomanda l’uso di antisettici locali, che possono essere applicati tramite garze o cerotti, come alternativa più sicura ed efficace.
Le raccomandazioni
L’abuso di creme antibiotiche in Italia rappresenta una minaccia crescente alla salute pubblica, contribuendo alla diffusione di infezioni resistenti agli antibiotici. È essenziale seguire le raccomandazioni degli specialisti e limitare l’uso di antibiotici locali solo ai casi strettamente necessari, favorendo l’uso di antisettici per trattamenti più sicuri e appropriati. La sensibilizzazione su questo tema è cruciale per ridurre l’incidenza delle infezioni antibiotico-resistenti e preservare l’efficacia degli antibiotici per il futuro.
Pertosse, esplosione di ricoveri
Bambini, News, NewsUn’epidemia di pertosse sta colpendo i neonati e i lattanti che non sono stati vaccinati. L’allarme arriva dai pediatri italiani, che parlano di tre morti dall’inizio dell’anno e di un preoccupante aumento dell’800% dei ricoveri rispetto allo scorso anno. In Italia da gennaio a maggio 2024 sono stati registrati 110 ricoveri, con oltre 15 in terapia intensiva di piccoli lattanti e tre neonati deceduti. E la cosa ancor più preoccupante è che il dato dei ricoveri sarebbe sottostimato. L’allerta della Società italiana di pediatria arriva dopo l’allarme dell’Ecdc su quasi 60mila casi in Europa nel 2023 fino ad aprile 2024, con una crescita di oltre 10 volte sul 2022 e 2023. Allerta che segue quella per la bronchiolite.
Cos’è la pertosse
La pertosse, conosciuta anche come tosse convulsa, è una malattia infettiva acuta delle vie respiratorie causata dal batterio Bordetella pertussis. Questa patologia è altamente contagiosa e colpisce principalmente i bambini, ma può manifestarsi anche negli adulti. Il batterio Bordetella pertussis si attacca alle ciglia del tratto respiratorio superiore e rilascia tossine che paralizzano le ciglia e causano infiammazione delle vie respiratorie, portando ai sintomi caratteristici della malattia.
Sintomi della pertosse
I sintomi della pertosse si sviluppano in tre fasi distinte:
Come si cura la pertosse
Il trattamento della pertosse si basa principalmente sulla somministrazione di antibiotici, che sono più efficaci se iniziati durante la fase catarrale. Gli antibiotici, come l’azitromicina, l’eritromicina e la claritromicina, possono ridurre la gravità e la durata dei sintomi se somministrati precocemente e aiutano a prevenire la diffusione dell’infezione.
Gestione dei sintomi
Per poter affrontare al meglio i sintomi della pertosse è fondamentale mantenere il bambino idratato e riposato. L’ideale è fare in modo che l’ambiente non sia troppo secco, in particolare un umidificatore d’aria può alleviare la secchezza delle vie respiratorie. È essenziale evitare gli irritanti. Fumo e polvere possono aggravare la tosse, quindi è sempre bene che la stanza sia ben pulita e che si favorisca un continuo ricambio d’aria.
Prevenzione
La vaccinazione è il metodo più efficace per prevenire la pertosse. Il vaccino DTaP (difterite, tetano e pertosse acellulare) è somministrato nei bambini in diverse dosi a partire dai due mesi di età. Anche gli adulti e gli adolescenti dovrebbero ricevere un richiamo del vaccino Tdap (tetano, difterite e pertosse acellulare) per mantenere l’immunità. Riconoscere i sintomi e iniziare tempestivamente il trattamento con antibiotici può ridurre significativamente il rischio di complicazioni. Ecco perché, se ci sono campanelli d’allarme, è sempre bene rivolgersi al pediatra di famiglia.
Dieta e rischio cancro, scoperto anello mancante
Alimentazione, News, Prevenzione, Stili di vitaLa chiave della relazione tra dieta e rischio di cancro potrebbe essere in alcuni cambiamenti nel metabolismo del glucosio in grado di disattivare un gene protettivo dai tumori, il BRCA2.
La scoperta, fatta da un team di ricercatori di Singapore e del Regno Unito e pubblicata sulla rivista CeIl, spiegherebbe perché diete squilibrate e malattie come il diabete aumentano il rischio oncologico.
“Nell’articolo –spiega il Prof. Angelo Avogaro, Presidente SID – i ricercatori hanno identificato il meccanismo attraverso il quale gli elevati livelli di glucosio, (iperglicemia), potrebbero aiutare la crescita del cancro. L’iperglicemia disabiliterebbe temporaneamente un gene che ci protegge dai tumori chiamato BRCA2 (acronimo di BReast CAncer gene 2). Quando questo gene funziona poco o male aumenta la suscettibilità non solo al cancro della mammella ma anche ad altri tumori”.
Dieta e legame con il rischio cancro, lo studio
Il team di ricercatori ha prima esaminato le persone che avevano ereditato una copia difettosa di BRCA2 e hanno scoperto che le cellule di queste persone erano più sensibili al metilgliossale (MGO), un composto che viene prodotto in grandi quantità quando nel sangue vi è iperglicemia. Proprio il metabolismo del glucosio è responsabile di oltre il 90% del MGO presente nelle cellule: livelli elevati possono portare alla formazione di radicali liberi, composti dannosi che danneggiano il DNA e le proteine. In condizioni come il diabete dove i livelli di MGO sono elevati a causa dell’alto livello di zucchero nel sangue, questi composti dannosi contribuiscono alle complicanze della malattia.
I ricercatori hanno scoperto che il MGO può disattivare temporaneamente le funzioni antitumorali, provocando mutazioni legate allo sviluppo del cancro. Questo effetto potrebbe essere osservato nelle cellule non cancerose e nei campioni di tessuto derivati dai pazienti, in alcuni casi di cancro al seno umano e in modelli murini di cancro al pancreas. “Le cellule esposte ripetutamente al MGO possono continuare ad accumulare mutazioni che causano il cancro ogni volta che la produzione della proteina BRCA2 esistente fallisce” sottolinea il Professor Avogaro “Ciò suggerisce che i cambiamenti nel metabolismo del glucosio possono interrompere la funzione antitumorale, e positiva, del BRCA2, contribuendo allo sviluppo e alla progressione del cancro”.
Dieta
Sbalzi nei livelli di glucosio annullano protezione da tumori
Iniziato con l’intento di comprendere i fattori che aumentano il rischio di cancro nelle famiglie a rischio, lo studio ha rivelato il ruolo del processo di glicolisi che trasforma il glucosio in energia. In sintesi, i cambiamenti nei livelli di glucosio possono inibire le funzioni protettive e riparatrici del gene BRCA2a causa dei MGO e contribuire allo sviluppo della malattia. La buona notizia è che in condizioni favorevoli il gene può tornare a svolgere le sue funzioni di sentinella.
Sviluppi futuri
La notizia positiva è che il metilgliossale è ricavabile mediante un semplice esame del sangue (HDA1C) e che livelli adeguati della sostanza possono essere controllati con una dieta corretta e con farmaci.
Per confermare questi risultati saranno necessari studi ulteriori ma il merito dei ricercatori è aver spiegato il meccanismo per cui una dieta scorretta o un diabete non adeguatamente controllato possono aumentare la suscettibilità oncologica.
Così le adolescenti rischiano la dipendenza
News, PsicologiaEsattamente come accade con le droghe, anche lo smartphone e i social possono dare dipendenza. E le ragazzine, le adolescenti, sono le più sensibili al rischio di cadere nella “rete”. Sono dati scioccanti quelli che emergono da una ricerca finlandese sull’uso dei social media e dei cellulari e pubblicata sulla rivista Archives of Disease in Childhood. Molte adolescenti, infatti, passano quasi 6 ore al giorno sui loro smartphone, impugnano il telefono in media 115 volte al giorno, e quasi una su 5 (17%) di queste ragazzine è probabilmente dipendente dai social media e a rischio di disturbi mentali.
Lo studio sulla dipendenza da smartphone
I ricercatori hanno contattato tutte le 49 scuole superiori in tre grandi città della Finlandia: Helsinki, Espoo e Vantaa, coinvolgendo 1164 studentesse di 15-16 anni. L’uso medio giornaliero dello smartphone, basato su almeno 3 giorni di dati, era disponibile per 656 adolescenti (56,5%) e, per 7 giorni di dati, per 298 adolescenti (26%). L’uso medio giornaliero dello smartphone era di 350 minuti, ovvero 5,8 ore al giorno, con un tempo medio trascorso sui social di 231 minuti, pari a 3,9 ore. Dati dettagliati sulle app più frequentemente utilizzate erano disponibili per 564 adolescenti (48,5% del totale).
Dipendenza
Comportamenti compulsivi e ansia
In tutto, 205 (poco più del 36,3% di quelle con dati disponibili) trascorrevano meno di 3 ore al giorno sui social, mentre 77 (14%) vi trascorrevano 6 o più ore. Le ragazze prendevano in mano il telefono da 58 a 356 volte al giorno (media 145). Per circa 1 su 5 (115; 20,5%) le app più frequentemente utilizzate includevano giochi, con un uso medio di 24 minuti al giorno. Ben 183 (17%) adolescenti erano possibilmente dipendenti dai social media. E oltre un terzo (371; 37%) ha ottenuto punteggi superiori alla soglia per un potenziale disturbo d’ansia.
Solitudine
Il tempo giornaliero trascorso sui social era associato a una media dei voti più bassa, punteggi più alti di dipendenza dai social, livelli più alti di ansia e un’immagine corporea peggiore. La dipendenza dai social peggiora anche l’umore, aumenta la stanchezza e instaura maggiori sensazioni di solitudine. “Le implicazioni di quasi 6 ore di utilizzo giornaliero dello smartphone e le sue associazioni con il benessere degli adolescenti sono serie”, concludono gli autori.
Medici di famiglia, si cambia
Economia sanitaria, NewsSe in passato l’ospedale è stato considerato il luogo centrale per la cura, oggi si punta invece ad assistere sul territorio e, in questo senso, la medicina generale assume un ruolo centrale. Un obiettivo, quello della presa in carico puntuale e di prossimità, che è ben chiaro ai medici di famiglia, che ora potranno cantare anche sul supporto gestionale e organizzativo della cooperazione medica di servizio, così da sviluppare la sanità territoriale.
Protocollo d’intesa
In questo senso va la firma di un protocollo d’intesa siglato da Legacoop (che tramite Sanicoop associa oltre il 50% delle circa 150 cooperative mediche operanti nel territorio nazionale) e FIMMG (Federazione italiana Medici di Medicina Generale). L’accordo punta ad assicurare la presa in carico del bisogno di salute del paziente, la gestione della complessità e della cronicità, a sviluppare azioni di prevenzione, nell’ambito dello strumento di rapporto fiduciario paziente-medico di medicina generale, a costruire basi solide per garantire prossimità, diffusione territoriale, accessibilità alle cure, innovazione, diagnostica di primo livello.
Standard omogenei
Il protocollo serve a realizzare tutto questo con standard omogenei tramite l’associazionismo dei medici e la loro organizzazione cooperativa. Un modello già ampiamente sperimentato con successo in tante realtà del territorio nazionale per mettere a disposizione dei medici di medicina generale soci di cooperative i fattori produttivi necessari per l’esercizio della professione, sia obbligatori che facoltativi: sedi, utenze, personale di supporto segretariale ed infermieristico, rete informatiche, piattaforme e device per telemedicina, strumentazione diagnostica, assicurazioni e mezzi di trasporto. Insomma, un modello che rende le Aggregazioni Funzionali Territoriali reale strumento di offerta di servizi e garanzia di standard omogenei.
Case di comunità
Per il segretario generale di FIMMG Silvestro Scotti “il supporto gestionale e organizzativo delle cooperative mediche di servizio rappresenta un punto fermo nel sostegno alla figura di un medico di famiglia libero professionista associato e organizzato. Ma non è tutto, la necessità di promuovere e sviluppare nuove attività nell’area delle cure primarie, come previsto peraltro nell’ACN da poco sottoscritto, dalla trasformazione e dall’evidente moltiplicazione dell’offerta sociosanitaria territoriale può trovare nelle cooperative dei medici di famiglia un pilastro per l’avvio di case di comunità spoke in una logica di prossimità, fiducia e libera scelta del cittadino”.
Strutture e servizi domiciliari e residenziali
Un altro aspetto rilevante del processo di riorganizzazione delle cure territoriali è quello della gestione delle non autosufficienze e di altre situazioni di fragilità, che rende necessari interventi domiciliari integrati o l’assistenza in strutture residenziali. Legacoop e FIMMG ritengono indispensabile che tali strutture e servizi, programmati dal pubblico e sostenuti da una quota rilevante di spesa sanitaria e sociale pubblica, siano affidati nel rispetto di adeguati standard qualitativi. Si potrà quindi realizzare un’integrazione tra il soggetto cooperativo accreditato gestore dei servizi residenziali-domiciliari e la cooperativa medica di supporto delle AFT.
Sanità integrativa e medici di famiglia
La spesa sanitaria complessiva indica la presenza di una quota importante di assistenza erogata al di fuori del sistema pubblico e, difficilmente il SSN sarà in grado di colmare tale domanda, esorbitante ed in continua espansione. Legacoop e FIMMG si renderanno protagonisti per lo sviluppo di forme di integrazione (SSN, sistemi regionali, SMS, Fondi integrativi contrattuali): dalle esperienze realizzate dal mondo cooperativo nel settore della raccolta ed offerta di forme integrative, sia nella intercettazione della domanda che in quella di organizzazione dell’offerta ed erogazione dei servizi. Mantenendo la centralità del paziente tramite il suo progetto unitario di salute.
Sedi e infrastrutture
Il PNRR prevede il finanziamento di sedi sanitarie, strutture residenziali e reti informatiche. Legacoop e FIMMG si impegnano a sostenere gli investimenti pubblici in tali strutture, contribuendo a radicarle concretamente ed in modo efficace nei vari territori, a responsabilizzare le cooperative di MMG e gli altri operatori socio-sanitari nella loro gestione, soprattutto in carenza di personale pubblico, a sostenere gli investimenti di altri soggetti che intendano contribuire alla realizzazione della infrastrutturazione sanitaria e socio-sanitaria territoriale, in primis all’iniziativa promossa in tal senso da ENPAM.
Struttura informatica
Per mettere l’evoluzione tecnologica al servizio della professione medica per ottenere risultati concreti nel miglioramento della salute dei cittadini, FIMMG e Legacoop si impegnano (anche utilizzando le strutture di cui sono dotate e le cooperative che operano nel settore) a perseguire l’accessibilità ai dati da parte di tutti gli operatori del territorio ed al loro trasferimento nella gestione dei progetti di salute dei pazienti. Quindi a contribuire ad una progettazione integrata, alla gestione delle piattaforme e delle strutture informatiche in tutte le sue fasi operative.
Infarto miocardico acuto, dai sintomi alle terapie
News, Prevenzione, Stili di vitaOgni anno in Italia ci sono tra i 130 mila e i 150 mila nuovi casi di Infarto Miocardico Acuto. Oltre 25 mila pazienti muoiono prima di arrivare al ricovero. Se le cure registrano standard elevati, per quanto riguarda la prevenzione c’è ancora molto da fare. L’8% dei pazienti ricoverati muore entro 30 giorni dalla dimissione dall’ospedale. Circa l’8-10% muore entro un anno. Dal 16 al 20% delle persone che sopravvivono a un infarto muoiono entro 12 mesi dal ricovero ospedaliero.
In generale nel nostro Paese, i pazienti con Infarto Miocardico Acuto ricevono cure di alto livello. Infatti, procedure come l’angioplastica e la coronarografia hanno ridotto la mortalità a 30 giorni dall’evento acuto dal 16% all’8%.
I cardiologi del SSN utilizzano al meglio le risorse farmacologiche, combinando i farmaci più efficaci. Tuttavia, è necessario migliorare la gestione dei fattori di rischio e il percorso di cura per ridurre l’incidenza dell’infarto e la mortalità. Sono alcune delle indicazioni dell’Audit clinico condotto dall‘ANMCO – Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri con il sostegno non condizionante di Amgen e presentato al 55° Congresso nazionale dell’associazione.
Risultati dell’Audit clinico dell’ANMCO
L’Audit clinico ha indagato l’operato di molte strutture e operatori sanitari italiani. In tutto ha coinvolto 50 Centri cardiologici ospedalieri e 500-600 cardiologi. Ogni struttura ha ricevuto un report dettagliato, per poi iniziare una fase di formazione mirata a migliorare gli indicatori principali e la qualità complessiva delle cure.
I risultati hanno mostrato miglioramenti significativi nei percorsi di cura. Il follow up è migliorato: la percentuale di pazienti che hanno fatto una visita di controllo a 4-6 settimane dalla dimissione è salita dal 70% a oltre l’80%. È aumentata anche la percentuale di pazienti che ha raggiunto gli obiettivi terapeutici raccomandati dalle Linee Guida. Inoltre i livelli di sicurezza del colesterolo sono migliorati, salendo dal 65% a oltre l’80%.
Tecniche di rivascolarizzazione
Le tecniche di rivascolarizzazione hanno dimezzato la mortalità entro i 30 giorni, che in passato superava il 15%. Tuttavia, la mortalità fuori ospedale non è migliorata. Questo evidenzia l’importanza di seguire i pazienti adeguatamente anche sul territorio, per assicurare la continuità delle terapie e della riabilitazione cardiologica, sottolinea l’associazione.
Cos’è l’infarto miocardico acuto
Si verifica quando il flusso sanguigno diretto al cuore si interrompe improvvisamente. L’Infarto Miocardico Acuto (IMA) è causato da un restringimento o un’ostruzione (coagulo) di una o più arterie coronarie. Se non si interviene rapidamente per ripristinare il flusso, l’area del cuore coinvolta viene danneggiata dalla mancanza di ossigeno e va incontro a necrosi dei tessuti.
Cause
La causa principale dell’Infarto Miocardico Acuto è l’aterosclerosi (ATS). Questo processo patologico progressivo è dovuto all’accumulo di materiale lipidico (grasso) sulle pareti delle arterie coronarie. Nel tempo, questo porta alla formazione delle cosiddette ‘placche’ (ARTS). Una placca può rompersi all’improvviso e creare un coagulo che può crescere fino ad occludere completamente il vaso arterioso.
Sintomi dell’Infarto Miocardico Acuto
L’Infarto Miocardico Acuto può essere annunciato da diversi sintomi, tra cui il dolore costrittivo e violento al centro del petto, senso di pesante oppressione, dolore bruciante che può irradiarsi alla mascella, alle spalle, alle mani o alla schiena. Altri sintomi possono essere sudorazione fredda, affanno, debolezza o senso di svenimento. Nelle donne, possono manifestarsi anche vertigini, dolore addominale e senso di stordimento.
Fattori di rischio modificabili
I fattori di rischio modificabili includono uno stile di vita sedentario, il fumo di tabacco, un’alimentazione ipercalorica e ricca di grassi e carboidrati, sovrappeso e obesità, colesterolo alto (ipercolesterolemia), ipertensione e diabete. Questi fattori possono essere gestiti attraverso cambiamenti nello stile di vita.
Fattori di rischio non modificabili
I fattori di rischio non modificabili includono l’età, infatti con l’avanzare degli anni il rischio di infarto aumenta. Il sesso è un altro fattore, con l’infarto più frequente negli uomini in età giovanile-adulta, mentre dopo la menopausa il rischio si equipara tra i due sessi. Anche la familiarità gioca un ruolo importante.
Diagnosi dell’infarto miocardico acuto
La diagnosi di infarto miocardico acuto viene effettuata a partire dalla storia familiare e clinica del paziente. Questa viene seguita da esami di laboratorio e indagini strumentali. Le analisi del sangue valutano i markers specifici di necrosi del miocardio, in particolare lo sviluppo di troponine, CK o CK-MB, che vanno ripetute più volte nel tempo.
Le indagini strumentali includono l’elettrocardiogramma (ECG), che segnala i cambiamenti delle onde elettriche del muscolo cardiaco ed eventuali aritmie (battiti anomali del cuore). La radiografia del torace, ecocardiografia e angiografia coronarica, servono, invece, a individuare le ostruzioni presenti nelle arterie coronarie. L’angiografia può essere seguita dalla procedura di angioplastica per ripristinare il flusso di sangue attraverso l’impianto di stent.
Terapie per l’infarto miocardico avuto
Le cure attuate in reparto intensivo dipendono dal tipo di infarto e dalla gravità. Queste sono standardizzate da precise linee guida nazionali e internazionali. L’intervento più importante è il ripristino e il mantenimento del flusso sanguigno nel più breve tempo possibile.
Le terapie farmacologiche includono trombolitici, acido acetilsalicilico, eparina, antidolorifici, nitroglicerina, beta-bloccanti, ipolipemizzanti, morfina e ACE-inibitori. Tra le procedure interventistiche, l’angioplastica con stent coronarici è la più comune. Nei casi più seri, si ricorre all’intervento di bypass coronarico.
Post infarto: prevenzione delle recidive
Dopo la dimissione, il paziente deve adottare una serie di misure per evitare delle recidive. Includono terapie ipolipemizzanti da assumere in maniera continuativa come prescritto dal cardiologo curante, controlli periodici, riabilitazione cardiologica e attenzione allo stile di vita.
Oltre a ridurre il rischio di incorrere in un secondo evento ischemico, l’obiettivo di queste misure è migliorare la qualità della vita del paziente, favorendo un ritorno alla normalità, alla vita lavorativa e di relazione.
«La cardiologia italiana ha un ruolo sempre più centrale e attivo all’interno del Servizio Sanitario Nazionale – dichiara Fabrizio Oliva, Presidente ANMCO e Direttore Cardiologia 1 Ospedale Niguarda di Milano – siamo positivamente colpiti dai dati di Audit clinico che ha verificato l’operato di un cospicuo numero di strutture e operatori sanitari italiani, con un’attenzione particolare alla prevenzione secondaria dei pazienti con Infarto Miocardico Acuto».
Ridurre la mortalità
«Ci sono margini rilevanti per ridurre la mortalità post infartuale dei pazienti italiani e per tali ragioni abbiamo voluto guardare cosa succede dentro le nostre cardiologie e attivare un processo interno di verifica, valutazione e formazione volto a migliorare il governo clinico, l’attività delle strutture cardiologiche ospedaliere e la gestione del paziente con sindrome coronarica acuta – afferma Furio Colivicchi, Past President ANMCO, Direttore Cardiologia Clinica e Riabilitazione Ospedale San Filippo Neri, Roma e Coordinatore nazionale del programma Audit clinico di ANMCO».
Pazienti molto più anziani che in passato e nuove terapie
Oggi i pazienti ricoverati per infarto sono molto più anziani che in passato, con molteplici fattori di rischio e spesso pregressi infarti. La maggior parte dei pazienti è sottoposta ad angioplastica e la quasi totalità è sottoposta a coronarografia. L’Audit ha messo in luce anche la rivoluzione nell’approccio terapeutico dell’ipercolesterolemia. I cardiologi italiani hanno recepito l’indicazione della comunità cardiologica internazionale per l’utilizzo di terapie di combinazione e impiegano in misura crescente farmaci biologici innovativi, come gli anticorpi monoclonali anti PCSK9, per ridurre il colesterolo LDL nella fascia di pazienti più gravi e ad altissimo rischio di successivi eventi ischemici.
Disparità nell’assistenza territoriale
«I risultati ottenuti – commenta Furio Colivicchi – dimostrano l’efficacia dell’Audit clinico come strumento che può favorire il cambiamento e il miglioramento della pratica clinica ed evidenziano il forte impegno della cardiologia ospedaliera italiana nei confronti dei pazienti con infarto per garantire loro trattamenti ottimali, e ridurre così le recidive, abbattere la mortalità e migliorare la qualità di vita.
Parte integrante di questo impegno è la costruzione della continuità assistenziale ospedale-territorio, in modo da non disperdere quanto si fa durante il ricovero e aiutare i pazienti ad affrontare la riabilitazione cardiologica, continuare nel tempo i controlli e proseguire nell’arco della vita le terapie avviate in ospedale. Oggi ci confrontiamo con un’assistenza cardiologica territoriale ancora molto frammentata. L’auspicio è che tale situazione possa migliorare a fronte dei fondi messi a disposizione del PNRR e del futuro nuovo Piano Sanitario Nazionale».
Omega-3, salutari o dannosi?
Alimentazione, PrevenzioneDici Omega-3 e pensi alla salute del cuore. Ecco perché uno studio pubblicato sulla rivista Bmj Medicine sta facendo molto discutere: lo studio arriva a concludere che l’uso regolare di integratori di olio di pesce potrebbe aumentare, anziché diminuire, il rischio di malattie cardiache e ictus tra coloro che godono di una buona salute cardiovascolare ma, allo stesso tempo, “potrebbe rallentare la progressione di problemi cardiovascolari esistenti e ridurre il rischio di morte” in soggetti con malattie cardiache preesistenti. Risultati tanto sconcertanti che sono gli stessi autori a evidenziare la necessità di ulteriori ricerche per chiarire questi risultati.
Lo studio sugli Omega-3
I ricercatori del Dipartimento di Epidemiologia della Sun Yat-Sen University di Guangzhou, Cina, hanno esaminato le associazioni tra l’uso di integratori di Omega-3 e vari esiti di salute cardiovascolare. Gli scienziati si sono concentrati su individui senza malattie cardiovascolari che, com’è noto, aumentano il rischio di sviluppare fibrillazione atriale, infarto, ictus, insufficienza cardiaca e possono essere fatali.
Il contesto della ricerca
L’olio di pesce, ricco di acidi grassi Omega-3, è comunemente raccomandato per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Tuttavia, le evidenze riguardanti la sua efficacia sono controverse. Questo ha spinto i ricercatori a indagare più a fondo sulle potenziali associazioni tra l’uso di questi integratori e la salute cardiaca.
I principali risultati
Lo studio ha rivelato che l’uso regolare di integratori di olio di pesce può avere effetti diversi sulla salute cardiovascolare:
Variabili in gioco
Quindi, stando a quanto emerge da questo studio, gli Omega-3 sarebbero utili per chi già soffre di malattie cardiovascolari, ma potenzialmente dannosi in soggetti sani. Inoltre, sono molte le variabili in gioco: gli autori dello studio hanno infatti notato che età, sesso, fumo, consumo di pesce non grasso, ipertensione e uso di farmaci contro la pressione alta sono in grado di influenzare in modo significativo le associazioni rilevate. Qualche esempio?
I limiti dello studio
Gli scienziati sottolineano che, trattandosi di uno studio osservazionale, non è possibile stabilire un nesso causale. Inoltre, la mancanza di dati specifici sulla dose e sulla formulazione degli integratori di olio di pesce utilizzati dai partecipanti rappresenta un limite significativo. Un altro aspetto da considerare è la predominanza di partecipanti di etnia bianca, il che potrebbe limitare la possibilità di generalizzare i risultati ad altre popolazioni.
Interazioni complesse
Stando ai dati ottenuti, l’uso regolare di integratori di olio di pesce mostra associazioni complesse con la salute cardiovascolare, suggerendo che potrebbe avere effetti sia benefici che dannosi, a seconda del contesto individuale. Ecco perché saranno necessari altri studi per chiarire i meccanismi alla base di questi effetti e per determinare le implicazioni a lungo termine dell’uso di integratori di olio di pesce sulla salute cardiovascolare.