Tempo di lettura: 3 minutiLa ritenzione idrica e la cellulite sono due condizioni indipendenti. Tuttavia la prima può influenzare la seconda, benché non sia la diretta causa. Del legame tra ritenzione idrica e cellulite e di come è possibile prevenirla, ne ha parlato la dottoressa Maria Antonella Spurio, dermatologa di Humanitas Medical Care.
Ritenzione idrica: le cause e i sintomi
L’accumulo di liquidi e tossine nei tessuti provoca la ritenzione idrica che può dipendere da abitudini di vita non salutari. Le cause possono essere diverse, tra cui un’alimentazione non equilibrata, uno stile di vita sedentario o posture scorrette.
“Nelle forme più gravi – afferma la specialista – può essere connessa a problemi cardiaci, renali, reazioni allergiche o infiammazioni. In questi casi, sintomi evidenti includono gonfiore marcato e tensione cutaneaii, in particolare agli arti inferiori. Se si preme la pelle con un dito (digitopressione) si forma una fossetta”. L’accumulo di liquidi si manifesta con gonfiore a mani, piedi, caviglie e gambe.
Ritenzione idrica, come eliminarla
Il primo passo per ridurre l’accumulo di liquidi è modificare lo stile di vita. La specialista sul portale di Humanitas suggerisce di: ridurre il consumo di sale, assumere più magnesio e vitamina B6, preferire alimenti ricchi di potassio ed evitare carboidrati raffinati. Quando il problema riguarda tutto l’organismo si parla di ritenzione idrica generalizzata, ma più spesso la ritenzione idrica porta all’accumulo di fluidi solo in aree localizzate dell’organismo.
L’accumulo di liquidi può spianare la strada alla cellulite che è un inestetismo visibile sulla pelle che in genere si localizza su fianchi, glutei, addome e cosce. Ha origine da diversi fattori che agiscono su tessuto adiposo, circolazione e pelle. I fattori di rischio includono predisposizione genetica, stile di vita e squilibri endocrini. La tipica “pelle a buccia di arancia” è uno dei segni distintivi.
I 4 stadi della cellulite
“La cellulite può evolvere in 4 stadi, con i primi due caratterizzati da una forma congestizia edematosa con ristagno di liquidi e fibrosi, e gli ultimi due da formazioni nodulari palpabili. In questi casi parliamo di cellulite sclerotica, in cui vi è anche un’alterazione delle fibre di collagene che inducono la formazione di micronoduli che confluiscono in macronoduli”.
In presenza di ritenzione idrica, il liquido in eccesso nei tessuti compromette la circolazione, rendendo difficile l’eliminazione dei grassi. Tossine accumulate possono aderire alle cellule adipose, favorendo la formazione di cellulite. Contrastare la ritenzione idrica è quindi cruciale nella prevenzione, continua la specialista.
Prevenzione
Le abitudini sane aiutano a prevenire la cellulite, tra cui: mantenere una dieta equilibrata e ricca di fibre, evitare indumenti troppo stretti, praticare regolarmente attività fisica. Non fare uso eccessivo di stimolanti o ormoni.
“Il dermatologo può agire nelle prime fasi, suggerendo uno stile di vita sano, una dieta appropriata e sport a bassa intensità come camminare, andare in bicicletta, spinning, pattinaggio e in particolare il nuoto. Potrebbe inoltre consigliare test ematochimici come il profilo glicemico, lipidico e il dosaggio ormonale, nonché un’ecografia delle vene degli arti inferiori.
Terapie
Le terapie specifiche includono la microterapia, che prevede l’iniezione di soluzione ipertonica nel tessuto target per 10 sessioni settimanali e poi una sessione ogni 2-3 mesi; e altri trattamenti come la mesoterapia, la radiofrequenza non ablativa, l’elettroporazione e la cavitazione. Queste terapie si basano su principi fisici e farmacologici che agiscono direttamente sui tessuti (adiposo e collagene) e sulla microcircolazione”.
Tuttavia, queste non sono soluzioni definitive, in quanto esiste una predisposizione. Sebbene le creme anticellulite possano coadiuvare il trattamento, da sole non sono una soluzione. Studi hanno dimostrato che quelle contenenti caffeina e altri estratti naturali come l’estratto di mirtillo, il tè verde, di betulla o centella asiatica, possono aiutare, ma non essere curative.
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Al Meyer di Firenze 200 mila euro
Bambini, News, Ricerca innovazioneUn sostegno concreto quello che la Unicoop Firenze ha scelto di confermare al Meyer di Firenza. Si è infatti rinnovato l’accordo con il quale la cooperativa si impegna a sostenere le attività dell’Azienda Ospedaliera Meyer (che nell’agosto del 2022 ha compiuto il passaggio a Irccs – Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico). L’intesa prevede un contributo di 200mila euro ogni anno per tre anni. Quella tra le due realtà è una partnership che va avanti da tempo: la collaborazione ha preso il via nel 2017 con un importante impegno economico da parte di Unicoop Firenze (500mila euro per ogni anno) finalizzato al progetto Meyer+ ed è stata rinnovata nel 2020.
Le linee di ricerca pediatrica
A rendere ancor più nobile il sostegno confermato al Meyer è il fatto che questi soldi serviranno a sostenere due progetti di ricerca dedicati ai più piccoli. In particolare, una ricerca sulla Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e due studi che, rispettivamente, guarderanno alla Neurologia pediatrica (diretta dal professor Renzo Guerrini) e alle attività della Cardiologia pediatrica (diretta dal professor Iacopo Olivotto).
Il programma di ricerca del Meyer di Firenze
In dettaglio, le diverse linee di ricerca serviranno ad indagare le cause genetiche e dei meccanismi fisiopatologici dell’autismo in ambito neuropsichiatrico; ma anche – in ambito neurologico – le cause di deficit intellettivo e epilessia su neuroni umani derivanti dalla riprogrammazione di cellule cutanee. Sul fronte invece, delle patologie cardiache, la ricerca finanziata da Unicoop si concentrerà sulle correlazioni fra anomalie genetiche dei canali ionici e disturbi della eccitabilità cardiaca in età pediatrica. Anche stavolta sarà fondamentale il coinvolgimento del mondo di Unicoop. L’accordo firmato prevede che l’attività di supporto al Meyer continui nel segno del coinvolgimento dei soci e clienti della cooperativa, che negli scorsi anni hanno risposto in modo eccezionalmente positivo.
Ambito fondamentale per i piccoli pazienti
Non stupisce che il focus dell’accordo sia la ricerca scientifica, un ambito che da sempre riveste un ruolo importante all’interno del pediatrico fiorentino, ma che con la trasformazione in Irccs è diventato cruciale, una vera e propria mission a beneficio dei piccoli pazienti. La ricerca e l’innovazione rappresentano una grande sfida e una grande opportunità per il Meyer: la coltivazione di un terreno fertile e collaborativo nel quale l’incontro tra le problematiche cliniche e le conoscenze scientifiche ispira soluzioni innovative utili a migliorare l’assistenza pediatrica.
Nuovi traguardi
Il presidente della Fondazione Meyer, Marco Carrai, sottolinea come da “da sei anni Unicoop Firenze e la Fondazione Meyer hanno avviato un progetto condiviso con l’obiettivo di aiutare sempre più bambini. Oggi questa alleanza per la salute dei più piccoli si rinnova e siamo orgogliosi di questa sinergia che ci ha permesso di raggiungere grandi traguardi e progettarne di nuovi, sempre più ambiziosi»
Unire le forse per per il territorio
Come sottolineato anche da Daniela Mori, presidente del Consiglio di Sorveglianza di Unicoop Firenze, la sinergia tra Unicoop e Meyer nasce da molto lontano ed accompagnare il Meyer nello sviluppo dei suoi progetti di ricerca è la logica conseguenza della filosofia che da sempre guida Unicoop Firenze: che punta a migliorare il territorio, unendo le forze.
Altissimi standard di cura
La dottoressa Mori spiega che “dopo esserci impegnati negli ultimi anni per il suo ampliamento, rinnoviamo il nostro sostegno con un accordo che mette al centro la ricerca scientifica e gli studi nell’ambito della neuropsichiatria infantile: in un momento così difficile per il nostro Paese, la nostra cooperativa vuole fare la sua parte, sostenendo la fascia più indifesa della comunità, i bambini, perché possano avere standard di cura all’avanguardia grazie a una struttura d’eccellenza regionale e nazionale come l’ospedale Meyer. Siamo certi che il nostro essere a fianco del Meyer verrà sostenuto fortemente anche da soci e clienti, come sempre è avvenuto anche negli scorsi anni”.
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Ritenzione idrica e cellulite, cosa dice la scienza
NewsLa ritenzione idrica e la cellulite sono due condizioni indipendenti. Tuttavia la prima può influenzare la seconda, benché non sia la diretta causa. Del legame tra ritenzione idrica e cellulite e di come è possibile prevenirla, ne ha parlato la dottoressa Maria Antonella Spurio, dermatologa di Humanitas Medical Care.
Ritenzione idrica: le cause e i sintomi
L’accumulo di liquidi e tossine nei tessuti provoca la ritenzione idrica che può dipendere da abitudini di vita non salutari. Le cause possono essere diverse, tra cui un’alimentazione non equilibrata, uno stile di vita sedentario o posture scorrette.
“Nelle forme più gravi – afferma la specialista – può essere connessa a problemi cardiaci, renali, reazioni allergiche o infiammazioni. In questi casi, sintomi evidenti includono gonfiore marcato e tensione cutaneaii, in particolare agli arti inferiori. Se si preme la pelle con un dito (digitopressione) si forma una fossetta”. L’accumulo di liquidi si manifesta con gonfiore a mani, piedi, caviglie e gambe.
Ritenzione idrica, come eliminarla
Il primo passo per ridurre l’accumulo di liquidi è modificare lo stile di vita. La specialista sul portale di Humanitas suggerisce di: ridurre il consumo di sale, assumere più magnesio e vitamina B6, preferire alimenti ricchi di potassio ed evitare carboidrati raffinati. Quando il problema riguarda tutto l’organismo si parla di ritenzione idrica generalizzata, ma più spesso la ritenzione idrica porta all’accumulo di fluidi solo in aree localizzate dell’organismo.
L’accumulo di liquidi può spianare la strada alla cellulite che è un inestetismo visibile sulla pelle che in genere si localizza su fianchi, glutei, addome e cosce. Ha origine da diversi fattori che agiscono su tessuto adiposo, circolazione e pelle. I fattori di rischio includono predisposizione genetica, stile di vita e squilibri endocrini. La tipica “pelle a buccia di arancia” è uno dei segni distintivi.
I 4 stadi della cellulite
“La cellulite può evolvere in 4 stadi, con i primi due caratterizzati da una forma congestizia edematosa con ristagno di liquidi e fibrosi, e gli ultimi due da formazioni nodulari palpabili. In questi casi parliamo di cellulite sclerotica, in cui vi è anche un’alterazione delle fibre di collagene che inducono la formazione di micronoduli che confluiscono in macronoduli”.
In presenza di ritenzione idrica, il liquido in eccesso nei tessuti compromette la circolazione, rendendo difficile l’eliminazione dei grassi. Tossine accumulate possono aderire alle cellule adipose, favorendo la formazione di cellulite. Contrastare la ritenzione idrica è quindi cruciale nella prevenzione, continua la specialista.
Prevenzione
Le abitudini sane aiutano a prevenire la cellulite, tra cui: mantenere una dieta equilibrata e ricca di fibre, evitare indumenti troppo stretti, praticare regolarmente attività fisica. Non fare uso eccessivo di stimolanti o ormoni.
“Il dermatologo può agire nelle prime fasi, suggerendo uno stile di vita sano, una dieta appropriata e sport a bassa intensità come camminare, andare in bicicletta, spinning, pattinaggio e in particolare il nuoto. Potrebbe inoltre consigliare test ematochimici come il profilo glicemico, lipidico e il dosaggio ormonale, nonché un’ecografia delle vene degli arti inferiori.
Terapie
Le terapie specifiche includono la microterapia, che prevede l’iniezione di soluzione ipertonica nel tessuto target per 10 sessioni settimanali e poi una sessione ogni 2-3 mesi; e altri trattamenti come la mesoterapia, la radiofrequenza non ablativa, l’elettroporazione e la cavitazione. Queste terapie si basano su principi fisici e farmacologici che agiscono direttamente sui tessuti (adiposo e collagene) e sulla microcircolazione”.
Tuttavia, queste non sono soluzioni definitive, in quanto esiste una predisposizione. Sebbene le creme anticellulite possano coadiuvare il trattamento, da sole non sono una soluzione. Studi hanno dimostrato che quelle contenenti caffeina e altri estratti naturali come l’estratto di mirtillo, il tè verde, di betulla o centella asiatica, possono aiutare, ma non essere curative.
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Tumore del retto: 2 pazienti su 3 potranno evitare chirurgia
Ricerca innovazione, PrevenzioneNella cura del tumore del retto, due pazienti su tre potranno evitare l’intervento chirurgico e preservare l’organo compromesso. Lo confermano i risultati dello studio presentato al Congresso Europeo di Radioterapia Oncologica (ESTRO), recentemente chiuso a Glasgow e che ha raccolto i massimi esperti del settore.
‘I risultati di questo studio sono molto importanti per il mondo scientifico e ancor di più per i pazienti – sottolinea Marco Krengli, Presidente AIRO, Professore Ordinario di Radioterapia all’Università degli Studi di Padova e Direttore della UOC di Radioterapia dell’Istituto Oncologico Veneto, IOV – in quanto evidenziano che 2 pazienti su 3 possono ricevere un trattamento di radioterapia associato a chemioterapia preservando l’organo e la sua funzione. Questo vuol dire che in molti casi, dopo l’uso combinato di radiazioni e farmaci chemioterapici per distruggere le cellule tumorali, non c’è bisogno di sottoporsi a un intervento chirurgico demolitivo con i suoi importanti effetti collaterali conosciuti nel mondo scientifico come sindrome LARS’.
Tumore del retto tra i più diffusi
La sindrome LARS (Low Anterior Resection Syndrome) è un insieme di sintomi gastrointestinali che possono manifestarsi dopo un intervento chirurgico di resezione del retto. I risultati dello studio, offrono una nuova prospettiva sulle opzioni del trattamento con radio-chemioterapia, sottolineando l’importanza di preservare la funzionalità d’organo e la qualità della vita dei pazienti. Gli specialisti mettono in risalto un cambiamento nel paradigma terapeutico che consente una gestione clinica personalizzata e mirata del cancro del retto, dichiarata la terza neoplasia negli uomini e la seconda nelle donne, con una crescita di oltre 50mila casi l’anno.
Nel 2022 il tumore del colon-retto ha causato oltre 22 mila decessi. Più diffuso nella fascia di età tra i 60 e i 75 anni, la sopravvivenza netta a 5 anni dalla diagnosi è pari al 65% negli uomini e 66% nelle donne. Una percentuale che dipende principalmente da quando avviene la diagnosi. Prima si diagnostica la malattia e maggiori sono le probabilità di guarigione.
Sindrome LARS post-intervento
‘I disturbi legati alla sindrome LARS vanno dall’incontinenza fecale e urgenza, alla stipsi e alle difficoltà di svuotamento e spesso comportano un peggioramento nella qualità della vita dei pazienti. In questo modo il GRECCAR12 sottolinea ai pazienti e al mondo oncologico – continua Maria Antonietta Gambacorta, Ordinario di Radioterapia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico Gemelli di Roma – la possibilità, in alcuni casi, di una de-intensificazione dei trattamenti e dei loro effetti collaterali, attuata attraverso l’omissione dell’intervento chirurgico, la cosiddetta modalità “organ-sparing”.
Delle nuove prospettive di cura per le persone con tumore del retto se ne parlerà a Milano dal 21 al 23 giugno, durante il congresso dell’Associazione Italiana di Radioterapia e Oncologia Clinica (AIRO).
Artrite reumatoide costa al SSN oltre 2 mld all’anno
Anziani, Associazioni pazienti, FarmaceuticaIl costo socio-sanitario complessivo dell’artrite reumatoide supera i due miliardi di euro all’anno, dei quali 931 milioni in termini di costi diretti sanitari. Oggi la lotta all’artrite reumatoide dispone di un’arma in più e a costi più compatibili, si tratta del primo anticorpo monoclonale tra gli inibitori dell’interleuchina-6 ad apparire sulla scena della lotta a questa patologia. Il tema dell’ampliamento dell’armamentario terapeutico per il contrasto dell’artrite reumatoide basato sul contributo dei farmaci biosimilari è stato al centro di un evento, promosso a Roma, presso la Fondazione Sturzo, dalla rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief (IHPB), che ha visto la partecipazione di farmacologi, clinici e pazienti.
Artrite reumatoide costa 2 mld di euro all’anno
Quello dell’artrite reumatoide è un tema di sanità pubblica di prima grandezza che incide pesantemente sul sistema socio-sanitario. I dati di uno studio CEIS dell’Università di Roma Tor Vergata evidenziano un costo complessivo annuo di oltre 2 miliardi di euro dei quali il 45 per cento – 931 milioni – attribuibili ai costi diretti sanitari, 205 milioni a carico dei pazienti in termini di costi diretti e circa 900 milioni per i costi indiretti generati dalle prestazioni previdenziali o dalla perdita di produttività per giornate di lavoro perse. Dati, questi, che fanno comprendere la dimensione della sfida che il Servizio Sanitario Nazionale deve affrontare dal punto di vista della sostenibilità e dell’accesso all’innovazione e che rendono centrale il contributo che può derivare dall’impiego dei farmaci biosimilari per decongestionare l’impatto della spesa in questo specifico ambito sanitario.
“È un anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato che si lega in modo selettivo ai recettori dell’interleuchina-6 della quale inibisce l’attività infiammatoria causa del danno articolare – ha sottolineato il Prof. Pierluigi Navarra, Ordinario di Farmacologia, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – l’ampia esperienza clinica su questo farmaco ne conferma l’efficacia e l’importante profilo di sicurezza a breve e a lungo termine, oltre a farne una valida opportunità di trattamento, con somministrazione sottocutanea a frequenza settimanale, sia in monoterapia che in abbinamento con metotrexate. Un’opzione terapeutica – ha proseguito il farmacologo – caratterizzata da un positivo rapporto costo/efficacia in quanto ora disponibile come biosimilare”.
“Tocilizumab è stato il primo farmaco che ha consentito di contrastare l’artrite reumatoide senza doverlo necessariamente associare al metotrexato – ha affermato il Prof. Maurizio Rossini professore ordinario di Reumatologia all’Università di Verona e Direttore della UOC di Reumatologia della AOUI di Verona– la sua disponibilità come biosimilare contribuisce in modo importante alla sostenibilità della spesa farmaceutica, generando risparmi che ampliano le possibilità di accesso alle cure per un maggior numero di pazienti, consente inoltre di ovviare ai problemi di approvvigionamento verificatisi in passato, oltre a rappresentare un’opportunità terapeutica in più specie in quelle regioni che dispongono l’uso del biosimilare come farmaco di prima scelta”.
La possibilità di ampliare in modo significativo il numero dei pazienti che possono avere accesso a terapie sempre più efficaci insieme alla necessità assoluta di assicurare la sostenibilità della spesa sanitaria ha progressivamente consentito di superare l’iniziale riluttanza delle associazioni dei pazienti rispetto all’uso dei farmaci biosimilari, anche se permane la necessità di assicurare un’adeguata informazione ai destinatari delle cure oltre che di tutelare il principio della libera scelta per il medico circa la terapia da adottare.
“Nel paziente che viene sottoposto a cure con i biosimilari, sia esso naive o già in cura con altro farmaco biologico, può a volte emergere il timore di essere trattato con un farmaco di serie B – ha rilevato la Dott.ssa Teresa Petrangolini, Direttore Patient Advocacy Lab di ALTEMS, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – è quindi di estrema importanza che il medico informi e tranquillizzi il paziente su efficacia, affidabilità e sicurezza della cura adottata, proprio in considerazione degli elevati standard qualitativi dei biosimilari che sono identici a quelli dei farmaci originali. ”.
“La possibilità di poter avere ora la disponibilità come biosimilare è un’opportunità terapeutica importante che consente di allargare la platea e il numero di persone eleggibili al trattamento, garantendo così un miglioramento nell’accesso al farmaco – dichiara Antonella Celano, Presidente APMARR, Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare – Grazie ai progressi compiuti negli ultimi venti anni dalla ricerca scientifica in reumatologia l’armamentario terapeutico a disposizione dei reumatologi si è progressivamente arricchito di farmaci sempre più innovativi per il trattamento delle artriti infiammatorie croniche. L’immissione in commercio dei farmaci biosimilari ha rappresentato una vera e propria rivoluzione in termini di risparmio di risorse sanitarie e di un maggiore accesso alle cure per le persone con patologie reumatologiche”.
Valvulopatie, il progetto di Milano rivela una realtà sconcertante
Prevenzione, AnzianiIl 9 per cento dei pazienti che hanno preso parte al progetto è risultato affetto da una valvulopatia della quale non era assolutamente a conoscenza. Parte da questo dato l’analisi dei dati ottenuti con uno screening delle valvulopatie negli anziani che ha preso il via a marzo 2024. L’iniziativa è nata da una collaborazione tra la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale Milano, i medici dell’Heart Valve Center dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e la Fondazione Alfieri per il Cuore promotrice e ideatrice del progetto, con l’obiettivo di diagnosticare e prendere in carico quanti più possibili pazienti cronici con questa patologia.
Fare rete e connettere il territorio
Il progetto nasce dalla consapevolezza che gli anni difficili della pandemia hanno messo a dura prova il sistema sanitario territoriale. “Da questa lezione – spiega la dottoressa Anna Pozzi, segretario provinciale di FIMMG Milano – abbiamo imparato che fare rete è l’unico modo per raggiungere tutti i pazienti, soprattutto quelli cronici che hanno bisogno quotidianamente di assistenza. Ed è da qui che siamo partiti: connettere il territorio,in particolare gli ambulatori dell’area milanese, con gli ospedali, per fare prevenzione”
Screening gratuito per le valvulopatie
Il progetto ha preso il via in un primo studio medico della provincia milanese dove, una volta a settimana, un cardiologo ecografista dell’Heart Valve Center dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, eseguiva, in forma gratuita, uno screening per valutare la presenza di una valvulopatia cardiaca a pazienti asintomatici con più di 75 anni, attraverso un ecocardiogramma, un esame non invasivo.
Pochi o nessun sintomo
I disturbi che possono insorgere nelle valvole cardiache (tricuspide, polmonare, mitrale e aorta) si definiscono valvulopatie e possono essere di natura congenita oppure acquisite. Queste ultime possono essere di origine degenerativa, infettiva, ischemica, traumatica o secondaria alla dilatazione dei grandi vasi o del ventricolo. Il paziente affetto valvulopatie può spesso essere asintomatico o avere pochi sintomi, persino fino ad uno stadio avanzato.
Attività fisica
In genere, i pazienti presentano affaticamento, dispnea durante l’attività fisica, e progressivamente anche a riposo, fino a sperimentare l’insorgenza di aritmie causate dallo scompenso del ventricolo sinistro in caso di insufficienza aortica. Nel progetto, avviato pochi mesi fa, dei 136 pazienti over 75 esaminati, nel 9% dei casi è stata riscontrata una valvulopatia misconosciuta. Questi risultati preliminari sono in linea con quanto riportato nella letteratura internazionale che evidenzia una incidenza di valvulopatie fino al 13% delle persone sopra i 75 anni, e richiamano l’attenzione circa la necessità di estendere lo screening delle malattie valvolari a più persone anziane possibili.
Una patologia molto diffusa
Se si sommano queste informazioni con quanto segnalato dall’ISTAT circa l’invecchiamento della popolazione italiana, secondo cui nel 2019 circa il 12% della popolazione totale, cioè 7 milioni di persone sopra i 75 anni di età, si può ipotizzare che ci siano circa 630.000 anziani con valvulopatie misconosciute sul territorio nazionale. A seguito della diagnosi, ai pazienti afferenti allo studio medico è stata offerta la possibilità di eseguire visite periodiche e successivi accertamenti, per valutare la necessità di un eventuale intervento medico, terapeutico o cardiochirurgico, sempre in collaborazione con l’Heart Valve Center dell’IRCCS Ospedale San Raffaele.
Cammino condiviso
“Siamo felici di aver intrapreso questo cammino con la FIMMG Milano: riteniamo che la prevenzione e la presa in carico dei pazienti cronici debba partire dalla medicina del territorio sino a comprendere gli Ospedali. Speriamo che questo primo progetto pilota di proficua collaborazione sulle valvulopatie possa essere incrementato ed esteso ad altri studi medici sul territorio a beneficio di tutta la popolazione dell’hinterland milanese”, dice il professor Francesco Maisano, primario dell’Unità di Cardiochirurgia e direttore dell’Heart Valve Center dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e professore ordinario di Cardiochirurgia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele.
Percorso condiviso
I dati definitivi dello studio saranno diffusi ad ottobre durante il Congresso Nazionale della FIMMG. Restano da valutare le conseguenze in termini di qualità di vita e di spesa sanitaria di queste valvulopatie ma, ipotizzando un progressivo invecchiamento globale della popolazione, si può prevedere che non saranno indifferenti. Di conseguenza, i medici di famiglia ritengono che sia utile estendere maggiormente questo programma di screening sul territorio, sia in ambito regionale che nazionale.
Il supporto del San Raffaele e della fondazione Alfieri
Grazie anche al supporto della cooperativa IML (Iniziativa Medica Lombardia) e all’importante collaborazione con l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e la Fondazione Alfieri per il Cuore (che ha dato la sua disponibilità per supportare l’espansione del progetto) si prevede ora di coinvolgere sempre più studi medici presenti sul territorio, che permettano di ampliare l’indagine a qualche migliaio di anziani.
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Ictus, ricercatrice under 35 presenta uno studio innovativo
Alimentazione, Anziani, Ricerca innovazioneL’ictus è la terza causa di mortalità a livello globale e una delle principali cause di disabilità, comportando spesso gravi conseguenze tra cui la malnutrizione. Questo problema colpisce fino al 60% dei pazienti post-ictus, portando ad un peggioramento progressivo dal ricovero ospedaliero alla fase di riabilitazione. Fattori come la disfagia (difficoltà a deglutire), la perdita di appetito, la depressione e l’incapacità di alimentarsi autonomamente contribuiscono significativamente a questa condizione.
Lo studio sul legame tra malnutrizione e riabilitazione post-ictus
In questo senso è clamoroso quanto dimostrato da uno studio presentato al XLIV Congresso Nazionale della Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU), uno studio che mette in luce proprio la relazione tra malnutrizione e funzionalità motoria e cognitiva durante la riabilitazione post-ictus. Questo studio, condotto da ricercatori dell’Università Federico II di Napoli presso il Santa Maria del Pozzo Hospital di Somma Vesuviana, ha ricevuto il Premio Gianvincenzo Barba per la Ricerca Scientifica e l’Innovazione in Nutrizione Umana 2024. La ricerca, svolta da un giovane ricercatore sotto i 35 anni iscritto alla SINU, evidenzia un campo ancora relativamente poco studiato in Europa.
Conseguenze della malnutrizione nei pazienti post-ictus
La malnutrizione nei pazienti con ictus rappresenta un importante fattore di rischio di mortalità e complicanze sia a breve che a lungo termine. È associata a un recupero funzionale e cognitivo più lento e meno efficace. Le principali conseguenze includono:
Dati dello studio e marcatori di infiammazione
I risultati dello studio indicano che circa la metà dei pazienti è malnutrita all’inizio della riabilitazione post-ospedaliera, con una prevalenza maggiore nei pazienti oltre i 75 anni. I pazienti malnutriti hanno ottenuto punteggi peggiori nei test di valutazione funzionale e cognitiva, evidenziando un impatto negativo sulla capacità di svolgere le attività quotidiane e sulla mobilità.
In foto Olivia Di Vincenzo e Ornella Russo, vedova Barba.
Inoltre, l’analisi di marcatori del sangue, come la proteina C-reattiva e il fibrinogeno, ha mostrato livelli più elevati nei pazienti malnutriti, indicando un legame tra malnutrizione e condizioni generali di salute peggiori. Gli autori della ricerca sono: Olivia Di Vincenzo e Luca Scalfi del Dipartimento di Sanità Pubblica e Fabrizio Pasanisi del Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia dell’Università Federico II di Napoli, insieme con Ermenegilda Pagano, Mariarosaria Cervone e Alessandra Esposito del Santa Maria del Pozzo Hospital di Somma Vesuviana (Napoli).Hanno collaborato, inoltre, Raffaele Natale e Annadora Morena del Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia dell’Università Federico II di Napoli.
Importanza della nutrizione nella riabilitazione post-ictus
Le evidenze suggeriscono che prevenire la malnutrizione, soprattutto nella popolazione anziana, può contribuire a migliorare lo stato funzionale dei pazienti, ridurre la durata della degenza e diminuire il rischio di complicanze. La tempestiva identificazione e gestione della malnutrizione è cruciale per migliorare il recupero funzionale e la qualità della vita dei pazienti post-ictus. Pertanto, l’attenzione alla nutrizione dovrebbe essere una priorità nella gestione dei pazienti post-ictus. Un approccio nutrizionale adeguato è fondamentale per migliorare i risultati terapeutici e favorire il ritorno a una vita indipendente.
Gestione attiva
La malnutrizione post-ictus è un fattore determinante nel processo di recupero dei pazienti. La malnutrizione può compromettere la forza muscolare e la resistenza, limitando così l’efficacia degli esercizi riabilitativi. Inoltre, una buona nutrizione supporta la funzione cognitiva, essenziale per il recupero delle abilità mentali e per la gestione delle attività quotidiane. La sua gestione adeguata e tempestiva può fare la differenza nel migliorare gli esiti della riabilitazione motoria e cognitiva.
Approccio multidisciplinare
I professionisti della salute devono dunque integrare strategie nutrizionali efficaci nei programmi di riabilitazione post-ictus per ottimizzare il recupero e migliorare la qualità della vita dei pazienti. Serve dunque un approccio multidisciplinare, dove nutrizionisti, fisioterapisti e medici collaborano per sviluppare piani nutrizionali personalizzati che rispondano alle specifiche esigenze dei pazienti post-ictus.
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Screening gratuiti per le maculopatie, ad Aosta il 14 giugno
Anziani, PrevenzioneLa maculopatia è una malattia che colpisce il centro della retina, chiamata macula. Causa una visione distorta e una perdita graduale della visione centrale. Se non trattata può portare all’ipovisione. Il prossimo 14 giugno fa tappa ad Aosta il progetto “Occhio agli occhi”, una giornata di screening gratuiti per le maculopatie. La diagnosi viene effettuata con l’impiego della strumentazione OCT (Tomografia a Coerenza Ottica).
Screening gratuiti per le maculopatie, anziani più a rischio
Lo screening, ad accesso libero presso l’Ambulatorio dalle ore 10:00 alle 18:00, è rivolto a tutta la comunità e in particolare agli over 50, che potranno recarsi presso la Struttura Complessa Oculistica diretta dal Dott. Luca Ventre.
L’iniziativa fa parte del progetto “Occhio agli occhi” organizzato dal Comitato Macula e con il supporto non condizionante di Bayer, impegnata nelle attività di ricerca e sviluppo di terapie innovative in Oftalmologia. L’esame sarà effettuato dagli oculisti del presidio Beauregard e si svolgerà presso l’Ambulatorio 17 del Poliambulatorio di Via G. Rey 3 ad Aosta.
Lo screening è rivolto im particolare agli over 50, poiché circa il 10% delle persone tra 65 e 74 anni e oltre il 30% degli over 75 soffre di nAMD (degenerazione maculare essudativa legata all’età: patologia degenerativa che colpisce la macula portando alla progressiva perdita della visione centrale), una delle maculopatie più diffuse.
Diagnosi tempestiva per cure migliori
Dott. Luca Ventre: “Individuare tempestivamente i pazienti affetti da forme ad alto rischio di compromissione della vista è fondamentale e l’OCT, presente all’ospedale Beauregard e anche nel nostro Poliambulatorio di Donnas, è un esame diagnostico indispensabile per le maculopatie perché permette di identificare l’insorgere della patologia ancor prima che questa si manifesti al paziente. Più la diagnosi è precoce più in fretta si può ricorrere al trattamento raggiungendo buoni risultati in termini di cura e di qualità di vita. Laddove possibile, si può ricorrere a trattamenti specifici come le iniezioni intravitreali. Questa terapia (circa 3 mila iniezioni intravitreali eseguite nel 2023 all’Ospedale Beauregard) è essenziale nella forma umida della malattia che in Valle d’Aosta riguarda circa 4.000 pazienti a cui se ne aggiungono altri 8.000 affetti dalla forma secca”.
Massimo Ligustro, Presidente del Comitato Macula: “Anche ad Aosta prende vita la campagna di screening relativa alle maculopatie. L’obiettivo non è solo quello di fare un esame, ma è quello di sensibilizzare la popolazione in merito al benessere oculare. Dobbiamo fare capire alla popolazione che il benessere oculare, cioè lo stato di efficienza dei propri occhi, si verifica e si controlla proprio con esami clinici quali l’OCT”.
17% del cibo prodotto viene buttato, italiani tra i più virtuosi
Alimentazione, One healthCirca il 17% del cibo prodotto nel mondo viene gettato (fonte UNEP) e di questo il 61% viene sprecato in ambito domestico, con un consumo di acqua, suolo ed energia. Uno studio ha indagato cosa cambia da Paese a Paese, per trovare soluzioni per la sostenibilità ambientale. I risultati sono stati pubblicati dalla rivista internazionale Journal of Cleaner Production. La ricerca è stata realizzata nell’ambito del progetto SysOrg, di cui è partner il CREA Alimenti e Nutrizione.
Lo studio sullo spreco alimentare
Lo studio sullo spreco alimentare ha misurato la quantità, la frequenza e la tipologia di spreco alimentare domestico in ognuno dei 5 territori “campione” – la città di Copenaghen (Danimarca), il distretto federale della Nord Assia (Germania), la città di Varsavia (Polonia), il Bio-Distretto del Cilento (Italia) e la regione di Kenitra (Marocco).
È stato somministrato un questionario su un campione totale di 2154 adulti residenti, tra gennaio e giugno 2022, utilizzando la metodologia del river sampling o campionamento fluviale, un metodo usato soprattutto nella versione online, che coinvolge i potenziali partecipanti mentre stanno navigando su Internet, invitandoli a rispondere a delle domande.
Acquisti compulsivi fanno sprecare il cibo
“Nei territori in cui il cibo viene principalmente gettato come parzialmente o totalmente non utilizzato, le azioni preventive dovrebbero concentrarsi sulle abitudini di acquisto.- spiega Laura Rossi, dirigente di ricerca CREA Alimenti e Nutrizione e coordinatrice CREA dello studio – Spesso, infatti, gli acquisti impulsivi sono la causa principale di questo tipo di spreco e organizzare la dispensa e il frigorifero in modo efficiente può aiutare in tal senso. Laddove, invece, il cibo viene scartato principalmente come avanzo dei pasti o dopo la conservazione, occorre potenziare le capacità culinarie delle persone, mirando alle giuste quantità e a riutilizzare gli avanzi dei pasti”.
Cibo e sprechi, risultati dello studio
Analizzando il dato pro capite, i tre territori più rurali, Nord Assia, Bio-Distretto Cilento e Kenitra hanno un livello di spreco molto simile, di circa 130 g pro capite a settimana, così come anche le due città, Copenaghen e Varsavia, hanno mostrato uno spreco pro capite di circa 190g a settimana. L’appartenenza al territorio (rurale vs urbano) ha influenzato significativamente la probabilità di non sprecare: la più alta si è registrata in Cilento (66%), seguita dalla Nord Assia (41%) e la più bassa negli altri tre territori (18%).
Passando al dato familiare, invece, si è osservato come quello relativo alle famiglie di Kenitra, il più alto (539g/a settimana), diventi in realtà il più basso se spalmato su tutti i componenti del nucleo familiare (125g pro capite/settimana), poiché è proprio a Kenitra che si registra la più alta percentuale di famiglie numerose (5 o più componenti) rispetto agli altri territori.
L’incapacità di gestire gli avanzi dei pasti e di organizzare correttamente gli alimenti in cucina sono state le motivazioni addotte all’interno delle famiglie. I cibi più scartati sia in termini di quantità che di frequenza sono stati quelli freschi, a conferma di come gli alimenti più deperibili siano i più difficili da conservare.
Sono stati identificati sei differenti clusters, ognuno dei quali corrisponde a un profilo specifico di spreco alimentare in termini di quantità e tipologia di alimenti buttati. I 6 cluster individuati sono: Cluster 1 – Highest total waste, all the food groups were wasted; Cluster 2 – High total waste, fruit, and bread most wasted foods; Cluster 3 – Medium total waste, beverages most wasted foods; Cluster 4 – Medium total waste, bread, and vegetables most wasted foods; Cluster 5 – Low total waste, fresh foods most wasted foods; Cluster 6 – Low total waste, bread, and yogurt most wasted foods.
In Nord Assia e nel Bio-Distretto del Cilento, sono stati osservati comportamenti simili con la più alta probabilità, rispetto agli altri territori, di produrre meno spreco, soprattutto di alimenti freschi (cluster 5). Kenitra e Copenaghen, che in termini di quantità avevano una situazione opposta, in termini di probabilità di appartenenza ai cluster si muovono nella stessa direzione, avendo la più alta possibilità di raggiungere un alto livello di spreco totale (cluster 2). Copenaghen mostra un’altra similitudine con Varsavia avendo entrambe le più alte probabilità di sprecare un basso livello di cibo totale, con pane e yogurt gli alimenti più buttati (cluster 6).
Diabete 2, saltare la colazione aumenta rischio
Alimentazione, Associazioni pazienti, Stili di vitaConsumare la colazione dopo le 9 del mattino aumenta il rischio di diabete di tipo 2, ma aumentano anche glicemia, trigliceridi e proteina C-reattiva.
Multi-Ethnic Group Of Diverse People Holding Letters That Form Diabetes
Non tutti sanno che il claim ‘la colazione è il pasto più importante della giornata’ fu inventato e diffuso dai pubblicitari di una azienda che produceva fiocchi di avena. Nel frattempo è diventato un motto, sebbene recenti ricerche in campo nutrizionale abbiano anche accreditato nuovi modelli di crononutrizione come il digiuno intermittente.
Tuttavia, nelle persone con diabete, saltare la colazione è controindicato. Secondo la crononutrizione che l’orario dei pasti ha un impatto sui ritmi circadiani che a loro volta regolano la secrezione di diversi ormoni, tra cui i livelli di insulina.
In generale, la prevenzione del diabete di tipo 2 inizia da un sano stile di vita. Per esempio, svolgere attività fisica aerobica moderata 20-30 minuti al giorno o 150 minuti alla settimana, associato alla perdita del 10% del peso corporeo, riduce l’incidenza della patologia del 60%
Studi sul legame tra l’orario della colazione e il rischio di diabete
Lo scorso anno uno studio spagnolo pubblicato su Journal of Epidemiology aveva concluso che le persone sane che facevano colazione più tardi (dopo le 9 del mattino) avevano un maggior rischio di sviluppare diabete di tipo 2. Mentre in quelle che la consumavano prima delle 8 del mattino il rischio si riduceva del 59%. I ricercatori hanno valutato un campione piuttosto ampio, di circa 100 mila persone (il 79% donne) che rende i risultati più affidabili.
E se l’orario dei pasti ha la sua importanza anche saltarli completamente può avere conseguenze negative: diverse ricerche hanno dimostrato che saltare la prima colazione fa impennare la glicemia dopo pranzo e diminuire la capacità dell’insulina di rispondere adeguatamente. Lo ‘skipping breakfast’ agisce come uno stress per l’organismo delle persone con diabete.
“Possiamo dire che un digiuno prolungato porta ad una ‘perdita di memoria’ delle cellule Beta del pancreas, come se avessero bisogno dello stimolo cibo-risposta attivato dalla colazione” sottolinea il Professor Angelo Avogaro, Presidente SID “Inoltre il digiuno mattutino aumenta il livello degli acidi grassi del sangue che interferiscono con l’efficacia dell’insulina ad abbassare i livelli di zuccheri nel sangue. La ‘crononutrizione’ ci dice che lo stesso nutriente esercita effetti metabolici differenti a seconda del momento della giornata in cui viene consumato. Meccanismo regolato da un ‘orologio centrale’ (master clock) localizzato nel cervello a livello del ‘nucleo sovra chiasmatico’, e attivato da segnali luminosi captati da alcuni recettori presenti nella retina”.
Oltre il diabete – Numerosi studi tra cui uno di Kant e Collaboratori hanno dimostrato che su 35 mila persone la mortalità per tutte le cause differiva a seconda dell’orario della colazione. All’avanzare dell’orario aumentavano anche glicemia, trigliceridi e proteina C-reattiva. Quest’ultima si eleva quando la colazione viene saltata, mentre la glicemia presenta valori più elevati solo negli uomini (si ipotizza che la presenza degli estrogeni abbia un effetto protettivo).
Un regalo per i bimbi del Meyer
Bambini, News, PediatriaIl livello di stress e ansia dei piccoli pazienti oncologici può essere significativamente ridotto grazie a uno strumento che può misurare il livello di emoglobina senza necessità di prelievo di sangue. Ed è proprio questo il dispositivo che l’associazione Lions Clubs International, Distretto 108 La, ha voluto donare all’Oncoematologia del Meyer. Un regalo che significa molto per la cura dei bambini affetti da patologie oncologiche e malattie croniche del sangue.
Una donazione di grande valore
Alla cerimonia di consegna dell’emoglobinometro, svoltasi questa mattina (7 giugno 2024), erano presenti importanti figure del Lions Clubs International e dell’Ospedale Meyer. Tra questi, Alberto Carradori, governatore del Distretto 108 La, Pierantonio Bacci, responsabile del settore salute per l’annata 2023-2024, e la professoressa Elisabetta Coccia, impegnata quest’anno nel progetto per i tumori del bambino. A ricevere il prezioso dono Paolo Morello, direttore generale dell’AOU Meyer Irccs, la dottoressa Annalisa Tondo, responsabile dell’Oncologia pediatrica, la dottoressa Angela Tamburini dell’Oncoematologia pediatrica, il dottor Tommaso Casini, referente per le talassemie, la dottoressa Daniela Cuzzubbo, referente per la drepanocitosi, e la dottoressa Erica Bencini, responsabile della Ginecologia pediatrica.
Come funziona l’emoglobinometro
L’emoglobinometro è un dispositivo avanzato che, utilizzando un microago, permette di misurare in modo non invasivo la quantità di emoglobina nel sangue. Questo strumento innovativo riduce drasticamente il trauma associato ai prelievi sanguigni tradizionali, rendendo la procedura rapida e minimamente invasiva. Il vantaggio è duplice: da una parte, allevia la tensione nei piccoli pazienti; dall’altra, facilita il lavoro degli operatori sanitari.
Benefici per i piccoli pazienti
Questo strumento si rivela particolarmente utile per i bambini affetti da patologie oncologiche e malattie del sangue croniche benigne, come le anemie e le talassemie. Le talassemie, ad esempio, richiedono trasfusioni di sangue ogni tre-quattro settimane. Tuttavia, con un monitoraggio costante e non invasivo dei livelli di emoglobina, è possibile estendere l’intervallo tra le trasfusioni quando i valori sono ottimali.
Un approccio umanizzato alla cura
L’introduzione dell’emoglobinometro presso l’AOU Meyer Irccs è un passo significativo verso un approccio più umanizzato alla cura. Ogni anno, il Meyer accoglie e si prende cura di 120 nuovi casi di bambini con patologie oncologiche, seguendo attualmente circa 480 piccoli pazienti. Grazie a terapie innovative come la chemioterapia, le terapie cellulari e i nuovi farmaci, le possibilità di cura e guarigione sono in continuo aumento.
Meyer, cure all’avanguardia
L’adozione di tecnologie all’avanguardia come l’emoglobinometro non solo migliora la qualità della vita dei bambini malati, ma rappresenta anche un modello di eccellenza per altri ospedali. Grazie al Lions Clubs International e alla loro generosa donazione, l’Ospedale Meyer continua a dimostrare il suo impegno nel fornire cure compassionevoli e all’avanguardia ai suoi piccoli pazienti.
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