Tempo di lettura: 5 minutiSalvare il sistema sanitario e i posti di lavoro (circa 200mila) dopo la sentenza della Consulta sul payback dei dispositivi medici, che rischierebbe di mandare sul lastrico oltre 2mila aziende. È stato questo il tema, e l’appello, lanciato in una conferenza stampa organizzata da PMI Sanità, l’associazione nazionale delle piccole e medie imprese che riforniscono gli ospedali di materiali necessari a diagnosi e cure. Il dibattito si è incentrato sulle conseguenze elaborate dallo studio di Nomisma delle due sentenze pubblicate nei giorni scorsi dalla Corte Costituzionale (n. 139 e n. 140) sul meccanismo del payback. “Il payback presenta di per sé diverse criticità ma non risulta irragionevole”, secondo la Corte.
Non sono della stessa opinione le imprese, che chiedono al Governo un tavolo di crisi urgente. All’incontro hanno partecipato il dott. Francesco Conti, l’avv. Giampaolo Austa e il dott. Gennaro Broya de Lucia, rispettivamente Responsabile Relazioni Istituzionali, Legal Team e Presidente di PMI Sanità.
«Una norma sbagliata e inutilmente dannosa», ha sottolineato dal Presidente Broya de Lucia, quella sul payback, che rischia di impattare gravemente sulle imprese, sui lavoratori e sull’esercizio del diritto alla salute di tutti i cittadini, spiega l’associazione. Un rischio che fino a pochi giorni fa era temibile, e ora la sentenza della Consulta ha reso imminente, richiamando l’urgenza di individuare una soluzione.
In una nota anche il vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera, Luciano Ciocchetti si è espresso. “Riguardo al payback dispositivi medici, ritengo, al di là delle sentenze della Corte Costituzionale, che la norma del payback dispositivi medici che risale al 2015 debba essere affrontata e risolta con il suo superamento al più presto.
Come più volte il Parlamento si è espresso con atti di indirizzo. Auspico per questo che il ministero della Salute, il Mef e il Mimit attivino un tavolo con tutte le associazioni rappresentative delle aziende piccole, medie e grandi che forniscono il Ssn dei fondamentali dispositivi medici utili a curare al meglio i pazienti”.
Cos’è il payback
Oltre 8 anni fa, dal Governo Renzi, è stato pensato il sistema di tassazione del payback, di fatto, finora mai applicato, per la sua complessità nonché discussa legittimità. Il D.L. cosiddetto “Aiuti bis”, nel quale è stato inserito nell’ottobre 2022, definisce le regole per l’applicazione di un sistema di compartecipazione delle imprese, allo sforamento dei tetti regionali di spesa sanitaria.
All’atto pratico, lo Stato sposta ex lege una parte dei costi per le cure indispensabili degli italiani sulle aziende private del settore che sono chiamate a sanare lo sforamento del tetto fissato sulla spesa regionale, con una mega tassa pari al 50 per cento dell’intero importo dichiarato dalle regioni. Una cifra enorme, pari a 5 miliardi di euro del quale i fornitori non avevano contezza preventiva né controllo alcuno. Si tratta, di fatto, di una imposizione insostenibile – sottolineano i rappresentanti di PMI Sanità – applicata su forniture effettuate dal 2015 al 2018.
A rischio imprese più piccole
Un meccanismo questo che mette a rischio molte imprese – spiegano – soprattutto quelle più piccole, che non sono in grado di sostenerlo. La Corte Costituzionale, con la sentenza n.140/2024 ha infatti respinto le questioni di legittimità promosse dal TAR Lazio, al quale erano stati rivolti circa 2 mila ricorsi, ritenendo, in sintesi, che il payback: debba essere considerato come un «contributo di solidatierà» necessario a sostenere il SSN; è proporzionato vista la riduzione al 48 per cento disposta dal Governo per il periodo 2015-2018.
“Era prevedibile visto che la legge è del 2015 nonostante i decreti con la determinazione del quantum siano stati pubblicati nel 2022”. Sempre la Corte Costituzionale, con la sentenza n.139/2024, ha stabilito che la riduzione al 48 per cento per il payback 2015-2018 debba essere applicata a tutti gli operatori soggetti a tale misura e non solo a quelli che hanno rinunciato al ricorso. “Con queste sentenze i rischi che fino a pochi giorni fa erano possibili, sono diventati imminenti, dipingendo uno scenario drammatico”.
Lo studio di Momisma
Secondo lo studio “Analisi dei meccanismi di ripartizione del payback per le imprese della filiera dei dispositivi medici” (settembre 2023), sviluppato da Nomisma per PMI Sanità, il payback coinvolge oltre 6.000 imprese di cui il 44 per cento circa ha meno di 10 addetti e il 70 per cento circa ha meno di 50 addetti. Un’impresa su 8 esistente nel 2015 è cessata o è già in stato di insolvenza per cui non potrà pagare. Due imprese su 5 si troverebbero in difficoltà economico-finanziaria se dovessero pagare il payback. Le imprese con almeno un fattore di criticità economico-finanziaria dopo l’applicazione del payback sono, in 3 casi su 4, con meno di 50 addetti, ossia PMI.
Lo studio Nomisma mostra che salvo qualche eccezione, – in proporzione – il payback va a colpire relativamente di più le imprese meno strutturate, condizionandone l’operatività e, in molti casi, la stessa esistenza sul mercato e che continuerà a generare debito e quindi gravi problemi per le società. La scomparsa dal mercato di molte piccole e medie imprese determinerebbe minore concorrenza e, conseguentemente, un abbassamento della qualità dei dispositivi e un innalzamento generalizzato dei prezzi (per ammortizzare il «costo» del payback), che, giocoforza, farebbe ulteriormente aumentare anche l’inflazione (con effetto anche sulla revisione prezzi). Ultima conseguenza infine sarebbe l’eliminazione del gettito ricavato dalle imprese fornitrici che dovessero uscire dal mercato pubblico.
Payback inefficace per contenere i costi
In conclusione, secondo lo studio il payback è uno strumento inefficace per contenere i costi vista la dinamica di aumento dei prezzi che ne deriverebbe almeno per il futuro. La riduzione di concorrenza nel mercato avrebbe l’effetto non solo di aumentare i prezzi, ma anche di ridurre la qualità dei dispositivi offerti perché pagati di più in altri mercati (es. USA).
È imprescindibile sterilizzare gli effetti del payback per il passato (2015-2021) e abolire l’istituto per il futuro salvaguardando, in special modo, le PMI che sono il nocciolo duro dei fornitori del settore – sottolineano i rappresentanti. Una soluzione intermedia, che potrebbe essere auspicabile, è quella della franchigia, che consentirebbe a molte imprese di evitare il fallimento, specie se micro, medie e piccole, eviterebbe la crisi delle forniture direttamente connessa alla crisi finanziaria dei fornitori di dispositivi medici e garantirebbe il mantenimento della concorrenza nel settore.
Broya de Lucia: immediato tavolo di crisi con il Governo e con la Conferenza-Stato Regioni
Gennaro Broya de Lucia, Francesco Conti, Giampaolo Austa
«Le conseguenze della sentenza della Corte Costituzionale possono mettere a rischio molte imprese – dichiara il dott. Gennaro Broya de Lucia – Il payback dispositivi medici è un istituto che sposta artificiosamente miliardi di debito pubblico su malcapitate aziende private che da anni si prodigano quotidianamente per il funzionamento della sanità italiana, specialmente di quella pubblica. Aziende con oltre 30 anni di storia o nuove società, che vengono distrutte.
Questo significa che 200 mila famiglie vedranno in pochi istanti azzerata la loro esistenza professionale e non solo. Per molte delle 6.000 imprese destinatarie della norma mostro, specialmente per le più piccole, significa uscire dal mercato non con una valanga di debiti impagabili imposti per legge e prima inesistenti, debiti enormi perché di una intera nazione. Le nostre società, i nostri collaboratori, i nostri medici e infermieri assistiti, non meritano tutto questo.
Dinnanzi a questa legge profondamente sbagliata e foriera di irreversibili iniquità, il Governo ha ora la possibilità e il dovere di intervenire ed agire nell’interesse della tenuta del sistema sanitario, del lavoro e della Giustizia. PMI Sanità chiede un immediato tavolo di crisi con il Governo e con la Conferenza-Stato Regioni che comprenda le conseguenze sulle piccole e le medie imprese italiane e si adoperi per una soluzione definitiva che tuteli questo strategico comparto. Ai tanti colleghi chiedo: non perdetevi d’animo, non possiamo e non dobbiamo arrenderci.»
Malattie genetiche, un software accelera la diagnosi
News PresaUno strumento in grado di facilitare la diagnosi genetica delle patologie e la scoperta di nuove mutazioni nel genoma. Lo ha sviluppato un team di ricercatori dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Cnr di Bari, dell’Università di Bari e dell’Università Statale di Milano. Lo studio che apre a nuove possibilità nella cura delle malattie genetiche, è pubblicato su Bioinformatics.
Lo studio sulle malattie genetiche
Il nuovo software denominato VINYL (Variant prIoritizatioN bY survival anaLysis) – sviluppato da un team di ricercatori dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibiom) di Bari, dell’Università “Aldo Moro” di Bari e dell’Università Statale di Milano – riproduce e ottimizza i principali criteri utilizzati in diagnostica molecolare per individuare mutazioni nel nostro genoma potenzialmente collegate con l’insorgenza di patologie genetiche, facilitando le applicazioni della genomica, che si occupa di capire i meccanismi di funzionamento del nostro patrimonio genetico tramite il confronto delle sequenze dei genomi. Lo studio è pubblicato su Bioinformatics.
Le varianti genetiche
“Si stima che mediamente il genoma di un individuo contenga milioni di piccole differenze, dette varianti genetiche, che nel loro insieme contribuiscono a delineare i tratti somatici tipici di ciascun soggetto”, spiega Graziano Pesole del Cnr-Ibiom. “Un numero ristrettissimo di queste varianti può anche causare malattie o condizioni patologiche. La capacità di conoscere e identificare i tratti genetici di una malattia può ovviamente facilitarne la diagnosi e la cura. Per questo motivo, negli ultimi anni, l’analisi del genoma di soggetti malati è sempre più utilizzata in genetica clinica”.
Diagnosi con nuovo software
Gli studiosi hanno dimostrato che VINYL è in grado di effettuare le analisi dei dati genomici molto più rapidamente. “Il software rende automatica e veloce la decodifica degli eventuali effetti funzionali delle varianti genetiche, facilitando l’identificazione di quelle di possibile rilevanza clinica. VINYL è in grado di confrontare i profili genetici di migliaia di persone affette da una patologia con quelli di persone sane e identificare le caratteristiche salienti delle varianti associate alla malattia”, prosegue Pesole. Inoltre, lo strumento è capace di individuare nuove varianti genetiche di potenziale interesse clinico che non erano state identificate dalla curatela manuale dei dati.
“La medicina di precisione è un nuovo approccio che punta a utilizzare i profili genetici per sviluppare terapie mirate ed efficaci e costituisce una delle maggiori sfide per il futuro delle discipline biomediche”, conclude Pesole. “Per questo, lo sviluppo di metodi e strumenti informatici come VINYL sarà sempre più necessario per interpretare in maniera accurata le informazioni derivate dalla sequenza del nostro genoma”. Lo studio è stato realizzato con il supporto della piattaforma Bioinformatica messa a disposizione dal nodo italiano dell’Infrastruttura di ricerca europea ELIXIR per le Scienze della vita, coordinata dal Cnr con la responsabilità di Graziano Pesole. VINYL è dotato di un’interfaccia web semplice e intuitivo, disponibile all’indirizzo.
Demenza prima dei 65 anni: 15 fattori di rischio modificabili
Anziani, News, News, Prevenzione, Psicologia, Ricerca innovazioneLa ricerca su Alzheimer e altre forme di demenza senile è molto avanzata, ma gli studi sulla demenza a esordio giovanile sono pochi. Fino ad ora, la predisposizione genetica sembrava essere il principale responsabile. Tuttavia, le ultime evidenze di uno studio pubblicato su Jama Neurology hanno dimostrato che lo stile di vita, le condizioni di salute generali e l’ambiente giocano un ruolo cruciale.
Demenza precoce, non solo genetica. Lo studio
Circa 370 mila nuovi casi di demenza precoce vengono diagnosticati ogni anno a livello globale. Uno studio britannico ha individuato 15 fattori di rischio modificabili per la demenza a esordio precoce. La ricerca è stata condotta su oltre 350 mila persone nel Regno Unito, aprendo la strada a nuove strategie preventive.
Il team di scienziati ha analizzato i dati clinici di oltre 350 mila persone con meno di 65 anni, raccolti dalla banca dati UK Biobank. Si è trattato del più grande e completo studio sui disturbi della demenza a esordio precoce. Ha identificato diversi fattori di rischio oltre alla predisposizione genetica.
Fattori di rischio modificabili
I ricercatori delle università di Exeter e Maastricht hanno identificato 15 fattori di rischio modificabili per la demenza a esordio precoce. Questi fattori includono variabili genetiche, carenze vitaminiche, malattie croniche e condizioni sociali ed economiche. La scoperta apre la strada a nuove strategie preventive, puntando sulla riduzione del rischio attraverso interventi mirati. I fattori modificabili includono: varianti del gene ApoE4, carenza di vitamina D, livelli elevati di proteina C reattiva, disturbi dell’udito, diabete, ictus, malattie cardiovascolari, depressione, ipotensione ortostatica, fragilità fisica, bassi livelli di istruzione, isolamento sociale e basso stato socioeconomico.
Varianti del gene ApoE4
Il gene ApoE4 è stato identificato come un fattore di rischio significativo. È noto per la sua associazione con l’Alzheimer, ma ora si collega anche alla demenza precoce.
Carenza di vitamina D
La carenza di vitamina D è emersa come un fattore di rischio importante. La vitamina D è essenziale per la salute cerebrale.
Livelli elevati di proteina C reattiva
Livelli elevati di proteina C reattiva, un indicatore di infiammazione, sono stati associati alla demenza precoce.
Disturbi dell’Udito
I disturbi dell’udito sono un altro fattore di rischio. L’udito compromesso può influire sulla funzione cognitiva.
Diabete
Il diabete è stato identificato come un fattore di rischio significativo per la demenza precoce.
Ictus
L’ictus aumenta il rischio di demenza precoce. I danni cerebrali possono accelerare il declino cognitivo.
Malattie cardiovascolari
Le malattie cardiovascolari sono state correlate alla demenza precoce. La salute del cuore è strettamente legata alla salute del cervello.
Depressione
La depressione è emersa come un fattore di rischio importante. La salute mentale influisce sulla funzione cognitiva.
Ipotensione ortostatica
L’ipotensione ortostatica, una caduta eccessiva della pressione arteriosa quando si passa alla posizione eretta, è stata identificata come un fattore di rischio.
Fragilità fisica
La fragilità fisica, misurata dalla forza di presa della mano, è stata associata alla demenza precoce.
Bassi livelli di istruzione
Bassi livelli di istruzione sono stati identificati come un fattore di rischio. L’istruzione può influire sulla riserva cognitiva.
Isolamento sociale
L’isolamento sociale è un altro fattore di rischio. Le interazioni sociali sono cruciali per la salute cerebrale.
Basso stato socioeconomico
Un basso stato socioeconomico è stato correlato alla demenza precoce. Le condizioni economiche influenzano la salute generale.
Consumo di alcol
L’abuso di alcol e l’astinenza completa sono entrambi associati a un aumento del rischio di demenza precoce. Gli autori avvertono che questi risultati sono complessi e richiedono cautela. Il consumo moderato di alcolici è stato correlato a un minor rischio, ma le ragioni non sono chiare.
Prevenzione come strategia
David Llewellyn dell’Università di Exeter ha definito lo studio rivoluzionario. È il più ampio e consistente mai realizzato sulla demenza a esordio giovanile. Dimostra l’importanza della collaborazione tra gruppi di ricerca e l’uso dei big data. Llewellyn ha concluso che, per la prima volta, possiamo ridurre il rischio di questa condizione prendendo di mira diversi fattori.
Acqua potabile in Italia: sicura e sostenibile, ma 1 italiano su 3 non si fida
Alimentazione, Anziani, Benessere, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneIl neonato Centro Nazionale per la Sicurezza delle Acque (CeNSiA) dell’Istituto Superiore di Sanità ha presentato il suo primo rapporto sulla qualità dell’acqua potabile in Italia. Il rapporto si basa su oltre 2,5 milioni di analisi condotte tra il 2020 e il 2022. I controlli hanno coperto il 90% della popolazione italiana, coinvolgendo 18 Regioni e Province Autonome.
Risultati dell’analisi sull’acqua potabile in Italia
Sono state esaminate oltre 2,5 milioni di analisi chimiche, chimico-fisiche e microbiologiche. I risultati mostrano una conformità media nazionale del 99,1% per i parametri sanitari microbiologici e chimici e del 98,4% per i parametri indicatori. Tutte le Regioni hanno mostrato percentuali di conformità superiori al 95%.
L’acqua è fondamentale per il benessere e la salute. Rappresenta circa il 60% del peso corporeo e fornisce minerali essenziali. Tuttavia, molti italiani non bevono abbastanza acqua. Questo è particolarmente problematico per gli anziani, con oltre il 40% che non raggiunge la quantità raccomandata.
Migliori e peggiori performance regionali
L’Emilia-Romagna è la Regione migliore per i parametri sanitari chimici e microbiologici, seguita da Veneto e Piemonte. Le Province Autonome di Trento e Bolzano hanno registrato i tassi di conformità relativamente minori per i parametri sanitari. Invece, i tassi di conformità relativamente minori per parametri sanitari sono registrati nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, e, per i parametri indicatori, in Umbria e nella PA di Trento.
Per quanto riguarda le non conformità rilevate a livello nazionale si tratta di alcune tracce a livello locale di contaminazioni microbiologiche (Enterococchi, Escherichia coli) e indicatori di contaminazioni ambientali (coliformi) mentre in alcune limitate aree territoriali si rilevano ancora non conformità per elementi naturali come fluoro e arsenico, associate a gestioni idriche non efficienti di sistemi in economia. Tuttavia, secondo il rapporto, il sistema dei controlli ha dimostrato di essere efficace nel gestire i rischi. Questo ha prevenuto esposizioni pericolose per la salute umana.
Fiducia degli italiani nell’acqua del rubinetto
Nonostante la sicurezza, secondo l’Istat quasi un terzo degli italiani non si fida dell’acqua del rubinetto. Tuttavia, l’Italia è un modello di prevenzione e risposta a livello internazionale, ha sottolineato in una nota Andrea Piccioli, direttore generale dell’Iss. Inoltre ha ricordato il ruolo dell’Italia nella promozione di una normativa europea più stringente sulla qualità dell’acqua, riconosciuto anche alla Conferenza mondiale sull’acqua di New York nel 2023. Il rapporto CeNSiA è un passo verso la creazione di una ‘anagrafe dell’acqua’.
L’Iss ha lanciato un video e un sito web per spiegare il ‘viaggio dell’acqua’ dal prelievo alla distribuzione. Il sito dà anche informazioni sui diversi tipi di acqua e sfata i falsi miti. Tra questi, si chiarisce che l’acqua del rubinetto non causa calcoli renali e può essere bevuta in gravidanza o durante l’allattamento.
Cos’ è il virus Oropouche?
News, PrevenzioneSi chiama Oropouche ed è un virus entrato di recente nel mirino dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), che ha aggiornato il proprio sito web con una FAQ dettagliata sulla malattia da virus Oropouche (Orov), fornendo informazioni importanti su sintomi, rischi e misure preventive. Diciamo subito che questa malattia interessa principalmente l’America centrale, meridionale e i Caraibi.
Che cos’è la malattia da virus Oropouche?
La malattia da virus Oropouche è un’infezione virale trasmessa all’uomo principalmente attraverso la puntura del di un piccolo infettino, il Culicoides paraensis, molto simile ad un moscerino. Ma può essere trasmessa anche da alcune zanzare come Culex quinquefasciatus. Questi vettori sono comuni in zone boschive vicino a ruscelli, stagni e paludi nelle aree endemiche. Fortunatamente, l’ISS rassicura che nessuno di questi insetti è attualmente presente in Italia o in Europa, e non è stata confermata la trasmissione da uomo a uomo del virus.
Sintomi della malattia
Riconoscere l’infezione da virus Oropouche può essere complesso, poiché i sintomi sono simili a quelli di altre malattie virali. I principali segnali di infezione includono febbre, mal di testa e dolore articolare. In alcuni casi, possono manifestarsi anche fotofobia, diplopia (visione doppia), nausea e vomito. L’ISS consiglia a chiunque presenti questi sintomi dopo un viaggio in aree endemiche di consultare immediatamente un medico, specificando i luoghi visitati.
Rischi associati all’infezione
Benché in Italia non si siano mai registrati casi autoctoni, chi è in procinto di partire per una meta esotica è bene che sia sempre ben informato. Recentemente, il Ministero della Salute brasiliano ha segnalato le prime due morti mondiali attribuite al virus, insieme a sei possibili casi di trasmissione verticale associati ad aborto spontaneo, morte fetale e microcefalia. Secondo l’Organizzazione Panamericana della Sanità (PAHO), al 23 luglio 2024, sono stati registrati oltre 7.700 casi in Brasile, Bolivia, Perù, Cuba e Colombia. In Italia, sono stati riscontrati alcuni casi importati, tutti senza gravi conseguenze.
Misure di protezione
Per chi si trova in aree a rischio per la presenza del virus Oropouche, l’ISS raccomanda di adottare diverse precauzioni per evitare il contatto con gli insetti vettori. È consigliato l’uso di repellenti chimici, indossare vestiti che coprano braccia e gambe, soggiornare in abitazioni dotate di zanzariere e ridurre le attività all’aperto all’alba e al crepuscolo.
Il ruolo dell’ISS
L’ISS offre supporto tecnico-scientifico al sistema sanitario nazionale e al Ministero della Salute, agendo come laboratorio nazionale di riferimento per la diagnosi e la caratterizzazione microbiologica dell’infezione. Un team multidisciplinare di esperti monitora continuamente il rischio per la sanità pubblica in Italia, considerando gli aspetti virologici, entomologici ed epidemiologici della malattia.
La crescente diffusione del virus Oropouche richiede un’attenzione particolare e misure preventive adeguate per ridurre il rischio di infezione. Restare informati e adottare comportamenti prudenti sono i primi passi per proteggersi da questa emergente minaccia virale.
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Il Covid rialza la testa
CovidMal di gola, tosse e mal di testa: il Covid sta inaspettatamente rialzando la testa con sintomi che stanno costringendo a casa migliaia di italiani. Non si parla del virus che costrinse in casa l’Italia intera, ma è certamente un indicatore da non sottovalutare il fatto che (i dati sono quelli dell’Istituto Superiore di Sanità e del ministero della Salute) i casi di Covid in Italia sono aumentati del 53,3% la scorsa settimana, passando da circa 9mila a 13.672.
Indice di trasmissibilità del Covid
Resta sopra la soglia epidemia di 1, ma sostanzialmente “stabile”, l”indice di trasmissibilità Rt, calcolato con dati aggiornati al 24 luglio 2024 e basato sui casi con ricovero ospedaliero: al 15 luglio è pari a 1,24 (con valori compresi fra 1,14-1,35), rispetto al valore di 1,20 (1,08-1,32) della settimana precedente
Attenzione agli anziani
Questi dati tratteggiano una variante che si sta rivelando più aggressiva delle altre. Al 24 luglio risultano in leggero aumento i ricoveri in area medica, pari a 2,4% (1.517 ricoverati) e stabili quelli nelle terapie intensive, pari a 0,4% (38 ricoverati). I ricoveri sono inoltre più elevati nelle fasce di età più alte, pari a 47 su un milione di abitanti nell’età compresa fra 80 e 89 anni e 86 su un milione per gli ultranovantenni; nelle terapie intensive sono a pari a 1 su un milione per entrambe le fasce d’età e la mortalità risulta di 4 su un milione per l’età compresa fra 80 e 89 anni e di 12 su un milione oltre i 90 anni.
I dati
L’incidenza di casi di Covid-19 diagnosticati e segnalati nel periodo fra il 18 e il 24 luglio è pari a 23 casi per 100mila abitanti, “in lieve aumento rispetto alla settimana precedente, pur rimanendo bassa”, si rileva nel monitoraggio, pari a 15 casi per 100mila abitanti nella settimana dall’11 al 17 luglio. In questa stessa settimana l’incidenza dei casi diagnosticati e segnalati risulta in lieve aumento nella maggior parte delle Regioni e Province autonome rispetto alla settimana precedente.
Campania in testa
L’incidenza più elevata è riportata in Campania (45 casi per 100mila abitanti) e la più bassa nelle Marche (2 casi per 100mila abitanti). Le fasce d’età che registrano il più alto tasso di incidenza settimanale sono quelle comprese fra 80 e 89 anni e oltre i 90 anni. L’incidenza settimanale risulta comunque “in aumento nella maggior parte delle fasce d’età” e l’età mediana alla diagnosi è di 60 anni, in leggera diminuzione rispetto alla settimana precedente. Sempre rispetto alla settimana precedente, le reinfezioni risultano essere il 48% circa, in lieve diminuzione rispetto alla settimana precedente.
Le varianti
Per quanto riguarda le varianti del virus SarsCov2, i dati del sequenziamento presenti nella piattaforma nazionale I-Co-Gen, indicano la circolazione simultanea di diverse sottovarianti di JN1, secondo quanto emerge nell’ultimo mese di campionamento consolidato. In aumento i sequenziamenti della variante KP.3.1.1, oggetto di monitoraggio internazionale e che secondo ricerche recenti potrebbe avere un ruolo nell’aumento di circolazione del virus.
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Covid, ecco sta succedendo
Alzheimer si manifesta 18 anni prima, gli 8 segnali della malattia
Anziani, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneI segnali predittivi dell’Alzheimer possono comparire fino a 18 anni prima della diagnosi. Lo ha evidenziato uno studio cinese pubblicato sul The New England Journal of Medicine a inizio anno. L’indagine, durata 20 anni, ha coinvolto migliaia di partecipanti e ha evidenziato una sequenza precisa di eventi biologici. Tuttavia, lo studio conferma tesi già note, ma ne approfondisce la tempistica, offrendo la sequenza temporale dei biomarcatori nella progressione della malattia. Resta però il fatto che non esistono ancora strumenti predittivi sufficienti per prevenire con precisione l’Alzheimer.
Cos’è l’Alzheimer
L’Alzheimer è la forma più comune di demenza, una malattia neurodegenerativa che distrugge progressivamente le cellule nervose. Il sintomo principale è la perdita della memoria a breve termine. Nel cervello dei malati si osservano neuroni danneggiati circondati da proteina beta-amiloide e cellule infiammatorie. L’infiammazione cerebrale e i danni ai vasi sanguigni sono altre caratteristiche della malattia.
Diffusione globale dell’Alzheimer
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre 55 milioni di persone nel mondo soffrono di demenza, e si stima che questo numero crescerà fino a 78 milioni entro il 2030. In Italia, circa 1,2 milioni di persone soffrono di demenza, di cui 600 mila sono malati di Alzheimer. Circa 3 milioni di persone sono coinvolte direttamente o indirettamente nella gestione della malattia.
Alzheimer colpisce anche i giovani
Secondo lo studio cinese, l’Alzheimer può manifestarsi anche in età giovane. Gli scienziati hanno analizzato la variazione di proteine specifiche e le alterazioni nel tessuto cerebrale. Questi cambiamenti compaiono in una sequenza definita, culminando nella malattia. Nonostante l’accumulo di beta-amiloide sia un segno distintivo, non è sempre presente in tutti i malati.
Dettagli dello studio cinese
Lo studio, condotto dal professor Jianping Jia, ha coinvolto migliaia di partecipanti nello studio China Cognition and Aging Study (COAST) tra il 2000 e il 2020. I partecipanti sono stati sottoposti a esami regolari, tra cui test del liquido cerebrospinale, scansioni cerebrali e valutazioni cognitive. L’età media dei partecipanti era di 61 anni, e il 50,6% erano maschi. I ricercatori hanno confrontato i dati di 648 individui sani con quelli di 648 persone che hanno sviluppato l’Alzheimer.
Otto segnali del countdown dell’Alzheimer
La ricerca cinese ha dato un contributo significativo per la sua ampiezza e durata, tuttavia l’accumulo di beta-amiloide e la comparsa della proteina tau sono processi conosciuti da tempo. La perdita di volume cerebrale e i primi disturbi cognitivi sono osservabili anni prima della diagnosi.
Differenze di genere nello sviluppo dell’Alzheimer
alzheimer
Un altro studio, condotto dalla Case Western Reserve University e pubblicato su “Cell”, ha scoperto che le donne hanno il doppio delle probabilità rispetto agli uomini di sviluppare l’Alzheimer. Questo potrebbe essere dovuto a una maggiore deposizione di proteina tau nel cervello delle donne. I ricercatori hanno identificato un enzima, USP11, più presente nel cervello femminile, che è collegato alla patologia della tau cerebrale.
Presa Weekly 26 Luglio 2024
PreSa WeeklyAcqua potabile contaminata, l’allarme del rapporto PAN Europe su PFAS e TFA
Alimentazione, Benessere, News, News, Ricerca innovazione, Stili di vitaQuando si parla di contaminanti dell’acqua potabile, i PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono spesso i primi a venire in mente. Tuttavia, oltre ai noti PFAS, esiste un altro composto tossico derivato da questi, che sta emergendo come una seria minaccia per la salute pubblica: l’acido trifluoroacetico (TFA). Un recente rapporto di PAN Europe ha messo in luce la presenza di TFA nell’acqua potabile, rivelando una situazione preoccupante e sottolineando la necessità di un intervento urgente.
Il problema del TFA: un’eredità dei PFAS
L’acido trifluoroacetico (TFA) si forma dalla degradazione dei PFAS. Come i PFAS, il TFA è estremamente stabile e duraturo nell’ambiente, rendendolo una sostanza persistente che contamina le acque europee. Nonostante la sua stabilità e potenziale pericolosità, il TFA è poco conosciuto e scarsamente regolamentato. La sua presenza rappresenta una nuova sfida nella lotta contro l’inquinamento delle acque potabili.
Risultati del rapporto di PAN Europe, numeri oltre i limiti di sicurezza
PAN Europe ha condotto un’analisi su 23 campioni di acque superficiali e sei campioni di acque sotterranee provenienti da dieci paesi dell’UE. Il rapporto ha rivelato che tutti i campioni analizzati contenevano PFAS, con il TFA che costituiva oltre il 98% del totale dei PFAS rilevati. I dati mostrano un quadro allarmante della contaminazione da TFA nelle acque potabili europee.
Il 79% dei campioni d’acqua testati presentava livelli di TFA superiori al limite proposto di 500 ng/l per i PFAS totali dalla Direttiva UE sulle acque potabili. Nessuno degli altri 23 PFAS analizzati ha superato i rispettivi limiti proposti dalla stessa direttiva. I livelli di TFA nei campioni variavano da 370 ng/l a 3.300 ng/l, con una media di 1.180 ng/l, mentre la somma di tutti gli altri 23 PFAS aveva una media di 17,5 ng/l.
Implicazioni della contaminazione da TFA
I livelli di TFA trovati rappresentano la più grande contaminazione idrica territoriale causata da una sostanza chimica prodotta dall’uomo. I pesticidi PFAS sono la causa principale della contaminazione da TFA nelle aree rurali, seguiti da refrigeranti, trattamenti delle acque reflue e inquinamento industriale. La classificazione dei TFA come metaboliti “non rilevanti” nel regolamento UE sui pesticidi ha ostacolato la protezione efficace delle falde acquifere.
Fallimenti regolatori
Il “divieto di deterioramento” della direttiva quadro sulle acque dell’UE non è riuscito a prevenire l’inquinamento crescente da TFA. L’idea che i PFAS a catena corta, come i TFA, siano innocui è sempre più smentita dalle attuali prove scientifiche. Alcuni studi mostrano effetti negativi simili a quelli dei PFAS, in particolare sul sistema riproduttivo.
Mancanza di studi e regolamentazioni
Nonostante la sua potenziale pericolosità, il TFA è poco studiato e non ci sono attualmente valori soglia stabiliti per la sua presenza nell’acqua potabile. L’European Food Safety Authority (EFSA) ha fissato nel 2016 un valore tollerabile di 50 microgrammi (µg) di TFA per chilogrammo di peso corporeo al giorno. Più recentemente, l’Istituto nazionale olandese per la salute pubblica e l’ambiente (RIVM) ha proposto un limite molto più basso, di soli 0,32 µg/kg/giorno.
Richiesta di intervento da parte di PAN Europe
PAN Europe chiede ai governi di agire con urgenza per affrontare questa minaccia. Le misure proposte includono il divieto immediato dei pesticidi contenenti PFAS, dei gas fluorurati e la definizione di un limite massimo di TFA nell’acqua potabile a livello europeo. Proteggere l’acqua potabile è fondamentale per la salute pubblica e richiede un impegno congiunto da parte delle autorità e della comunità scientifica, sottolinea.
Paybak dispositivi medici. Pmi Sanità: al fallimento oltre 2mila aziende
Economia sanitaria, Farmaceutica, News, NewsSalvare il sistema sanitario e i posti di lavoro (circa 200mila) dopo la sentenza della Consulta sul payback dei dispositivi medici, che rischierebbe di mandare sul lastrico oltre 2mila aziende. È stato questo il tema, e l’appello, lanciato in una conferenza stampa organizzata da PMI Sanità, l’associazione nazionale delle piccole e medie imprese che riforniscono gli ospedali di materiali necessari a diagnosi e cure. Il dibattito si è incentrato sulle conseguenze elaborate dallo studio di Nomisma delle due sentenze pubblicate nei giorni scorsi dalla Corte Costituzionale (n. 139 e n. 140) sul meccanismo del payback. “Il payback presenta di per sé diverse criticità ma non risulta irragionevole”, secondo la Corte.
Non sono della stessa opinione le imprese, che chiedono al Governo un tavolo di crisi urgente. All’incontro hanno partecipato il dott. Francesco Conti, l’avv. Giampaolo Austa e il dott. Gennaro Broya de Lucia, rispettivamente Responsabile Relazioni Istituzionali, Legal Team e Presidente di PMI Sanità.
«Una norma sbagliata e inutilmente dannosa», ha sottolineato dal Presidente Broya de Lucia, quella sul payback, che rischia di impattare gravemente sulle imprese, sui lavoratori e sull’esercizio del diritto alla salute di tutti i cittadini, spiega l’associazione. Un rischio che fino a pochi giorni fa era temibile, e ora la sentenza della Consulta ha reso imminente, richiamando l’urgenza di individuare una soluzione.
In una nota anche il vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera, Luciano Ciocchetti si è espresso. “Riguardo al payback dispositivi medici, ritengo, al di là delle sentenze della Corte Costituzionale, che la norma del payback dispositivi medici che risale al 2015 debba essere affrontata e risolta con il suo superamento al più presto.
Come più volte il Parlamento si è espresso con atti di indirizzo. Auspico per questo che il ministero della Salute, il Mef e il Mimit attivino un tavolo con tutte le associazioni rappresentative delle aziende piccole, medie e grandi che forniscono il Ssn dei fondamentali dispositivi medici utili a curare al meglio i pazienti”.
Cos’è il payback
Oltre 8 anni fa, dal Governo Renzi, è stato pensato il sistema di tassazione del payback, di fatto, finora mai applicato, per la sua complessità nonché discussa legittimità. Il D.L. cosiddetto “Aiuti bis”, nel quale è stato inserito nell’ottobre 2022, definisce le regole per l’applicazione di un sistema di compartecipazione delle imprese, allo sforamento dei tetti regionali di spesa sanitaria.
All’atto pratico, lo Stato sposta ex lege una parte dei costi per le cure indispensabili degli italiani sulle aziende private del settore che sono chiamate a sanare lo sforamento del tetto fissato sulla spesa regionale, con una mega tassa pari al 50 per cento dell’intero importo dichiarato dalle regioni. Una cifra enorme, pari a 5 miliardi di euro del quale i fornitori non avevano contezza preventiva né controllo alcuno. Si tratta, di fatto, di una imposizione insostenibile – sottolineano i rappresentanti di PMI Sanità – applicata su forniture effettuate dal 2015 al 2018.
A rischio imprese più piccole
Un meccanismo questo che mette a rischio molte imprese – spiegano – soprattutto quelle più piccole, che non sono in grado di sostenerlo. La Corte Costituzionale, con la sentenza n.140/2024 ha infatti respinto le questioni di legittimità promosse dal TAR Lazio, al quale erano stati rivolti circa 2 mila ricorsi, ritenendo, in sintesi, che il payback: debba essere considerato come un «contributo di solidatierà» necessario a sostenere il SSN; è proporzionato vista la riduzione al 48 per cento disposta dal Governo per il periodo 2015-2018.
“Era prevedibile visto che la legge è del 2015 nonostante i decreti con la determinazione del quantum siano stati pubblicati nel 2022”. Sempre la Corte Costituzionale, con la sentenza n.139/2024, ha stabilito che la riduzione al 48 per cento per il payback 2015-2018 debba essere applicata a tutti gli operatori soggetti a tale misura e non solo a quelli che hanno rinunciato al ricorso. “Con queste sentenze i rischi che fino a pochi giorni fa erano possibili, sono diventati imminenti, dipingendo uno scenario drammatico”.
Lo studio di Momisma
Secondo lo studio “Analisi dei meccanismi di ripartizione del payback per le imprese della filiera dei dispositivi medici” (settembre 2023), sviluppato da Nomisma per PMI Sanità, il payback coinvolge oltre 6.000 imprese di cui il 44 per cento circa ha meno di 10 addetti e il 70 per cento circa ha meno di 50 addetti. Un’impresa su 8 esistente nel 2015 è cessata o è già in stato di insolvenza per cui non potrà pagare. Due imprese su 5 si troverebbero in difficoltà economico-finanziaria se dovessero pagare il payback. Le imprese con almeno un fattore di criticità economico-finanziaria dopo l’applicazione del payback sono, in 3 casi su 4, con meno di 50 addetti, ossia PMI.
Lo studio Nomisma mostra che salvo qualche eccezione, – in proporzione – il payback va a colpire relativamente di più le imprese meno strutturate, condizionandone l’operatività e, in molti casi, la stessa esistenza sul mercato e che continuerà a generare debito e quindi gravi problemi per le società. La scomparsa dal mercato di molte piccole e medie imprese determinerebbe minore concorrenza e, conseguentemente, un abbassamento della qualità dei dispositivi e un innalzamento generalizzato dei prezzi (per ammortizzare il «costo» del payback), che, giocoforza, farebbe ulteriormente aumentare anche l’inflazione (con effetto anche sulla revisione prezzi). Ultima conseguenza infine sarebbe l’eliminazione del gettito ricavato dalle imprese fornitrici che dovessero uscire dal mercato pubblico.
Payback inefficace per contenere i costi
In conclusione, secondo lo studio il payback è uno strumento inefficace per contenere i costi vista la dinamica di aumento dei prezzi che ne deriverebbe almeno per il futuro. La riduzione di concorrenza nel mercato avrebbe l’effetto non solo di aumentare i prezzi, ma anche di ridurre la qualità dei dispositivi offerti perché pagati di più in altri mercati (es. USA).
È imprescindibile sterilizzare gli effetti del payback per il passato (2015-2021) e abolire l’istituto per il futuro salvaguardando, in special modo, le PMI che sono il nocciolo duro dei fornitori del settore – sottolineano i rappresentanti. Una soluzione intermedia, che potrebbe essere auspicabile, è quella della franchigia, che consentirebbe a molte imprese di evitare il fallimento, specie se micro, medie e piccole, eviterebbe la crisi delle forniture direttamente connessa alla crisi finanziaria dei fornitori di dispositivi medici e garantirebbe il mantenimento della concorrenza nel settore.
Broya de Lucia: immediato tavolo di crisi con il Governo e con la Conferenza-Stato Regioni
Gennaro Broya de Lucia, Francesco Conti, Giampaolo Austa
«Le conseguenze della sentenza della Corte Costituzionale possono mettere a rischio molte imprese – dichiara il dott. Gennaro Broya de Lucia – Il payback dispositivi medici è un istituto che sposta artificiosamente miliardi di debito pubblico su malcapitate aziende private che da anni si prodigano quotidianamente per il funzionamento della sanità italiana, specialmente di quella pubblica. Aziende con oltre 30 anni di storia o nuove società, che vengono distrutte.
Questo significa che 200 mila famiglie vedranno in pochi istanti azzerata la loro esistenza professionale e non solo. Per molte delle 6.000 imprese destinatarie della norma mostro, specialmente per le più piccole, significa uscire dal mercato non con una valanga di debiti impagabili imposti per legge e prima inesistenti, debiti enormi perché di una intera nazione. Le nostre società, i nostri collaboratori, i nostri medici e infermieri assistiti, non meritano tutto questo.
Dinnanzi a questa legge profondamente sbagliata e foriera di irreversibili iniquità, il Governo ha ora la possibilità e il dovere di intervenire ed agire nell’interesse della tenuta del sistema sanitario, del lavoro e della Giustizia. PMI Sanità chiede un immediato tavolo di crisi con il Governo e con la Conferenza-Stato Regioni che comprenda le conseguenze sulle piccole e le medie imprese italiane e si adoperi per una soluzione definitiva che tuteli questo strategico comparto. Ai tanti colleghi chiedo: non perdetevi d’animo, non possiamo e non dobbiamo arrenderci.»
Tumori della mammella e del colon: mortalità cala ma non al Sud
NewsAl Sud d’Italia si perdono più anni di vita per i tumori della mammella e del colon. Lo evidenzia il primo rapporto del Gruppo di Lavoro su equità e salute nelle Regioni dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS). La mortalità per questi tumori, storicamente più bassa rispetto al Nord, è ora paragonabile. La causa principale è il minore ricorso agli screening nelle regioni meridionali che produce anche un alto indice di fuga, ovvero il numero di pazienti costretti a spostarsi per curarsi.
I dati
Il gruppo istituito dal presidente dell’ISS, Rocco Bellantone, ha analizzato dati di mortalità, coperture degli screening oncologici e schede di dimissione ospedaliera. Sono state esaminate le differenze regionali nella mortalità per tumore della mammella e del colon-retto, che rappresentano il 40% delle diagnosi di tumore in Italia. Il rapporto ha valutato l’impatto degli screening sulla riduzione della mortalità negli ultimi 20 anni e la capacità delle singole regioni di gestire i pazienti oncologici, analizzando la mobilità sanitaria extra-regionale.
Mortalità cala ma non al Sud
In Italia, la mortalità per tumore della mammella è calata del 16% dal 2001 al 2021. Tuttavia, al Sud la riduzione è stata inferiore rispetto al Nord (-6% vs -21%). In alcune regioni meridionali come Calabria, Molise e Basilicata, si sono osservati incrementi della mortalità pari al 9%, 6% e 0,8% rispettivamente.
Anche per il tumore del colon, il divario tra Nord e Sud è significativo. Nelle donne, la mortalità si è ridotta del 30% al Nord e al Centro, ma solo del 14% al Sud. La situazione è ancora più critica per gli uomini: calo del 33% al Nord, del 26% al Centro e solo dell’8% al Sud. La Calabria è la regione più critica, con una riduzione minima della mortalità nelle donne (-2%) e quasi nulla negli uomini (-0,9%).
Meno decessi dove si fanno più controlli
La copertura degli screening mammografici e del colon-retto mostra un divario Nord-Sud. Al Nord, la copertura degli screening mammografici raggiunge il 90%, mentre al Sud si attesta intorno al 60%. Per i tumori del colon, la copertura è del 67% al Nord, del 51% al Centro e del 26% al Sud. Nelle regioni del Nord, dove gli screening sono più diffusi, la riduzione della mortalità per tumore della mammella è stata del 35% dal 2001 al 2021, molto più elevata rispetto al Sud. Anche per i tumori del colon, nelle regioni del Nord e del Centro, la mortalità si è ridotta del 30%, mentre al Sud solo del 14% nelle donne e dell’8% negli uomini.
Meno screening, indice di fuga più alto
Il rapporto mostra che nel Sud i livelli di mobilità dei pazienti sono tre volte più alti rispetto al Centro-Nord. Per il tumore della mammella, le regioni con coperture di screening più alte presentano indici di fuga più bassi. Nelle regioni con buoni livelli di screening, il sistema sanitario riesce a prendersi carico dei casi di tumore della mammella che necessitano di intervento chirurgico, cosa che non avviene nelle regioni con screening insufficienti. Calabria e Molise sono tra le regioni con i più bassi livelli di copertura dello screening mammografico e i più alti indici di fuga.
In conclusione, il rapporto dell’ISS sottolinea come le disparità regionali nell’accesso agli screening oncologici influiscano negativamente sulla mortalità e sugli anni di vita persi per tumore. La situazione è particolarmente critica nel Sud Italia, dove la riduzione della mortalità per tumori della mammella e del colon è significativamente inferiore rispetto al Nord.