Tempo di lettura: 4 minutiIl cancro al colon retto è il secondo più diffuso in Italia, con 50.500 nuove diagnosi nel 2023 e numeri in aumento tra i giovani. Totò Schillaci, ex campione di calcio, ha scoperto di averlo nel 2022. A soli 56 anni ha subito due interventi, raccontando in più interviste le difficoltà affrontate. La sua vicenda ha riportato l’attenzione su una malattia che non colpisce solo gli anziani, ma anche persone sotto i 50 anni.
Negli Stati Uniti, i tumori del colon retto negli Under 50 sono quasi raddoppiati dall’inizio degli Anni ’90, in numero assoluto. Un recente studio – pubblicato sulla rivista Annals of Oncology – mostra un aumento della mortalità nella fascia 25-49 anni anche in Unione Europea, in particolare nel Regno Unito dove il numero dei decessi causati da questa forma tumorale è cresciuto del 26,1% nei maschi e del 38,6% nelle donne rispetto al 2018. Un trend simile, ma più ridotto, è stato osservato anche in Italia.
La buona notizia è che il tumore al colon retto, nel 90% dei casi, può essere prevenuto grazie alla diagnosi precoce. Tuttavia, i dati mostrano come molti pazienti più giovani arrivino con la malattia più avanzata al momento della diagnosi rispetto alle persone anziane che vengono sottoposte a screening regolarmente.
Il ruolo dello stile di vita
I fattori che sembrano contribuire all’aumento dell’incidenza del tumore del colon retto tra i giovani adulti sono obesità, consumo di alcol e di bevande ad elevato contenuto di zucchero, fumo e sedentarietà, oltre a predisposizione genetica in una percentuale alta di casi. A sottolinearlo è Claudio Belluco, direttore di Chirurgia oncologica generale del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano e vicepresidente della Società Italiana di Chirurgia Oncologica.
Secondo le evidenze scientifiche, lo stile di vita sembra influire sull’aumento del rischio di sviluppare questa patologia attraverso modificazioni del microbioma, ovvero dei microrganismi che vivono nel tratto intestinale, come sottolinea il professor Renato Cannizzaro, direttore della Gastroenterologia oncologica e sperimentale del CRO Aviano, che ha fatto parte del team internazionale di esperti che, lo scorso marzo, ha delineato le linee guida per la diagnosi e la terapia negli Under 50.
Le nuove terapie contro il cancro del colon retto
La diagnosi precoce può fare la differenza tra la vita e la morte per questo tipo di tumore. Tuttavia oggi esistono diverse terapie efficaci, anche nei casi più avanzati. La ricerca ha portato allo sviluppo di farmaci biologici in grado di bloccare la crescita del tumore e l’immunoterapia ha dimostrato di prolungare significativamente la vita dei pazienti con metastasi.
Anche la chemioterapia, che può essere somministrata prima o dopo l’intervento, funziona bene in molti casi per ridurre il rischio di recidive. Tuttavia, molto dipende dall’aggressività del tumore e dalla tempestività della diagnosi. Le statistiche mostrano che in Italia il 65% dei pazienti con diagnosi di cancro al colon vive almeno cinque anni dopo la diagnosi.
Tumore al colon ha molte facce
Non esiste un solo tipo di tumore al colon. Come spiega Antonio Russo, professore ordinario di Oncologia medica all’Università di Palermo, in un’intervista al Corriere della Sera, il carcinoma colon rettale è una neoplasia estremamente eterogenea dal punto di vista genetico-molecolare. Ogni tumore ha delle mutazioni specifiche nel DNA del paziente, che influenzano l’aggressività del cancro e la risposta alle terapie.
Alcuni geni, come KRAS, NRAS, BRAF e quelli coinvolti nella riparazione del DNA, possono fornire informazioni fondamentali sulla prognosi e sulla scelta del trattamento. Conoscere queste alterazioni è oggi cruciale per individuare la strategia terapeutica più efficace. Per esempio, alcuni farmaci funzionano meglio in presenza di determinate mutazioni genetiche, mentre in altri casi può essere utile un approccio diverso, come l’immunoterapia.
Prevenzione e diagnosi precoce: il test sof salva la vita
Nonostante i progressi nella cura, la prevenzione resta l’arma più potente contro il cancro al colon retto. Il 20% dei casi viene diagnosticato in stadio avanzato, quando le metastasi sono già presenti e l’intervento chirurgico non è più risolutivo. Per questo il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof) rappresenta uno strumento fondamentale per la diagnosi precoce. Questo esame, gratuito per tutti i cittadini italiani tra i 50 e i 69 anni, può individuare lesioni precancerose, come polipi intestinali, prima che si trasformino in tumori maligni.
Il tumore al colon retto si sviluppa lentamente, impiegando in media una decina d’anni per passare da un adenoma benigno a una forma maligna. Grazie al test Sof, è possibile rimuovere i polipi prima che diventino pericolosi. Tuttavia, solo la metà degli italiani aderisce a questo programma di screening, nonostante il test possa prevenire fino al 90% dei casi di cancro.
I sintomi da non sottovalutare
Uno dei motivi per cui il tumore del colon retto viene spesso diagnosticato tardi è l’assenza di sintomi evidenti nelle fasi iniziali. Tuttavia, ci sono alcuni segnali che non devono essere ignorati, soprattutto dopo i 50 anni. La presenza di sangue nelle feci, anche in piccole quantità, è uno dei principali campanelli d’allarme. Altri sintomi includono la sensazione di incompleta evacuazione, la necessità di defecare in più tempi ravvicinati, una perdita di peso inspiegabile, stanchezza e febbricola, specialmente nelle ore serali, sottolinea lo specialista nell’intervista.
Alcuni segnali sono invece associati alla presenza di un tumore del colon retto soprattutto nelle persone con meno di 50 anni. Si tratta di: dolore addominale, sanguinamento, diarrea e livelli di ferro bassi. Lo ha messo in evidenza uno studio della Washington University School of Medicine di St. Louis lo scorso anno. I risultati sono pubblicati sul Journal of the National Cancer Institute.
Cancro al colon retto nel 90% dei casi si può prevenire: tutto quello che serve sapere
Farmaceutica, News, Prevenzione, Ricerca innovazioneIl cancro al colon retto è il secondo più diffuso in Italia, con 50.500 nuove diagnosi nel 2023 e numeri in aumento tra i giovani. Totò Schillaci, ex campione di calcio, ha scoperto di averlo nel 2022. A soli 56 anni ha subito due interventi, raccontando in più interviste le difficoltà affrontate. La sua vicenda ha riportato l’attenzione su una malattia che non colpisce solo gli anziani, ma anche persone sotto i 50 anni.
Negli Stati Uniti, i tumori del colon retto negli Under 50 sono quasi raddoppiati dall’inizio degli Anni ’90, in numero assoluto. Un recente studio – pubblicato sulla rivista Annals of Oncology – mostra un aumento della mortalità nella fascia 25-49 anni anche in Unione Europea, in particolare nel Regno Unito dove il numero dei decessi causati da questa forma tumorale è cresciuto del 26,1% nei maschi e del 38,6% nelle donne rispetto al 2018. Un trend simile, ma più ridotto, è stato osservato anche in Italia.
La buona notizia è che il tumore al colon retto, nel 90% dei casi, può essere prevenuto grazie alla diagnosi precoce. Tuttavia, i dati mostrano come molti pazienti più giovani arrivino con la malattia più avanzata al momento della diagnosi rispetto alle persone anziane che vengono sottoposte a screening regolarmente.
Il ruolo dello stile di vita
I fattori che sembrano contribuire all’aumento dell’incidenza del tumore del colon retto tra i giovani adulti sono obesità, consumo di alcol e di bevande ad elevato contenuto di zucchero, fumo e sedentarietà, oltre a predisposizione genetica in una percentuale alta di casi. A sottolinearlo è Claudio Belluco, direttore di Chirurgia oncologica generale del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano e vicepresidente della Società Italiana di Chirurgia Oncologica.
Secondo le evidenze scientifiche, lo stile di vita sembra influire sull’aumento del rischio di sviluppare questa patologia attraverso modificazioni del microbioma, ovvero dei microrganismi che vivono nel tratto intestinale, come sottolinea il professor Renato Cannizzaro, direttore della Gastroenterologia oncologica e sperimentale del CRO Aviano, che ha fatto parte del team internazionale di esperti che, lo scorso marzo, ha delineato le linee guida per la diagnosi e la terapia negli Under 50.
Le nuove terapie contro il cancro del colon retto
La diagnosi precoce può fare la differenza tra la vita e la morte per questo tipo di tumore. Tuttavia oggi esistono diverse terapie efficaci, anche nei casi più avanzati. La ricerca ha portato allo sviluppo di farmaci biologici in grado di bloccare la crescita del tumore e l’immunoterapia ha dimostrato di prolungare significativamente la vita dei pazienti con metastasi.
Anche la chemioterapia, che può essere somministrata prima o dopo l’intervento, funziona bene in molti casi per ridurre il rischio di recidive. Tuttavia, molto dipende dall’aggressività del tumore e dalla tempestività della diagnosi. Le statistiche mostrano che in Italia il 65% dei pazienti con diagnosi di cancro al colon vive almeno cinque anni dopo la diagnosi.
Tumore al colon ha molte facce
Non esiste un solo tipo di tumore al colon. Come spiega Antonio Russo, professore ordinario di Oncologia medica all’Università di Palermo, in un’intervista al Corriere della Sera, il carcinoma colon rettale è una neoplasia estremamente eterogenea dal punto di vista genetico-molecolare. Ogni tumore ha delle mutazioni specifiche nel DNA del paziente, che influenzano l’aggressività del cancro e la risposta alle terapie.
Alcuni geni, come KRAS, NRAS, BRAF e quelli coinvolti nella riparazione del DNA, possono fornire informazioni fondamentali sulla prognosi e sulla scelta del trattamento. Conoscere queste alterazioni è oggi cruciale per individuare la strategia terapeutica più efficace. Per esempio, alcuni farmaci funzionano meglio in presenza di determinate mutazioni genetiche, mentre in altri casi può essere utile un approccio diverso, come l’immunoterapia.
Prevenzione e diagnosi precoce: il test sof salva la vita
Nonostante i progressi nella cura, la prevenzione resta l’arma più potente contro il cancro al colon retto. Il 20% dei casi viene diagnosticato in stadio avanzato, quando le metastasi sono già presenti e l’intervento chirurgico non è più risolutivo. Per questo il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof) rappresenta uno strumento fondamentale per la diagnosi precoce. Questo esame, gratuito per tutti i cittadini italiani tra i 50 e i 69 anni, può individuare lesioni precancerose, come polipi intestinali, prima che si trasformino in tumori maligni.
Il tumore al colon retto si sviluppa lentamente, impiegando in media una decina d’anni per passare da un adenoma benigno a una forma maligna. Grazie al test Sof, è possibile rimuovere i polipi prima che diventino pericolosi. Tuttavia, solo la metà degli italiani aderisce a questo programma di screening, nonostante il test possa prevenire fino al 90% dei casi di cancro.
I sintomi da non sottovalutare
Uno dei motivi per cui il tumore del colon retto viene spesso diagnosticato tardi è l’assenza di sintomi evidenti nelle fasi iniziali. Tuttavia, ci sono alcuni segnali che non devono essere ignorati, soprattutto dopo i 50 anni. La presenza di sangue nelle feci, anche in piccole quantità, è uno dei principali campanelli d’allarme. Altri sintomi includono la sensazione di incompleta evacuazione, la necessità di defecare in più tempi ravvicinati, una perdita di peso inspiegabile, stanchezza e febbricola, specialmente nelle ore serali, sottolinea lo specialista nell’intervista.
Alcuni segnali sono invece associati alla presenza di un tumore del colon retto soprattutto nelle persone con meno di 50 anni. Si tratta di: dolore addominale, sanguinamento, diarrea e livelli di ferro bassi. Lo ha messo in evidenza uno studio della Washington University School of Medicine di St. Louis lo scorso anno. I risultati sono pubblicati sul Journal of the National Cancer Institute.
Proteine vegetali: seitan, legumi e altre alternative alla carne senza grassi saturi
Alimentazione, Benessere, News, Prevenzione, Stili di vitaL’attenzione verso modelli alimentari più sostenibili e salutari continua a crescere, trainata da una crescente domanda di fonti proteiche vegetali come alternativa o per ridurre le proteine animali. Il seitan, i legumi e prodotti innovativi a base di proteine vegetali sono tra i prodotti più diffusi. Secondo i nutrizionisti, ci sono validi motivi per integrare le proteine vegetali nella dieta, tra cui l’assenza di colesterolo. Tuttavia, sottolineano l’importanza di una corretta diversificazione di cibi vegetali, necessaria per garantire un adeguato apporto di tutti gli aminoacidi essenziali.
Seitan: la carne vegetale ad alto contenuto proteico
Il seitan è una fonte di proteine vegetali. Deriva dal glutine del grano e la sua consistenza è simile alla carne. Una porzione da 100 grammi di seitan contiene circa 25 grammi di proteine, quindi rappresenta un ottimo sostituto delle proteine animali. Il seitan, inoltre, è molto versatile in cucina e si può preparare in molti modi.
Un limite del seitan è che non contiene tutti gli amminoacidi essenziali. Per bilanciare la dieta, è quindi necessario integrarlo con altre fonti proteiche vegetali, secondo gli specialisti. Inoltre, poiché è a base di glutine, non è adatto a chi soffre di celiachia o intolleranza al glutine.
Legumi: la base delle proteine vegetali
I legumi sono tra le principali fonti di proteine vegetali. Fagioli, ceci, lenticchie, piselli e soia sono alimenti ricchi di proteine e fibre. Una porzione di lenticchie, ad esempio, contiene circa 9 grammi di proteine per 100 grammi e ha una quantità elevata di fibre, essenziali per la salute intestinale.
I legumi sono un alimento fondamentale nella dieta mediterranea e in molte altre tradizioni alimentari. Il consumo regolare riduce il rischio di malattie cardiovascolari e aiuta a mantenere stabili i livelli di zucchero nel sangue.
Uno dei vantaggi dei legumi è che sono naturalmente privi di grassi saturi, quindi riducono il rischio di colesterolo e di malattie cardiache.
Altri prodotti proteici vegetali: lupini, spirulina e proteine isolate
Tra le altre fonti di proteine vegetali, ci sono i lupini, utilizzati soprattutto in Italia e in altri Paesi mediterranei. Contengono circa 16 grammi di proteine per 100 grammi. Sono anche ricchi di fibre e poveri di grassi.
La spirulina, un’alga che cresce in acqua dolce, è un’altro alimento vegetale che contiene circa 57 grammi di proteine per 100 grammi, oltre a vitamine e minerali essenziali, come ferro e vitamina B12. Tuttavia, è consigliata in quantità moderate, poiché alcuni studi suggeriscono che l’eccessivo consumo di alghe possa causare squilibri minerali.
Le proteine isolate vegetali, come quelle derivanti da piselli o riso, sono spesso usate per aumentare l’apporto proteico, senza carboidrati o grassi. Vengono spesso utilizzate in polveri proteiche per frullati o barrette energetiche.
La sfida delle proteine complete
Non tutte le proteine vegetali contengono gli amminoacidi essenziali nelle giuste proporzioni. Questo è uno degli svantaggi rispetto alle proteine animali. Tuttavia, combinare diverse fonti proteiche vegetali, come legumi e cereali, può aiutare a ottenere un profilo proteico completo. Ad esempio, riso e fagioli o pasta e ceci sono combinazioni tradizionali che forniscono tutti gli amminoacidi essenziali, secondo i nutrizionisti.
Aspettiamoci un’influenza aggressiva
Anziani, GenitorialitàL’influenza? Aspettiamoci un virus aggressivo con una stagione che potrebbe essere addirittura peggiore rispetto a quella dell’anno precedente. Nel 2023-2024, in Italia si sono registrati circa 15 milioni di casi di infezioni da virus influenzali e parainfluenzali, mettendo a dura prova il sistema sanitario nazionale. Ecco perché i medici stanno chiedendo a gran voce di partire quanto prima con la campagna vaccinale.
Ritorno ai livelli di copertura pre-Covid
A mettere sul chi va là gli esperti è in particolare il dato sulle coperture vaccinali che, nella stagione 2023-2024 sono arrivare a non più del18,9% della popolazione generale, rispetto al 20,2% dell’anno precedente. Si tratta di un netto declino rispetto al picco raggiunto nel 2020-2021, durante la pandemia da Covid-19, quando la copertura vaccinale arrivò al 65,3%. Un disinteresse dei cittadini verso il vaccino che è molto preoccupante, soprattutto se si guarda ai soggetti a rischio, come gli anziani, per i quali il vaccino antinfluenzale rappresenta un vero e proprio salvavita.
Comunicazione chiara
Ecco perché esperti del calibro di Francesco Vaia, Direttore della prevenzione del Ministero della Salute, sottolineano l’importanza di una comunicazione chiara e trasparente da parte delle istituzioni. Secondo Vaia, è fondamentale che i cittadini siano informati e messi nelle condizioni di prendere decisioni consapevoli riguardo alla vaccinazione, con il supporto della scienza e del personale medico.
L’importanza del confronto con l’Australia
L’idea che la prossima stagione influenzale sarà molto dura arriva anche e soprattutto dall’osservazione di ciò che è accaduto in altre parti del mondo. Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore sanitario dell’IRCCS Galeazzi – Sant’Ambrogio di Milano, ha spiegato che ciò che ci si deve attendere in Italia può essere previsto osservando l’influenza in Australia, dove la stagione invernale appena conclusa è stata più intensa rispetto al 2023-2024.
Il ruolo dei medici di famiglia
Per prevenire una situazione analoga, i medici di famiglia sono già pronti per la campagna vaccinale. Silvestro Scotti, segretario generale della FIMMG, ha spiegato che i software e le piattaforme in dotazione ai medici consentono di identificare i pazienti target in base all’età, alle cronicità e alle fragilità. Tuttavia, la tempestiva disponibilità dei vaccini rimane cruciale. Scotti ha sottolineato l’importanza di evitare carenze di dosi o ritardi burocratici, fattori che l’anno scorso hanno limitato la somministrazione contemporanea del vaccino antinfluenzale e di quello contro il Covid-19.
Quando parte la campagna vaccinale
La campagna di vaccinazione antinfluenzale dovrebbe iniziare i primi giorni di ottobre, ma come ogni anno le date variano da regione a regione. Nel Lazio e in Lombardia le somministrazioni inizieranno il 1° ottobre, mentre in Veneto e in Emilia il 7 ottobre. In Piemonte, invece, bisognerà attendere fino al 15 ottobre. Anche le farmacie svolgeranno un ruolo importante nella distribuzione dei vaccini, come già accaduto nella stagione precedente, soprattutto in regioni come la Liguria e la Lombardia.
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Ecco perché lo stress fa ingrassare
Alimentazione, News, RubricheLo stress? Ci fa ingrassare! Teresa Di Lauro, biologa e specialista in scienze dell’alimentazione, spiega quali sono i meccanismi che ingannano il nostro copro inducendolo a “spegnere” il metabolismo. Il primo di questi meccanismi riguarda lo stress: sotto pressione per il lavoro – dice la dottoressa – il nostro corpo inizia a rilasciare cortisolo (ormone dello stress, ndr) che, tra l’altro, ha l’effetto di sedare la fame. Presi dal tran tran tran e senza lo stimolo della fame, finiamo col saltare i pasti. Poi, la sera, quando siamo ormai a casa e iniziamo a rilassarci, ritroviamo l’appetito e ci diamo alle grandi abbuffate.
Quindi è questo il meccanismo che ci fa prendere chili?
In parte sì, ma c’è di peggio a causa di quello che si definisce “effetto carestia”. Facendo molte ore di digiuno al danno si aggiunge la beffa.
In che modo?
Il nostro organismo è una macchina perfetta e come primo obiettivo ha quello di assicurare la sopravvivenza. Il metabolismo si spegne per una ragione che potremmo definire ancestrale: saltare il pranzo, magari dopo aver preso a colazione solo un caffè, è un segnale d’allarme per il nostro corpo. Significa che siamo in scarsità di risorse e che probabilmente dovremo essere pronti a lunghi periodi di digiuno, ai quali seguirà l’esigenza di accumulare il più possibile quando troveremo nuovamente del cibo.
Sta dicendo che non mangiando peggioriamo la situazione?
Sì, perché il corpo tende a massimizzare l’acquisizione di sostanze nutritive quando percepisce una condizione di carestia. Questo è anche un grande problema legato alle diete drastiche che spesso sono legate a mode del momento.
Cosa consiglierebbe a chi vuole perdere qualche chilo di troppo?
Più che di dieta dobbiamo parlare di piano alimentare. Sembra una banalità, ma la differenza è sostanziale. Il compito di un nutrizionista è quello di proporre al paziente uno stile di vita che duri nel tempo, qualcosa che sia sostenibile e compatibile con gli impegni di tutti i giorni, con la mancanza di tempo e anche la sacrosanta voglia di fare qualche strappo ogni tanto.
Un piano personalizzato e senza imposizioni drastiche?
Premesso che tutti viviamo delle vite stressanti, ciascuno ha la propria giornata tipo. Noi dobbiamo prima di tutto ascoltare per campire come inserire in quel tipo di giornata delle sane abitudini. Chiaramente un po’ di impegno serve, ma l’imposizione di misure drastiche non è qualcosa che a lungo tempo funziona.
Quindi, i limiti eccessivi e le imposizioni drastiche sono alla base del fallimento?
Sa cosa dico sempre ai miei pazienti? “Inizierai a stare a dieta il giorno che smetterai di metterti a dieta”.
Che potrebbe sembrare un controsenso, no?
Chiaramente è una provocazione, ma ciò che voglio dire è che se veramente vogliamo dimagrire e avere un’alimentazione corretta allora non possiamo pensare di eliminare completamente e sempre tutto quello che “non è dietetico”. Bisogna essere equilibrati. Detto ciò, non ci sono scorciatoie, la dieta deve prevedere carboidrati, grassi e proteine.
Andando sul concreto, come possiamo far accelerare il metabolismo?
Il trucco, se così lo possiamo definire, è quello di mangiare poco e spesso. È il modo migliore per tenere sempre il motore acceso e ottimizzare il metabolismo. Snack come carote e finocchi sono perfetti. Anche una giusta massa muscolare è importante, perché il muscolo consuma anche quando siamo a riposo aumentando il nostro metabolismo basale.
Si sente spesso dire che l’alimentazione è il miglior farmaco, lei che ne pensa?
Mangiare bene e fare attività fisica è determinante per restare in salute. Questo non significa poter risolvere ogni problema con la giusta alimentazione, ma ci meraviglieremmo di vedere l’impatto che ha il cibo sulla possibilità di ammalarci.
Può spiegarci meglio?
Alcune malattie hanno una predisposizione genetica, e questa incide del 20 per cento. Il restante 80 per cento dei fattori che sono trigger della malattia sono attribuibili agli stili di vita.
Una lista di alimenti da preferire?
Carboidrati non raffinati, possibilmente integrali. Pasta, pane, cereali, legumi sono tutti alimenti che devono far parte della nostra dieta. Se possibile, meglio sempre scegliere alimenti a chilometro zero.
Veniamo al tema dolente: carne e pesce?
Per un adulto, io consiglio di mangiare la carne (bianca) non più di 3 volte a settimana; il pesce anche 4 o 5 volte. Attenzione però a scegliere alimenti che non contengano antibiotici e ormoni, come spesso avviene con il pesce o il pollo d’allevamento.
E i prodotti surgelati?
Paradossalmente, i prodotti congelati sono spesso sottoposti a molti più controlli dei prodotti “freschi”, quindi anche più sicuri. Chiaramente è essenziale preservare la catena del freddo.
Un’ultima domanda: quanto peso dovremmo puntare a perdere nell’arco di un mese?
Quando si inizia una dieta dimagrante, di solito il primo mese è quello nel quale perdiamo di più e più facilmente. Non dovremmo mai andare oltre il 5 per cento del nostro peso. Una persona che sia sugli 80 kg dovrebbe perdere al massimo 4kg in un solo mese.
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Attività fisica intensa riduce il rischio di demenza nei pazienti ipertesi
News, Prevenzione, Ricerca innovazione, Sport, Stili di vitaLa pressione alta è un fattore di rischio per la demenza, ma l’attività fisica intensa potrebbe offrire una protezione significativa. Uno studio recente rivela che esercitarsi vigorosamente anche solo una volta a settimana può ridurre il rischio di demenza nei pazienti ipertesi, aprendo nuove prospettive nella prevenzione di malattie neurodegenerative.
Lo studio su ipertensione e declino cognitivo
Le persone affette da ipertensione sono più esposte a rischi di declino cognitivo e demenza. Ma uno studio condotto dalla Wake Forest University ha mostrato che l’esercizio fisico vigoroso può contribuire a preservare le facoltà mentali, anche nei soggetti più a rischio. I ricercatori hanno esaminato dati raccolti all’interno del «Systolic Blood Pressure Intervention Trial» (SPRINT), uno studio iniziato nel 2009 con oltre 9.300 partecipanti di età pari o superiore ai 50 anni.
Come l’attività fisica può aiutare il cervello
Secondo lo studio pubblicato su Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association, una o più sessioni di esercizio vigoroso alla settimana abbassano l’incidenza di deterioramento cognitivo lieve e demenza. I risultati parlano chiaro: tra coloro che praticavano attività fisica intensa, l’incidenza di lieve deterioramento cognitivo era del 6,5%, contro l’8,8% degli altri. La demenza, invece, colpiva il 3,1% dei pazienti attivi rispetto al 4,3% di quelli inattivi. Questi numeri suggeriscono che l’attività fisica non solo aiuta a mantenere in salute il cuore, ma protegge anche il cervello. Tuttavia, i benefici maggiori sono stati osservati tra i partecipanti più giovani, quelli sotto i 75 anni.
L’esercizio vigoroso per i pazienti con ipertensione
L’impatto positivo dell’attività fisica è stato ulteriormente confermato dai risultati dello studio ausiliario SPRINT MIND, che ha collegato il controllo intensivo della pressione sanguigna a una riduzione del rischio di lieve deterioramento cognitivo. Il movimento vigoroso sembrerebbe essere un fattore chiave nella prevenzione della demenza. L’attività fisica contribuisce a migliorare la salute del cuore, abbassa la pressione sanguigna e stimola meccanismi fisiologici che favoriscono la neurogenesi, ovvero la generazione di nuovi neuroni. Questi processi, insieme alla plasticità sinaptica e alla riduzione dello stress ossidativo, contribuiscono alla protezione delle funzioni cerebrali.
Necessità di ulteriori ricerche
Nonostante i risultati promettenti, sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere con precisione la quantità e l’intensità di esercizio fisico necessarie per preservare le funzioni cognitive. Richard Kazibwe, docente di Medicina interna e autore principale dello studio, ha sottolineato l’importanza di continuare le indagini su questo tema. La sfida rimane definire con esattezza i parametri di allenamento che possano garantire la protezione del cervello. Finora, lo studio fornisce prove chiare: l’attività fisica vigorosa ha un impatto positivo, ma ci sono ancora molte domande aperte.
I numeri dell’ipertensione e della demenza
L’ipertensione colpisce circa un terzo della popolazione adulta nel mondo. Si stima che oltre 65 milioni di persone convivano con forme di demenza, una cifra che potrebbe salire a 175 milioni entro il 2050. Per chi soffre di ipertensione, il rischio di sviluppare declino cognitivo lieve, Alzheimer e demenza vascolare è particolarmente elevato. Tuttavia, l’attività fisica può rallentare il processo neurodegenerativo. Studi hanno dimostrato che l’esercizio favorisce l’aumento di corpi chetonici, acido lattico e miochine, tutti elementi che giocano un ruolo chiave nella neuroprotezione.
Come il movimento protegge il cervello
I meccanismi attraverso cui l’esercizio fisico agisce sono molteplici. L’aumento della produzione di corpi chetonici, derivati dei lipidi, e di acido lattico durante l’attività fisica contribuisce a sostenere il metabolismo cerebrale. Inoltre, l’esercizio stimola la neurogenesi nell’ippocampo, una regione del cervello coinvolta nella memoria e nell’apprendimento. Anche la plasticità sinaptica, ovvero la capacità dei neuroni di creare nuove connessioni, gioca un ruolo fondamentale. Infine, l’attività fisica riduce lo stress ossidativo, un processo che danneggia le cellule nervose e accelera il declino cognitivo. Questi meccanismi insieme spiegano come il movimento possa proteggere il cervello e rallentare la patogenesi della demenza.
Onia: ragazzi europei snobbano preservativo. In Italia boom di infezioni
Adolescenti, News, News, PrevenzioneI risultati del rapporto stilato dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS, realizzato nell’ambito dello studio Health Behavior in School-aged Children (HBSC) mostrano un “preoccupante aumento dei comportamenti sessuali a rischio dei giovani”. Una tendenza che secondo l’Osservatorio nazionale infanzia e adolescenza (Onia) della Federazione italiana di sessuologia scientifica (FISS) richiede “l’avvio immediato di un’azione ampia e incisiva sul piano educativo e preventivo, inserendo l’educazione sessuale estensiva nel percorso scolastico, come da tempo richiesto dalle più importanti agenzie internazionali, dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), all’UNESCO, alla stessa Unione Europea”.
Diminuisce uso del preservativo
I dati, a confronto con quelli di dieci anni fa, evidenziano una diminuzione dell’uso del preservativo che riguarda più Paesi, con alcuni che hanno registrato riduzioni più drammatiche di altri.
I ricercatori hanno intervistato oltre 242mila quindicenni in 42 Stati. In base alle risposte, solo sei 15enni su dieci ha dichiarato di aver usato nell’ultimo rapporto il preservativo. In particolare, tra il 2014 e il 2022 la percentuale di adolescenti che lo hanno utilizzato è scesa dal 70% al 61% tra i ragazzi e dal 63% al 57% tra le ragazze.
Gli adolescenti provenienti da famiglie poco abbienti hanno dichiarato con maggiore probabilità di non aver usato il preservativo o la pillola contraccettiva rispetto ai coetanei più benestanti (33% contro il 25%).
“Abbiamo osservato negli anni un calo progressivo e costante nel ricorso a metodi di protezione da parte dei giovani e giovanissimi, poco più di sei ragazzi su dieci utilizzano il preservativo e i 17enni lo usano ancora meno dei 15enni”, spiega professor Piero Stettini, psicoterapeuta e sessuologo clinico di Savona, vice presidente della FISS e membro dell’Osservatorio.
“C’è stato – riconosce –, è vero, un piccolo aumento del ricorso alla pillola contraccettiva (con una percentuale che non raggiunge il 15%, quando in Paesi come Olanda, Svezia, Danimarca siamo al 50-60%) ma, per quanto riguarda le infezioni sessualmente trasmesse, la pillola non dà alcuna protezione, anche se come risulta da una nostra recente ricerca ben 1 ragazzo/a su 5 ritiene che protegga anche contro di esse. Lo studio HBSC evidenzia inoltre un ricorso crescente al coito interrotto (quasi 6 ragazzi/e su 10 lo praticano) e alla contraccezione di emergenza cui si rivolge più di uno o una 15/17enne su 10”.
“Un quadro inquietante, dove la cosa che più preoccupa è che, a fronte di queste realtà, le istituzioni sono, tranne isolate eccezioni, ferme o ben poco attive, con i giovani che vengono lasciati soli di fronte a rischi che possono gravemente nuocere alla loro vita, la loro salute, il loro futuro”, commenta il professor Stettini.
Boom infezioni in Italia
“Gli ultimi dati provenienti dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) – continua Stettini – ci dicono che in tutta Europa, e particolarmente in Italia, c’è stato un boom delle infezioni sessualmente trasmissibili. In Italia la gonorrea tra i 15/17enni è addirittura sestuplicata nel giro di pochi anni (quando in Europa è raddoppiata), la clamidia è più che raddoppiata con i giovani la fascia più a rischio e la sifilide è triplicata”.
“In Italia – commenta – la situazione è più critica, mancando ancora una legge e linee guida nazionali che assicurino e indirizzino le attività informative e formative rivolte ai giovani sulla sessualità. A differenza di quasi tutti i Paesi europei, l’educazione sessuale non è inserita nei curricoli scolastici e negli ultimi anni diverse, valevoli, pur se isolate, iniziative e programmi (molte sono state attivate dai Consultori familiari pubblici), sono stati ridimensionati o interrotti per la mancanza di investimenti adeguati”.
Le iniziative
Il 4 settembre si è celebrata la Giornata mondiale del benessere sessuale promossa dall’Oms, un’occasione per rinnovare il messaggio della prevenzione.
Fra i progetti volti all’educazione sessuale attivi in Italia da qualche anno vi è EduForIST, finanziato dal Ministero della Salute che opera in sei regioni: Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Lombardia e Friuli. Indirizzato agli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, coinvolge 4 Università, un gruppo allargato di esperti e volontari di molte associazioni. “E’ un progetto ambizioso – osserva Stettini –, di educazione all’affettiva e alla sessualità finalizzato a promuovere non solo conoscenze scientificamente corrette, ma anche atteggiamenti e abilità personali e relazionali che assicurino sia la prevenzione dei rischi, sia, come richiesto dalla stessa OMS, lo sviluppo in positivo della salute sessuale dei giovani”.
Infarto: i sintomi nelle donne a cui prestare attenzione
News, Prevenzione, Stili di vitaI sintomi dell’infarto nelle donne si manifestano in modo diverso rispetto agli uomini. Il caso della giovane donna 28enne deceduta lo scorso febbraio, ha riportato alla luce una questione spesso ignorata: le donne sperimentano sintomi meno noti e, per questo, potrebbero non ricevere cure tempestive. I segnali femminili, infatti, non sono sempre associati al classico dolore toracico, che caratterizza i casi maschili, e possono passare inosservati o essere sottovalutati.
Donne: una su due è a rischio infarto dopo i 50 anni
Il rischio di infarto aumenta significativamente per le donne dopo la menopausa. I dati scientifici indicano che una donna su due, dopo i 50 anni, è a rischio senza saperlo. Le patologie cardiache tendono a svilupparsi lentamente, con sintomi che si evolvono nel corso di mesi o anni. Questo ritardo diagnostico può essere letale, poiché il tempo è un fattore cruciale quando si parla di attacchi cardiaci. Se la diagnosi ritarda, infatti, le possibilità di un trattamento efficace si riducono drasticamente.
Sintomi comuni ma poco riconosciuti
Gli uomini solitamente sperimentano un dolore intenso al torace che si irradia a braccia e schiena. Nelle donne, invece, l’infarto può manifestarsi con segni meno evidenti ma comuni, come mal di schiena, dolore al collo o alle spalle, nausea, sudori freddi e capogiri. Non essendo associati immediatamente a un attacco cardiaco, causano spesso ritardi nel trattamento. La stanchezza estrema, un altro sintomo femminile, viene spesso scambiata per semplice affaticamento.
Mal di schiena e dolore al collo tra i segnali comuni non riconosciuti
Uno dei sintomi più frequenti nelle donne è un mal di schiena che non si risolve con il riposo e può estendersi al collo e alle spalle. Il dolore toracico tipico negli uomini, che opprime il petto come una morsa, è invece meno comune nelle donne. Il dolore può irradiarsi anche allo stomaco, confondendo ulteriormente la diagnosi.
Nausea e sudori freddi: sintomi atipici ma frequenti
La nausea intensa, associata a sudori freddi improvvisi, può essere un altro segnale nelle donne. Questi sintomi sono spesso scambiati per disturbi gastrointestinali o stress. Le stesse donne tendono a sottovalutare questi segnali, arrivando in ospedale in ritardo rispetto agli uomini. Anche medici possono non riconoscere subito i sintomi atipici. Una diagnosi precoce, invece, è cruciale per ridurre i danni al cuore e aumentare le possibilità di sopravvivenza.
Stanchezza estrema, segnale da non ignorare
Un altro sintomo che spesso passa inosservato è la stanchezza estrema. Le donne possono sentirsi esauste senza una spiegazione apparente. Se la sensazione di affaticamento non è legato a sforzi fisici, può indicare un problema cardiaco. Quando questo sintomo si presenta insieme ad altri, come capogiri o dolori al torace, è opportuno rivolgersi subito al personale medico.
Menopausa e rischi cardiovascolari
Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte per le donne in menopausa. Superano anche le forme di tumore, incluso il cancro al seno. Le donne sviluppano malattie cardiache con un ritardo di circa 10 anni rispetto agli uomini, ma quando accade, la gravità dell’infarto è maggiore. I principali fattori di rischio includono obesità, ipertensione, diabete e colesterolo alto. Il fumo, inoltre, è un fattore aggravante che aumenta il rischio di infarto. La prevenzione, dunque, diventa essenziale per ridurre l’incidenza di eventi fatali.
Anziani e sintomi invisibili
Con l’avanzare dell’età, i sintomi possono diventare ancora più difficili da riconoscere, soprattutto negli anziani. Il dolore toracico può essere completamente assente e l’infarto può manifestarsi solo con affanno o difficoltà a espandere il torace. Vertigini, svenimenti e la sensazione di avere la testa leggera sono segnali che indicano una ridotta circolazione sanguigna al cervello. Anche le variazioni del battito cardiaco possono essere il preludio di un attacco imminente.
Prevenzione e diagnosi precoce
Il rischio di infarto può essere ridotto attraverso la prevenzione. Controllare regolarmente i fattori di rischio come la pressione alta, il colesterolo e il diabete, così come smettere di fumare e seguire uno stile di vita sano, riduce drasticamente il rischio.
Presa Weekly 6 Settembre 2024
PreSa WeeklyDiabete tipo 1 non ferma gli atleti, il torneo di calcio a 5 contro i pregiudizi
NewsUna giornata per dire sì alla pratica sportiva da parte delle persone con diabete e dimostrare, in campo, che praticare sport è consigliabile. È l’iniziativa calcistica a cui parteciperà sabato 7 settembre, a Perugia, Fand – Associazione Italiana Diabetici con la propria squadra “Fand Italia”: si chiama “Un calcio al diabete” ed è organizzata da Agd Umbria. In campo scenderanno squadre di atleti con diabete di tipo 1 e non, compresa la squadra di Fand, che si sfideranno in un torneo di calcio a cinque. Si tratta dell’ottava edizione dell’iniziativa, in cui le squadre si affronteranno per ricordare che anche chi convive con la patologia può praticare sport a livello agonistico.
Atleti con diabete di tipo 1
La squadra “Fand Italia” è composta da 11 giocatori, ragazzi dai 13 anni in su che, allenati da Marcello Mancini, Presidente Aiac Onlus. Daranno come sempre il massimo nella competizione, per sfatare i pregiudizi e combattere lo stigma nei loro confronti. La pratica sportiva, infatti, come parte integrante di stili di vita sani, gioca un ruolo fondamentale nella prevenzione e nella cura della patologia.
Con “Un calcio al diabete” prosegue la sinergia che Fand e Aiac Onlus hanno avviato con il progetto “Diabete in campo: un punto che fa la differenza!”, che ha già visto la manifestazione “The coach experience”, la nascita del progetto calcio di Fand, e l’attenzione di Aiac verso le persone con la malattia, per superare le barriere che ostacolano la vita quotidiana e sensibilizzare sull’importanza dello sport come stile di vita.
Superare lo stigma
«È importante superare pregiudizi, discriminazioni e stigma che colpiscono le persone con diabete nella vita sociale, scolastica, lavorativa e sportiva – dichiara il Presidente Fand, Emilio Augusto Benini – Ci sono atleti di livello internazionale che praticano sport e convivono con la patologia ed è importante ogni iniziativa in questa direzione per contrastare il messaggio scorretto, e troppo diffuso ancora, cioè che la persona con diabete non possa fare sport, perché è invece il contrario: sarebbe bene che lo facesse. Va lanciato un messaggio di speranza, affinché le persone con la patologia, quelle che desiderano praticare l’attività sportiva per il proprio benessere psicofisico, e anche quelle che aspirano a diventare atleti professionisti, non vi rinuncino».
Mal di schiena, nel 2050 supererà l’Alzheimer
Associazioni pazienti, News, Stili di vitaNel 2050 il mal di schiena sarà un problema più diffuso e grave dell’Alzheimer, lo rivela uno studio pubblicato di recente sulla rivista Lancet. Parliamo di un disturbo che costringe all’immobilità 1 italiano su 3 ogni anno con un gravissimo impatto sociale ed econimico e, nonostante questo, resta tra i più trascurati.
Il movimento che non si ferma
Una questione culturale, insomma, la percezione di un disturbo che può essere anche trattato in un secondo momento. Nulla di più sbagliato! Proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sul mal di schiena e sulle ripercussioni che può avere, la Federazione Nazionale ordini Fisioterapisti (Fnofi), in vista della Giornata Mondiale della Fisioterapia dell’8 settembre, lancia la campagna di comunicazione sul mal di schiena Il movimento che non si ferma.
I dati sul mal di schiena
Il mal di schiena è tra le prime otto cause di disabilità e infermità e nel 2050 scalerà su di un posto: dall’ottavo al settimo, arrivando a precedere una patologia invalidante come l’Alzheimer. Il mal di schiena diventerà quindi una delle cause invalidanti più importanti e diffuse tra la popolazione mondiale. Secondo l’Istat sono 8,6 milioni le persone che in Italia hanno difficoltà motorie, di cui 3,4 milioni con difficoltà gravi, e 5,5 milioni le persone che ricorrono al fisioterapista. Già l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a fine 2022, segnalava come il 40% della popolazione europea e il 47% della popolazione italiana avesse necessità di ricevere un intervento riabilitativo, di cui la grande maggioranza di tipo fisioterapico (circa 27 milioni di connazionali).
Rinuncia alle cure
L’analisi riportata su Lancet conferma quanto il mal di schiena, nello specifico, sia già una patologia invalidante e fornisce una prospettiva su cui urge fare prevenzione: da qui al 2050, l’Italia rientrerà in quella categoria di Paesi con la probabilità di veder crescere, tra il 46% e il 53%, patologie e disturbi come il mal di schiena. A fronte di dati in crescita, tuttavia, sono almeno 4,5 milioni gli italiani che rinunciano a curarsi, ed oltre a questi occorre considerare anche coloro che necessitano di interventi fisioterapici e riabilitativi ma che vi rinunciano per molteplici ragioni.
Eliminare gli ostacoli
“Come Federazione ci impegniamo ad intervenire su un quadro, appunto il mal di schiena, che per sua natura ha generalmente un esito favorevole, a migliorare l’accessibilità delle cure per i cittadini, a far sì che il fattore economico non sia una barriera per affrontarlo nel migliore dei modi, rendendo in questo modo il sistema salute più sostenibile, favorendo anche l’apporto di valore che i liberi professionisti fisioterapisti possono dare al Ssn”, dice il presidente della Fnofi Piero Ferrante.
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