Tempo di lettura: 2 minutiIn una società assediata dal rumore, il silenzio può rappresentare una fortezza? E quando la connessione è onnipresente, inevitabile e rischiosa per la salute, la disconnessione andrebbe tutelata come un diritto?
IPERCONNESSIONE
L’iper-connessione offerta dalle tecnologie di comunicazione istantanea, insieme alla diffusa digitalizzazione post-pandemica del lavoro, permette di interagire e lavorare anywhere, anytime, smaterializzando lo spazio-tempo personale, sociale e lavorativo. In questa perenne attività onlife (una realtà intrecciata tra virtuale e materiale, come l’ha definita il filosofo dell’informazione Luciano Floridi), in questo eterno presente in cui si è sempre presenti, si insidia la reperibilità coatta del lavoratore. Può trattarsi di una e-mail con una richiesta gentile, una semplice telefonata di sera o un banale pollice in su ricevuto appena svegli su whatsapp: quanto basta a ricordarti che tu sei sempre quello lì, quello che lavora, che hai responsabilità che ti aspettano, impedendoti di riposare davvero, di guardare altrove per attingere ristoro, benessere o semplice svago.
DISCONNESSIONE
La separazione dell’ambito privato da quello lavorativo si è dimostrata di vitale importanza: durante i periodi di lockdown generalizzato, per esempio, in molti hanno dovuto rinunciare al tragitto casa-lavoro, quel benefico momento di switch tra le due personalità (spesso distanti tra loro) che distinguono la persona dal lavoratore. Questa perdita restituisce spesso un senso di vuoto, di mancata scansione temporale, di confusione. Tutti i diversi contesti si fondono: non sei più una persona che, tra le altre cose, lavora, ma un lavoratore perennemente disponibile.
Oggi, a livello europeo, il tema è molto sentito. In Italia, in particolare, il Decreto Legge 30 del 2021 ha stabilito che «l’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi», riconoscendo quanto la scienza ha già stabilito da tempo: l’iper-connessione ha effetti negativi non solo sulla produttività e sul senso di soddisfazione del lavoratore, ma anche sulla salute di ogni individuo.
I RISCHI
Sono state infatti dimostrate correlazioni dell’abuso di internet con disturbi posturali, per esempio la sindrome del text neck (il collo-da-smartphone, una serie di disturbi della regione cervicale), o l’infiammazione del pollice-da-SMS (SMS thumb), che possono sul lungo termine sfociare in disabilità; ma anche con stati ansiosi o depressivi, o con l’impoverimento della qualità del sonno (per esempio a causa dello sleep texting, l’abitudine di interagire con lo smartphone nel dormiveglia); addirittura con scompensi nel circuito delle ricompense (il sistema dopaminergico, che ha un ruolo centrale anche nelle dipendenze, poiché scrollare la pagina, o ricevere un like, è come giocare d’azzardo).
Del resto, staccare la spina ritagliandosi un momento in cui non si ha nulla da fare (assolutamente nulla!) è sempre stato fondamentale per l’equilibrio psicofisico dell’uomo: lo dimostrano gli innumerevoli benefici delle discipline contemplative come la meditazione.
Nonostante tutte queste evidenze, purtroppo, le leggi sono spesso limitate ai lavoratori pubblici in smart working, o comunque troppo generiche e di fatto inattuate: è per questo che c’è chi invoca la disconnessione come diritto fondamentale e universale dell’uomo. A ben pensarci, quest’ultimo rappresenterebbe una declinazione moderna dei diritti più ampi alla salute, alla libertà, all’identità e all’espressione personali: tutte cose preziose che si coltivano col tempo, lo spazio e il silenzio necessari. Il diritto a un vuoto privato in cui essere lasciati semplicemente in pace. Una parentesi per deporre le armi, godersi un respiro lento, e ritrovarsi.