Di medicina di genere si parla sempre più spesso, perché aumenta la consapevolezza di quanto uomini e donne siano differenti dal punto di vista biologico e fisiologico. Questo riguarda anche la cura e il modo in cui un farmaco agisce sull’organismo. Donne e uomini sono diversi nel metabolismo, nell’invecchiamento e nel sistema immunitario. Solo per fare un esempio, la donna può presentare sintomi dell’infarto differenti; con i vaccini le donne hanno reazioni immunitarie innate e acquisite più forti rispetto agli uomini, ma manifestano effetti avversi con maggior frequenza. I dati dimostrano che in Europa il 6% degli uomini tra i 50 e i 90 anni presenta osteoporosi, ma le malattie reumatiche ed autoimmuni interessano soprattutto le donne perché hanno un sistema immunitario più efficiente che, se da un lato le protegge da infezioni batteriche e virali, dall’altro le rende più soggette a patologie autoimmuni. Tuttavia la maggior parte dei farmaci per l’osteoporosi sono stati studiati solo nella donna e non sono attualmente prescrivibili agli uomini. Un altro esempio è la mortalità per cancro del polmone: dagli anni ’50 ad oggi è aumentata del 500 per cento nella donna che sviluppa il cancro del polmone 2,5 volte in più dell’uomo, anche se non fumatrice. Il cancro del colon è un altro esempio di tumore con caratteristiche differenti: nelle donne insorge più spesso nel tratto ascendente dell’intestino, negli uomini in quello discendente.
La medicina di genere
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la medicina di genere come lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona. Tuttavia, nonostante questa consapevolezza, ogni genere continua a essere trattato come un unicum per quanto riguarda l’erogazione dell’assistenza sanitaria e delle cure. Nelle sperimentazioni cliniche continuano ad essere arruolati in misura maggiore i maschi delle femmine, aprendo rilevanti questioni etiche che nascondono un problema culturale che ha radici lontane, come sottolinea Angelica Giambelluca sul sito della Fondazione Umberto Veronesi. Del 2019 in Italia, il Ministero della salute ha adottato il Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di Genere che, tra le altre cose, prevede l’istituzione presso l’Istituto Superiore di Sanità di un Osservatorio per la Medicina di Genere. La legge 3/2018 prevede la promozione di una ricerca che tenga conto delle differenze, l’inserimento della medicina di genere nei programmi di formazione e aggiornamento di tutti gli operatori sanitari e una corretta informazione pubblica.
Sperimentazione clinica: solo il 20 per cento su donne
“Sebbene, almeno inizialmente, la loro esclusione volesse essere protettiva nei confronti di possibili gravidanze e delle donne stesse– afferma Alessandra Caré, responsabile Centro di riferimento per la medicina di genere dell’ISS – continuare a escluderle non è etico e può sottoporle a possibili rischi non emersi dagli studi sui nuovi farmaci. Sappiamo che un arruolamento bilanciato di uomini e donne rende la ricerca più complessa: a fronte di un numero superiore di soggetti inclusi nello studio aumenta la mole di lavoro, quindi il personale dedicato e i costi. Inoltre, per le donne occorre tenere conto dell’età, dei fattori ormonali, della menopausa, dell’eventuale gravidanza. Queste sono tutte sottocategorie dell’universo femminile che andrebbero studiate appositamente, come sottogruppi.” Come ribadito anche dal Consiglio Nazionale delle Ricerche nella “Dichiarazione della commissione per l’etica nella ricerca e la bioetica sulle differenze di genere nella ricerca farmacologica” del 2018, c’è un arruolamento insufficiente di donne in tutte le varie fasi della sperimentazione, soprattutto negli studi di fase 1, ovvero in quelli che valutano la dose massima tollerata. Lo stesso bias influenza anche le pubblicazioni scientifiche che spesso non differenziano i risultati ottenuti in rapporto al genere. Questo fa pensare che i risultati degli studi condotti soprattutto su uomini siano applicabili tour court alle donne, quando in realtà esistono differenze tra uomo e donna sia per la farmacocinetica, sia per la farmacodinamica. A livello generale, si stima che solo la metà degli studi clinici esegua analisi basate sul genere e solo il 35% conduca adeguate analisi di sottogruppo. “Si tratta di un errore metodologico – continua il documento del CNR– che comporta una riduzione conoscitiva, dell’applicabilità concreta e dell’impatto individuale e sociale dei risultati scientifici conseguiti, con una grave lesione del diritto alla salute, indipendentemente dal genere, così come costituzionalmente garantito”. Anche per la COVID-19 poche attenzioni per le differenze. Anche gli studi di questa pandemia hanno mostrato poco interesse verso il genere. Ad oggi, da quel che sappiamo, gli uomini sono a maggior rischio di sviluppare la malattia in modo grave e di morirne, mentre le donne sembrano avere maggiori probabilità di soffrire di long COVID e di subire maggiormente gli impatti sociali ed economici. Come è evidente, il sesso biologico e il genere possono influenzare non solo la risposta ai farmaci, ma anche l’esposizione al virus.