Tempo di lettura: 3 minutiUna morte nel pronto soccorso del San Camillo tra tossicodipendenti e gli sguardi indiscreti di visitatori rumorosi. A raccontare le ultime ore del padre, malato di cancro, è stato il giornalista di Askanews, Patrizio Cairoli, che ha scritto una lettera al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per denunciare quanto accaduto.
La risposta è arrivata immediata.
“Quanto accaduto al signor Marcello Cairoli non doveva succedere, non da noi. In Italia il pronto soccorso degli ospedali non è e non deve essere l’ultima tappa della vita di un paziente oncologico. Approfondiremo ogni aspetto di questa vicenda, raccontata da Patrizio con tanto coraggio, amore e indignazione” – scrive il ministro della salute Beatrice Lorenzin in un post su Facebook in cui annuncia una indagine ispettiva per accertare se la rete oncologica del Lazio ha funzionato e verificare i livelli assistenziali erogati sul territorio a favore dei malati oncologici.
“Questa storia – scrive – non riguarda medici e infermieri e non vale neppure la polemica sui sovraffollamenti al Pronto Soccorso di un grande ospedale romano, dove il personale garantisce quasi mille interventi al giorno”. “Gli ispettori ora accerteranno cosa è accaduto, cosa non ha funzionato, di chi è stata la responsabilità, se un uomo è morto passando le ultime 56 ore della propria vita in un pronto soccorso”.
Intanto il Codacons in una nota fa sapere che si rivolgerà alla Procura di Roma contro le istituzioni responsabili della sanità nella Capitale e in regione. “Quanto accaduto è solo l’ultimo di una serie di episodi in cui la dignità dei malati viene calpestata senza pudore – spiega il presidente Carlo Rienzi – Ogni giorno nei pronto soccorso dei nosocomi romani si registrano situazioni a limite della decenza, dove l’assistenza sanitaria viene fornita poco e male, spesso in modo superficiale e dopo attese infinite, con i pazienti – spesso anziani – umiliati e abbandonati a loro stessi. Ciò avviene nonostante gli sforzi di medici e personale ospedaliero, perché i continui tagli alla sanità hanno portato ad un drastico peggioramento del servizio sanitario, e solo chi può pagare attraverso l’intramoenia sembra ricevere cure veloci e adeguate”.
La lettera di Patrizio Cairoli
Signora ministra,
sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso.
È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare “anche 3-4-5 mesi”. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l’ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina.
Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato.
Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri “servono per garantire la privacy durante le visite”; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siam dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera.
Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia.
Patrizio Cairoli
Obesity day: la battaglia contro l’obesità. In Italia 21milioni in sovrappeso
Alimentazione, Associazioni pazienti, News PresaDopo il fertility day arriva l’Obesity day per sensibilizzare la popolazione sul tema del controllo del proprio peso. Solo in Italia infatti sono 6 milioni le persone obese. Ancor di più, 21 milioni, quelli in sovrappeso. Non si tratta di estetica, ma di salute. “L’obesità è una patologia” infatti, lo ha ricordato Giuseppe Fatati, presidente della Fondazione Adi, l’Associazione italiana di Dietetica e Nutrizione clinica che ha promosso l’iniziativa.
Poco meno della metà del totale della popolazione dunque è in sovrappeso. Tanto che il 49% ha seguito una dieta nel 2015. Lo rivela una indagine Coldiretti/Ixe’ divulgata proprio in occasione dell’Obesity day 2016 che ricorre in tutto il mondo il 10 Ottobre.
Secondo l’indagine il 25% degli italiani nell’ultimo anno ha seguito una dieta dimagrante mentre un sostanzioso 14% ha cambiato il proprio regime alimentare a causa di una patologia come diabete, pressione alta, colesterolo o celiachia.
GIROVITA PIU’ LARGO A SUD
Il problema anche se diffuso in modo capillare su tutta la penisola riguarda maggiormente i maschi nelle regioni del mezzogiorno con ampi tratti di costa come il Molise dove gli “oversize” raggiungono il record del 64,8%, la Campania (61,6%), la Sicilia (60,6%) e la Puglia (59,1%) mentre per le femmine, la Basilicata (46,5%), la Puglia (44,1%), la Campania (43,7%), il Molise (43,4 per cento) e la Sicilia (40,8%).
Sul versante opposto i cittadini più in forma si trovano in Trentino-Alto Adige, in Valle d’Aosta, in Piemonte e in Lombardia che non hanno lo sbocco al mare ma che possono approfittare dei grandi laghi per mettersi in liberta’. Si registra tuttavia una tendenza verso il miglioramento degli stili alimentari che passa attraverso la riscoperta della dieta mediterranea.
PIU’ PESCE E VERDURA NELLA LISTA DELLA SPESA
Nel 2015 si è avuta una svolta, con un aumento degli acquisti che va dal +5% per il pesce al +19% per l’olio di oliva ma cresce anche la spesa per la frutta (+5%), per gli ortaggi freschi (+3%) e per la pasta secca (+1%). “Una storica inversione di tendenza che ha fatto registrare un boom nel 2016 con i consumi di frutta e verdura che hanno raggiunto il massimo dell’ultimo quadriennio per effetto di un aumento annuale medio di 3 chili di frutta e verdura per persona. Il risultato e’ che – commenta la Coldiretti – quest’anno il consumo procapite di frutta e verdura sfiorera’ i 320 chili a testa. La dieta mediterranea fondata principalmente su pane, pasta, frutta, verdura, olio extravergine e il tradizionale bicchiere di vino consumati a tavola in pasti regolari ha consentito agli italiani fino ad ora di conquistare il record nella longevita’: nell’Unione Europea l’Italia si colloca al primo posto con 80,3 anni per gli uomini e al terzo per le donne con 85,2 anni. Un ruolo importante per la salute – conclude la Coldiretti – riconosciuto anche con l’iscrizione della dieta mediterranea nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanita’ dell’Unesco che e’ avvenuto oltre 5 anni fa, il 16 novembre 2010”.
La spesa farmaceutica: intervista al Prof. Mennini
PodcastDa Vinci, la chirurgia robotica del Polo Ospedaliero napoletano
News PresaVe lo ricordate il maestro Miyagi in nel film Karate Kid? Era talmente abile da riuscire a prendere una mosca in volo con due semplici bacchette. Oggi in Piazza del Plebiscito a Napoli un robot chirurgico di ultimissima generazione si è “esibito” in qualcosa di altrettanto complesso: pelare un chicco d’uva. Solo un gioco per mostrare alla gente quanto sia incredibilmente preciso il robot da Vinci, precisione dettata anche dall’abilità del chirurgo, umano, che lo comandava.
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L’iniziativa del GRIO, vale a dire del Gruppo Robotico Interdipartimentale Ospedaliero si inserisce nella kermesse Futuro Remoto e serve a mostrare a tutti quali sono alcune delle potenzialità di questi “chirurghi robot” e come funzionano. La tecnologia mostrata nel Tir del GRIO è già attiva nelle quattro principali strutture ospedaliere di Napoli (Cardarelli, Policlinico Federiciano, Monaldi e Istituto Pascale) e consente di offrire grandi vantaggi sia ai paziente sia ai chirurghi, ed intercettare la mobilità passiva per questa tipologia di interventi eseguiti fuori dalla regione Campania.
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L’obiettivo del GRIO è quello di mettere in rete le esperienze di chirurgia robotica dei quattro ospedali e promuove un percorso di formazione a tutti i livelli, utilizzando l’esperienza clinica comune e le risorse del Centro di Biotecnologie del Cardarelli. I progetti di ricerca sono in stretta collaborazione col Centro ICAROS della Federico II. Per far conoscere questa realtà ai cittadini si è scelto di portare queste tecnologie a Futuro Remoto, dove il robot chirurgico da Vinci si è cimentato, guidato da un chirurgo molto esperto, nel difficilissimo compito di sbucciare un chicco d’uva. Solo un gioco, naturalmente, per far comprendere quale sia la precisione e l’incredibile manovrabilità di questo strumento.
Raffaele Nespoli
SIMIT – HIV e sport: 120mila infetti in Italia. Un caso su due lo scopre in fase avanzata
Associazioni pazienti, Prevenzione, SportIn Italia ci sono almeno 120mila persone che vivono con il virus HIV, di cui circa il 30% sono coinfette anche per HCV. Ogni anno si registrano 4mila nuove infezioni con una crescita costante nella popolazione più giovane, soprattutto tra gli omosessuali. Lo sport è un fattore importante di prevenzione anche per le persone sieropositive. In particolare aiuta a prevenire molte patologie, come quelle cardiovascolari o metaboliche.
Oggi a Roma se ne discute in occasione della giornata dedicata alla prevenzione e retention in care: “Science, Social and Sport for HIV and Coinfections”. Gli specialisti approfondiranno i benefici dell’attività fisica, insieme ad una corretta alimentazione.
L’allenamento infatti è importante soprattutto per le persone HIV-positive o coinfette per HIV-HCV (immunodeficenza umana ed epatite virale), perché la presenza dell’infezione o gli effetti delle terapie possono diminuire la forza fisica, alterare le masse corporee, interferire sui livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue o sull’equilibrio psicologico e, più in generale, sulla qualità di vita.
Lo sport è sinonimo di beneficio fisico, psichico e sociale ma è anche veicolo di sensibilizzazione ai problemi della terapia dell’HIV. La giornata è organizzata sotto l’egida di SIMIT, Società Italiana di Malattie Infettive e tropicali, in collaborazione con autorevoli clinici e ricercatori italiani, le Associazioni di Pazienti, il mondo dello sport.
Tra i casi di contagio uno su due arriva alla diagnosi in fase avanzata, “si è meno spaventati dal rischio di trasmissione o dalla mortalità della malattia, non si adottano misure preventive per via di una ridotta attenzione da parte della popolazione alla trasmissione di questa infezione e ancora una parte limitata della popolazione effettua il test anti HIV – ha spiegato Antonella Cingolani – Ricercatore Specialista infettivologa Università Cattolica Roma – Questo ha una valenza sia in termini individuali in quanto circa il 50% dei pazienti che seguiamo nei centri clinici italiani arrivano alla diagnosi in fase avanzata, sia in termini di popolazione in quanto le persone che sono inconsapevoli di avere contratto il virus tendono a non proteggersi e quindi a trasmettere il virus stesso”.
I BENEFICI DELLO SPORT – Recenti studi hanno dimostrato che una regolare attività fisica nelle persone con HIV e con coinfezioni migliora la qualità della vita. Tra i benefici fisici si annoverano un miglioramento del funzionamento del cuore e dei polmoni, il rinforzamento della massa muscolare e ossea, una maggiore resistenza alla fatica, una maggiore coordinazione e flessibilità dei movimenti, un miglioramento del sistema digestivo e, di conseguenza, migliore assorbimento dei farmaci.
Tra quelli psicologici, va sottolineata la liberazione di sostanze cerebrali, chiamate endorfine, utili a combattere la depressione, un migliore controllo dello stress e dello stato d’ansia, una migliore organizzazione del tempo e maggiore motivazione quotidiana. Di conseguenza, lo sport è importante anche da un punto di vista sociale, perché consente la conoscenza di un nuovo contesto sociale, nonché la possibilità di fare gruppo senza sentirsi svantaggiati.
Malattia di Fabry: intervista al Dott. Pieruzzi
PodcastFarmaci, ecco perché la spesa equivale a un risparmio
Economia sanitaria, PartnerMai come in questi mesi il nodo della spesa sanitaria, anche in merito all’introduzione dei nuovi Lea, ha innescato una valanga di polemiche. Ingenerando moltissimi dubbi e confusione nei cittadini. Andiamo verso un sistema sanitario più efficiente, o siamo nella direzione di una sanità in stile USA? In questo dibattito si innesta con prepotenza un altro tema, quello del costo dei farmaci. Sentiamo parlare ormai sempre più spesso di farmaci di nuova generazione, capaci di guarirci da malattie come l’epatite C, o di combattere con più efficienza il cancro. Un mondo attorno al quale girano cifre che sembrano incredibili. Per fare chiarezza, e anche per capire se “spendendo di più in realtà non si stia spendendo meno”, il professor Francesco Saverio Mennini, direttore del centro Eehta del Ceis all’Università Tor Vergata di Roma è intervenuto in diretta radiofonica a Good Morning Kiss Kiss, nello spazio che la trasmissione dedica alla Salute in partnership con PreSa – network editoriale di Prevenzione e Salute.
Quanto si spende in Italia per i farmaci? Il professore ha spiegato che, come spesa pubblica, il nostro Paese si attesta attorno ai 18 miliardi. «Una cifra che può sembrare enorme, ma non è così. Bisogna infatti rapportarla ai 113miliardi che si spendono per l’intero Sistema per rendersi conto che siamo in linea, se non addirittura al di sotto, dei principali Paesi europei». Mennini ha anche chiarito che la spesa per questi farmaci non può essere considerata un costo sic et simpliciter perché si nella maggior parte dei casi si tratta di farmaci che generano un enorme risparmio nel tempo.
Sul nodo dei prezzi, il paragone è tutto. «L’Italia – ha spiegato il professore – si muove su linee di prezzo che sono paragonabili , ma spesso anche più bassi di quelli di Pesi come Inghilterra, Francia, Germania e, in parte, anche della Spagna. Il problema non può essere affrontato dal punto di vista del “costo troppo alto”, perché i farmaci innovativi pur avendo dei costi incrementali hanno anche benefici incrementali».
In questo ragionamento è importante concentrarsi sull’impatto che i farmaci innovativi hanno sulla società e sul sistema sanitario. «Questi farmaci- conclude – hanno un livello di efficacia superiore al passato. Questo significa ridurre i costi sanitari diretti nel medio o lungo periodo. Basti pensare che oggi dall’epatite C si guarisce. L’impatto non è meno importante e positivo per quel che riguarda i costi sociali, perché se il paziente guarisce o migliora sensibilmente non pesa più sul sistema assistenziale. Sarà inoltre in grado di lavorare e quindi si riduce anche la perdita di produttività».
Umore delle donne: al Fatebenefratelli gli esperti sciolgono dubbi e pregiudizi
News Presa, Prevenzione, PsicologiaIn ogni età e fase della vita di una donna può manifestarsi un disturbo diverso dell’umore.
All’ospedale Fatebenefratelli di Roma se ne parlerà in un forum a cui tutti possono partecipare. Gli esperti lavoreranno per sciogliere dubbi e pregiudizi che ruotano intorno alle donne quando si parla di disturbi dell’umore.
Dalla psichiatra (Donata Caira), alla psicologa (Daniela De Berardinis), dalla ginecologa (Patrizia Forleo), all’ostetrica (Maria Grazia Pellegrini), il team di professioniste dell’Ospedale darà risposte e consigli, affronterà dubbi e pregiudizi relativi alla salute mentale della donna in relazione alle età e alle fasi significative del suo percorso di vita.
Una giornata dunque tutta al femminile (e non), in programma per lunedì 10 ottobre a partire dalle 9 nella Sala Assunta, dell’ospedale Fatebene fratelli- isola tiberina di Roma.
L’iniziativa si svolge in adesione alla Giornata Mondiale sulla Salute Mentale, per la terza edizione dell’iniziativa “H-open day”, promossa dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) con i centri ospedalieri del network “Bollini Rosa” per avvicinare le donne alle cure e superare lo stigma che ancora aleggia sulle patologie psichiche che rappresentano uno dei principali problemi di salute pubblica.
Cure palliative e hospice, dignità a chi soffre
News Presa«È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia». Pesano come macigni le parole della lettera che Patrizio Cairoli, giornalista di Askanews, ha inviato al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, dopo la morte di suo padre, malato terminale di cancro. Una storia drammatica che ha riacceso i riflettori sul tema degli hospice, delle cure palliative e della dignità per chi si trova in fin di vita.
La giornata mondiale
Domani (sabato 8 ottobre) si celebra la Giornata Mondiale sugli hospice e sulle cure palliative. La giornata mira ad aumentare la disponibilità di hospice e cure palliative in tutto il mondo per parlare delle esigenze sanitarie, sociale, psicologiche e spirituale, di persone che vivono con una malattia che limita la vita anche delle loro famiglie. In questo senso la Campania è una regione che si muove tra luci e ombre.
Sergio Canzanella
Canzanella: «Un’altra vittima dell’ignoranza»
«Se ancora oggi un paziente in fase terminale viene lasciato a morire su una barella di pronto soccorso – spiega Sergio Canzanella, Segretario della Federazione Associazioni Volontariato in Oncologia e Direttore dell’Osservatorio Regionale Cure Palliative e Medicina del Dolore in Campania – è colpa dell’ignoranza e del pressapochismo di chi dovrebbe prendersi cura di lui Questa storia – aggiunge – mette in luce alcune criticità inaccettabili: la burocrazia ottusa, lo scarso coinvolgimento dei medici di medicina generale nella presa in carico del paziente oncologico terminale, addirittura la scarsa conoscenza dell’Hospice nel territorio e purtroppo la scarsa formazione, informazione e capacità di comunicazione del personale medico e paramedico». Canzanella ricorda che basterebbe poco per informare i pazienti e le famiglie che nel sistema sanitario nazionale, dal 2000, esistono gli hospice per garantire, con la terapia del dolore, una dignità di fine vita, così come previsto dalla Legge n. 38/10. «Il ricovero in Hospice – conclude Canzanella – riduce i ricoveri inappropriati al pronto soccorso dei malati oncologici utilizzando la rete integrata Hospice/domicilio. Un ricovero presso gli Ospedali varia dagli 800 (medicina) ai 2.000 euro (rianimazione) al giorno con costi che oscillano dai 100 (domiciliare) ai 250/385 euro (Hospice). La formazione riveste un ruolo importante per il personale sanitario che opera in Hospice e al domicilio».
Stress da Rientro: intervista alla Prof.ssa Rossella Aurilio
PodcastMalato terminale morto dopo 56 ore al pronto soccorso. Lorenzin avvia indagine
Associazioni pazienti, News PresaUna morte nel pronto soccorso del San Camillo tra tossicodipendenti e gli sguardi indiscreti di visitatori rumorosi. A raccontare le ultime ore del padre, malato di cancro, è stato il giornalista di Askanews, Patrizio Cairoli, che ha scritto una lettera al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per denunciare quanto accaduto.
La risposta è arrivata immediata.
“Quanto accaduto al signor Marcello Cairoli non doveva succedere, non da noi. In Italia il pronto soccorso degli ospedali non è e non deve essere l’ultima tappa della vita di un paziente oncologico. Approfondiremo ogni aspetto di questa vicenda, raccontata da Patrizio con tanto coraggio, amore e indignazione” – scrive il ministro della salute Beatrice Lorenzin in un post su Facebook in cui annuncia una indagine ispettiva per accertare se la rete oncologica del Lazio ha funzionato e verificare i livelli assistenziali erogati sul territorio a favore dei malati oncologici.
“Questa storia – scrive – non riguarda medici e infermieri e non vale neppure la polemica sui sovraffollamenti al Pronto Soccorso di un grande ospedale romano, dove il personale garantisce quasi mille interventi al giorno”. “Gli ispettori ora accerteranno cosa è accaduto, cosa non ha funzionato, di chi è stata la responsabilità, se un uomo è morto passando le ultime 56 ore della propria vita in un pronto soccorso”.
Intanto il Codacons in una nota fa sapere che si rivolgerà alla Procura di Roma contro le istituzioni responsabili della sanità nella Capitale e in regione. “Quanto accaduto è solo l’ultimo di una serie di episodi in cui la dignità dei malati viene calpestata senza pudore – spiega il presidente Carlo Rienzi – Ogni giorno nei pronto soccorso dei nosocomi romani si registrano situazioni a limite della decenza, dove l’assistenza sanitaria viene fornita poco e male, spesso in modo superficiale e dopo attese infinite, con i pazienti – spesso anziani – umiliati e abbandonati a loro stessi. Ciò avviene nonostante gli sforzi di medici e personale ospedaliero, perché i continui tagli alla sanità hanno portato ad un drastico peggioramento del servizio sanitario, e solo chi può pagare attraverso l’intramoenia sembra ricevere cure veloci e adeguate”.
La lettera di Patrizio Cairoli
Signora ministra,
sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso. È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare “anche 3-4-5 mesi”. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l’ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina.
Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato.
Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri “servono per garantire la privacy durante le visite”; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siam dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera.
Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia.
Patrizio Cairoli