Tempo di lettura: 2 minutiIl 10% degli studenti italiani tra i 14 e i 19 anni soffre di ansia e nell’anno scolastico appena concluso ha fatto uso di calmanti e ansiolitici. Lo dice l’indagine dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che ha coinvolto 8mila adolescenti in tutta Italia attraverso un questionario in forma anonima. Per uno su dieci l’incapacità di gestire le preoccupazioni di tutti i giorni si è risolta con il ricorso agli psicofarmaci. Il 20%, invece, ha chiesto aiuto a uno psicologo.
Inoltre, il disagio giovanile spesso resta sottotraccia. Maura Manca, presidente dell’Osservatorio, invita a riflettere. I numeri sono preoccupanti: c’è un ricorso sempre più frequente ai farmaci da parte dei ragazzi. Li rubano dall’armadietto dei genitori o, più spesso, li trovano online. Ma capita anche che se li scambino tra di loro, senza considerare poi le conseguenze.
Maura Manca spiega che ognuno ha la sua storia, ma in generale il quadro che ne emerge rivela un tratto comune: l’incapacità di gestire le sconfitte. I giovani oggi non riescono a tollerare la frustrazione e cercano sempre un rimedio al di fuori di sé.
Colpa anche di un’educazione, secondo la psicoterapeuta, fatta di pochi “no”. Ai ragazzi non viene insegnato il valore della fatica. Così i figli, quando si trovano di fronte ai problemi, al posto di credere nelle proprie capacità, si affidano a qualcos’altro. È un atto di sfiducia verso se stessi. Spesso, poi, si tratta di soluzioni immediate che tamponano la crisi d’ansia momentanea, senza risolvere davvero il problema.
Poi c’è la tecnologia che fa il resto: se per certi versi ha creato una generazione di adulti precoci, dall’altro ha reso gli adolescenti più insicuri nei rapporti personali. Una trappola, quella dei social network, ad esempio, che costringe i ragazzi a essere sempre attivi e collegati con il mondo. Senza mai staccare davvero il cervello.
Maura Manca all’Huff post ha spiegato come fare a gestire l’ansia.
1. Il segreto è guardare la paura da un altro punto di vista. Da ostacolo, l’ansia può trasformarsi in un alleato e aiutarci a ottenere risultati migliori. A scuola come nella vita. Il perché è semplice. L’ansia crea uno stato di allerta nel nostro organismo capace di aumentare i livelli di adrenalina e attenzione, migliorando così la concentrazione. Quindi, assicura Manca, se sfruttata nel giusto modo, può trasformarsi in un’arma in più.
2. La tensione è positiva. Se ben incanalata, aumenta la prestazione. A patto però che non si trasformi in panico. Come fare allora per gestirla? Un buon metodo, assicura Manca, è quello di restare ancorati al presente e affrontare le prove una per volta. Quindi non guardare il problema nel suo complesso ma frammentarlo. E così, anche la montagna più grande si trasformerà in una passeggiata.
3. Pensate a tutte le volte che vi siete detti: “Sembrava impossibile, e invece ce l’ho fatta”. Ecco, questo è buon modo per sciogliere la paura in un sorriso, assicura Manca. “Guardarsi indietro e ripensare a tutto quello che si è fatto fino a quel momento è la chiave per sconfiggere anche il peggiore dei catastrofismi”.
Promuoviamo salute
Campano e giovanissimo, ecco il più giovane talento d’Europa
News PresaOrgoglio campano, primo ricercatore in Europa nella categoria «Percutaneous Coronary Intervention» per uno studio sulle stenosi coronariche e per l’individuazione di quelle più pericolose. Lui, 31 anni, si chiama Giovanni Ciccarelli ed è originario di Villaricca (provincia di Napoli). Il premio, durante la Young Investigator Award (dedicata ai più importanti giovani cardiologi in Europa e indetta dalla European Society Cardiology) gli è stato conferito a Barcelloma. Il suo studio è intitolato «Angiography versus hemodynamic assessment to predict the natural history of coronary stenoses: a fractional flow reserve versus angiography in multivessel evaluation 2, (FAME 2)-substudy» e gli ha consentito di arrivare dove sue colleghi, anche più maturi, non arriveranno mai.
Nato per primeggiare
Il progetto del dottor Ciccarelli è stato selezionato tra oltre diecimila, basti pensare che il congresso di Barcellona conta più di 30mila iscritti. Del resto, il giovanissimo cardiologo napoletano è abituato a stupire e a primeggiare. Già nel 2013 aveva ricevuto un premio come giovane ricercatore, consegnatogli dalla Società Italiana di Cardiologia per uno studio sulla trombosi. La sua carriera recente parla di una specializzazione all’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli sotto la guida del professore Paolo Golino, poi un tran tran a metà tra l’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta e il Monaldi. L’ultimo biennio della sua specializzazione Ciccarelli lo ha trascorso invece al Cardiovascular Center di Aalst, diretto dal professore De Bruyne.
Lavorare in Campania
Tifoso sfegatato del Napoli, il dottor Ciccarelli non perde una sola partita e ora, a quanto pare, ha intenzione di tornare in Campania e di iniziare a lavorare in una struttura regionale. La speranza è che questo giovane talento possa riuscire a realizzarsi professionalmente all’ombra del Vesuvio.
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In piazza contro le malattie infiammatorie croniche intestinali
News Presa, PrevenzioneLe malattie infiammatorie croniche intestinali (Mici) colpiscono in Campania circa 15.000 persone. Sono malattie delle quali si sente parlare poco, ma spesso sono molto invalidanti e sono difficili da diagnosticare. Per aiutare chi ne soffre ad avere una diagnosi e per individuare una cura efficace, a Napoli arriva una giornata della prevenzione gratuita. In campo, l’Associazione italiana gastroenterologi ospedalieri (Aigo) con l’Associazione nazionale per le malattie infiammatorie croniche dell’ intestino e il contributo dell’ Asl Napoli 1 Centro. Appuntamento per il 13 settembre, in piazza San Domenico Maggiore.
Malattie idiopatiche
Uno dei problemi nella cura di queste malattie è la loro natura “idiopatica”, vale a dire la che hanno una causa sconosciuta. L’ ipotesi patogenetica prevalente è quella di una reazione immunologica abnorme da parte dell’intestino nei confronti di antigeni (si pensi ai batteri normalmente presenti nell’intestino). Questo squilibrio immunologico può instaurarsi per un’alterata interazione tra fattori genetici propri dell’individuo e fattori ambientali. Di certo, il più delle volte esiste una familiarità, ovvero la tendenza ad un maggior rischio nei parenti delle persone affette. Detto questo non si tratta di malattie ereditarie.
Linee di difesa
In Italia il livello di assistenza prevede cure a lungo termine, con gestione clinico-strumentale ambulatoriale o in regime di Day Hospital. Spesso si presenta la necessità di un ricovero (55% dei pazienti con Colite Ulcerosa). Solo nei casi più gravi si arriva all’intervento chirurgico. Ma è proprio per la resistenza che queste malattie dimostrano di avere che si rende necessaria una diagnosi precoce. Grazie alla disponibilità dell’Asl Napoli 1 Centro, il 13 settembre in Piazza San Domenico Maggiore, sarà allestito uno stand al quale tutti i cittadini potranno rivolgersi per effettuare test gratuiti e ricevere consulenza.
Diffondere la conoscenza
Gli orari degli incontri sono dalle 16.00 alle 21.00 con l’obiettivo, come detto, di fare prevenzione, indicare i percorsi diagnostico-terapeutici disponibili sul territorio, evitare le complicanze legate alla malattia avanzata e quindi ottimizzare le risorse. Il dottor Ernesto Claar, presidente Aigo della Regione Campania, spiega che «le Malattie dell’apparato digerente, di cui le malattie infiammatorie croniche intestinali sono parte integrante, rappresentano da anni la seconda causa di ricovero ospedaliero su tutto il territorio nazionale (fonte Ministero della Salute anno 2016). Il tasso di ospedalizzazione in Campania è il più alto d’Italia (17.3 x 1000 abitanti, con 101.195 dimissioni anno 2014). Il ricovero in un ambiente gastroenterologico – dice – garantisce minore mortalità intraospedaliera, minore durata della degenza, maggiore appropriatezza e quindi, in ultima analisi, maggior risparmio di risorse e qualità di vita per i pazienti». Mission di Aigo è fare emergere il bisogno di salute specialistica nel nostro territorio, indicare i percorsi di cura e contribuire al riassetto organizzativo della gastroenterologia in regione Campania. Dare una “ adeguata risposta” alla richiesta di salute dei cittadini si traduce nella riduzione del fenomeno di migrazione sanitaria.
Riposino: quanto dura quello perfetto per la salute?
Stili di vitaIl riposino pomeridiano è un vero toccasana e permette di ricaricare le energie. Non sempre però si ha abbastanza tempo a disposizione o ci sono le condizioni necessarie. Ma quanto deve durare la ‘pennica’ perfetta? I cardiologi avvertono che dormire oltre 40 minuti aumenta i rischi per la salute. Quindi, va bene fare il pisolino, ma non bisogna esagerare. Il riposino perfetto è di 20 minuti. Non serve quindi avere per forza un letto o un divano. Anche una poltrona con lo schienale regolabile basterà per riuscire a ricaricarsi. A trovare la giusta durata della pennica è uno studio dell’American College of Cardiology, riportato da In a Bottle (www.inabottle.it).
I ricercatori, studiando 300mila persone in tutto il mondo, hanno visto che nelle persone che dormono più di 40 minuti nel pomeriggio c’è un aumento del rischio di colesterolo alto, pressione alta e aumento di massa grassa. In particolare, dallo studio è emerso che chi dorme oltre 90 minuti ha il 50% in più di possibilità di contrarre il diabete di tipo 2.
Dall’altra parte, però, dormire troppo poco, secondo gli esperti, può essere dannoso e fa aumentare il rischio di sviluppare la sindrome metabolica. La soluzione ideale, per i medici, è un riposino che duri meno di 40 minuti. Con questa durata, la ricerca ha stabilito che non ci sono rischi, e in alcuni casi è emerso anche un miglioramento delle condizioni generali, specie nelle persone che dormivano meno di mezz’ora. Come per tutte le cose: in medio stat virtus (la virtù sta nel mezzo), mai esagerare, neanche con il sonno.
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Bentornata sindrome da rientro. Manuale per la sopravvivenza
Prevenzione, PsicologiaCefalea, spossatezza, irritabilità, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, dell’appetito e dell’umore. La chiamano “sindrome da rientro” e i sintomi si presentano puntuali a fine vacanze, nel momento in cui si ritorna alla routine o già allo scadere delle ferie. Qualsiasi sia il proprio lavoro, lo stress da rientro è per tutti dietro l’angolo. Pare che interessi sei milioni di italiani, tuttavia, qualche accortezza può aiutare ad evitare grossi traumi.
Secondo gli esperti, al rientro è importante soprattutto concedersi tempo, giocando d’anticipo. Piuttosto che correre e affannarsi per non arrivare in ritardo al lavoro, osservare la calma e puntare la sveglia dieci minuti prima, concedendosi una buona colazione. Tra i fattori che determinano il malessere da rientro (che ha effetti simili alla depressione) c’è la mancanza di luce, un fattore, quindi, puramente fisico. In alcune persone la carenza di luce porta alterazioni significative dell’umore. La soluzione è fruttare la pausa pranzo e i weekend per stare all’aperto, esposti ai raggi del sole il più possibile.
Un gesto semplice, come diffondere in casa un’olio essenziale che ricordi le fragranze del mare o della montagna mantiene attivi i 5 sensi. Allo stesso modo, la musicafa distrarre e rilassare. Sforzarsi di fare un piccolo progetto nuovo è un altro stratagemma e in generale fare movimento dona benessere psicofisico. La nostra alleata principale è la serotonina. Gli esperti spiegano che un aiuto arriva anche dall’alimentazione, colorando dispensa e piatti di verde, rosso e giallo. I kiwi, i pomodori e le banane sono infatti tra gli alimenti che contengono un maggior livello di serotonina, il cosiddetto “ormone del buonumore”. Ce n’è tantissima anche nel pesce azzurro e nel cioccolato, meglio se fondente (un’ottimo motivo per concederselo più spesso in questo periodo).
Un nemico della serotonina è, invece, il caffè. Anche se l’impressione è che dia la carica, il buonumore potrebbe risentirne.
Infine, è risaputo che non bisogna mai tornare di colpo alla routine dopo un periodo di relax, ma riprendere con gradualità.
Per superare la sindrome da rientro, gli psicologi suggeriscono anche di iniziare a pensare dove trascorrere le prossime vacanze. Progettare un nuovo viaggio con largo anticipo, infatti, permette non solo di risparmiare denaro, ma anche di vivere le settimane lavorative con più entusiasmo e motivazione, nell’attesa del prossimo break.
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Make to care, torna il contest che punta alla salute
News PresaTorna anche quest’anno, il secondo consecutivo, Make to care. Il progetto di Sanofi Genzyme (specialty care di Sanofi), è stato ideato e realizzato per far emergere e per sostenere iniziative e progetti nati dall’ingegno e dalla passione di maker e innovatori che, pensando fuori dagli schemi, riescono a rispondere ai bisogni delle persone con disabilità, a sostenerle e garantire loro un futuro migliore.
Sinergie
Polifactory, makerspace e fablab del Politecnico di Milano, in collaborazione con la Fondazione Politecnico, da quest’anno è partner tecnico-scientifico del progetto #Make to care. Il suo impegno si concretizza nel supportare l’iniziativa attraverso una coordinata attività di ricerca e mappatura dei casi di innovazione nell’ambito Healthcare sviluppati da makers, fablab, gruppi di ricerca. Ma anche laboratori e singoli cittadini. In particolare, l’obiettivo di quest’anno è quello di dare enfasi a progetti nati o cresciuti in collaborazione con pazienti (e loro famiglie) e associazioni pazienti.
Il contest
#MAKETOCARE è anche un concorso, sviluppato in collaborazione con l’European Maker Faire Rome, che già dalla sua prima edizione dello scorso anno ha visto ben 13 progetti finalisti. I 2 vincitori 2016 (bdGLOVE e Click4All) hanno potuto accedere ad un periodo formativo in Silicon Valley negli Stati Uniti. Aster, società della Regione Emilia Romagna per la ricerca e l’innovazione, ha realizzato insieme a loro un percorso di incontri e di esperienze nel cuore pulsante dell’innovazione: aziende già affermate nella prototipazione rapida e produzione di stampanti 3D, oppure startup innovative che operano in ambito di salute e benessere. Leggi il diario di viaggio. Qualsiasi progetto in grado di offrire una migliore esperienza quotidiana a persone affette da qualsiasi forma di disabilità potrà entrare a far parte dell’ecosistema MAKE TO CARE e, tramite candidatura all’European Maker Faire Roma entro il 15 settembre 2017, partecipare al contest. Alla fine due progetti migliori, ad insindacabile giudizio di una commissione che si riunirà il 29 novembre 2017 a Roma, potranno vivere un’esperienza in Silicon Valley. Per tutti i finalisti, ci sarà la possibilità di esporre alla Maker Faire Rome, dal 1 al 3 dicembre.
Come partecipare
Per informazioni e approfondimenti relativi a Make to care al contest 2017 è possibile consultare il sito, inviare una mail, seguire gli ultimi aggiornamenti sulla pagina facebook. Inoltre è possibile candidare direttamente il proprio progetto accedendo alla pagina di Make to care.
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Frisson: l’orgasmo della pelle
NewsQuando ascoltiamo una canzone che ci piace particolarmente o ci troviamo davanti alla scena più emozionante del nostro film preferito, può capitare che ci si accapponi la pelle: stiamo provando il “Frisson” o pelle d’oca o, come è stato soprannominato, l’orgasmo della pelle. Siamo soliti associare la pelle d’oca alla sensazione di freddo, ma circa 2/3 della popolazione prova questa sensazione, di brividi lungo la schiena, anche quando ascolta determinate melodie, guarda un film o osserva un’opera d’arte. Perché avviene questo fenomeno, o meglio, cosa avviene dal punto di vista fisiologico? Alcuni ricercatori hanno provato a dare una risposta. Alcune ricerche hanno imputato la causa del frisson alla dopamina, la cui attività è risaputo essere associata ai meccanismi di ricompensa e del piacere. Normalmente la pelle d’oca, o meglio la piloerezione, si ha in situazioni di lotta-fuga ed è in parte associata al rilascio di adrenalina. In situazioni piacevoli invece sono interessate le stesse aree coinvolte in situazioni di eccitazione e dipendenza in cui è coinvolto il rilascio di dopamina. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience, il frisson è associato alla creatività. Sono stati presi un certo numero di volontari e sono stati divisi in due gruppi: il primo formato da soggetti che hanno dichiarato di aver già provato il frisson, il secondo formato da soggetti che non l’avevano mai provato. Ad entrambi i gruppi sono state fatte ascoltare delle tracce musicali dall’alto contenuto emozionale e, attraverso la misurazione della conduttanza cutanea, è stato evidenziato, con l’ausilio della neuroimaging, che chi provava il frisson aveva un maggior numero di connessioni nervose tra la corteccia uditiva e la parte anteriore dell’insula, una regione del cervello coinvolta nell’elaborazione delle emozioni. In questi soggetti quindi la musica suscita emozioni più forti, per questo la loro produzione di dopamina sarà maggiore, con conseguente reazione fisiologica a livello cutaneo.
Un altro studio invece associa il frisson alla memoria prospettica. Secondo i ricercatori il nostro cervello prova a prevedere ed anticipare il ritmo della melodia che stiamo ascoltando; quando però si verifica una discrepanza, in cui la musica è migliore della nostra aspettativa, la sorpresa genera il brivido che ci fa accapponare la pelle.
Vi è anche chi ha stilato una vera e propria playlist, composta dalle 7 canzoni considerate come le più “orgasmiche” per la nostra pelle:
Chiaramente la risposta a questi brani è soggettiva ed è molto influenzata dai nostri gusti, ma visto che la lista è stata stilata durante un esperimento in cui la maggior parte dei soggetti si è emozionata durante l’ascolto di queste tracce, il tentativo è d’obbligo.
Giovani in preda all’ansia. 1 su 10 fa uso di calmanti
Nuove tendenzeIl 10% degli studenti italiani tra i 14 e i 19 anni soffre di ansia e nell’anno scolastico appena concluso ha fatto uso di calmanti e ansiolitici. Lo dice l’indagine dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che ha coinvolto 8mila adolescenti in tutta Italia attraverso un questionario in forma anonima. Per uno su dieci l’incapacità di gestire le preoccupazioni di tutti i giorni si è risolta con il ricorso agli psicofarmaci. Il 20%, invece, ha chiesto aiuto a uno psicologo.
Inoltre, il disagio giovanile spesso resta sottotraccia. Maura Manca, presidente dell’Osservatorio, invita a riflettere. I numeri sono preoccupanti: c’è un ricorso sempre più frequente ai farmaci da parte dei ragazzi. Li rubano dall’armadietto dei genitori o, più spesso, li trovano online. Ma capita anche che se li scambino tra di loro, senza considerare poi le conseguenze.
Maura Manca spiega che ognuno ha la sua storia, ma in generale il quadro che ne emerge rivela un tratto comune: l’incapacità di gestire le sconfitte. I giovani oggi non riescono a tollerare la frustrazione e cercano sempre un rimedio al di fuori di sé.
Colpa anche di un’educazione, secondo la psicoterapeuta, fatta di pochi “no”. Ai ragazzi non viene insegnato il valore della fatica. Così i figli, quando si trovano di fronte ai problemi, al posto di credere nelle proprie capacità, si affidano a qualcos’altro. È un atto di sfiducia verso se stessi. Spesso, poi, si tratta di soluzioni immediate che tamponano la crisi d’ansia momentanea, senza risolvere davvero il problema.
Poi c’è la tecnologia che fa il resto: se per certi versi ha creato una generazione di adulti precoci, dall’altro ha reso gli adolescenti più insicuri nei rapporti personali. Una trappola, quella dei social network, ad esempio, che costringe i ragazzi a essere sempre attivi e collegati con il mondo. Senza mai staccare davvero il cervello.
Maura Manca all’Huff post ha spiegato come fare a gestire l’ansia.
1. Il segreto è guardare la paura da un altro punto di vista. Da ostacolo, l’ansia può trasformarsi in un alleato e aiutarci a ottenere risultati migliori. A scuola come nella vita. Il perché è semplice. L’ansia crea uno stato di allerta nel nostro organismo capace di aumentare i livelli di adrenalina e attenzione, migliorando così la concentrazione. Quindi, assicura Manca, se sfruttata nel giusto modo, può trasformarsi in un’arma in più.
2. La tensione è positiva. Se ben incanalata, aumenta la prestazione. A patto però che non si trasformi in panico. Come fare allora per gestirla? Un buon metodo, assicura Manca, è quello di restare ancorati al presente e affrontare le prove una per volta. Quindi non guardare il problema nel suo complesso ma frammentarlo. E così, anche la montagna più grande si trasformerà in una passeggiata.
3. Pensate a tutte le volte che vi siete detti: “Sembrava impossibile, e invece ce l’ho fatta”. Ecco, questo è buon modo per sciogliere la paura in un sorriso, assicura Manca. “Guardarsi indietro e ripensare a tutto quello che si è fatto fino a quel momento è la chiave per sconfiggere anche il peggiore dei catastrofismi”.
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Bimbi e sole, ecco cosa dicono gli esperti
News Presa, PrevenzionePer tanti genitori alle prime armi l’estate è un momento pieno di punti interrogativi. Difficile capire fino a che punto il sole possa far bene alla pelle (e quindi alla salute) dei più piccoli, e quando invece sarebbe meglio evitare. Ovviamente è bene che il primo punto di riferimento sia il pediatra, ma anche dal web può arrivare qualche buon consiglio. E’ il caso delle domande, e risposte, messe on line dagli esperti dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Il sole è così dannoso per i bambini?
Il sole – spiegano i camici bianchi – ha molti benefici per i bambini. Fa molto bene alle ossa in quanto attiva la vitamina D e all’umore per il suo effetto antidepressivo. L’inadeguata esposizione al sole è nociva. La pelle dei bambini deve essere protetta accuratamente. I bambini vanno esposti al sole in particolari ore della giornata (mai dalle ore 11,30 alle 16,00). L’applicazione dello schermo ad altissima protezione non autorizza il bambino ad esporsi al sole nella fascia oraria ad alto rischio. Inoltre la crema protettiva va applicata ripetutamente, ogni 2 ore circa e dopo ogni bagno. Bisogna prediligere i filtri fisici per l’assenza di rischio di tossicità (ossido di zinco e biossido di titanio) anche se talvolta sono cosmeticamente meno gradevoli di quelli chimici. Non esistono “protezioni totali”, la protezione massima dichiarata è di 50+ per gli UVB mentre per gli UVA non ci sono ancora metodi standardizzati.
Età e modi di esposizione?
Bisogna evitare l’esposizione diretta al sole nei lattanti di età inferiore a 6-8 mesi. Oltre all’uso di crema protettiva, si può ricorrere, qualora necessario a indumenti protettivi. L’esposizione al sole deve avvenire in modo graduale, aumentando progressivamente la durata di esposizione. Una volta che il bambino ha sviluppato un’abbronzatura sufficiente, si può ridurre il fattore protettivo a 30. È importante ricordarsi di proteggere anche gli occhi con adeguati occhiali da sole e di applicare una protezione efficace anche nelle giornate nuvolose e sotto l’ombrellone (sabbia e acqua riflettono i raggi UV).
Ci sono eccezioni?
Assolutamente no. Sono validi tutte le volte che il bambino è esposto al sole. Non bisogna dimenticare che fortunatamente i bambini effettuano molta attività sportiva o ludica all’aperto, pertanto le stesse precauzioni vanno applicate regolarmente in queste circostanze e quando si va in montagna.
Quale danno può provocare il sole alla pelle?
In età pediatrica, il danno è limitato all’ustione di vario grado in base all’intensità e durata di esposizione e alla comparsa di efelidi. Purtroppo il danno maggiore e irreversibile si manifesta in età adulta: invecchiamento precoce della pelle e comparsa di tumori cutanei anche gravi. Queste ultime complicanze sono dovute ad un effetto accumulo. Pertanto un’adeguata protezione va applicata sin dai primi mesi di vita.
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Chemioterapici antiblastici, a lavoro per soddisfare le priorità
FarmaceuticaA Milano e Roma «QuintilesIMS» ha messo per la prima volta a confronto, su un tema cruciale come quello della preparazione dei farmaci antiblastici, direttori sanitari, farmacisti ospedalieri responsabili di UFA e oncologi per definire le criticità e i punti di miglioramento nella preparazione delle terapie antiblastiche in Italia.
Le principali proposte
Mettere in rete le Unità Farmaci Antiblastici (UFA) sul territorio con la definizione di una soglia minima di preparazioni giornaliere per aumentare gli standard qualitativi e di sicurezza. Promuovere una selezione e formazione più puntuale e mirata allo sviluppo delle competenze degli operatori dedicati alla preparazione dei farmaci chemioterapici, che siano farmacisti, infermieri o tecnici di laboratorio, con l’adozione di strategie volte ad aumentare la motivazione e diminuire elementi di stress, come turnazione e coinvolgimento trasversale all’interno del percorso di cura. Implementare l’informatizzazione della gestione di tutta la filiera della terapia oncologica, dalla prescrizione alla somministrazione, attraverso soluzioni innovative come il bracciale elettronico e con software semplificati e che “dialogano” tra loro. Coinvolgere inoltre proattivamente il paziente nel processo, rendendolo consapevole delle modalità di cura in cui è coinvolto e ascoltandone la voce in quanto possibile segnalatore di eventuali anomalie.
La foto italiana
Punto di partenza, i dati di un’ampia indagine nazionale che offre una mappatura delle modalità di preparazione e manipolazione di queste terapie nei Centri oncologici. Un tema quanto mai attuale, che fa emergere il forte bisogno di dotarsi di strutture UFA ad alti standard, vista anche la grande accelerazione della ricerca che ha portato allo sviluppo di terapie sempre più complesse, la cui gestione ha bisogno di un alto grado di specializzazione. Il dato principale che emerge dall’indagine, realizzata da QuintilesIMS su tutto il territorio nazionale, è che sui 385 centri ospedalieri che hanno collaborato, circa il 30%, prepara farmaci chemioterapici antiblastici in maniera non centralizzata, ovvero gestisce e manipola le preparazioni in assenza di una struttura UFA dedicata. Una soluzione che potrebbe garantire una maggiore sicurezza e qualità sarebbe quella di creare delle reti anche in funzione dei volumi di somministrazione, affidando la manipolazione e preparazione di chemioterapici antiblastici solo alle UFA accreditate sul territorio che raggiungano, idealmente, una soglia minima di 50 preparazioni giornaliere, attraverso accordi di fornitura tra le diverse Aziende Ospedaliere. Proposta che apre un tema importante anche dal punto di vista economico, per la mancanza di un tariffario condiviso per la manipolazione dei chemioterapici antiblastici. Il Centro deputato ad erogare queste prestazioni anche all’esterno potrebbe quindi esserne penalizzato.
Criticità condivise
Dall’indagine emerge anche un altro dato significativo: il 45% dei Centri che dichiara di preparare in una struttura dedicata, condivide alcune criticità. Uno dei problemi più diffusi e di maggior rilevanza riguarda l’informatizzazione della gestione dei farmaci chemioterapici antiblastici, che risulta quasi sempre complessa e macchinosa, in gran parte dovuto alla carenza di un sistema informatico integrato. Raramente l’informatizzazione copre tutta la filiera del processo e si evidenzia una disomogeneità dei software utilizzati sia all’interno della stessa struttura (prescrizione, cartella clinica, calcoli, etc.) sia da Centro a Centro (troppi sistemi diversi, considerando che per le cure i pazienti si muovono anche sul territorio). Sarebbe opportuno definire standard tecnici comuni da rispettare, in modo che i sistemi siano in grado di dialogare fra loro e soprattutto di interfacciarsi con i Registri AIFA, riducendo il rischio di errori (potenzialmente dovuto anche alla attuale necessità di trascrivere la medesima prescrizione su più applicativi) e garantendo un risparmio di tempo che potrebbe essere utilizzato per migliorare l’assistenza al paziente.
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Antibiotico, il ciclo completo potrebbe essere dannoso
FarmaceuticaL’antibiotico va preso fino alla fine, anche se l’infezione è passata. Probabilmente tutti se lo sono sentito dire almeno una volta nella vita, ma se non fosse così. Anzi, se questa «regola» fosse addirittura dannosa per la salute? La domanda è lecita alla luce di uno studio molto recente che arriva dal Regno Unito, uno studio per il quale portare a temine il ciclo di cura stabilito dal medico anche se «dopo i primi giorni di assunzione del farmaco i sintomi iniziano a ridursi o scompaiono» non sarebbe la scelta giusta.
Cambio di prospettiva
Molto presto questa regola potrebbe diventare un ricordo, come detto secondo un articolo sul British Medical Journal non vi sono evidenze scientifiche a sufficienza su cui fondare l’attendibilità di tale raccomandazione clinica. Anzi, secondo gli autori dell’articolo, Martin Llewelyn presso la Brighton and Sussex Medical School e colleghi, potrebbe addirittura essere vero il contrario, e cioè potrebbe essere più sano per il singolo e per la comunità interrompere la terapia prima del termine della prescrizione, non appena i sintomi dell’infezione sono scomparsi. Inoltre, sempre secondo la lettera sul BMJ, aumentano le evidenze scientifiche secondo cui più sicuri cicli brevi di terapia (3 giorni) che non cicli lunghi come oggi spesso è prescritto (5-7 giorni o multipli di questi).
Antibiotico-resistenze
La raccomandazione del medico curante che sicuramente ognuno si sarà riportato a casa insieme a una ricetta per antibiotici è quella di finire la cura anche se a metà del ciclo si avverte un miglioramento. Il monito è che terapie interrotte possono causare l’insorgenza di resistenze. Eppure quando Llewelyn è andato alla ricerca delle motivazioni che storicamente hanno portato a radicare nella pratica clinica questa raccomandazione ha avuto difficoltà a trovarne. Poche evidenze scientifiche la corroborano, anzi studi recenti – ad esempio uno del 2010 pubblicato sempre sul BMJ e basato sull’analisi di migliaia di pazienti con infezioni del tratto urinario e respiratorio – sempre più spesso dimostrano il contrario e cioè che terapie di 1-2 settimane danno luogo più spesso a infezioni antibiotico-resistenti nei pazienti cui sono prescritte.