Tempo di lettura: 2 minutiInformare, comunicare, aiutare: sono queste le tre parole chiave in oncologia. Perché per lottare contro il cancro bisogna conoscerlo e si deve poter contare su un sostegno forte. Il tumore non è solo una malattia, è anche e soprattutto un problema sociale e multidimensionale, in cui a ciascuno è chiesto di fare la propria parte. I principali attori sono, ovviamente, il mondo sanitario e le istituzioni; ma centrali sono anche le associazioni di volontariato e la scuola, intesa come luogo dove si educano i giovani a vivere secondo corretti stili di vita. Una delle armi principali resta la prevenzione, ed è necessario continuare ad investire in oncologia. Ma se il tumore è un problema multidimensionale, che minaccia non solo il corpo, ma anche la psiche, il tessuto familiare e quello socio-relazionale, allora è necessario che il curare diventi prendersi cura. E “prendersi cura” significa puntare non solo sulle più moderne e innovative possibilità terapeutiche, ma anche su percorsi assistenziali “umanizzanti”.Tra coloro che condividono quesa impostazione c’è Antonio Febbraro, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Oncologia dell’Ospedale Sacro Cuore di Gesù – Fatebenefratelli di Benevento.
Dottor Ferrato, lei visita circa 700 nuovi pazienti ogni anno, ha creato dei percorsi ad hoc?
«Sì, presso la nostra struttura abbiamo previsto un programma di accoglienza con uno sportello informativo dell’Associazione Italiana malati di Cancro dove i pazienti vengono informati di quali sono i progetti in essere per vivere meglio questa fase della vita. Il momento terapeutico studiato sulle necessità di ogni paziente viene stabilito dai nostri team, ed è basato non solo sulla somministrazione dei farmaci, ma anche su una serie di servizi che offriamo per migliorare la qualità di vita del paziente stesso e di tutta la famiglia. Ormai eseguiamo di default il monitoraggio telefonico per verificare il grado di adesione alle terapie orali e gestire eventuali effetti collaterali. Quest’ultimo aspetto è risultato particolarmente utile in questo periodo di pandemia, quando si è reso necessario ridurre al minimo gli accessi in ospedale per problematiche affrontabili in maniera adeguata anche da remoto».
Ci sono anche progetti per sostenere le pazienti, la loro femminilità, durante la chemioterapia?
«Il progetto si chiama Back the Beauty. Alcune estetiste diplomate APEO offrono il proprio supporto alle pazienti per aiutarle con trattamenti estetici a minimizzare i problemi cutanei dovuti alla terapia. Abbiamo anche una palestra per le donne che hanno subìto una mastectomia».
C’è anche un altro progetto dedicato soprattutto alle donne, giusto?
«Vorremmo acquistare un casco per la chemioterapia, per evitare che le nostre pazienti possano perdere i capelli, ormai siamo molto vicini alla meta, ed un dono particolarmente apprezzato ci è arrivato dai bambini di una scuola elementare della zona, che ci hanno consegnato un assegno e un disegno, che ovviamente è stato esposto in reparto».
Dunque, terapie competenza e umanità.
«Credo che un buon oncologo debba proporre un’attività assistenziale costante, senza sacrificare un altro momento fondamentale che è quello della ricerca clinica, che ha l’obiettivo di individuare nuovi farmaci e migliorare quindi gli strumenti utili per curare. Il tutto secondo precisi protocolli e rispettando le normative vigenti e gli standard internazionali di qualità e di etica della ricerca clinica. Così da offrire sempre nuove e più valide opportunità terapeutiche ai nostri pazienti».
Emanuela Di Napoli Pignatelli