La narcolessia è una patologia che potrebbe far sorridere chi non la conosce veramente. L’idea di una malattia che “semplicemente” ci fa addormentare può dar luogo a battute quali: «Vorrei soffrirne io». Chiaramente chi scherza in questo modo non sa cosa significa dover combattere ogni giorno con questo nemico invalidante.
Cancellazione
Recentemente, una scoperta pubblicata sulla rivista Nature e legata alla ricerca condotta in Svizzera da un team italiano (risultato della collaborazione tra l’Istituto di ricerca in Biomedicina di Bellinzona – affiliato all’Università della Svizzera italiana-, il Politecnico di Zurigo e il Dipartimento di Neurologia dell’Inselspital di Berna, ha segnato una svolta attesa da decenni. La malattia che scatena incontrollabili attacchi di sonno si deve alla “cancellazione” di un messaggero chimico nel cervello da parte delle cellule del sistema immunitario.
La scoperta
Il neurotrasmettitore chiamato ipocretina, coinvolto nella regolazione del ritmo sonno-veglia, viene cancellato perché i neuroni che lo producono vengono attaccati dalle cellule immunitarie chiamate linfociti T. I ricercatori lo hanno scoperto analizzando, in pazienti affetti dalla narcolessia, la presenza di cellule del sistema immunitario (i linfociti T) che riconoscono l’ipocretina e che possono uccidere direttamente o indirettamente i neuroni che la producono. «Grazie all’impiego di nuovi metodi sperimentali siamo riusciti a identificare i linfociti T specifici per l’ipocretina quali responsabili di questa malattia», spiega Federica Sallusto, dell’Istituto di ricerca in Biomedicina. «Questi linfociti autoreattivi – aggiunge – possono causare un’infiammazione che porta al danno neuronale o addirittura uccidere i neuroni che producono l’ipocretina. Bloccandoli nelle prime fasi, si potrebbe prevenire la progressione della malattia». Di narcolessia soffre circa una persona su duemila. Spesso i primi sintomi si manifestano nell’adolescenza, tuttavia alcuni studi hanno suggerito che i sintomi possono iniziare già nell’età infantile (2-3 anni) o più tardi tra i 25-40 anni. Altro dramma è il ritardo nella diagnosi, che può arrivare anche dopo 10 anni dall’insorgere dei primi campanelli d’allarme.