La ricerca scientifica conferma: l’uso delle tecniche orientali di meditazione aiuta a prevenire e curare molte malattie.
Durante la pratica si acquisisce consapevolezza del proprio corpo “qui ed ora”.
Se fino agli Anni ’50 la meditazione era prerogativa dei monaci, con i Beatles diventò pratica dei figli dei fiori, seguiti negli anni successivi da calciatori e attori per poi arrivare anche agli amministratori delegati di grandi multinazionali. Medita persino Dmitry A. Medvedev, primo ministro della Federazione Russa.
Oggi la tecnica non si occupa più solo di “benessere psicologico”, ma è entrata negli ospedali con molte applicazioni: dal controllo del dolore all’immunologia, dalla cura dell’ipertensione al rallentamento del declino cerebrale.
Una trentina di anni fa fu Jon Kabat Zinn fondatore del Center for Mindfulness all’University of Worcester (Uk) a usare la meditazione come strumento terapeutico. I suoi vantaggi oggi sono provati: aiuta a migliorare l’attenzione, le abilità cognitive e la memoria, riduce l’ansia e i sintomi depressivi. Non solo.
Alla Brown University di Providence (Usa), Catherine Kerr sfrutta la meditazione per il suo effetto analgesico. Meditare consente un maggior controllo sul sistema sensoriale e permette di scegliere su cosa focalizzare l’attenzione. Riesce a far mettere in secondo piano quello che non si vuole sentire, come ad esempio, i dolori cronici.
Fadel Zeidan, neurobiologo della Wake Forest Baptist University (Usa), ha persino quantificato l’effetto della meditazione rispetto al potere analgesico della morfina: «Potrebbe ridurre del 40% l’intensità del dolore e del 57% la sua spiacevolezza, contro una riduzione del solo 25% ottenuta con la morfina» sostiene Zeidan.
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