Il meccanismo con cui, spesso senza accorgersene si scivola in una dipendenza è piuttosto insidioso. Può riguardare droghe, fumo o comportamenti che provocano piacere, dal sesso al cibo, dal gioco d’azzardo ai social. Può bastare una sola volta per creare catene irremovibili. Uno studio, apparso su Neuropsychopharmacology ha recentemente dimostrato come la maggioranza delle droghe, non abbia bisogno dell’abitudine all’assunzione per arrivare alla dipendenza. Ma da cosa è determinata? Nell’ultimo congresso della Società Italiana di Farmacologia (Sif) è stato sottolineato come l’essere più o meno vulnerabili alle dipendenze abbia a che fare sia con i geni, sia con l’ambiente. Se su quest’ultimo si può intervenire, per la genetica c’è poco da fare.
La risposta del cervello
Molte ricerche sui gemelli adottati da famiglie diverse hanno analizzato la tendenza o meno a sviluppare dipendenze, dimostrando come circa la metà del rischio derivi dai geni.L’ambiente e le scelte di vita fanno poi il resto.
Tuttavia esistono alcune fasi della vita in cui l’influenza dell’ambiente sul rischio di dipendenza è più elevata: si tratta della vita fetale e dell’adolescenza, momenti di sviluppo tumultuoso del cervello. Quindi il rischio è altissimo se la madre fa abuso di sostanze durante la gravidanza o se ne fa uso un adolescente, perché le sostanze determinano alterazioni nella funzionalità genetica e quindi nello sviluppo cerebrale, aumenta così il pericolo successivo di abuso di sostanze e di patologie mentali. Questo spiega perché la maggior parte dei fumatori ha iniziato da adolescente.
Solo intorno ai 25 anni avviene lo sviluppo delle aree frontali deputate al controllo delle azioni pericolose. Per questo motivo, gli adolescenti sono più vulnerabili di fronte alla dipendenza: l’impulsività è maggiore ed è più reattivo anche il sistema della dopamina, il neurotrasmettitore chiave per la gratificazione e l’apprendimento. Tutte le sostanze infatti fanno leva proprio sull’incremento del rilascio di dopamina nel cervello;la cosiddetta «molecola del piacere». Non solo. Questa molecola è in grado anche di rafforzare il ricordo della sensazione piacevole, spingendo a cercare ancora la sostanza. La dopamina aumenta anche con il sesso e il cibo, perché il sistema si è evoluto creando un’associazione positiva con elementi essenziali per la sopravvivenza umana. Non solo le droghe, l’alcol o le sigarette danno assuefazione, inducono una dipendenza forte pure farmaci come le benzodiazepine, usati come ansiolitici o per dormire.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2016/12/14111_patologie-psichiatriche.jpg9681280Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2022-05-20 15:00:022024-05-30 14:54:02Incapaci di smettere: come nascono le dipendenze
La dispnea, ovvero la sensazione di fatica nel respirare, è uno dei fattori causati dall’ansia e dalla depressione e talvolta è davvero difficile capire se si tratta di sintomi dovuti alla situazione psicologica o psichiatrica del paziente o a disturbi riconducibili a malattie legate all’apparato respiratorio.
I due tipi di disturbi spesso sono correlati: può accadere che patologie fisiche di tipo cronico siano accompagnate da una forte componente ansiosa. Lo afferma Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asset di Lodi.
Una diagnosi in grado di distinguere un disturbo d’ansia da un disturbo respiratorio può essere difficile poiché alcune patologie fisiche non causano una carenza di ossigenazione, confondendo le carte in tavola e rendendo la ricerca delle cause dei disturbi nella respirazione difficili sia per il paziente sia per i familiari, nonché per gli stessi medici – precisa Cerveri. Per questo motivo è necessario, oltre a una serie di analisi con l’obiettivo di scongiurare le patologie fisiche legate alla respirazione, anche effettuare un’accurata valutazionepsichiatrica.
La presenza di disturbi psicologici o psichiatrici potrebbe inoltre causare nel paziente affetto da patologie respiratorie un peggioramento della situazione. In presenza di una forte depressione può succedere che i pazienti trascurino se stessi e non seguano in modo preciso e accurato le indicazioni mediche e le cure prescritte, con assunzione di farmaci in maniera discontinua o con interruzione delle cure stesse.
Secondo quanto afferma Cerveri, moltissimi pazienti affetti da ansia e depressione non seguono unostile di vita sano, lasciandosi andare ad abitudini nocive come il fumo, l’assenza di attività fisica e un insufficiente riposo notturno. Sono tutti fattori che, a lungo andare, creano una vera a propria predisposizione ai disturbi dell’apparato respiratorio.
In presenza di più patologie- aggiunge il Dottor Cerveri – diventa difficile capire quale sia la patologia originaria e quale invece sia insorta come conseguenza.
Anche chi soffre di attacchi di panico potrebbe essere spaventato dall’eventuale presenza di un disturbo respiratorio, anche se in questo caso si tratta di episodi isolati di affaticamento respiratorio e tachicardia che si esauriscono nel giro di massimo un’ora.
Inoltre con l’ausilio di un saturimetro, strumento che consente di misurare e monitorare il grado di saturazione di ossigeno nel sangue, è possibile controllare che la situazione sia nella norma. Questo strumento è molto consigliato anche per monitorare i livelli di ossigeno nel sangue in caso di sintomi assimilabili al COVID-19.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2021/08/depressione-respirazione.jpg8001200Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-04-20 10:00:102024-05-30 14:57:40Ansia e depressione possono essere causa di disturbi respiratori?
Oggi non esiste ufficialmente nessuna cura contro il Long Covid. Uno studio appena realizzato evidenzia come l’esercizio fisico possa aiutare a interrompere il circolo vizioso dell’infiammazione che può portare allo sviluppo di diabete e depressione, mesi dopo che una persona è guarita dal virus del Covid-19. L’ipotesi è stata fatta dagli studiosi del Pennington Biomedical Research Center, negli Usa, e pubblicata sulla rivista Exercise and Sport Sciences Reviews. Il Long Covid è stato già dimostrato che può provocare depressione, come ribadisce Candida Rebello, una delle autrici della ricerca, inoltre può aumentare i livelli di glucosio nel sangue al punto che alcune persone sviluppano chetoacidosi diabetica, una condizione potenzialmente pericolosa per la vita comune tra le persone con diabete di tipo 1. L’esercizio fisico può aiutare molto. Il Long Covid provoca ciò che i Centers for Disease Control descrivono come “una costellazione di altri sintomi debilitanti” tra cui nebbia cerebrale, dolore muscolare e affaticamento che possono durare per mesi dopo che una persona si è ripresa dall’infezione iniziale. “Ad esempio- sottolinea Rebello – una persona potrebbe non ammalarsi in modo grave di COVID-19, ma sei mesi dopo, molto tempo dopo che la tosse o la febbre sono scomparse, sviluppare il diabete”. L’attività fisica è il mezzo per ridurre notevolmente i rischi. “Non è necessario correre per chilometri o camminare per tutta la durata a ritmo sostenuto, -conclude l’esperta – anche camminare lentamente è esercizio. Idealmente, si dovrebbe fare una sessione di esercizio di 30 minuti. Ma se se ne possono fare solo 15 minuti alla volta, si può provare a farne due sessioni. Se si può camminare solo 15 minuti una volta al giorno, meglio farlo. L’importante è provare. Non importa da dove si inizia. Si può gradualmente raggiungere il livello di esercizio raccomandato”.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2020/07/conoscere-la-sindrome-da-stanchezza-cronica.jpg413550Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2022-03-14 10:21:282024-06-09 11:30:24Long Covid, attività fisica può bloccare rischio diabete e depressione
Ansia, attacchi di panico e difficoltà a dormire. Sono alcuni degli effetti di due anni di pandemia, oggi aggravati dallo shock di una guerra nel cuore dell’Europa che sino ad un mese fa nessuno avrebbe mai immaginato di dover vivere. A mettere in guardia su di una situazione che rischia veramente di andare fuori controllo, come detto, anche a causa dei vanti di guerra, sono gli psicologi, che hanno visto aumentare esponenzialmente i disturbi del comportamento in questi due anni e che ora vedono sommarsi al disagio anche le paure legate appunto alle tensioni internazionali. Ad analizzare la situazione è un lavoro svolto dal Cnr-Irib di Messina in collaborazione con le Università della Calabria e della Magna Graecia di Catanzaro. Le più colpite sono risultate le donne, impiegate, con bassa scolarità, tra i 26 e i 45 anni, non sposate. Dalle indagini condotte nei mesi per indagare il disagio mentale indotto dalla pandemia emergono molti comportamenti problematici, sia in chi è stato contagiato dal virus, sia in chi, invece, è stato vittima di fattori indiretti come: lunghi periodi di quarantena, perdita del sostegno sociale e sovraesposizione a fenomeni di infodemia. Tutte le ricerche scientifiche svolte nell’ultimo anno sono concordi nell’indicare che la pandemia e le misure di quarantena stanno seriamente impattando la salute mentale. Questo ha sopraffatto i sistemi sanitari di molti paesi e, naturalmente, ha colpito gli operatori sanitari che combattono in prima linea.
FASCE VULNERABILI
«Quando Covid-19 ha colpito per la prima volta, i professionisti della salute come psicologi e psicoterapeuti – afferma Antonio Cerasa, neuroscienziato del l’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Cnr-Irib) – non erano considerati servizi essenziali. Questo significava che gli psicologi non erano autorizzati a vedere i clienti faccia a faccia, e tutte le sessioni dovevano essere spostate su piattaforme di telemedicina. D’altra parte, l’aumento dei problemi di salute mentale durante l’epidemia di Covid-19 – continua – ha ulteriormente rafforzato il bisogno generale di assistenza. In questo contesto, si è entrati, forzatamente e velocemente, in una nuova era di telepsicologia, senza però avere dati scientifici e una reale guida metodologica su come traslare gli interventi di persona in interventi online». Un dato interessante che gli psicologi hanno rilevato durante il sondaggio riguarda la tipologia di pazienti che faceva ricorso a nuove cure post-pandemia. Il profilo più vulnerabile alle nuove forme di disturbi psicologi sono le donne, impiegate, con bassa scolarità, di età tra i 26 e i 45 anni, non sposate.
BONUS PSICOLOGO
A supporto di questo disagio il Governo ha stanziato fondi per il cosiddetto bonus psicologo. Nel Milleproroghe l’emendamento sul bonus psicologo ci è entrato anche grazie ad una petizione online che ha raccolto 400mila firme. L’emendamento era già stato presentato senza successo nella legge di bilancio per il 2022. Incostanza il bonus psicologo si concretizza in un contributo per le spese di sessioni di psicoterapia a disposizione degli italiani stressati dai lunghi lockdown, dai cambiamenti nella vita di tutti i giorni imposti dalla pandemia e dalle conseguenze economiche della crisi socio-economica. Una misura che sarà di grande aiuto per superare il trauma della pandemia e, ancor più oggi, anche il clima di estrema tensione che si è venuto a creare.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2022/02/Guerra-in-Ucraina.png7601180Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-02-24 18:20:172024-06-09 12:26:51Tra guerra e pandemia, rischi enormi per la salute mentale
Che siano star o persone comuni, i commenti denigratori per l’aspetto fisico di qualcuno si leggono tutti i giorni sotto alcune foto. Per molti si tratta di parole innocue o scherzose e invece il fenomeno ha un nome: si chiama “Body Shaming”. Se il web è nato per scopi nobili, il suo utilizzo reale dipende dagli utenti.Il bullismo –o meglio “cyber bullismo”– è una delle forme di violenza veicolate da internet, il body shaming è una delle sue facce. Significa letteralmente giudicare le forme del corpo, in particolare attraverso il web e i social network. Il termine deriva dall’inglese shame e come sostantivo vuol dire vergogna, mentre come verbo significa generare vergogna. In altre parole, si può tradurre come: far vergognare qualcuno per il suo corpo, attuando un’atteggiamento di derisione e presa in giro. Che siano corpi troppo magri, troppo grossi, troppo tatuati, con malattie della pelle o con cellulite, la pratica denigratoria del body shaming non risparmia nessuno, ma sono soprattutto le donne a subire il giudizio. Il motivo affonda le sue radici in un fattore culturale che ancora esige standard di bellezza troppo rigidi nei confronti del corpo femminile. Ad essere prese di mira, infatti, sono soprattutto persone con un aspetto fisico non conforme ai canoni di bellezza socialmente stabiliti.
Body shaming, non si tratta di commenti innocui
Il Body Shaming può avere effetti devastanti sulle vittime, soprattutto quando si tratta di adolescenti, naturalmente più vulnerabile. Il condizionamento dell’autostima provoca una perdita di certezze, sicurezze personali; un aumento degli stati d’ansia e in casi estremi il rischio che diventi un’ossessione. Da qui nascono molti disturbi alimentari che se non presi in tempo possono portare nei casi più gravi anche alla morte. Un altro effetto è lo scoraggiamento, la perdita di volontà nel raggiungere un obiettivo. Secondo le statistiche, le più sensibili a questo argomento sono le adolescenti dai 18 ai 21, soprattutto se prese di mira dai propri coetanei. A nutrire il terreno di questi fenomeni è soprattutto il continuo paragone con gli altri. Tra filtri e ritocchi, i social rimandano continuamente immagini perfette, alimentando standard che non corrispondono alla realtà. Inoltre, il nascondersi dietro la tastiera fa sentire più liberi di esprimere giudizi e offese.
Emma Marrone alle ragazze: “il vostro corpo è perfetto così com’è, dovete amarlo e rispettarlo”
Negli ultimi anni sono sono state tante le campagne delle star in difesa delle vittime di bullismo, partite proprio dai social, dove si alimenta questa pratica. In questi giorni ha fatto discutere l’episodio che ha interessato Emma Marrone. La cantante ha risposto al commento di un giornalista che definiva le sue gambe troppo “importanti” per poter indossare delle calze a rete. “Il body shaming con il linguaggio politically correct, non so se è più imbarazzate o noioso” – attraverso le storie sul suo profilo Instagram la cantante ha risposto alle critiche sul suo abbigliamento (e sul suo corpo) a Sanremo 2022, rivolgendosi alle ragazze, in particolare a quelle giovanissime: “Evitate di ascoltare o leggere commenti del genere. Il vostro corpo è perfetto così com’è, dovete amarlo e rispettarloe soprattutto dovete vestirvi come vi pare”.
Dopo il disastro di un virus che ha causato centinaia di migliaia di vittime, resta il danno psicologico che probabilmente perdurerà ben oltre la fine della pandemia. Depressione, ansia e stress sono il nuovo male emergente. Ecco perché ben 21 società scientifichehanno indirizzato al Governo un documento nel quale chiedono che ci sia un bonus per lo psicologo da utilizzare nell’immediato, ma anche misure strutturali per affrontare il disagio mentale cresciuto insieme alla pandemia. La pandemia da Covid, dicono gli psicologi, ha «amplificato problematiche psicologiche e psichiatriche», come la depressione «facendo diventare il problema del malessere psicologico e dei disturbi psichici e comportamentali un problema sociale». Utilizzando al meglio le misure del PNRR, si legge, «nel contesto dei servizi sanitari è necessario adottare un quadro integrato di misure imperniato sull’attivazione di strutture pubbliche e innovative di prossimità per rispondere al bisogno di ascolto e sostegno psicologico, come il Consultorio psicologico, con la funzione di intercettare precocemente i bisogni di salute e benessere psicologico dei cittadini».
IL TERRITORIO
Secondo gli addetti ai lavori è anche necessario «il potenziamento dei servizi di salute mentale, di neuropsichiatria infantile e delle dipendenze, dei Consultori familiari, del Piano Nazionale delle Cronicità, di psicologia ospedaliera, assistenza domiciliare, riabilitazione, neuropsicologia». Nell’immediato, però, proseguono le società scientifiche, occorre garantire «l’accesso alle consulenze e trattamenti a tutti quei cittadini e quelle famiglie che non riescono ad avere risposte nel pubblico e non possono accedere nel privato per mancanza di risorse economiche, mediante l’erogazione diretta del bonus o voucher. Si tratta di una misura straordinaria, richiesta a gran voce da un numero crescete di cittadini, che può agire nell’immediato e accompagnare la concretizzazione degli obiettivi di revisione del sistema sopra indicati».
I BAMBINI
Intanto, tra i più colpiti di questa nuova ondata ci sono i bambini. A quanto pare, infatti, sono proprio i più piccoli ad essere oggi più esposti. Ma il danno maggiore, i bambini, lo stanno avendo a causa delle restrizioni e della privazione di una normale vita sociale. Anche per i più piccoli il rischio depressione o ansia eccessiva è molto presente. «Il benessere dei più piccoli – dicono gli esperti del Gaslini – appare assediato allo stesso modo degli adulti per ciò che concerne la qualità di vita e l’equilibrio emotivo, a prescindere dallo stato psico-sociale di partenza, per effetto diretto del confinamento stesso e per il riflesso delle condizioni familiari contingenti (assenza o perdita dei nonni, genitori disoccupati o senza lavoro, scarsa socializzazione). Infatti, i bambini respirano e hanno respirato come non mai l’aria di casa in questo periodo, con tutti i possibili aspetti positivi e negativi legati alla situazione familiare». Proprio sul benessere psicologico dei bambini bisognerà lavorare per fare in modo che la pandemia non lasci cicatrici troppo profonde.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2020/04/Vaccino-Covid-immagine-generica.jpg366640Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-01-25 11:49:092024-06-09 12:34:24Depressione e stress, gli psicologi lanciano un allarme
In questi lunghi mesi di pandemia da Covid-19, centinaia di indagini a livello internazionale hanno analizzato gli effetti negativi del COVID-19 sul benessere psicologico. Numerosi sono i sintomi comportamentali descritti, sia in chi è stato contagiato dal virus, sia in chi, invece, è stato vittima di fattori indiretti come: lunghi periodi di quarantena, perdita del sostegno sociale e sovraesposizione a fenomeni di infodemia. Tutte le ricerche scientifiche svolte nell’ultimo anno sono concordi nell’indicare come la pandemia e le misure di quarantena stiano seriamente impattando la salute mentale. Questo ha sopraffatto i sistemi sanitari di molti paesi e, naturalmente, ha colpito gli operatori sanitari che combattono in prima linea. “Quando COVID-19 ha colpito per la prima volta, i professionisti della salute come psicologi e psicoterapeuti non erano considerati “servizi essenziali”. Questo significava che gli psicologi non erano autorizzati a vedere i clienti faccia a faccia, e tutte le sessioni dovevano essere spostate su piattaforme di telemedicina. D’altra parte, l’aumento dei problemi di salute mentale durante l’epidemia di COVID-19 ha ulteriormente rafforzato il bisogno generale di assistenza. In questo contesto, si è entrati, forzatamente e velocemente, in una nuova era di telepsicologia, senza però avere dati scientifici e una reale guida metodologica su come traslare gli interventi di persona in interventi online”, afferma Antonio Cerasa, neuroscienziato del l’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Cnr-Irib). Per rispondere al bisogno di conoscere in dettaglio come la pandemia ha cambiato il lavoro di psicologi e psicoterapeuti, il Cnr-Irib, in collaborazione con l’Università della Calabria e Università Magna Graecia di Catanzaro,ha intervistato, tramite un questionario online,oltre200 psicologi per comprendere come questa pandemia abbia influito sulla loro attività clinica. Lo studio è stato pubblicato su Journal of Affective Disorders Report.
Psicologi e telemedicina. Lo studio
Durante i vari lockdown, gli psicologi italiani hanno ammesso che la pandemia ha fortemente influito sulla loro pratica clinica (60%) e per questo che la maggior parte (85%) ha utilizzato le varie forme di modalità online per continuare il lavoro terapeutico sui pazienti. Il 65% degli intervistati ha rilevato di non aver avuto particolari problemi nella traslazione alla telepsicologia, così come la maggior parte dei loro pazienti ha riportato un feeling positivo con questa nuova modalità di rapporto clinico. Quasi il 60% degli psicologi ha rilevato un aumento nel numero di nuovi pazienti, i quali, per la maggior parte non erano stati mai infettati dal virus. Questa nuova ondata di pazienti è stata caratterizzata prevalentemente dalla presenza di sintomi specifici quali: ansia, depressione e disturbi del sonno. Anche nei pazienti già in trattamento si è notata una recrudescenza di sintomatologie pregresse durante la pandemia sempre relativamente a queste tre tipologie di sintomi. Infine, un altro dato interessante che gli psicologi hanno rilevato durante il sondaggio riguarda la tipologia di pazienti che faceva ricorso a nuove cure post-pandemia. Il profilo più vulnerabile alle nuove forme di disturbi psicologi sono le donne, impiegate, con bassa scolarità, di età tra i 26 e i 45 anni, non sposate. I risultati di questo studio possono fornire strumenti ai decisori politici per orientare al meglio gli interventi a sostegno della salute mentale.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2019/12/mal-di-testa.jpg640960Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2022-01-21 19:42:572024-06-09 12:35:44Covid: sedute online psicologi efficaci per il 65 %. Lo studio
I videogame, anche quelli più violenti, non hanno una cattiva influenza sui comportamenti dei ragazzi. O meglio, non ci sono prove che la violenza simulata possa istigare comportamenti aggressivi al di fuori della realtà virtuale. Lo evidenzia uno studio, pubblicato sul Journal of Economic Behavior & Organization, condotto dagli scienziati dell’Università di Londra, che hanno esaminato il presunto collegamento tra approccio ai videogiochi e tendenze violente. In questo studio che interesserà molto schiere di genitori preoccupati, il team UK ha distinto la possibilità di manifestare comportamenti violenti contro altre persone o nei confronti di oggetti o proprietà. Il gruppo di ricerca ha considerato bambini e ragazzi di età compresa tra 8 e 18 anni, utilizzando metodi econometrici per identificare gli effetti causali plausibilmente dovuti all’uso di videogiochi violenti.
AGITAZIONE
Gli esperti hanno messo che in evidenza che «i videogiochi possono contribuire ad aumentare il livello di agitazione e gli stimoli dei bambini, ma questo non si traduce in un’inclinazione alla violenza contro altre persone. È pertanto improbabile che le politiche di restrizione della vendita dei videogiochi ai minori possano portare a una riduzione dei tassi di violenza». Dunque, gli scienziati non hanno trovato prove del fatto che le sessioni di gioco fossero in qualche modo legate alla violenza contro altre persone. Restano, tuttavia, i dubbi di molti genitori che hanno riferito una maggiore probabilità che i loro figli manifestassero comportamenti distruttivi nei confronti di determinati oggetti dopo aver giocato a un videogame più violento.
Sono 12 milioni gli italiani che secondo le stime provano disagio nel periodo in cui cambia l’ora. Alcune condizioni cliniche, come la depressione, trovano le loro radici biologiche nell’alterazione di ritmi circadiani ormonali connessi all’umidità, l’esposizione alla luce e ai raggi solari, alla pioggia, al caldo. Non sempre si tratta, quindi, di un atteggiamento culturale che spinge alcune persone a non aver voglia di fare nulla durante una giornata piovosa, ma di una vera e propria inclinazione biologica. A parlarne è la dottoressa Silvia Brioschi, psichiatra di Humanitas Psico Medical Care.
Meteoropatia e depressione stagionale
In generale, gli sbalzi di temperatura possono generare ansia: il grigio delle giornate piovose e il buio in inverno sono depressogeni, così come gli abbassamenti di pressione. Non tutti, però, sono colpiti dalla meteoropatia allo stesso modo: c’è chi necessita, più di altri, di sole e caldo, chi mal tollera gli sbalzi di temperatura e chi non riesce a stare bene in estate e preferisce freddo e clima invernale.
Il passaggio dall’ora legale all’ora solare in autunno
La stagione dell’autunno rappresenta già per molte persone un momento difficile da affrontare per una sensibilità individuale che talvolta definisce un vero e proprio disturbo, chiamato dagli specialisti SAD: “seasonal affettive disorder“, depressione stagionale. Ci sono studi che documentano un cambiamento della qualità del sonno, la durata e in generale la percezione di benessere durante il giorno.
“Queste conseguenze trovano una spiegazione nella cronobiologia di alcuni processi fisici e mentali. Le attività ormonali e cerebrali che regolano il sonno e le malattie dell’umore hanno una ritmicità sia giornaliera che mensile e annuale – spiega l’esperta.
“Pare infatti che la depressione sia proprio la malattia dei ritmi biologici: una loro alterazione precipiterebbe i meccanismi che generano la sindrome depressiva, fatta non solo di mal di vivere, pessimismo, sensi di colpa e apatia, ma anche di sintomi più “fisici” e anche più intuitivamente riconducibili ai ritmi circadiani, come insonnia, o inappetenza. Tali effetti sono in parte modulati dalla quantità di luce che riusciamo a raccogliere nella giornata. I sintomi più frequenti sono:
irritabilità,
stanchezza,
fatica nella concentrazione,
flessione del tono dell’umore.
L’effetto del cambio di orario può essere molto diverso da persona a persona, soprattutto in base alla propria propensione: di norma, a risentire di più del cambio dell’ora legale sono le persone mattiniere”.
Quattro ricercatrici italiane descrivono per la prima volta al mondo il funzionamento di una barriera cerebrale (il plesso coroideo) che, per proteggere il cervello dall’infiammazione dell’intestino si chiude e genera stati di ansia e depressione. Questo spiega perché questi stati accompagnano spesso chi soffre di malattie croniche intestinali, come la colite ulcerosa e la malattia di Crohn. Da anni la comunità scientifica ha riconosciuto un legame tra intestino e cervello, il cui funzionamento però è stato fino ad oggi indefinito. Lo studio italiano, pubblicato su Science, rappresenta quindi una svolta nella comprensione dell’asse intestino-cervello e apre la strada a nuove terapie.
La comunicazione tra intestino e cervello
Questi risultati aprono a nuovi scenari nella conoscenza del funzionamento di una delle barriere (o interfacce) fra circolo sanguigno e cervello, il plesso coroideo. Lo studio è stato coordinato dalla professoressa Maria Rescigno, capo del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota di Humanitas e docente di Patologia Generale di Humanitas University.
“A livello del plesso coroideo abbiamo documentato il meccanismo che blocca l’ingresso nel cervello di segnali infiammatori originati nell’intestino e migrati verso altri organi grazie al flusso sanguigno. A tale fenomeno è associato un isolamento del cervello dal resto dell’organismo che è responsabile di alterazioni comportamentali, tra cui l’insorgenza di stati di ansia”, spiega la prof.ssa Rescigno. “Questo significa che tali condizioni del sistema nervoso centrale sono parte della malattia e non solo manifestazioni secondarie”.
Lo studio è firmato inoltre dalla dott.ssa Sara Carloni, microbiologa di Humanitas University, la prof.ssa Michela Matteoli, docente di Farmacologia di Humanitas University e Direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR, e la dott.ssa Simona Lodato, capo del Laboratorio di Neurosviluppo di Humanitas e docente di Istologia ed Embriologia di Humanitas University.
Le funzioni del plesso coroideo
Il plesso coroideo è una struttura che si trova all’interno del cervello, dove viene prodotto il liquido che avvolge l’encefalo e il midollo spinale, a protezione delle strutture del sistema nervoso centrale. Il plesso coroideo è anche un veicolo per l’ingresso di sostanze nutritive e l’eliminazione di quelle di scarto e ha un ruolo di difesa immunitaria.
“Abbiamo scoperto che all’interno del plesso coroideo, oltre alla nota barriera epiteliale, esiste un’ulteriore barriera vascolare, che abbiamo definito barriera vascolare del plesso coroideo”, spiega la dottoressa Sara Carloni.
“In condizioni normali questo ‘cancello’ consente l’ingresso di molecole derivate dal sangue e, in caso di infiammazione in organi distanti (in questo caso l’intestino), la barriera si riorganizza e si chiude per bloccare l’ingresso di possibili sostanze tossiche”.
Il team di ricercatrici, inoltre, si è chiesto a cosa serve, in condizioni di salute questo “cancello” vascolare (che in assenza di stimolo patologico rimane aperto). Per rispondere è stato usato un modello sperimentale genetico, che consente di “chiudere” la barriera cerebrale senza che ci sia infiammazione dell’intestino.
“Così facendo abbiamo dimostrato che la chiusura della barriera del plesso sembrerebbe di per sé correlata ad alterazioni del comportamento, determinando un aumento di ansia e un deficit nella memoria episodica”, conclude la prof.ssa Michela Matteoli. Ciò significa che una comunicazione fisiologica e dinamica tra intestino e cervello è fondamentale per una corretta attività cerebrale.
Per comprendere il comportamento della barriera vascolare del plesso coroideo è stata utilizzata la metodica del Single Cell Sequencing, cui ha partecipato anche un gruppo di ricerca dello IEO. “Questo ha permesso di identificare le componenti del sistema vascolare che sono principalmente coinvolte in questa risposta, i capillari e periciti, cellule che regolano la permeabilità dei vasi sanguigni”, racconta la dottoressa Simona Lodato. “Grazie a questa analisi è possibile conoscere il comportamento dinamico di ogni cellula del plesso coroideo al momento della chiusura della barriera”.
Prospettive di cura delle patologie infiammatorie
“Abbiamo descritto il meccanismo che regola l’interazione tra il cervello e il resto dell’organismo in relazione alle infiammazioni intestinali”, spiega la professoressa Maria Rescigno. “Le domande aperte sono ancora molte. Ad esempio, in quali altre malattie si attiva questa chiusura? Anche i pazienti con patologie neurodegenerative hanno un intestino permeabile, da cui quindi passano più molecole verso il flusso sanguigno. Ora sappiamo che questa migrazione è correlata a una chiusura della barriera cerebrale e quindi a depressione e ansia. Come possiamo riaprire ‘il cancello’ del plesso per combattere questi stati alterati? E ancora, come possiamo modulare la barriera per raggiungere il cervello e consentire il passaggio di farmaci?”.
“Siamo già al lavoro per capire quali molecole possano essere coinvolte nelle anomalie comportamentali per modulare la reazione della barriera; quali cellule e componenti utili per la nostra salute restano intrappolate fuori dal cervello quando il plesso si chiude”, specifica la dottoressa Sara Carloni.
“Siamo di fronte a un’ulteriore dimostrazione che un’attività immunitaria non solo eccessiva ma anche insufficiente sia dannosa per la funzione del sistema nervoso. Adesso sarà importante definire i meccanismi attraverso cui questo avviene”, spiega la professoressaMichela Matteoli.
“Stiamo studiando la microglia, ossia le cellule immunitarie presenti nel cervello. Sappiamo che la loro attività può essere influenzata dai segnali provenienti dal sistema immunitario periferico e molti studi, anche del nostro laboratorio, hanno confermato che la microglia influenza in modo importante la funzione della sinapsi. La sinapsi è il sito di contatto tra neuroni ed è la sede di tutti i processi alla base del funzionamento del cervello, inclusi apprendimento e memoria. Rappresenta quindi il bersaglio più promettente da analizzare nei prossimi studi”.
“Nel contesto della neurobiologia dello sviluppo, dobbiamo capire quando e come si crei questa interazione tra cervello e sistema gastrointestinale scoperta a livello del plesso coroideo. La composizione del liquido cerebrospinale (CSF), che è chiaramente influenza dall’attività di questa barriera, è dinamica nello sviluppo e fondamentale nella formazione dei circuiti neuronali. Se pensiamo alla disbiosi, ossia ad alterazioni nel microbiota dei bambini, o all’obesità infantile, ci rendiamo conto che sono situazioni in cui il link tra cervello e intestino potrebbe essere alterato da un forte stato infiammatorio con effetti sulla barriera vascolare del plesso ed importanti conseguenze sul cervello in sviluppo”, conclude la dottoressa Simona Lodato.
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