L’ assistenza domiciliare in Italia è gestita dal Sistema Sanitario Nazionale, attraverso una rete che collega A.S.L. e i Comuni dell’Ambito Territoriale. Al centro c’è la persona: i percorsi assistenziali sono personalizzati e rispondono al bisogno emergente e allo stato sociale del paziente. Sono rivolti a persone affette da malattie croniche degenerative e altre patologie che gli impediscono di curarsi presso i centri di riabilitazione. L’ assistenza domiciliare in Campania è da sempre al centro di numerosi dibattiti. Investire su di essa porterebbe notevoli vantaggi: da un lato un risparmio economico (da non sottovalutare in una regione come la Campania che da anni ha problemi con i budget di cura) e dall’altro in termini di qualità della vita del paziente e della sua famiglia e/o dai caregivers. Infatti, i pazienti che ricevono cure domiciliari rispondano meglio alle terapie e si sentono più sereni. Tuttavia risulta spesso faticoso accedere all’assistenza psicologica pubblica domiciliare. Lo conferma la storia di una famiglia che non è riuscita a contare sull’assistenza psicologica domiciliare per la propria figlia e si è rivolta a me per riceverne. La ragazza ventiseienne era affetta da una rara malattia genetica che l’aveva costretta ormai sulla sedia a rotelle e le aveva tolto ogni autonomia, come vestirsi o mangiare da sola. Aveva bisogno di essere sostenuta psicologicamente in un momento di grande fragilità: il fine vita. La questione, in questo caso clinico, ruotava intorno al diritto o meno di ricevere informazioni veritiere rispetto al proprio stato di salute e al rispetto della volontà di non voler sentire ciò che già, in fondo, si sapeva. In buona sostanza di trattava di sostenere psicologicamente una persona nella fase terminale della propria vita ed, ovviamente, estendere parte del trattamento ai suoi familiari, senza esplicitare e parlare apertamente di morte ma lavorando in maniera indiretta. In generale, la malattia va gestita rispettando la psicologia del paziente. E’ un attacco alla propria integrità, all’immagine, alla padronanza del proprio corpo e non colpisce solo quest’ultimo ma anche la psiche e le relazioni sociali e familiari. Questo caso pone l’accento su questioni, tra le altre, di natura etica, dove non si sa cosa sia giusto fare e quale diritto far prevalere. Se affrontassimo la questione da un punto di vista giuridico, non avremmo dubbi: il paziente ha sempre diritto di conoscere la verità. La Convenzione sui diritti dell’uomo (1996) afferma all’art. 10: “Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata”.
Il sostegno ricevuto ha fatto sì che quando questo triste momento è arrivato, ogni componente della famiglia di M. ha reagito all’evento in maniera consapevole. Sopravvivere ad una perdita, soprattutto di un figlio, è un dolore profondissimo dal quale si può riemergere con un grande lavoro su sé stessi, cercando di mettere in atto una elaborazione del lutto, rispettando dei tempi affinché questo possa avvenire nella maniera più naturale e congeniale alla persona che deve affrontare questa vicenda dannosa. Il rischio più grande è quello di trovarsi incastrato nella “sindrome del sopravvissuto” senza poter mai darsi pace rispetto ad un evento totalmente subito dalla famiglia.
Poter garantire questo tipo di prestazioni sanitarie sarebbe auspicabile soprattutto in un territorio come quello campano anche e soprattutto visto l’incremento della domanda. Sempre più spesso, infatti, gli psicologi stanno ricevendo richieste di terapie domiciliari.
Di Marina Scappaticci
Psicologa Psicoterapeuta Sistemico- Relazionale
Socio ordinario S.I.P.P.R. (Società Italiana Psicologia e Psicoterapia Relazionale)
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