Il sonno può aiutarci a restare in salute, soprattutto può preservarci dal rischio di sviluppare malattie cardiache. A definire i contorni di quello che si può definire uno stile di vita sano è uno studio realizzato dagli scienziati dell’Università di Exeter e pubblicato sull’European Heart Journal Digital Health. Può sembrare incredibile ma, secondo questa ricerca, a favorire la salute del cuore è l’abitudine di andare a dormire tra le 22 e le 23. Il team, guidato da David Plans, ha valutato i dati di salute di 88.026 individui, di età compresa tra 43 e 79 anni coprendo che “forzare” l’orologio interno che regola il ritmo circadiano può essere deleterio. Quest’orologio è infatti fondamentale per una serie di funzioni fisiche e cognitive e andare a dormire troppo presto o troppo tardi potrebbe alterarne il funzionamento influenzando negativamente la salute cardiovascolare. I dati su inizio e fine del periodo di sonno sono stati raccolti nell’arco di sette giorni tramite un accelerometro da polso. I partecipanti hanno anche completato valutazioni e questionari demografici su stile di vita, salute fisica e mentale. Gli esperti hanno poi valutato la salute cardiovascolare dei soggetti tramite esami oggettivi. Durante un follow-up di 5,7 anni, il 3,6 per cento del campione ha sviluppato malattie cardiovascolari. L’incidenza, riportano gli autori, risultava più elevata tra coloro che andavano a dormire a orari diversi dalla fascia compresa tra le 22,00 e le 23,00.
FASCIA DI RISCHIO
Gli scienziati hanno esaminato l’associazione tra insorgenza del sonno ed eventi cardiovascolari, considerando anche fattori come genere, età, durata e irregolarità del sonno, abitudine del fumo, livelli di colesterolo e stato socioeconomico. Secondo i risultati del gruppo di ricerca, chi si coricava tra le 23 e mezzanotte aveva un rischio maggiore del 12 per cento di soffrire di problematiche cardiovascolari. Chi andava a dormire dopo la mezzanotte era associato a un rischio del 25 per cento più elevato rispetto a chi si coricava nella fascia considerata ideale. Per chi, invece, raggiungeva Morfeo prima delle 22,00 è stato calcolato un rischio del 24 per cento maggiore rispetto all’orario ottimale. Un lavoro, insomma, che mostra un preciso legame tra una buona qualità di sonno e una buona salute del cuore. Ora l’obiettivo è quello di approfondire le ricerche e confermare questi dati. Se studi futuri avvaloreranno quanto scoperto, l’igiene e l’educazione del sonno potrebbero rappresentare un obiettivo a basso costo per promuovere la salute pubblica e ridurre il rischio di malattie cardiache.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2021/03/Sonno.jpg426640Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2021-11-11 10:03:502024-06-09 14:11:33Il sonno e i rischi di sviluppare malattie cardiache
Una pillola contro Covid-19 dimostra di ridurre il rischio di ricovero o di morte dell’89%. Lo comunica l’azienda Pfizer che produce il nuovo candidato farmaco orale antivirale, sulla base dell’analisi intermedia dello studio di fase 2/3 EPIC-HR.
La pillola per curare il covid
Secondo i dati la pillola antivirale (Paxlovid) riduce il rischio di ospedalizzazione o morte dell’89% rispetto al placebo negli adulti ad alto rischio non ospedalizzati con Covid-19. Pfizer prevede di inviare quanto prima i dati all’ente regolatorio statunitense per i farmaci FDA degli Stati Uniti per l’autorizzazione all’uso di emergenza (EUA).
Il farmaco antivirale orale, spiega Pfizer in una nota, ha mostrato una riduzione dell’89% del rischio di ospedalizzazione o morte per qualsiasi causa correlata al COVID-19 rispetto al placebo nei pazienti trattati entro tre giorni dall’insorgenza dei sintomi. Nella popolazione complessiva dello studio, fino al ventottesimo giorno, non sono stati segnalati decessi nei pazienti che hanno ricevuto il farmaco rispetto ai 10 decessi nei pazienti che hanno ricevuto il placebo.
Il farmaco ha inoltre dimostrato, afferma l’azienda, una potente attività antivirale in vitro contro le varianti circolanti, così come contro altri coronavirus noti, “suggerendo il suo potenziale terapeutico per molteplici tipi di infezioni da coronavirus”. L’analisi dei dati provvisori ha valutato i dati di 1219 adulti arruolati entro il 29 settembre 2021.
Pfizer: tariffe distribuzione in base al reddito
Al momento della decisione di interrompere il reclutamento di pazienti, l’arruolamento era del 70% dei 3.000 pazienti pianificati provenienti da centri di sperimentazione clinica in tutto il Nord e Sud America, Europa, Africa e Asia, con il 45% dei pazienti negli Stati Uniti. Se il farmaco avrà successo, Pfizer annuncia che offrirà la terapia antivirale orale sperimentale adottando un sistema tariffario a più livelli, basato sul reddito di ciascun paese, per promuovere l’equità di accesso in tutto il mondo. I paesi a reddito alto e medio-alto pagheranno di più dei paesi a reddito più basso. La società ha stipulato accordi di acquisto anticipato con più paesi ed è in trattative con molti altri. Pfizer afferma che continuerà a investire fino a circa 1 miliardo di dollari per supportare la produzione e la distribuzione di questo trattamento sperimentale.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2021/11/Merck-625x350-1.jpg350625Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2021-11-09 09:43:412024-06-09 14:11:44Pfizer, pillola per curare covid protegge da ricoveri o morte
Ad oggi non esistono cure mediche efficaci contro la Sla, una malattia del sistema nervoso che provoca una progressiva neuro-degenerazione delle cellule motoneuronali. A partire da una serie di investigazioni precedenti basate su indagini genomiche ad ampio spettro, un team di ricercatori dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica (Irib) e dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare (Ibbc) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ha rivelato la deregolazione del recettore CXCR2 nei neuroni corticali di un sottogruppo di pazienti affetti da Sla sporadica. I risultati dello studio, coordinato assieme a Silvia Mandillo del Cnr-Ibbc, sono stati pubblicati sulla rivista Neurobiology of Disease.
“Avvalendoci di due modelli sperimentali preclinici in vitro e in vivo, abbiamo studiato l’effetto della inibizione del CXCR2 mediante Reparixin. I risultati di queste ricerche indicano un’importante azione del farmaco nel prevenire la neurodegenerazione in vitro e nel migliorare la funzione neuromuscolare in vivo”, spiega Sebastiano Cavallaro, dirigente di ricerca del Cnr-Irib, responsabile del Laboratorio di genomica a Catania. “Complessivamente quindi, CXCR2 potrebbe svolgere un ruolo patogenetico nella Sla e i dati fin qui ottenuti supportano il suo uso come bersaglio terapeutico”.
“Attraverso un’analisi genomica, abbiamo evidenziato che una stratificazione molecolare dei pazienti con Sla, insieme ad un’adeguata selezione e prioritizzazione dei potenziali bersagli farmacologici, potrebbe aiutare a definire strategie razionalmente progettate e su misura per il paziente. I risultati raggiunti rappresentano un primo passo verso una medicina personalizzata per le patologie complesse e multifattoriali a carico del sistema nervoso”, conclude Cavallaro. Al lavoro hanno contributo anche Eleonora Aronica dell’Università di Amsterdam e Fabio Mammano dell’Università di Padova.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2021/11/sla-giornata-mondiale-1200-900.jpg9001200Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2021-11-08 10:30:022024-06-09 14:11:51SLA: c’è un nuovo potenziale target terapeutico. Lo studio
La malattia di Parkinson è una delle più frequenti patologie neurodegenerative, caratterizzata da un decorso lento e progressivo. L’obiettivo della ricerca è riuscire a intervenire in modo risolutivo nelle primissime fasi della malattia per arrestarne il decorso. Negli ultimi tre decenni l’unico trattamento disponibile per questa condizione che interessa almeno 400 mila italiani sono i farmaci sintomatici, come la levodopa.
Oggi una nuova speranza è data da una ricerca in pubblicazione sul numero di novembre della rivistaBrain. È il frutto della collaborazione di un pool di università italiane, IRCCS ed enti di ricerca italiani (Università Cattolica campus di Roma, Università di Perugia, Università degli Studi di Milano, CNR di Roma, Università San Raffaele IRCCS di Roma, Università di Roma Tor Vergata e IRCCS Fondazione Santa Lucia), coordinati dal professor Paolo Calabresi, Direttore della UOC di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Neurologia dell’Università Cattolica, campus di Roma. Lo studio è andato a indagare i meccanismi attraverso i quali l’alfa-sinucleina anomala si organizza e interferisce con la comunicazione tra neuroni, per poi portarli a una distruzione irreversibile (neurodegenerazione).
“È stato messo a punto un modello animale molto precoce e progressivo di malattia di Parkinson, causata dall’attività degli aggregati di alfa-sinucleina e in grado di riprodurre le fasi salienti della malattia osservata nei pazienti – spiega il professor Calabresi. In questo modo, siamo riusciti a individuare i meccanismi attraverso i quali l’alfa-sinucleina alterata determina le prime manifestazioni della malattia. La speranza è che questo possa portare a scoprire nuove strategie terapeutiche, quali anticorpi monoclonali in grado di contrastare la diffusione della proteina. Queste immunoterapie avrebbero lo scopo di ‘insegnare’ al sistema immunitario a riconoscere precocemente l’alfa-sinucleina anomala, per distruggerla prima che arrechi un danno cellulare”.
Il presupposto è disporre di strategie di diagnosi precoce. La soluzione potrebbe ruotare intorno all’alfa-sinucleina modificata, che è al centro anche delle sperimentazioni per la ricerca di biomarcatori di fase precoce e può essere misurata sia nel liquor che nel sangue. “Questo nuovo biomarcatore – prosegue il professor Calabresi – potrebbe consentire in futuro di diagnosticare la malattia in fase precoce e di intervenire con strategie di medicina di precisione. Non sorprende dunque che l’alfa-sinucleina sia stata soprannominata la proteina della speranza”.
Alfa-sinucleina e malattia di Parkinson
La malattia di Parkinson è una delle più frequenti patologie neurodegenerative, caratterizzata da un decorso lento e progressivo. I pazienti presentano disturbi del movimento (rigidità, lentezza, tremore) e dell’equilibrio; possono essere presenti anche sintomi non motori e cognitivi. Bersaglio dei nuovi farmaci oggi sono le forme alterate dell’alfa-sinucleina. L’alfa-sinucleina è una proteina prodotta dai neuroni, che ha la funzione di regolare il ‘traffico’ dei neurotrasmettitori a livello delle sinapsi. Se questa proteina si ‘ammala’, tende a formare degli aggregati di fibrille che si accumulano all’interno dei neuroni, disturbando il dialogo tra neuroni a livello delle sinapsi, per poi portare a morte le cellule nervose.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2017/11/parkinson2.jpg7201280Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2021-11-04 13:30:432024-06-09 14:12:52Parkinson: si chiama Alfa-sinucleina la proteina della speranza
Uno studio ha dimostrato per la prima volta la possibilità di utilizzare le colonie di api nel monitoraggio di patogeni umani aerodispersi.
Api sentinelle del covid, lo studio
Le api, ormai sentinelle riconosciute della salute ambientale, sono risultate in grado di intercettare il virus SARS-COV-2, agente della COVID-19, durante la loro attività di volo. Questo è quanto emerso dallo studio pubblicato sulla rivista “Science of the Total Environment” e realizzato nell’ambito del progetto BeeNet, coordinato da CREA Agricoltura e Ambiente e finanziato dal Mipaaf.
Il contesto di partenzaDa tempo, la capacità di esplorazione ambientale delle colonie di api mellifere supporta la rilevazione di contaminanti e, più in generale, il monitoraggio della salute dell’ecosistema. In qualche caso le api hanno dimostrato anche efficacia nell’individuazione di fitopatogeni.
Studi pubblicati nelle fasi di pandemia da COVID-19 hanno identificato concentrazioni misurabili del virus SARS-COV-2 nelle polveri sottiliaerodisperse, ottenute da campionatori automatici.
Le azioni condotteOsservando localmente la coincidenza fra le elevate concentrazioni di polveri sottili nell’aria e circolazione virale durante il terzo picco pandemico nazionale, si è concretizzata l’idea di utilizzare le api anche per il monitoraggio di patogeni umani aerodispersi.
La prova è stata condotta in una giornata soleggiata di fine inverno, nell’apiario della sede di Bologna del Centro di Ricerca Agricoltura e Ambiente del CREA. Sono stati realizzati dispositivi atti alla cattura di particelle trasportate dalle api e mantenuti davanti all’ingresso di volo di dieci alveari per tutta l’attività giornaliera delle api bottinatrici. Quindi, le colonie sono state aperte per prelevare campioni dalla superficie dei favi e di “pane d’api”, cioè le masse di polline compresso e immagazzinato nelle celle.
I risultatiTutti i campioni prelevati all’ingresso degli alveari sono risultati positivi per SARS-COV-2, indicando la capacità delle api bottinatrici di intercettare il virus durante la loro attività di volo.
Ogni alveare possiede migliaia di queste api operaie con il compito di esplorare l’ambiente alla ricerca di risorse da trasportare al nido. In una giornata di attività, il loro insieme può entrare in contatto con centinaia di metri cubi d’aria, trattenendo particelle aerodisperse grazie al corpo densamente ricoperto di peli.
Al contrario, nessuno dei campioni interni ha mostrato presenza dell’agente infettivo di COVID-19, elemento che esclude le api stesse e i loro prodotti da un’eventuale trasmissione di SARS-COV-2. I dati rilevati, quindi, non segnalano rischi per gli apicoltori in seguito alla manipolazione di api, favi e altri elementi costitutivi del nido, né per i consumatori dei prodotti dell’alveare, come miele e polline.
“Questo studio sperimentale ha dimostrato per la prima volta la possibilità di utilizzare le colonie di api nel monitoraggio di patogeni umani aerodispersi. I risultati incoraggiano a proseguire questa ricerca, che può essere rilevante per la salute pubblica, contribuendo a migliorare la nostra capacità di prevedere ondate epidemiche anche meno gravi di quella di COVID-19, come quelle della comune influenza stagionale – spiega Antonio Nanetti, ricercatore CREA Agricoltura e Ambiente e coordinatore dello studio – Occorre però individuare i limiti di sensibilità di questo metodo nei confronti di vari patogeni aerodispersi, anche in rapporto alle variabili ambientali”.
La proposta Le evidenze ottenute suggeriscono la possibilità di costituire reti di monitoraggio basate sulle api e finalizzate alla sorveglianza epidemiologica. Il loro utilizzo, infatti, a differenza dei campionatori automatici impiegati nella rilevazione delle polveri sottili, è flessibile poiché non richiede infrastrutture specifiche e può essere facilmente replicato, adattandolo alle diverse caratteristiche del territorio.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2021/10/29F30E1C-3B07-4A7A-AAEC-C2A9BD424431.jpeg19841488Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2021-10-29 20:21:102024-06-09 14:13:05Api sono in grado di intercettare SARS-COV-2. Lo studio
Si è rivelata un mezzo prezioso soprattutto durante l’emergenza. La telemedicina oggi apre molte possibilità nella cura. Al Forum Sistema Salute presso la Leopolda a Firenze è stato conferito il Premio del Rare Disease Award nella categoria Co-Creation al Progetto RemoTe. Il Premio viene attribuito ‘per la capacità del progetto di connettere i centri emofilia e i pazienti attraverso la telemedicina, che in tempi di Covid-19 ha permesso di assicurare cure ed assistenza senza incorrere in rischi legati al contagio’ come si legge nella motivazione.
RemoTe avvicina i centri emofilia e le persone con emofilia sfruttando le nuove tecnologie. “Queste hanno permesso di assicurare cure e assistenza ai pazienti fragili e cronici proteggendoli dal rischio di contagio” ha sottolineato Lara Pippo Head of Market Access & Government Affairs in CSL Behring che ha aggiunto “Il miglioramento della qualità della vita dei nostri pazienti fa parte dei nostri obiettivi prioritari”
La sezione Co-Creation assegna un premio speciale ai progetti che prevedono servizi per le persone con malattia rara e i loro familiari e che abbiano come scopo quello di migliorare l’ecosistema.
“I progetti sono stati valutati secondo criteri di innovazione, sostenibilità economica, impatto sociale, originalità” ha spiegato AnnalisaScopinaro “Le proposte candidate sono state sottoposte alla valutazione di una giuria composta da persone con malattie rare, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti”.
Il progetto è stato realizzato in collaborazione con ALTEMS (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari) sotto la guida dell’Ing. Fabrizio Massimo Ferrara ed è partito su due importanti centri come il Federico II di Napoli e il Careggi di Firenze con la collaborazione di clinici (Prof. Di Minno e Prof. Castaman) e associazioni dei pazienti (FEDEMO, ARCE e Ate).
La televisita si è dimostrata una alternativa valida per circa il 50% dei controlli. È possibile una efficace verifica dello stato di salute, visionare esami clinici, dare indicazioni di terapia e fare follow up. Ovviamente questa modalità operativa non può sostituire le visite in presenza, ma risulta una soluzione integrativa all’assistenza.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2016/08/2354_6197_telemedicina-2-e1470321997822.jpg6641000Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2021-10-29 17:12:282024-06-09 14:13:07Telemedicina alternativa valida nel 50% delle visite
Si è da poco conclusa la 77ª edizione del Congresso ASRM, American Society for Reproductive Medicine, uno dei più importanti convegni internazionali sulla Procreazione Medicalmente Assistita. Anche questa edizione si è tenuta in versione virtuale a causa della situazione sanitaria. Così, ricercatori e specialisti in Medicina Riproduttiva si sono incontrati online per condividere le ultime scoperte in questo settore.
Diagnosi preimpianto per anomalie cromosomiche (PGT-A) e ruolo dell’embriologo: elementi chiave per il successo dei trattamenti di PMA
Il ruolo dell’embriologo è fondamentale nei trattamenti di riproduzione assistita, dal momento che si occupa della selezione dell’embrione per il transfer. Fino ad oggi non era mai stato analizzato se i sistemi di classificazione morfologica, o altri metodi utilizzati dagli embriologi, aiutassero a selezionare embrioni euploidi (contenenti 46 cromosomi normali) con una probabilità maggiore rispetto a quelli aneuploidi (con uno squilibrio nella dotazione cromosomica). IVI ha studiato come questi sistemi di classificazione morfologica, utilizzati all’interno del laboratorio di embriologia, selezionino preferenzialmente gli embrioni euploidi. “Su un totale di 156 trasferimenti di singoli embrioni (SET), 129 erano euploidi, selezionati da embriologi che non hanno visionato i risultati della biopsia embrionale e del successivo PGT-A (test genetico preimpianto eseguito sull’embrione) per determinare la tipologia dell’embrione. Questo risultato dimostra l’abilità degli embriologi nel selezionare gli embrioni euploidi da trasferire nell’utero materno, secondo la classificazione morfologica”, ha spiegato il dottor Garrido, Direttore della Fondazione IVI.
Un altro studio presentato all’ASRM è nato con l’obiettivo di determinare l’origine degli errori cromosomici negli embrioni e il modo in cui tali anomalie possano alterare l’interpretazione dei risultati dei test PGT-A sull’embrione. “Il risultato riscontrato inizialmente, circa la natura euploide o aneuploide dell’embrione, nella quasi totalità dei casi è riconfermato nell’embrione stesso, dimostrando come gli errori meiotici – che avvengono durante la divisione cellulare – interessino l’intero embrione. Ne deriva che il tasso di discrepanza del 2%, osservato in queste analisi, è coerente con il tasso delle variazioni genetiche nella popolazione generale; quindi, la combinazione di una piattaforma analitica affidabile e i nuovi progressi nella comprensione della biologia degli errori embrionari, dovrebbe aumentare la fiducia nei risultati delle analisi PGT-A” ha affermato il dottor Garrido.
Gli studi confermano che i trattamenti di fecondazione assistita sono sicuri dopo il COVID-19
Il COVID-19 continua ad essere un argomento di primario interesse. A tal proposito, IVI ha presentato all’ASRM di quest’anno i risultati dei trattamenti di PMA su coppie di pazienti che hanno fatto ricorso alla medicina riproduttiva dopo aver superato l’infezione da COVID-19. “Quel che è certo è che, in una popolazione infertile, una diagnosi recente di COVID-19 non ha un impatto negativo sull’esito della gravidanza rispetto a una popolazione di controllo. Lo studio deve essere ampliato a un campione più ampio, ma ci aiuta comunque a rassicurare i pazienti che si chiedono se è sicuro intraprendere percorsi di fecondazione assistita dopo aver contratto il Coronavirus, esortandoli a non ritardare l’inizio del trattamento una volta superata la malattia” ha concluso il dottor Garrido.
Quest’anno IVI ha presentato quasi 70 studi, tutti mirati a garantire una maggiore sicurezza. “Sono molte le linee di ricerca cui dedichiamo il nostro lavoro quotidiano”, ha affermato Daniela Galliano, medico chirurgo, specializzata in Ginecologia, Ostetricia e Medicina della Riproduzione, Responsabile del Centro PMA di IVI Roma. “In particolare, la nostra priorità è fare in modo che le coppie riescano ad ottenere la gravidanza nel minor tempo possibile e con le massime garanzie di successo”.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2017/07/pma-puglia.jpg613990Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2021-10-26 17:12:412024-06-09 14:13:48ASRM 2021: il ruolo dell’embriologo e l’impatto del COVID-19 sui trattamenti di PMA
Affamare il tumore e sottrarre calorie e zuccheri per rallentarne la progressione. E’ questo il punto di partenza di una ricerca che sta facendo molto parlare e che in molti considerano come un primo passo verso risultati importanti nella lotta ai tumori. Quello che gli scienziati hanno osservato è che una dieta ipocalorica può ridurre la disponibilità di acidi grassi, il che può portare a un rallentamento nello sviluppo dei tumori. In particolare, a rivelarlo è uno studio pubblicato sulla rivista Nature, portato a termine dai ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Val bene chiarirlo sin da subito, non si sta parlando di sostituire alle cure un’alimentazione ipocalorica; né siamo al cospetto di qualche dieta miracolosa. Il team, guidato da Matthew Vander Heiden, ha però fatto importanti osservazioni che aprono a possibilità ancora da esplorare.
CONSUMO DI GLUCOSIO
In laboratorio gli scienziati hanno sottoposto un gruppo di topi a diversi regimi alimentari associati a un ridotto apporto di zuccheri. Gli animali hanno seguito diete ipocaloriche e chetogeniche (prive di carboidrati), ma solo la prima tipologia sembrava in grado di diminuire la disponibilità di acidi grassi, il che ha suscitato un rallentamento nel decorso del tumore pancreatico nei topolini. Il meccanismo è legato a quello che si potrebbe definire il “metabolismo” del tumore. Le cellule cancerose consumano infatti una grande quantità di glucosio, di qui l’ipotesi di partenza: una particolare dieta potrebbe sottrarre il glucosio necessario al tumore per crescere. Lo studio ha dimostrato che un’alimentazione ipocalorica è associata a effetti più significativi rispetto ad una dieta chetogenica. «Ci sono molte evidenze del fatto che l’alimentazione possa influenzare la velocità di progressione del cancro – afferma Vander Heiden – ma è importante sottolineare che non si tratta di cure o rimedi. Questi risultati, inoltre, non supportano l’adozione di diete ipocaloriche per i pazienti oncologici. Saranno tuttavia necessari ulteriori studi per valutare la possibilità di introdurre alcuni accorgimenti a livello alimentare in determinati pazienti». In letteratura diverse sono le ricerche che hanno suggerito come una dieta ipocalorica possa in qualche modo rallentare la crescita dei tumori, mentre non ci sono prove dell’efficacia di alimentazioni chetogeniche.
PROSPETTIVE INCORAGGIANTI
I ricercatori hanno anche esaminato una coorte di pazienti con tumore pancreatico, valutando gli effetti di diversi regimi alimentari. «Non abbiamo dati abbastanza completi per trarre conclusioni definitive sulle conseguenze della dieta nella popolazione umana – riporta Brian Wolpin, un oncologo del Dana-Farber Cancer Institute e coautore dell’articolo – l’alimentazione povera di calorie può essere difficile da mantenere e può anche provocare effetti collaterali dannosi. È presto quindi per raccomandare determinati comportamenti alimentari ai pazienti oncologici, ma potremmo essere sulla buona strada per individuare i processi biologici che collegano la dieta alla velocità di crescita dei tumori».
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2021/10/tumore.jpg360640Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2021-10-26 10:00:482024-06-09 14:14:50Una dieta può rallentare la crescita del tumore
Quattro ricercatrici italiane descrivono per la prima volta al mondo il funzionamento di una barriera cerebrale (il plesso coroideo) che, per proteggere il cervello dall’infiammazione dell’intestino si chiude e genera stati di ansia e depressione. Questo spiega perché questi stati accompagnano spesso chi soffre di malattie croniche intestinali, come la colite ulcerosa e la malattia di Crohn. Da anni la comunità scientifica ha riconosciuto un legame tra intestino e cervello, il cui funzionamento però è stato fino ad oggi indefinito. Lo studio italiano, pubblicato su Science, rappresenta quindi una svolta nella comprensione dell’asse intestino-cervello e apre la strada a nuove terapie.
La comunicazione tra intestino e cervello
Questi risultati aprono a nuovi scenari nella conoscenza del funzionamento di una delle barriere (o interfacce) fra circolo sanguigno e cervello, il plesso coroideo. Lo studio è stato coordinato dalla professoressa Maria Rescigno, capo del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota di Humanitas e docente di Patologia Generale di Humanitas University.
“A livello del plesso coroideo abbiamo documentato il meccanismo che blocca l’ingresso nel cervello di segnali infiammatori originati nell’intestino e migrati verso altri organi grazie al flusso sanguigno. A tale fenomeno è associato un isolamento del cervello dal resto dell’organismo che è responsabile di alterazioni comportamentali, tra cui l’insorgenza di stati di ansia”, spiega la prof.ssa Rescigno. “Questo significa che tali condizioni del sistema nervoso centrale sono parte della malattia e non solo manifestazioni secondarie”.
Lo studio è firmato inoltre dalla dott.ssa Sara Carloni, microbiologa di Humanitas University, la prof.ssa Michela Matteoli, docente di Farmacologia di Humanitas University e Direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR, e la dott.ssa Simona Lodato, capo del Laboratorio di Neurosviluppo di Humanitas e docente di Istologia ed Embriologia di Humanitas University.
Le funzioni del plesso coroideo
Il plesso coroideo è una struttura che si trova all’interno del cervello, dove viene prodotto il liquido che avvolge l’encefalo e il midollo spinale, a protezione delle strutture del sistema nervoso centrale. Il plesso coroideo è anche un veicolo per l’ingresso di sostanze nutritive e l’eliminazione di quelle di scarto e ha un ruolo di difesa immunitaria.
“Abbiamo scoperto che all’interno del plesso coroideo, oltre alla nota barriera epiteliale, esiste un’ulteriore barriera vascolare, che abbiamo definito barriera vascolare del plesso coroideo”, spiega la dottoressa Sara Carloni.
“In condizioni normali questo ‘cancello’ consente l’ingresso di molecole derivate dal sangue e, in caso di infiammazione in organi distanti (in questo caso l’intestino), la barriera si riorganizza e si chiude per bloccare l’ingresso di possibili sostanze tossiche”.
Il team di ricercatrici, inoltre, si è chiesto a cosa serve, in condizioni di salute questo “cancello” vascolare (che in assenza di stimolo patologico rimane aperto). Per rispondere è stato usato un modello sperimentale genetico, che consente di “chiudere” la barriera cerebrale senza che ci sia infiammazione dell’intestino.
“Così facendo abbiamo dimostrato che la chiusura della barriera del plesso sembrerebbe di per sé correlata ad alterazioni del comportamento, determinando un aumento di ansia e un deficit nella memoria episodica”, conclude la prof.ssa Michela Matteoli. Ciò significa che una comunicazione fisiologica e dinamica tra intestino e cervello è fondamentale per una corretta attività cerebrale.
Per comprendere il comportamento della barriera vascolare del plesso coroideo è stata utilizzata la metodica del Single Cell Sequencing, cui ha partecipato anche un gruppo di ricerca dello IEO. “Questo ha permesso di identificare le componenti del sistema vascolare che sono principalmente coinvolte in questa risposta, i capillari e periciti, cellule che regolano la permeabilità dei vasi sanguigni”, racconta la dottoressa Simona Lodato. “Grazie a questa analisi è possibile conoscere il comportamento dinamico di ogni cellula del plesso coroideo al momento della chiusura della barriera”.
Prospettive di cura delle patologie infiammatorie
“Abbiamo descritto il meccanismo che regola l’interazione tra il cervello e il resto dell’organismo in relazione alle infiammazioni intestinali”, spiega la professoressa Maria Rescigno. “Le domande aperte sono ancora molte. Ad esempio, in quali altre malattie si attiva questa chiusura? Anche i pazienti con patologie neurodegenerative hanno un intestino permeabile, da cui quindi passano più molecole verso il flusso sanguigno. Ora sappiamo che questa migrazione è correlata a una chiusura della barriera cerebrale e quindi a depressione e ansia. Come possiamo riaprire ‘il cancello’ del plesso per combattere questi stati alterati? E ancora, come possiamo modulare la barriera per raggiungere il cervello e consentire il passaggio di farmaci?”.
“Siamo già al lavoro per capire quali molecole possano essere coinvolte nelle anomalie comportamentali per modulare la reazione della barriera; quali cellule e componenti utili per la nostra salute restano intrappolate fuori dal cervello quando il plesso si chiude”, specifica la dottoressa Sara Carloni.
“Siamo di fronte a un’ulteriore dimostrazione che un’attività immunitaria non solo eccessiva ma anche insufficiente sia dannosa per la funzione del sistema nervoso. Adesso sarà importante definire i meccanismi attraverso cui questo avviene”, spiega la professoressaMichela Matteoli.
“Stiamo studiando la microglia, ossia le cellule immunitarie presenti nel cervello. Sappiamo che la loro attività può essere influenzata dai segnali provenienti dal sistema immunitario periferico e molti studi, anche del nostro laboratorio, hanno confermato che la microglia influenza in modo importante la funzione della sinapsi. La sinapsi è il sito di contatto tra neuroni ed è la sede di tutti i processi alla base del funzionamento del cervello, inclusi apprendimento e memoria. Rappresenta quindi il bersaglio più promettente da analizzare nei prossimi studi”.
“Nel contesto della neurobiologia dello sviluppo, dobbiamo capire quando e come si crei questa interazione tra cervello e sistema gastrointestinale scoperta a livello del plesso coroideo. La composizione del liquido cerebrospinale (CSF), che è chiaramente influenza dall’attività di questa barriera, è dinamica nello sviluppo e fondamentale nella formazione dei circuiti neuronali. Se pensiamo alla disbiosi, ossia ad alterazioni nel microbiota dei bambini, o all’obesità infantile, ci rendiamo conto che sono situazioni in cui il link tra cervello e intestino potrebbe essere alterato da un forte stato infiammatorio con effetti sulla barriera vascolare del plesso ed importanti conseguenze sul cervello in sviluppo”, conclude la dottoressa Simona Lodato.
Per la prima volta al mondo un’equipe medica ha impiantato un sistema che consente la “resincronizzazione cardiaca”. Lo straordinario intervento è stato realizzato al Policlinico Federico II di Napoli, e in particolare nel laboratorio di elettrofisiologia e cardiostimolazione dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia, Emodinamica, UTIC diretta dal professor Giovanni Esposito.
LA PROCEDURA
Detto con parole semplici, questa procedura è molto efficace per migliorare prognosi e sintomi dei pazientiche soffrono di scompenso cardiaco e dissincronia di contrazione tra il ventricolo destro e sinistro. Si interviene sul cuore grazie ad elettrocateteri che di fatto “erogano la terapia”. Questi piccolissimi elettrodi vengono posizionati sull’atrio destro, il ventricolo destro e il ventricolo sinistro, così da ottenere una contrazione sincronizzata delle camere cardiache con un miglioramento della funzione di pompa. Il successo della terapia dipende quasi esclusivamente dal raggiungimento di aree adeguate da stimolare del ventricolo sinistro. Sfortunatamente, il 30-40% dei pazienti non risponde alla terapia di resincronizzazione perché è difficile posizionare un elettrocatetere in un ramo del seno coronarico adatto a stimolare un’area adeguata del ventricolo sinistro.
NUOVI DEVICE
L’intervento è stato eseguito dal professor Antonio Rapacciuolo, che spiega: «Recentemente, è stato sviluppato dalla Microport un elettrocatetere di dimensioni ridottissime, il cui diametro è 4 volte inferiore ai cateteri classici. Per effettuare questo impianto è necessaria una tecnica molto diversa da quella convenzionale, con navigazione dei rami del seno coronarico anche di calibro piccolo e tortuosità elevate. Avere a disposizione un elettrocatetere in grado di raggiungere qualunque zona del ventricolo sinistro ci dà la possibilità di stimolare in maniera più efficace una percentuale più elevata di pazienti. Ogni paziente, infatti, ha una diversa anatomia e fino ad ora i classici cateteri non ci consentivano di praticare una terapia individualizzata». Nell’equipe, i medici Aniello Viggiano e Teresa Strisciuglio, insieme agli infermieri Francesca Del Prete, Loredana De Cicco, Salvatore Cerino e ai tecnici Stefano De Maio e Rosa Rusciano. «Fornire al paziente la migliore terapia possibile per la sua condizione e lavorare ad una medicina di precisione, che coniughi elevate competenze specialistiche all’avanguardia delle tecnologie – sottolinea Anna Iervolino, Direttore Generale del Policlinico Federico II – è la direzione della nostra cardiologia, elemento cardine dell’assistenza della nostra azienda ospedaliera universitaria e del suo ruolo nel servizio sanitario regionale». cuore
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