Tempo di lettura: 3 minutiLa foto dell’Istat ritrae un paese la cui salute va lentamente in fumo, e non è un modo di dire. Il report è quello sui fattori di rischio legato a fumo, eccesso di peso, sedentarietà e consumo di alcol (tratte dall’Indagine multiscopo “Aspetti della vita quotidiana”) e restituisce l’immagine di un paese che non ha ancora imboccato la strada giusta.
Il fumo
Paradossalmente una delle poche note positive (o quasi) è nel fumo. Stando ai dati diffusi dall’Istituto tra il 2001 e il 2015 la percentuale di fumatori è scesa da 23,7% a 19,6%. Son gli uomini a prendere sempre più coscienza dei danni del fumo, ma è anche vero che sono anche quelli che storicamente fumano di più. Dati alla mano gli uomini, che nel 2001 partivano da livelli più elevati, hanno fatto registrare un calo di 6,4 punti percentuali (da 31,0% a 24,6%); mentre per le donne il calo è di quasi 2 punti percentuali (da 16,9% a 15%). La forbice tra uomini e donne dunque si riduce, ma restano preoccupanti le abitudini. Nel 2015, infatti, il 19,6% della popolazione di 14 anni ha dichiarato di essere fumatore (parliamo di circa 10milioni 300mila persone), il 22,8% di aver fumato in passato e il 56,3% di non aver mai fumato. Il dramma è che la quota più alta di fumatori si ha nella fascia di età 25-34 anni (33,0%); le giovanissime sembrano invece più avvedute, visto che tra le donne la maggior parte ha tra i 55-59 anni (20,8%).
Obesità
Altro tasto dolente è l’alimentazione. Nella foto dell’Istat il ritratto dell’Italia è quello di un paese che tradisce le proprie abitudini alimentari (sane) per inseguire modelli culturali di altri paesi (molto meno sani). Nel 2015 il 45,1% della popolazione di 18 anni e più è in eccesso di peso (35,3% in sovrappeso, 9,8% obeso), il 51,8% è in condizione di normopeso e il 3,0% è sottopeso. A mangiare di più sono i maschi, e il trend aumenta in maniera preoccupante con l’andar del tempo (da 51,2% nel 2001 a 54,8% nel 2015). I più a rischio sono i bambini, i dati dell’Istat confermano i continui allarmi dei pediatri sull’obesità infantile. Basti pensare che i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso raggiungono la quota considerevole del 24,9% nel biennio 2014-2015, con forti differenze di genere (28,3% maschi, 21,3% femmine).
Consumo di bevande alcoliche
Ragazzini a rischio anche per quel che riguarda il bere. Se è vero che il 15,7% della popolazione ha comportamenti di consumo di alcol che eccedono le raccomandazioni per non incorrere in problemi di salute, è ancor più vero che questi comportamenti sono molto frequenti tra i giovani. Come ci si aspetterebbe gli ultrasessantacinquenni (il 36,4% degli uomini e il 9,0% delle donne) non da il buon esempio, ma sono molto alti i dati di consumo smodato tra i giovani compresi tra 18 e 24 anni (23,1% e 9,1%) e addirittura tra gli adolescenti di 11-17 anni (22,4% e 15,6%).
Sconvolge poi i fatto che il 64,5% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso del 2015: il 52,2% beve vino, il 46,4% consuma birra e il 42,1% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori.
Sedentarietà
Siamo, stando all’analisi Istat, un paese di “sportivi da divano”. Nel 2015, 23milioni 524mila persone (vale a dire il 39,9% della popolazione di 3 anni e più) ha dichiarato di non praticare alcuno sport né attività fisica nel tempo libero. E stavolta le più svogliate sono le donne: è sedentario il 44,3% delle donne contro il 35,1% degli uomini. La sedentarietà cresce all’aumentare dell’età, a partire dai 65 anni una persona su due non fa sport.
Insomma, la bella Italia ha ancora molto da imparare e sembra aver dimenticato gli insegnamenti di chi nell’antichità aveva già intuito che non può esserci una mente sana se non in un corpo sano
I più alti del mondo sono gli olandesi, altro che watussi
Ricerca innovazioneNel 1963 Edoardo Vianello faceva cantare e ballare l’Italia intera con I Watussi, tanto alti da guardare le giraffe negli occhi e parlare agli elefanti nelle orecchie. Oggi l’idea che gli uomini più alti del mondo siano proprio i Watussi cade a causa di uno studio condotto in 187 paesi e pubblicato su “eLife”. Messe da parte giraffe ed elefanti, il risultato è sorprendente ma molto meno esotico di quello messo in musica da Vianello: i più alti al mondo sono gli olandesi, in particolare ad Amsterdam e dintorni l’altezza media degli uomini è di 1 metro e 83 e nel paese baltico quella delle donne arriva a 1 metro e 70. Lo studio analizza com’è cambiata l’altezza media nei vari paesi dal 1914 al 2014.
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Italia
Va detto che noi del Bel Paese non siamo messi malissimo, certo non siamo in vetta ma almeno (con la media di 1,79) siamo passati in un secolo dalla cinquantasettesima alla ventinovesima posizione; mentre il gentil sesso italico (con il suo 1,65) è passato dalla cinquantacinquesima alla trentaduesima posizione.
Record negativo per il Sud-est asiatico
Dall’Europa del Nord bisogna spostarsi nel Sud-est asiatico per trovare invece gli uomini più bassi del mondo. A Timor-est l’altezza media maschile è di 1 metro e 60, mentre le donne più piccole del pianeta non raggiungono i 150 centimetri e sono in Guatemala. A crescere di più negli ultimi 100 anni sono stati gli uomini iraniani, 16 centimetri, e le donne della Corea del Sud, 20 centimetri. E’ di 5 centimetri sia per gli uomini che per le donne la crescita media della Gran Bretagna nell’ultimo secolo, dove l’altezza maschile e’ di un metro e 78 e quella femminile di 1,64.
Lo studio evidenzia anche come negli Stati Uniti la crescita media si sia bloccata tra il 1960 e il 1970. In un secolo l’aumento dell’altezza è stato di soli 6 centimetri. Rispetto al 1914 gli americani hanno perso molte posizioni, gli uomini sono passati dalla terza posizione alla trentasettesima, le donne dalla quarta alla quarantaduesima. «Il fenomeno di aumento dell’altezza potrebbe in parte dipendere dal sistema genetico – spiega lo scienziato Majid Ezzati – ma è anche vero che i geni non cambiano in così poco tempo. Quindi si puo’ ipotizzare che l’ambiente circostante e le migliori condizioni di vita siano i fattori di maggior influenza. Negli ultimi 100 anni in gran parte del pianeta sono cambiate le condizioni di assistenza sanitaria, i servizi igienici e la nutrizione, così come c’è un’attenzione maggiore verso la salute della mamma in gravidanza».
Parkinson, quando la telemedicina fa bene alla salute
Ricerca innovazioneSi chiama ‘TelePark’ il nuovo progetto pilota che coinvolgerà con un trattamento riabilitativo di telemedicina 30 malati di Parkinson allo stadio iniziale tra i 40 e gli 80 anni. L’idea viene dalla Fondazione Salvatore Maugeri di Novara e prevede un allenamento specifico e personalizzato che i pazienti dovranno eseguire giornalmente a casa propria.
Si tratta di una serie di esercizi che i pazienti dovranno effettuare due giorni alla settimana, monitorati a distanza da fisioterapista, infermieri e medici e collegati con questi tramite videoconferenza dal proprio pc. I restanti tre giorni della settimana saranno invece dedicati all’esercizio aerobico con 30 minuti di cyclette (tutte con accesso facilitato e consegnate a domicilio). I pazienti saranno tutti dotati di sensori applicati al braccio, in grado di fornire informazioni utili allo staff medico: dispendio energetico, numero di passi effettuati, durata del sonno, tempo di riposo.
Ai pazienti telemonitorati, invece, verrà fornito un monotraccia elettrocardiografico portatile e in caso di problemi cardiaci dovranno trasmettere il proprio elettrocardiogramma (tramite linea telefonica). “Nel paziente parkinsoniano, spiega il direttore della Unità Operativa di Neurologia Riabilitativa Fabrizio Pisano, oltre ad un idoneo trattamento farmacologico personalizzato alle esigenze cliniche, risulta di fondamentale importanza un adeguato trattamento riabilitativo che, attraverso l’esercizio fisico specifico per tale patologia e l’attività aerobica, influenza positivamente la qualità di vita del malato e le sue capacità funzionali”.
Al CNR scoperto meccanismo capace di inibire tumori
Farmaceutica, News Presa, Ricerca innovazioneInibire tumori
Un nuovo traguardo nella ricerca contro i tumori arriva dagli scienziati del CNR che hanno scoperto un meccanismo di crescita cellulare capace di inibire il cancro. La ricerca dell’Istituto di biochimica delle proteine del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli (Ibp-Cnr), in collaborazione con l’Istituto per il sistema produzione animale in ambiente mediterraneo (Ispaam-Cnr) ha evidenziato, oltre alla duplicazione del Dna, anche la divisione di un organello subcellulare (noto come ‘complesso del Golgi’) che è un prerequisito essenziale alla duplicazione cellulare. I risultati sono stati pubblicati su Nature Communications.
“La divisione delle cellule è regolata da meccanismi di controllo molto accurati, noti come checkpoint. Quello più investigato è il checkpoint che agisce prima della divisione del materiale genetico (la cosiddetta fase G1), lo stesso che, in caso di tumori, non è più funzionante. Il secondo è quello che opera dopo il completamento della divisione del materiale genetico (fase G2) e che coinvolge il Golgi, il quale, durante tale fase, deve essere accuratamente diviso in due gruppi di ‘frammenti’ equivalenti” – spiega Antonino Colanzi, coordinatore del gruppo di lavoro e ricercatore Ibp-Cnr. “La ricerca ha scoperto il legame di causalità fra la scissione dell’apparato del Golgi e la divisione cellulare. Durante la fase G2 la corretta separazione del Golgi induce l’attivazione dell’oncogene Src che, a sua volta, stimola l’attivazione di un altro oncogene, la proteina Aurora-A, culminando in un complesso proteico composto da questi due geni”, precisa Colanzi. “In tal modo Src può regolare uno specifico aminoacido di Aurora-A, la tirosina 148: quest’ultimo passaggio è funzionalmente molto importante, come dimostrato dal fatto che l’inibizione della modifica di Aurora-A causa un potente blocco della divisione cellulare. Inoltre, per identificare l’aminoacido tirosina 148 è stato basilare il contributo dei ricercatori dell’Ispaam-Cnr”.
La ricerca di base – finanziata da Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc), Regione Campania (Progetto Ockey) e Miur – è “fondamentale per la scoperta di nuovi ambiti applicativi”, conclude il ricercatore dell’Ibp-Cnr: “Poiché i tumori presentano un checkpoint G1 non funzionale, la possibilità di inibire il ciclo cellulare durante la fase G2 rivela nuovi bersagli per lo sviluppo di farmaci attivi nella lotta contro la crescita cellulare, quindi contro il cancro”.
Higuain alla Juventus, psicodramma partenopeo
News PresaRabbia e frustrazione, un’intera città è dominata da questi due sentimenti. Per quanto il tema possa sembrare goliardico non è proprio così, la scelta di Gonzalo Higuain di abbandonare Napoli per trasferirsi nella sua nuova casa di Torino rischia di sfociare in un autentico psicodramma. In realtà già questo dovrebbe far riflettere sulla scala di valori che anima la società contemporanea, ma al di là dei giudizi personali, dietro questo incredibile fenomeno collettivo esiste una spiegazione clinica, riportata nei manuali di psicologia delle masse.
Il ruolo del capo
«Il problema, se vogliamo chiamarlo così – spiega Raffaele Felaco, professore di Psicologia Sociale all’Università del Molise – è l’identificazione con la figura del capo. Ovviamente questa volta non parliamo di un capo istituzionale, ma comunque di un uomo che è riuscito a canalizzare su di se l’attenzione e chiaramente non tutti i calciatori hanno questa forza. A Napoli – dice Felaco – più di chiunque altro è stato Diego».
Raffaele Felaco
Nessun folclore
Raffaele Felaco sottolinea che il fenomeno non ha a che vedere con la napoletanità, ma con la funzione del leader. Perché allora questo sembra essere un tradimento imperdonabile per un’intera città? Tanto importante da far parlare anche il sindaco Luigi de Magistris e anche l’omelia di un parroco napoletano. Il segreto è in quel record di goal raggiunto a fine campionato. «Higuain – dice Felaco – è diventato in quel momento un super uomo, un fenomeno».
Oltre il calcio
La cosa terribile è che in alcune persone questo cambio di maglia può generare, e di fatto sta generando, molta ansia e frustrazione. «Succede perché il calcio nella nostra società ha un forte ruolo di valvola psicologica e sociale. Inquadrata dal punto di vista psicologico, la situazione ora evolverà in un solo modo: il giocatore diventerà “l’oggetto persecutorio” dei tifosi, sul quale proiettare le pulsioni negative. In ambito familiare questa dinamica si instaura spesso nei confronti delle mamme. I napoletani però hanno una caratteristica unica, sono certo che riusciranno a sfogare la frustrazione e il dolore per questa perdita con l’ironia che da sempre li caratterizza».
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Endoscopia digestiva: Pistoia all’avanguardia
News BreviEndoscopia digestiva: l’Ospedale San Jacopo di Pistoia è tra i primi centri in Italia ad aver ottenuto l’accreditamento professionale di eccellenza SIED (società Italiana Endoscopia Digestiva) – ANOTE (Associazione Nazionale Operatori di tecniche Endoscopiche).
L’unità operativa complessa ha acquisito questo importante riconoscimento non solo grazie agli elevati standard clinici e alle proprie competenze organizzative, ma anche grazie al continuo miglioramento delle prestazioni offerte e alla qualità del lavoro svolto da tutto il personale sanitario, che ha posto il paziente sempre al centro dell’attenzione.
Il servizio di endoscopia svolge la diagnosi e la terapia delle principali patologie dell’apparato digerente sia ai pazienti ricoverati sia ai pazienti esterni. Presso la struttura vengono effettuati anche interventi per asportare tumori superficiali dell’intestino e dello stomaco e vengono effettuati esami anche a bambini a partire dai quattro anni di età.
Presso la struttura sono utilizzate apparecchiature all’avanguardia, dotate di sistemi avanzati che permettono di rilevare anche piccole lesioni in fase iniziale di sviluppo. Entro l’anno saranno acquistati nuovi strumenti. Si potranno così curare un numero sempre maggiore di patologie con tecniche meno invasive per i pazienti.
Grazie alla costituzione dell’Azienda USL Toscana centro, che accorpa le quattro precedenti aziende dell’area vasta (ex Asl 3 di Pistoia, 4 di Prato, 10 di Firenze, 11 di Empoli), queste competenze di eccellenza potranno essere esportate anche in altri ospedali.
Cura dell’obesità, un premio alla Federico II
AlimentazioneL’unità operativa semplice di prevenzione, diagnosi e terapia dell’obesità del Policlinico Federico II, guidata da Fabrizio Pasanisi, è stata riconosciuta per il secondo triennio consecutivo quale Centro di Collaborazione Europea per il trattamento dell’Obesità (EASOCOM) dalla European Association for the Study of Obesity.
«Il riconoscimento – sottolinea Franco Contaldo, direttore dell’unità operativa complessa di medicina interna e nutrizione clinica – è esteso all’AOU Federico II che riveste un ruolo determinante sul territorio nella prevenzione e trattamento dell’obesità, una patologia molto diffusa e particolarmente temibile sia per la sua cronicità sia perché favorisce lo sviluppo di molte malattie cronico degenerative, metaboliche, cardiovascolari ed alcune neoplasie».
Fabrizio Pasanisi
Moltissime le iniziative che è necessario mettere in campo per contrastare l’obesità, una malattia cronica tipica del nostro tempo che richiede oltre all’intervento dei professionisti della salute anche l’adozione di strategie sociali mirate. «Molta attenzione deve essere rivolta alla prevenzione e terapia dell’obesità e del sovrappeso in età evolutiva – aggiunge Fabrizio Pasanisi – con particolare riferimento all’età scolare ed adolescenziale e al fenomeno della obesità di alto grado che può avvalersi anche della opzione della chirurgia specialistica, o chirurgia bariatrica, che richiede team multi professionali in grado di selezionare e curare il follow-up di questi pazienti estremamente complessi».
Obesi e sedentari, ecco la foto degli italiani
News Presa, PrevenzioneLa foto dell’Istat ritrae un paese la cui salute va lentamente in fumo, e non è un modo di dire. Il report è quello sui fattori di rischio legato a fumo, eccesso di peso, sedentarietà e consumo di alcol (tratte dall’Indagine multiscopo “Aspetti della vita quotidiana”) e restituisce l’immagine di un paese che non ha ancora imboccato la strada giusta.
Il fumo
Paradossalmente una delle poche note positive (o quasi) è nel fumo. Stando ai dati diffusi dall’Istituto tra il 2001 e il 2015 la percentuale di fumatori è scesa da 23,7% a 19,6%. Son gli uomini a prendere sempre più coscienza dei danni del fumo, ma è anche vero che sono anche quelli che storicamente fumano di più. Dati alla mano gli uomini, che nel 2001 partivano da livelli più elevati, hanno fatto registrare un calo di 6,4 punti percentuali (da 31,0% a 24,6%); mentre per le donne il calo è di quasi 2 punti percentuali (da 16,9% a 15%). La forbice tra uomini e donne dunque si riduce, ma restano preoccupanti le abitudini. Nel 2015, infatti, il 19,6% della popolazione di 14 anni ha dichiarato di essere fumatore (parliamo di circa 10milioni 300mila persone), il 22,8% di aver fumato in passato e il 56,3% di non aver mai fumato. Il dramma è che la quota più alta di fumatori si ha nella fascia di età 25-34 anni (33,0%); le giovanissime sembrano invece più avvedute, visto che tra le donne la maggior parte ha tra i 55-59 anni (20,8%).
Obesità
Altro tasto dolente è l’alimentazione. Nella foto dell’Istat il ritratto dell’Italia è quello di un paese che tradisce le proprie abitudini alimentari (sane) per inseguire modelli culturali di altri paesi (molto meno sani). Nel 2015 il 45,1% della popolazione di 18 anni e più è in eccesso di peso (35,3% in sovrappeso, 9,8% obeso), il 51,8% è in condizione di normopeso e il 3,0% è sottopeso. A mangiare di più sono i maschi, e il trend aumenta in maniera preoccupante con l’andar del tempo (da 51,2% nel 2001 a 54,8% nel 2015). I più a rischio sono i bambini, i dati dell’Istat confermano i continui allarmi dei pediatri sull’obesità infantile. Basti pensare che i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso raggiungono la quota considerevole del 24,9% nel biennio 2014-2015, con forti differenze di genere (28,3% maschi, 21,3% femmine).
Consumo di bevande alcoliche
Ragazzini a rischio anche per quel che riguarda il bere. Se è vero che il 15,7% della popolazione ha comportamenti di consumo di alcol che eccedono le raccomandazioni per non incorrere in problemi di salute, è ancor più vero che questi comportamenti sono molto frequenti tra i giovani. Come ci si aspetterebbe gli ultrasessantacinquenni (il 36,4% degli uomini e il 9,0% delle donne) non da il buon esempio, ma sono molto alti i dati di consumo smodato tra i giovani compresi tra 18 e 24 anni (23,1% e 9,1%) e addirittura tra gli adolescenti di 11-17 anni (22,4% e 15,6%).
Sconvolge poi i fatto che il 64,5% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso del 2015: il 52,2% beve vino, il 46,4% consuma birra e il 42,1% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori.
Sedentarietà
Siamo, stando all’analisi Istat, un paese di “sportivi da divano”. Nel 2015, 23milioni 524mila persone (vale a dire il 39,9% della popolazione di 3 anni e più) ha dichiarato di non praticare alcuno sport né attività fisica nel tempo libero. E stavolta le più svogliate sono le donne: è sedentario il 44,3% delle donne contro il 35,1% degli uomini. La sedentarietà cresce all’aumentare dell’età, a partire dai 65 anni una persona su due non fa sport.
Insomma, la bella Italia ha ancora molto da imparare e sembra aver dimenticato gli insegnamenti di chi nell’antichità aveva già intuito che non può esserci una mente sana se non in un corpo sano
Attività fisica regolare e dieta a base di vegetali: uno scudo contro il cancro
News BreviSi concluderà a breve “Diana 5”, uno studio di intervento multicentrico, coordinato dai ricercatori dell’Istituto nazionale Tumori di Milano del Campus Cascina Rosa e finanziato dal ministero della Salute e dall’Associazione italiana per la ricerca contro il cancro (Airc), mirato a dimostrare che cibo sano e movimento, aiutano a combattere il cancro.
Il progetto ha coinvolto oltre 2350 donne operate di carcinoma mammario e provenienti da 11 diversi centri nazionali sparsi in tutto il Paese. Di queste, ben 1.672 avevano un alto rischio endocrino-metabolico di sviluppare recidive. Le pazienti coinvolte, divise in due gruppi, d’intervento e di controllo, hanno adottato per 5 anni un’alimentazione basata principalmente sul consumo di cereali integrali, legumi, verdure di stagione, frutta fresca e semi oleaginosi, e povera di cereali raffinati, zuccheri e carni rosse e conservate. Allo stesso tempo, hanno modificato il loro stile di vita, introducendo quotidianamente un’attività fisica moderata come, ad esempio, una camminata a passo spedito di circa mezz’ora.
Secondo quanto emerso nell’ambito del progetto, le donne con Sindrome metabolica (Sm) – circa il 20% di quelle partecipanti al progetto – mostrano un rischio maggiore di sviluppare nuovamente il tumore rispetto alle donne in cui la Sindrome metabolica non si manifesta e un rischio ancora maggiore di sviluppare le metastasi a distanza. La Sm è un insieme di fattori che aumentano il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari, tumorali, diabete e altre patologie cronico-degenerative ed è influenzata dall’alimentazione ma anche dall’attività fisica.
Dai dati fin qui raccolti emerge che una prevenzione fatta anche di cibi per lo più vegetali e attività fisica praticata con regolarità, farebbe da “scudo” diminuendo il rischio di ripresa della patologia tumorale.
Hiit, bruciare grassi ad alta intensità
News PresaSi chiama Hiit, ovvero High intensity interval training ed è la risposta al desiderio di ottimizzare lo sforzo fisico per perdere peso. Perfetto per rifinire la forma fisica in vista della prova costume. A differenza di un allenamento esclusivamente “aerobico”, questo tipo di esercizio si basa sull’alternanza di periodi brevi ad alta intensità di lavoro con periodi di recupero attivo in cui si svolgono esercizi molto leggeri. Uno dei vantaggi dell’High intensity interval training è la durata, visto che di norma una sessione va dai 5 ai 20 minuti, preceduta da un riscaldamento di circa 10 minuti. Ovviamente questo non è un tipo di esercizio adatto a tutti e non si deve mai andare oltre i propri limiti.
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Le sessioni ad alta intensità
Per un esercizio completo bisogna considerare dalle 6 alle 10 ripetizioni di esercizi ad alta intensità (ovviamente il numero delle ripetizioni varia a seconda delle esigenze). Dopo ogni sessione ad alta intensità bisogna far rallentare il battito con quello che in gergo si chiama “recupero attivo”, vale a dire una fase di recupero nella quale si l’esercizio rallenta ma non termina.
Volendo si può suddividere l’allenamento in 4 livelli, per arrivare gradualmente al massimo della condizione. Si può prevedere nella prima fase un rapporto tra il lavoro ad alta intensità e il riposo attivo di 1 a 4. In questa fase il tempo totale di allenamento può essere di 10 minuti (escluso il riscaldamento).
Per il secondo step si può passare ad un rapporto tra alta intensità e riposo attivo di 1 a 2, con un allenamento totale (sempre escluso il riscaldamento) di 15 minuti.
Al terzo livello la fase di riposo di dimezza e il rapporto tra alta intensità e riposo passa a 1 a 1. Il tempo totale di allenamento dev’essere aumentato a questo punto a 18 minuti circa.
Al top della condizione, per il livello 4, si passa ad un rapporto tra alta intensità e riposo attivo di 2 a 1, con un allenamento che complessivamente deve durare una ventina di minuti.
Metabolismo sempre acceso
Stando ai risultati di uno studio realizzato al Baylor College of Medicine (a Houston, in Texas) i soggetti che hanno seguito un allenamento Hiit su bicicletta hanno bruciato nelle 24 ore successive all’allenamento una quantità di calorie molto superiore rispetto ai soggetti che hanno pedalato con intensità moderata a sforzo costante. Un consiglio? Bere tanto e mantenere sempre una dieta equilibrata, perché l’esercizio fisico può aiutare, ma non esistono soluzioni miracolose.
Allergie in crescita, eppure gli specialisti non trovano lavoro
Alimentazione, Economia sanitaria, Farmaceutica, News Presa, PrevenzioneSono oltre 10 milioni gli italiani che soffrono di allergie, gli specialisti che se ne occupano sono sempre meno. In Italia le strutture di allergologia, universitarie, ospedaliere e territoriali, sono già distribuite in modo disomogeneo sul territorio, come denuncia l’Associazione Italiana Allergologi Immunologi Territoriali e Ospedalieri (AAIITO); oggi stanno subendo un calo ulteriore. Uno studio recente ha calcolato che queste patologie e le loro complicazioni pesano circa 74 miliardi di euro, il 27 per cento per i costi indiretti (la perdita di produttività) e oltre il 72 per cento per quelli diretti (farmaci e ricoveri in ospedale).
AAIITO spiega che si tratta di una malattia in costante crescita e nel 2025 ne soffrirà una persona su due, rendendola la patologia cronica più diffusa del secolo. Se le allergie (tra cui rinite e asma) aumentano, insomma, gli specialisti che se ne occupano diminuiscono. Si riducono anche gli specialisti in regime di convenzione con le aziende sanitarie. Ciò è dovuto alla programmazione regionale carente e alla mancata sostituzione dei medici in via di pensionamento. Si è ben lontani, quindi, dagli standard previsti dai Livelli essenziali di assistenza, non solo massimi (due) ma anche minimi (una), di strutture complesse di allergologia per milione di abitanti.
Un problema, quello della carenza di allergologi, reso ancor più grave dalle lunghe liste d’attesa, intasate da richieste inappropriate: malattie non riconducibili a cause allergiche (come prurito cronico, pancia gonfia e dolori addominali). Una realtà che va a discapito di sindromi complesse e pericolose come le allergie alimentari, da farmaci e da punture di imenotteri (api, vespe, calabroni), per le quali è necessario un intervento tempestivo.
«L’attuale decreto ministeriale sull’appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale rende impossibile coniugare la possibilità di essere visitati da un allergologo con il numero di pazienti in attesa di un consulto – spiega Maria Beatrice Bilò, presidente dell’Associazione Italiana Allergologi Immunologi Territoriali e Ospedalieri -. Lottiamo quotidianamente con l’aumento delle malattie allergiche e il contestuale insufficiente numero di specialisti sul territorio». Bilò parla di un progetto che preveda un circuito di Reti Cliniche Integrate:
«Etica dell’uso delle risorse e appropriatezza, infatti, possono trovare effettiva espressione solo applicando specifici percorsi assistenziali e linee guida per i processi diagnostici e terapeutici da verificare con procedure di accreditamento indipendenti» – spiega Bilò.
Reti Cliniche Integrate, quindi, che comprendano ambulatori territoriali di allergologia di primo livello per l’inquadramento diagnostico e un filtro per l’eventuale invio alle strutture ospedaliere di secondo livello. Quest’ultime si farebbero carico delle prestazioni più complesse come asma grave, reazioni allergiche gravi, allergie da alimenti, farmaci e punture di imenotteri.