Tempo di lettura: 2 minutiL’alcol, ancor prima delle droghe pesanti, è il problema più grande per la salute dei nostri figli. Secondo i clinici l’età media dei ragazzi che consuma abitualmente alcol si è abbassata al punto che ormai anche i dodicenni vanno inseriti nel novero dei soggetti a rischio. In quest’ultimo caso il problema più concreto è legato alle bevande definite alcolpops. Si tratta di bevande che apparentemente sono innocue, ma che in realtà contengono superalcolici. Stando ad una recente ricerca effettuata in Campania, ad esempio, queste bibite risultano essere di “tendenza”, dei ragazzi intervistati oltre il 67 per cento ha ammesso di berne. Oltre il 40 per cento ha poi dichiarato di fumare dalle 6 alle 10 sigarette al giorno. E si tratta di ragazzini che vanno dai 13 ai 18 anni. Insomma, il rischio è che il nostro paese si avvii verso una popolazione di giovani, anzi di giovanissimi, alcolisti. Drammatico anche il dato del 19,4 per cento che ha ammesso di essere stato almeno una volta in un’auto o su una moto condotti da una persona che aveva assunto sostanze. Ma questa è un’altra storia.
Gli effetti nel breve periodo
Per comprendere quali effetti possa avere l’alcol nell’organismo è importante prima di tutto sapere che viene assorbito in parte dallo stomaco e in parte dall’intestino. Se l’alcol viene bevuto a stomaco vuoto il suo assorbimento sarà più rapido e quindi i suoi effetti ancora più negativi. Dal sangue l’alcol passa al fegato, che in teoria ha il compito di distruggerlo. Tuttavia finché il fegato non ha completato la digestione per l’etanolo l’alcol continua a circolare e a diffondersi negli organi. Si tratta di una delle sostanze più tossiche, perché può facilmente oltrepassare le membrane cellulari e provocare lesioni, fino alla distruzione delle cellule. Un dato che potrebbe far riflettere è quello che ci dice in media quanti neuroni si perdono a causa di una sbornia, vale a dire circa 100mila. Quindi, quasi il numero neuroni di neuroni che muoiono in un’intera giornata di vita. In media, per smaltire un bicchiere di una qualsiasi bevanda alcolica, l’organismo impiega circa due ore. Se si beve molto alcol in poco tempo, questo compito è più lungo e difficile, e gli effetti sono più gravi.
Gli effetti a lungo termine
Se si abusa di superalcolici e di alcol per diverso tempo gli effetti sul corpo sono devastanti. Un prolungato abuso può aumentare il rischio di sviluppare diverse malattie gravi e potenzialmente letali. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dicono che 20 grammi di alcol al giorno (pari a circa due bicchieri di vino) determinano un aumento percentuale del rischio rispetto a chi non assume bevande alcoliche per diverse malattie. In particolare, aumenta del 100 per cento la possibilità di sviluppare una cirrosi epatica, del 20 o 30 per cento la possibilità di ammalarsi di tumore del cavo orale, della faringe e della laringe, del 10 per cento di sviluppare un tumore dell’esofago, del 14 per cento un tumore del fegato, del 10 o 20 per cento la possibilità di ammalarsi di tumore della mammella e del 20 per cento di incorrere in un ictus cerebrale.
Vittime di bullismo: se va male a scuola è un segnale. Lo studio
News Presa, Prevenzione, Psicologia, Ricerca innovazioneI bambini vittime di bullismo, oltre a soffrire psicologicamente, vedono peggiorare il proprio rendimento scolastico. È quanto emerge da uno studio americano, pubblicato sul journal Educational Psychology, che ha seguito quasi 400 ragazzi dalle scuole materne al liceo. Ladd e colleghi, dell’Arizona State University di Tempe, hanno rilevato che quando le azioni di bullismo terminano, soprattutto se avvengono durante i primi anni di scuola, i ragazzi migliorano nel rendimento scolastico e acquisiscono maggiore autostima.
Con indagini regolari, i ricercatori hanno misurato il grado e la frequenza delle vittimizzazione tra pari che i bambini hanno sperimentato – tra cui il bullismo fisico, verbale e relazionale – così come la percezione della performance scolastica e il livello di impegno scolastico. Hanno anche valutato gli insegnanti per misurare il rendimento scolastico.
Nella scuola dell’infanzia, il 21% dei bambini ha avuto esperienza di vittimizzazione grave e un altro 38% ha sperimentato un livello moderato di bullismo. Queste proporzioni sono diminuite costantemente nel corso degli anni, fino all’ultimo anno di liceo, quando meno dell’1% è stato vittima di un attacco grave e poco meno dell’11% è stato moderatamente bullizzato. Tuttavia, nel corso degli anni, il 24% dei bambini è stato classificato nella categoria della vittimizzazione cronica. Questi sono stati anche quelli con maggiori probabilità di avere uno scarso rendimento scolastico (soprattutto in matematica) e una cattiva percezione accademica si sé. Tra i cinque gruppi Ladd e colleghi hanno notato che le vittime nei primi anni della scuola di solito sono riusciti ad affrancarsi dal bullismo nel tempo.
La povertà diventa una malattia. Cala di due anni l’aspettativa di vita
Economia sanitaria, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneEssere poveri può accorciare la vita di due anni. Un calo dell’aspettativa dell’esistenza paragonabile a quella di chi fuma, beve, fa poca attività fisica o soffre di diabete. Lo rivela uno studio condotto da Lifepath e pubblicato sulla rivista The Lancet che ha seguito lo stato di salute di quasi due milioni di individui, in tutta Europa, per 13 anni.
Insomma, vivere in condizioni sociali ed economiche precarie accorcia la vita, in media, di 2,1 anni. Per avere un’idea più chiara di quanto un’esistenza ai limiti della sopravvivenza possa essere dannosa, basta guardare le altre statistiche: un fumatore ha un’aspettativa di vita più bassa di quasi 5 anni, un malato di diabete di quattro e una persona fin troppo sedentaria di due anni e mezzo. La ricerca fa parte di un progetto, finanziato dalla Commissione Europea, che ha l’obiettivo di individuare i meccanismi biologici che stanno alla base delle differenze sociali nella salute. “Ci siamo sorpresi quando abbiamo scoperto che vivere in condizioni sociali ed economiche povere può costare caro quanto altri potenti fattori di rischio come il fumo, l’obesità e l’ipertensione – ha affermato Silvia Stringhini, ricercatrice all’University Hospital di Losanna, in Svizzera, e coordinatrice dello studio – Queste circostanze possono essere modificate con interventi politici e sociali mirati, per questo dovrebbero essere incluse fra i fattori di rischio su cui si concentrano le strategie globali di salute pubblica”.
“È noto – ha spiegato Mika Kivimaki, professore all’University College London e co-autore dello studio – che educazione, reddito e lavoro possono influire sulla salute, ma pochi studi avevano cercato di valutare quale fosse il peso effettivo di questi fattori. Per questo abbiamo deciso di confrontare l’impatto dello status socioeconomico sulla salute mettendolo a confronto con quello di sei fra i principali fattori di rischio”.
I ricercatori hanno analizzato la salute di più di 1,7 milioni di persone che vivono in tutta Europa, tra Gran Bretagna, Italia, Portogallo, Stati Uniti, Australia, Svizzera e Francia. La vita di queste persone è rimasta sotto la lente degli scienziati per 13 anni. I dati ottenuti da questa lunga fase di osservazione sono stati analizzati con appositi metodi statistici e confrontati con quelli relativi ad alcuni dei principali fattori di rischio inclusi nel piano strategico globale dell’Oms chiamato “25×25”.
In conclusione, estendere la prevenzione anche a fattori come il lavoro o l’educazione infantile, può migliorare la salute globale. “Lo status socioeconomico è importante perché include l’esposizione a diverse circostanze e comportamenti potenzialmente dannosi, che non si limitano ai classici fattori di rischio come fumo o obesità, sui quali si concentrano le politiche sanitarie – ha concluso Paolo Vineis, professore all’Imperial College London e coordinatore di Lifepath – L’obiettivo principale del nostro progetto è quello di capire attraverso quali processi biologici le disuguaglianze sociali si traducono in disuguaglianze per la salute. Così facendo potremo fornire accurate prove scientifiche a istituzioni sanitare e decisori politici, che a loro volta potranno migliorare l’efficacia delle loro strategie di intervento sulla salute pubblica”.
Milik è guarito, così lo staff del Napoli cura i suoi campioni
News Presa, PrevenzioneTra scaramanzia e fede calcistica i tifosi del Napoli fanno gli scongiuri per i risultati di una ricerca scientifica secondo la quale i beniamini azzurri sono tra quelli che si allenano di più (5.330 ore impiegate con 4.804 ore di allenamento) e si infortunano di meno visti i 9 infortuni di questa stagione (4 in allenamento, 5 in partita).Insomma, al di là del folclore, la scienza dice che (con una percentuale di 0,8 infortuni su 1.000 ore di allenamento) dietro il gruppo azzurro c’è un altro grande team: quello dello staff medico, diretto da Alfonso De Nicola in collaborazione con Enrico D’Andrea e Raffaele Canonico, e di tutti i preparatori.
L’analisi
Condotto dal professor Ekstrand per l’UEFA, lo studio si basa sull’elaborazione dei dati relativi agli infortuni registrati da 35 squadre di calcio internazionali (tra cui il Napoli) in riferimento alle ore di allenamento e di partita impiegate da luglio a dicembre 2016. I valori riscontrati nella squadra del patron De Laurentiis sono particolarmente interessanti, ancor più se si considera che la media è pari a 2,6 infortuni con un picco di 9,3 per la squadra con il peggior piazzamento da questo punto di vista.
Prevenire l’infortunio
Il segreto di questi risultati è quello di guardare avanti, con un lavoro che mira a prevenire patologie muscolari e altre malattie in ambito sportivo. E nel caso di infortunio di qualunque tipo si lavora al veloce e totale recupero dell’atleta, per il benessere del giocatore, della squadra e della società affinché ci siano sempre meno indisponibilità in partita. Inoltre, gli studi dello staff sono volti all’eliminazione delle recidive. In caso di infortuno serio, si dà luogo all’intervento (se dovuto) in tempi strettissimi e a una riabilitazione veloce anche neuro-cognitiva. E’ così che Cristiano Lucarelli nel 2010 (aveva 35 anni) dopo la rottura del legamento crociato anteriore rientrò in campo dopo appena 107 giorni. Lorenzo Insigne recuperò a pieno dopo 125 giorni, e infine (notizie dei giorni nostri) Arek Milik è stato dichiarato guarito, per la stessa patologia dopo 97 giorni e convocato per la 23a gara di campionato in Serie A Bologna – Napoli a soli 114 giorni dall’intervento. Anche se, con le prestazioni di Mertens e compagni, dovrà lottare per ritagliarsi un posto da titolare.
Mai più donne con genitali mutilati. Il mondo si mobilita
News PresaOggi è la Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, un fenomeno che riguarda 200 milioni di donne nel mondo, circa 57.000 in Italia, provenienti soprattutto da Nigeria ed Egitto.
Una pratica usata in almeno 30 paesi che costituisce una grave violazione dei diritti fondamentali della persona. Una pratica di crudeltà che lede la dignità delle donne e le espone a gravi conseguenze fisiche, come emorragie e cicatrici dolorose che in alcuni casi portano alla morte. Un problema che interessa anche l’ Europa. Sebbene infatti siano vietate, le mutilazioni riguardano anche bambine e giovani donne migranti che vivono nel nostro territorio, spesso a rischio di subire barbare mutilazioni quando tornano nel loro paese di origine durante periodi di vacanza per visitare i parenti.
Action Aid in collaborazione con l’ università Bicocca di Milano ha realizzato un’ indagine e ha tracciato la reale dimensione di questa pratica tra le comunità residenti nel nostro Paese. In Italia, nelle comunità migranti, vi sono molte donne con mutilazioni genitali femminili con percentuali che variano a seconda del paese di origine. Secondo le stime aggiornate al 2016 il numero di donne straniere maggiorenni con mutilazioni genitali femminili presenti in Italia si attesti tra le 46mila e le 57mila unità, a cui si aggiungono le neocittadine italiane maggiorenni originarie di paesi dove la pratica esiste (quantificate tra le 11mila e le 14mila unità) e le richiedenti asilo. Oltre il 60% delle donne con mutilazioni genitali femminili presenti in Italia proviene da Nigeria ed Egitto.
Se si considera invece la prevalenza all’ interno delle principali comunità sono le donne somale ad essere più colpite (83,5%), seguite da quelle che provengono dalla Nigeria (79,4%) e dal Burkina Faso (71,6%). Al quarto posto per diffusione delle mutilazioni c’ è la comunità egiziana (60,6%), seguita da quelle eritrea (52,1%), senegalese (31%) e ivoriana (11%). La nuova mappa che emerge dallo studio della Bicocca conferma che le mutilazioni sono un tema di grande importanza anche in Italia. La presenza di donne con mutilazione genitale femminile apre il dibattito sulla necessità di mettere in atto politiche di prevenzione nei confronti delle bambine migrate da piccole o nate in Italia.
Per combattere questa forma di violenza di origine tribale, ActionAid ha lanciato il progetto AFTER che prevede percorsi di empowerment per le donne e attività di informazione ed educazione per le loro comunità affinché rifiutino questa pratica.
In occasione della Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili ActionAid ha promosso inoltre la mobilitazione online (hasthtag #endFGM). Testimonial, attivisti e influencer sono intervenuti attraverso i loro profili social, postando una foto con indosso il simbolo della campagna: un soffione viola, simbolo di libertà ed espressione del desiderio di lasciar andare il passato, permettere al presente di trasformarsi in un futuro libero da vincoli fisici ed emotivi. Ogni attivista diventa quindi il simbolo positivo di un seme del soffione che vola nel vento per informare, sensibilizzare, mobilitare, affinché in futuro nessuna bambina subisca più questa pratica crudele e pericolosa. Aderiscono alla campagna di sensibilizzazione, tra gli altri, la Federazione Italiana Rugby.
Sigarette elettroniche: il polmone 3D non mente: “Solo 2 geni stressati”
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneDa tempo si cerca di mettere a confronto i rischi, in termini di danno ai polmoni, delle sigarette tradizionali rispetto a quelle elettroniche.
Uno studio effettuato con una tecnica rivoluzionaria, per l’ utilizzo di un modello di polmone in 3D e un’innovativa tecnica di biologia molecolare, ha evidenziato quasi ‘in presa diretta’ le alterazioni prodotte dal fumo di sigaretta sull’epitelio bronchiale. Le sigarette alterano il funzionamento di 123 geni e scatenano l’infiammazione. I vapori delle sigarette elettroniche, invece, hanno un impatto sul funzionamento di appena due geni.
A rivelarlo è uno studio appena pubblicato su Applied in Vitro Toxicology, a firma di Anisha Banerjee e colleghi del British American Tobacco R&D Centre (Southampton, Gran Bretagna) che si sono avvalsi per questo studio di un modello tridimensionale di una coltura di vie aeree con epitelio umano ricostituito, per andare a spiare, a livello molecolare, cosa accade dentro i bronchi raggiunti dal fumo di sigaretta o dagli aerosol delle e-cig.
Per le analisi di biologia molecolare, gli studiosi hanno usato una tecnica rivoluzionaria, detta RNA-seq Profiling, in grado di valutare sia l’espressione dei geni, che di misurare le concentrazioni dei biomarcatori dell’infiammazione.
“Il sequenziamento di prossima generazione – spiega Baneryee – sta rivoluzionando ed espandendo le frontiere della ricerca genomica, svelando l’informazione genica di qualunque sistema biologico”.
L’importanza di questo studio sta anche nell’aver gettato le basi di un nuovo filone di ricerca, basato sull’impiego di modelli tridimensionali di polmone umano, insieme alle ultime tecnologie di espressione genica.
Questi modelli in vitro possono essere utilizzati dunque con successo per comprendere gli effetti biologici dell’esposizione al fumo di sigaretta tradizionale e agli aerosol delle sigarette elettroniche.
Ispaam e Cnr, ecco la “carta di identità” molecolare dei cibi
AlimentazioneMinata negli anni scorsi dal caso “Terra dei Fuochi”, la reputazione della Campania per quel che riguarda la sicurezza alimentare si è ormai ripresa. Anzi, si può dire che la Campania sia oggi in prima linea su questo tema. L’Istituto per il Sistema di Produzione Animale in Ambiente Mediterraneo di Napoli (Ispaam), infatti, è impegnato con il Dipartimento di Scienze bio-agroalimentari del Cnr in un’infrastruttura di ricerca internazionale coordinata dall’Enea “Metrofood”, che mira appunto a migliorare la sicurezza e il controllo della qualità degli alimenti.
Un network internazionale
Grazie a questa rete si punta a sviluppare sistemi di controllo e conoscenze che rendano i consumatori più consapevoli dei livelli di sicurezza dei prodotti che mettono in tavola. «Scienza e ricerca consentono di fare passi da gigante in questo settore», spiega Andrea Scaloni , responsabile dell’Istituto per le Produzioni Alimentari in Ambiente Mediterraneo . «All’Ispaam di Napoli – aggiunge – stiamo ad esempio lavorando per mettere a punto un sistema che, grazie all’analisi delle proteine, consenta di determinare la provenienza del latte di bufala da Nazioni diverse dall’Italia ed eventuali sofisticazioni come l’aggiunta di latte congelato o da altre specie. In questo ambito, la ricerca ricopre un ruolo importante perché crea gli strumenti per evidenziare alterazioni dei prodotti e, allo stesso tempo, permette di studiare sistemi che consentano di ottimizzare e qualificare la produzione alimentare».
All’Accademia dei Georgofili
Il direttore dell’Ispaam di Napoli rappresenterà il Cnr all’incontro che il 9 febbraio porterà all’Accademia dei Georgofili a Firenze i rappresentanti dei 17 Paesi che, insieme alla Fao (l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), conducono le attività di ricerca di Metrofood. «Con questa infrastruttura che vede impegnati centri di ricerca, università e organizzazioni di controllo dei principali Paesi europei – conclude Scaloni – studiamo nuovi sistemi tecnologici e ci proponiamo di offrire servizi metrologici per proteggere la qualità del cibo e la salute dei consumatori, combattendo al tempo stesso le frodi alimentari».
L’Italia degli alcolisti under 14
News PresaL’alcol, ancor prima delle droghe pesanti, è il problema più grande per la salute dei nostri figli. Secondo i clinici l’età media dei ragazzi che consuma abitualmente alcol si è abbassata al punto che ormai anche i dodicenni vanno inseriti nel novero dei soggetti a rischio. In quest’ultimo caso il problema più concreto è legato alle bevande definite alcolpops. Si tratta di bevande che apparentemente sono innocue, ma che in realtà contengono superalcolici. Stando ad una recente ricerca effettuata in Campania, ad esempio, queste bibite risultano essere di “tendenza”, dei ragazzi intervistati oltre il 67 per cento ha ammesso di berne. Oltre il 40 per cento ha poi dichiarato di fumare dalle 6 alle 10 sigarette al giorno. E si tratta di ragazzini che vanno dai 13 ai 18 anni. Insomma, il rischio è che il nostro paese si avvii verso una popolazione di giovani, anzi di giovanissimi, alcolisti. Drammatico anche il dato del 19,4 per cento che ha ammesso di essere stato almeno una volta in un’auto o su una moto condotti da una persona che aveva assunto sostanze. Ma questa è un’altra storia.
Gli effetti nel breve periodo
Per comprendere quali effetti possa avere l’alcol nell’organismo è importante prima di tutto sapere che viene assorbito in parte dallo stomaco e in parte dall’intestino. Se l’alcol viene bevuto a stomaco vuoto il suo assorbimento sarà più rapido e quindi i suoi effetti ancora più negativi. Dal sangue l’alcol passa al fegato, che in teoria ha il compito di distruggerlo. Tuttavia finché il fegato non ha completato la digestione per l’etanolo l’alcol continua a circolare e a diffondersi negli organi. Si tratta di una delle sostanze più tossiche, perché può facilmente oltrepassare le membrane cellulari e provocare lesioni, fino alla distruzione delle cellule. Un dato che potrebbe far riflettere è quello che ci dice in media quanti neuroni si perdono a causa di una sbornia, vale a dire circa 100mila. Quindi, quasi il numero neuroni di neuroni che muoiono in un’intera giornata di vita. In media, per smaltire un bicchiere di una qualsiasi bevanda alcolica, l’organismo impiega circa due ore. Se si beve molto alcol in poco tempo, questo compito è più lungo e difficile, e gli effetti sono più gravi.
Gli effetti a lungo termine
Se si abusa di superalcolici e di alcol per diverso tempo gli effetti sul corpo sono devastanti. Un prolungato abuso può aumentare il rischio di sviluppare diverse malattie gravi e potenzialmente letali. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dicono che 20 grammi di alcol al giorno (pari a circa due bicchieri di vino) determinano un aumento percentuale del rischio rispetto a chi non assume bevande alcoliche per diverse malattie. In particolare, aumenta del 100 per cento la possibilità di sviluppare una cirrosi epatica, del 20 o 30 per cento la possibilità di ammalarsi di tumore del cavo orale, della faringe e della laringe, del 10 per cento di sviluppare un tumore dell’esofago, del 14 per cento un tumore del fegato, del 10 o 20 per cento la possibilità di ammalarsi di tumore della mammella e del 20 per cento di incorrere in un ictus cerebrale.
«Quei 430 milioni mai spesi dateli alla ricerca»
News PresaUn appello al governo affinché l’Italia volti pagina e inizi ad essere uno dei Paesi nei quali si investe nella ricerca. L’iniziativa è dell’associazione Luca Coscioni e arriva in occasione del World Cancer Day di domani (4 febbraio 2017). L’appello dell’associazione batte in modo particolare sull’importanza di destinare fondi alla ricerca di base: «La giornata mondiale per la lotta al cancro – si legge- è un’occasione che va colta dal Governo per dare un segnale forte a favore della ricerca scientifica». La richiesta è esplicita e molto mirata: destinare alla ricerca di base i 430 milioni di euro non spesi dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova.
Un nuovo corso
Già in occasione del passaggio della legge finanziaria in Parlamento alcuni scienziati e accademici italiani del calibro di Michele De Luca, Gilberto Corbellini, Giulio Cossu e Roberto Defez, a nome dell’associazione Luca Coscioni, avevano proposto che la dotazione dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale fosse portata dalla attuale cifra di 32 milioni di euro l’anno (92 milioni su 3 anni) alla cifra di 460 milioni di euro l’anno. Per gli scienziati «questa decisione segnerebbe l’avvio di un nuovo corso, e farebbe dell’Italia un Paese che investe in conoscenza al pari delle altre grandi economie fondate sul sapere».
Sbloccare i fondi
Da quanto emerso grazie all’azione parlamentare della Senatrice a vita Elena Cattaneo e dall’inchiesta della trasmissione Presa Diretta, sono ben 430 milioni di euro non spesi dall’IIT di Genova e depositati presso la banca d’Italia. “Questi fondi potrebbero essere destinati proprio alla ricerca di base, contro il cancro e non solo, garantendo così almeno per il primo anno la decuplicazione dei fondi per i PRIN. Proponiamo dunque alla Ministra della Ricerca, Valeria Fedeli, e a tutto il Governo di cogliere l’occasione della giornata mondiale contro il cancro per prendere un impegno che rappresenterebbe una speranza importante per tutta la ricerca italiana. Clicca QUI per sottoscrivere l’appello.
Immigrati: per 2 italiani su 3 portano malattie come la meningite
News Presa, PrevenzioneL’immigrazione porta in Italia malattie infettive gravi: ne sono convinti i due terzi degli italiani.
Interpellati attraverso il sondaggio Index Research, il 63,8% degli intervistati si è detto convinto che “l’arrivo degli immigrati nel nostro Paese favorisce la diffusione di malattie infettive anche gravi”. Il 26,5% crede invece che non sia così. Il 9,7% è rappresentato dalla fetta che non sa o non risponde.
La rilevazione Index ha sondato anche l’effetto psicosi meningite, dopo l’ondata di paura che si è diffusa nel mese di gennaio a causa di diversi casi registrati lungo la penisola.
Secondo il 74% della popolazione, il 13% in più rispetto all’ottobre 2015, è giusto che le vaccinazioni per i bambini siano “obbligatorie per tutti”. Mentre un quinto ritiene che debba essere una scelta dei genitori; ovvero il 7% in meno rispetto all’ottobre 2015.
E aumentata anche la fetta di persone che ha assunto posizione rispetto a questo tema: nella precedente rilevazione l’11% degli intervistati non sapeva o non aveva risposto, oggi solo il 5% non ha un’opinione.
“I casi di cronaca e una maggiore informazione hanno quindi spostato una parte dell’opinione pubblica, che ha preso maggiore consapevolezza del tema”, spiega Natascia Turato, direttore di Index Research.
Più volte sul caso “psicosi meningite” la professoressa Maria Triassi direttore del Dipartimento di Salute Pubblica della Federico II di Napoli ha invitato alla calma. Non è stata lei la sola, visto che tutti i camici bianchi hanno sempre ribadito che in Campania, ad esempio, non c’è e non c’è stato, alcun allarme concreto. La Triassi è stata invece la prima a sottolineare come al fenomeno dei migranti si potesse associare un rischio contagio, o meglio il rischio di veder tornare malattie dimenticate e comparirne di nuove. La professoressa Triassi ha parlato nei mesi scorsi di un incremento dei casi di tubercolosi e del «ritorno di alcune malattie infettive che, nel vecchio continente, sono quasi del tutto debellate, silenti». Tutto questo proprio per il fenomeno migratorio e le cattive condizioni igienico sanitarie di quanti sono costretti a viaggi disperati verso le nostre coste. «In alcune nazioni da cui provengono i migranti – aveva spiegato la Triassi – alcune patologie come la tubercolosi e la meningite, che da noi sono quasi del tutto scomparse, sono endemiche e silenti nell’individuo. Questi virus con i climi più freddi possono acutizzarsi e diffondersi».
Rosolia congenita, in pochi conoscono i rischi
PrevenzioneRosolia Congenita: l’eradicazione è possibile. Lo dice una ricerca della Federico II di Napoli. Ormai da un decennio il Ministero della Salute ha formulato un piano nazionale di eradicazione del morbillo e della rosolia congenita (PNEMoRC). Purtroppo, verificando regione per regione il livello della copertura vaccinale per queste due malattie ci si rende conto che sul registro del Ministero i dati riguardanti la Campania sono fermi al 2008. Per dare un’inversione di tendenza a questa situazione preoccupante il professor Raffaele Orlando (direttore dell’Unità operativa complessa di Malattie Virali della Federico II di Napoli) assieme alla sua équipe di infettivologi, ha intrapreso un’indagine avvalendosi della preziosa collaborazione del reparto di Ostetricia. Il progetto ha coinvolto 131 donne in gravidanza alle quali è stato sottoposto un questionario in forma anonima volto a rilevare se fosse presente uno stato di protezione nei confronti della rosolia. IN pratica se avessero fatto il vaccino o se avessero già avuto la rosolia. Le domande sono anche servite a comprendere se queste donne fossero consapevoli dei rischi che questa malattia, se contratta in gravidanza, può causare al nascituro.
I risultati dell’indagine
L’esito della ricerca ha dato un’indicazione inequivocabile: la scarsa copertura vaccinale è la diretta conseguenza dell’inadeguata conoscenza dei rischi associati alla rosolia congenita, dal momento che le donne ignare dei rischi non si preoccupano di rimediare al pericolo vaccinandosi. Per questo motivo le pazienti “arruolate” sono state adeguatamente informate dal personale della Federico II rispetto alle possibili conseguenze per il nascituro. Il risultato? Quasi tutte hanno chiesto di essere sottoposte al vaccino subito dopi il parto.
I rischi e le esperienze pregresse
Tra i pericoli connessi alla rosolia in gravidanza c’è una maggiore incidenza di aborti, la possibile cecità del bimbo o la sordità neurosensoriale e malformazioni cardiache. Già nel 2015 l’equipe del professor Orlando aveva condotto uno studio legato agli studenti di Infermieristica, Infermieristica Pediatrica e Ostetricia della “Federico II”, mirato alla valutazione della percezione del rischio di morbillo e rosolia tra i giovani. Anche in quel caso lo studio aveva incentivato gli studenti alla vaccinazione.
La strada giusta
«Direi un buon esempio – spiega il professor Orlando – di come formazione e informazione siano la chiave di volta per raggiungere certi risultati. Un esperimento da estendere senz’altro nel territorio campano per tenerci al passo con le altre Regioni e rispettare gli impegni presi con il Ministero della Salute in merito alla vaccinazione per rosolia». Si può dire che sulle direttive nazionali per l’eradicazione della rosolia congenita, la Regione Campania, grazie all’attiva collaborazione della Federico II, può rispondere “presente”.