Tempo di lettura: 2 minutiIl momento più a rischio sarebbe quello in cui l’atleta entra in acqua. Lo sport in questione è il triathlon, disciplina diventataspecialità olimpica dal 2000 che prevede tre prove da svolgere in successione immediata: nuoto, ciclismo e corsa (la distanza varia a seconda della categoria). Secondo uno studio gli atleti di triathlon hanno un rischio maggiore di incorrere in morte improvvisa, trauma fatale o arresto cardiaco, rispetto a un comune adulto di mezza età o a chi fa corse a lunga distanza (come la maratona). La ricerca, condotta su più di nove milioni di partecipanti, mostra che la morte o l’arresto cardiaco colpirebbero 1,74 persone ogni 100mila concorrenti. A guidarla è stato Kevin Harris, cardiologo della Minneapolis Heart Institute Foundation dell’Abbott-Northwestern hospital in Minnesota. Il lavoro è stato poi pubblicato su Annuals of Internal Medicine.
Le Olimpiadi
I ricercatori americani hanno esaminato i dati dei partecipanti alle Olimpiadi di triathlon dal 1985 al 2016. Durante questo periodo, 135 persone sarebbero decedute, di cui 107 per morte improvvisa, mentre 13 sarebbero sopravvissute ad arresto cardiaco dovuto alla corsa perché soccorse nell’immediato. Le vittime avevano in media 47 anni e per l’85% erano maschi. Il momento più a rischio sarebbe il nuoto. Novanta morti e arresti cardiaci si sarebbero avuti in acqua, mentre sette durante la parte di ciclismo, 15 durante la corsa e nove durante il periodo di recupero. Non solo: dalle autopsie è emerso che la malattia cardiovascolare senza segni clinici sarebbe presente in una percentuale significativa. “Durante la parte della gara dedicata al nuoto, gli atleti probabilmente sperimentano un aumento di adrenalina quando entrano in acqua e competono molto vicini con gli altri atleti e, talvolta, in condizioni ambientali sfavorevoli”, spiega Harris.
Gli uomini più a rischio
L’incidenza sarebbe stata inferiore tra le donne, 3,5 volte più bassa rispetto agli uomini. Imolte, il rischio di morte cresceva con l’età. Tra gli uomini over 60, il tasso di mortalità o di arresto cardiaco sarebbe di 19 partecipanti ogni 100mila concorrenti.
Più controlli prima delle gare
“I risultati di questo studio dovrebbero servire da promemoria ai partecipanti per assicurarsi che siano idonei a competere in queste gare di resistenza”, afferma Reginald Ho, autore di un editoriale che accompagnava l’articolo e professore di medicina al Sidney Kimmel Medical College del Thomas Jefferson University Hospital di Philadelphia. “Gli atleti dovrebbero vedere regolarmente i loro medici e tutti i sintomi cardiaci dovrebbero essere monitorati”.
Tuttavia, Hannah Arem, del George Washington Milken Institute School of Public Health di Washington, conclude che la ricerca “non dovrebbe però dissuadere chi è in salute a considerare di partecipare a gare di resistenza: per la maggior parte delle persone, l’esercizio fisico regolare darà più vantaggi che danni”.
promuoviamo salute
Triathlon: aumenterebbe rischio morte improvvisa e traumi
News Presa, SportIl momento più a rischio sarebbe quello in cui l’atleta entra in acqua. Lo sport in questione è il triathlon, disciplina diventataspecialità olimpica dal 2000 che prevede tre prove da svolgere in successione immediata: nuoto, ciclismo e corsa (la distanza varia a seconda della categoria). Secondo uno studio gli atleti di triathlon hanno un rischio maggiore di incorrere in morte improvvisa, trauma fatale o arresto cardiaco, rispetto a un comune adulto di mezza età o a chi fa corse a lunga distanza (come la maratona). La ricerca, condotta su più di nove milioni di partecipanti, mostra che la morte o l’arresto cardiaco colpirebbero 1,74 persone ogni 100mila concorrenti. A guidarla è stato Kevin Harris, cardiologo della Minneapolis Heart Institute Foundation dell’Abbott-Northwestern hospital in Minnesota. Il lavoro è stato poi pubblicato su Annuals of Internal Medicine.
Le Olimpiadi
I ricercatori americani hanno esaminato i dati dei partecipanti alle Olimpiadi di triathlon dal 1985 al 2016. Durante questo periodo, 135 persone sarebbero decedute, di cui 107 per morte improvvisa, mentre 13 sarebbero sopravvissute ad arresto cardiaco dovuto alla corsa perché soccorse nell’immediato. Le vittime avevano in media 47 anni e per l’85% erano maschi. Il momento più a rischio sarebbe il nuoto. Novanta morti e arresti cardiaci si sarebbero avuti in acqua, mentre sette durante la parte di ciclismo, 15 durante la corsa e nove durante il periodo di recupero. Non solo: dalle autopsie è emerso che la malattia cardiovascolare senza segni clinici sarebbe presente in una percentuale significativa. “Durante la parte della gara dedicata al nuoto, gli atleti probabilmente sperimentano un aumento di adrenalina quando entrano in acqua e competono molto vicini con gli altri atleti e, talvolta, in condizioni ambientali sfavorevoli”, spiega Harris.
Gli uomini più a rischio
L’incidenza sarebbe stata inferiore tra le donne, 3,5 volte più bassa rispetto agli uomini. Imolte, il rischio di morte cresceva con l’età. Tra gli uomini over 60, il tasso di mortalità o di arresto cardiaco sarebbe di 19 partecipanti ogni 100mila concorrenti.
Più controlli prima delle gare
“I risultati di questo studio dovrebbero servire da promemoria ai partecipanti per assicurarsi che siano idonei a competere in queste gare di resistenza”, afferma Reginald Ho, autore di un editoriale che accompagnava l’articolo e professore di medicina al Sidney Kimmel Medical College del Thomas Jefferson University Hospital di Philadelphia. “Gli atleti dovrebbero vedere regolarmente i loro medici e tutti i sintomi cardiaci dovrebbero essere monitorati”.
Tuttavia, Hannah Arem, del George Washington Milken Institute School of Public Health di Washington, conclude che la ricerca “non dovrebbe però dissuadere chi è in salute a considerare di partecipare a gare di resistenza: per la maggior parte delle persone, l’esercizio fisico regolare darà più vantaggi che danni”.
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Realtà virtuale, l’ “intrattenimento” che controlla il dolore
Ricerca innovazioneNon entra in gioco solo il fattore “distrazione”, la realtà virtuale potrebbe aiutare a controllare il dolore, attivando dei cambiamenti a livello cerebrale. È la sintesi di una ricerca coordinata da Anita Gupta, del Woodrow Wilson School of Public and International Affairs alla Princeton University, nel New Jersey, e pubblicata su Pain Medicine.
Questa tecnologia, sviluppata ormai da decenni, nasce in ambito militare, per poi essere usata in medicina per curare ferite, nella fisioterapia, per il dolore ai denti e per il trattamento delle bruciature. In pratica si tratta di una tecnica psicologica per il trattamento del dolore con una procedura basata sulla distrazione.
Nell’ultimo studio gli scienziati hanno preso in esame articoli pubblicati dal 2000 al 2016 che valutano i modi in cui la realtà virtuale può dare sollievo dal dolore. Hanno poi identificato quattro piccoli esperimenti che testano la realtà virtuale per il dolore e due studi pilota. Oltre al dolore acuto, vengono menzionati gli effetti su quello cronico, come il mal di testa o la fibromialgia. Questi studi confrontano anche la realtà virtuale con altri trattamenti come il biofeedback e la terapia cognitiva comportamentale. Presi nell’insieme, emerge che la realtà virtuale potrebbe aiutare, con la terapia del condizionamento e di esposizione, una forma di terapia comportamentale che mira a far cambiare al paziente la risposta al dolore quando lo avverte. Molti studi lo hanno dimostrato già da tempo, ma servono maggiori evidenze per arrivare a conclusioni. Resta il fatto che la realtà virtuale nel trattamento del dolore potrebbe contribuire a ridurre la dipendenza da farmaci analgesici oppiacei ed evitarne l’uso improprio. Tra gli effetti collaterali ci sono la nausea e le vertigini. “Guidare l’immaginazione è una pratica usata da tempo per il trattamento di disturbi psicologici e la realtà virtuale consente al giocatore di immergersi nella dimensione. E l’effetto è maggiore se si proiettano immagini guidate”, dice Gupta.
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Vaccino HPV. Sarebbe in grado di proteggere anche una sola dose
PrevenzioneUna sola dose di vaccino HPV 16/18 sarebbe in grado di proteggere con efficacia e per molti anni le giovani donne dall’infezione dei ceppi 16 e 18 (i più rischiosi). I vaccini anti HPV sono stati testati e approvati secondo un regime a tre dosi, ma già alcuni studi hanno dimostrato che due dosi non sono inferiori a tre per indurre risposte immunitarie nelle giovani donne tra i 16 e i 29 anni. Tuttavia per modificare le linee guida sull’uso del vaccino HPV saranno necessari ancora altri studi.
La ricerca è stata condotta da ricercatori californiani e del CVT del Costa Rica. Mahboobeh Safaeian della Roche Molecular Diagnostics di Pleasonton in California e i colleghi del CVT di Costa Rica hanno mostrato un’efficacia simile del vaccino e una risposta stabile degli anticorpi durante quattro anni di ricerca tra le donne che avevano ricevuto una, due o tre dosi del vaccino HPV 16/18. I ricercatori hanno poi esteso lo studio ad un follow up medio di 7 anni su 2.043 donne che avevano ricevuto tutte e tre le dosi, 79 che ne avevano ricevute due a sei mesi di distanza, 193 che avevano ricevuto due dosi a un mese, 134 che avevano ricevuta una dose e 2.382 controlli non vaccinati.
I risultati.
L’incidenza cumulativa delle infezioni da HPV16 o HPV18 nei sette anni è stata uniformemente bassa e non ha differito significativamente tra i vari gruppi: il 3,6% nel gruppo con una dose, il 4,3% in quello a due dosi, il 3,8% due dosi dopo un mese e 1,5% nel gruppo con tre dosi. La prevalenza di HPV16 e HPV18 al settimo anno, inoltre, non differiva significativamente dal numero di dosi (range da 0,1% a 1,3%). In confronto, la prevalenza di HPV16 e HPV18 nel gruppo di controllo non vaccinato è stata del 6,6%. I ricercatori hanno pubblicato i dati sul Jourynal of National Cancer Insitute alla fine di agosto. Tutte le donne vaccinate sono rimaste sieropositive a sette anni, indipendentemente dal numero di dosi ricevute e i livelli anticorpali contro HPV16 e HPV18 sono rimasti relativamente costanti tra il quarto e il settimo anno.
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Infezioni ospedaliere, più rischiose del bisturi
PrevenzioneIn caso di intervento chirurgico il rischio più grande potrebbe non essere il bisturi. A rivelarlo sono gli esperti che si sono ritrovati a Napoli per il IV Convegno sui «Moderni orientamenti nella diagnosi e terapia delle infezioni osteoarticolari». Facile comprendere che il rischio riguarda in questo caso le infezioni legate ad interventi ortopedici e i costi sono enormi anche per il sistema sanitario. Lo spiega senza mezzi termini il presidente del convegno Ciro Pempinello, ortopedico del San Giovanni Bosco: «Le infezioni osteoarticolari – dice – hanno un’incidenza enorme sul budget sanitario nazionale. I numeri parlano di140mila interventi l’anno per protesi di anca e ginocchio, con un’incidenza del 2-3 per cento di contagi che sfiorano il tetto delle 3mila infezioni annue, per un costo a carico del Sistema sanitario nazionale di circa 100 milioni. E’ emerso che la sorveglianza del sito chirurgico è un elemento fondamentale per la prevenzione. Quindi tutto ciò che può prevenire, trattare, diagnosticare in precedenza e profilassare questa complicanza è sempre foriera di salute per l’utente e di risparmio per il sistema sanitario».
Antibiotico resistenza
Una giornata di scambio di opinioni e approfondimento professionale sull’attualità dell’analisi diagnostica e della necessaria profilassi ospedaliera, alla quale hanno partecipato tra gli altri esperti nel campo delle infezioni delle ulcere cutanee e delle infezioni osteoarticolari. «Mentre le tecniche diagnostiche sono sempre più accurate, precise e veloci, abbiamo un grosso problema legato alla multi resistenza antibitioca nelle infezioni nosocomiali – chiarisce Carlo Tascini, direttore della I divisione delle malattie infettive dell’ospedale Cotugno di Napoli (A.O. dei Colli)-. Si tratta di un problema mondiale ma anche italiano dove registriamo infezioni da germi multiresistenti come lo stafilococco aureo, la Klebsiella pneumoniae e l’acinetobacter baumannii per i quali esistono pochissime opzioni terapeutiche».
Prevenzione
In questo contesto anticipare l’insorgere di problemi è fondamentale se consideriamo le tante difficoltà della terapia medica anche a causa di un depotenziamento della ricerca nel campo dell’antibioticoterapia. Raramente si trovano nuove molecole da analizzare, quindi spesso non si riesce ad affrontare il problema in modo adeguato.
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Salute e scuola, la prevenzione si fa in classe
News PresaSi chiama «La natura che cura» ed è un progetto di educazione ai corretti stili idi vita, e quini alla prevenzione, dedicato agli insegnanti, ai ragazzi tra i 9 e i 13 anni e le loro famiglie. Il progetto coinvolge direttamente sia le scuole primarie, sia le scuole secondarie e nasce dall’Associazione Medica Italiana di Omotossicologia (AMIOT) per aumentare la conoscenza degli studenti sul tema della prevenzione delle malattie a trecentosessanta gradi con l’adozione di corretti stili di vita e l’uso consapevole e appropriato delle medicine di origine biologico- naturale, specie in chiave preventiva.
Ecosostenibile
Novità per questa nuova edizione sarà una riduzione della carta stampata grazie alla creazione totalmente in digitale di un kit multimediale, l’iniziativa quindi ha anche un risvolto “green”. Questo materiale sarà di supporto ai medici esperti di medicina naturale per approfondire insieme agli studenti e ai loro insegnanti come le cosiddette medicine complementari si rivelino essere una scelta di tutto rispetto per la salute, contribuendo così a sfatare i pregiudizi che ancora pesano su questi strumenti terapeutici e attribuiscono a queste cure una minore efficacia rispetto ai farmaci convenzionali.
Sesibilizzare
Nello scorso anno scolastico sono state organizzate oltre 240 lezioni in 134 scuole, per un totale di 12.669 studenti coinvolti, grazie al grande impegno a titolo volontaristico di 80 medici. «AMIOT ha promosso con convinzione l’iniziativa “Natura che Cura” – dice Marco Del Prete, presidente AMIOT -e non poteva essere altrimenti, in considerazione del fatto che vogliamo consentire ai ragazzi di oggi, e quindi agli adulti di domani, di far luce su un argomento ancora sconosciuto a molti e guidarli a scelte responsabili a tutela della propria salute al fine di aumentare l’indice di benessere della popolazione». Tutti gli Istituti coinvolti lo scorso anno hanno partecipato al concorso “Natura che Cura”: gli studenti hanno avuto la possibilità di realizzare dei lavori di gruppo (come ad. es. disegni) focalizzati sui temi affrontati in classe durante gli incontri con gli esperti. L’adesione è stata molto alta da parte degli studenti e l’AMIOT ha ricevuto ben1.000 elaborati di grande impatto. Successivamente, per decretare le 3 scuole vincitrici, l’AMIOT ha riunito una giuria che ha valutato tutti i lavori pervenuti premiando i più meritevoli.
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Salute diritto umano, non privilegio. Tedros striglia i governi
PrevenzioneSi chiama UHC – universal health coverage (copertura universale della salute) e la chiede con forza l’Organizzazione mondiale della Sanità. Il suo obiettivo è migliorare il livello di salute e benessere di ogni persona e la sicurezza sanitaria e la stabilità sociale di ogni nazione. Il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, è intervenuto di recente a New York all’assemblea delle Nazioni Unite proprio per rilanciare la “chiamata all’azione” agli Stati per garantire la copertura sanitaria universale che, ha detto “si basa sulla convinzione che la salute sia un diritto umano, non un privilegio. Le persone non devono scegliere tra l’acquisto di medicinali e l’acquisto di cibo”.
Il Rapporto presentato all’Onu si divide in tre principi e tre azioni.
La copertura sanitaria universale è necessaria per la salute delle persone e per lo sviluppo sostenibile: tutti i paesi devono coprire la salute universale come priorità politica.
La copertura sanitaria universale è possibile e conveniente per tutti i paesi: ogni Paese dovrebbe utilizzare prove e strumenti disponibili per determinare il proprio percorso per raggiungerla.
La copertura sanitaria universale è centrata sulla popolazione e politicamente intelligente: i paesi devono garantire che soddisfi le esigenze e l’aspirazione delle persone, con la loro partecipazione.
L’appello di Tedros alle Nazioni Unite – la salute è un diritto umano.
”Grazie al primo ministro Abe (il primo ministrogiapponese Shinzo Abe, ndr.), per la leadership mostrata come presidente del G7 dello scorso anno e che continui a mostrare. Non vedo l’ora di incontrarti a Tokyo quest’anno per il Forum UHC. La copertura sanitaria universale si basa sulla convinzione che la salute sia un diritto umano, non un privilegio. È uno scandalo per me che la gente debba scegliere tra l’acquisto di medicinali e l’acquisto di cibo. È uno scandalo che la malattia possa portare tutta una famiglia nella povertà perché chi è malato non è in grado di lavorare. È uno scandalo che una madre possa perdere il suo bambino perché i servizi necessari per salvarlo sono troppo lontani. Non possiamo accettare un mondo simile. Non dobbiamo accettare un mondo simile. L’anno scorso ho incontrato un giovane studente di medicina con insufficienza renale nella Repubblica Dominicana, che mi ha detto di aver bisogno di dialisi tre volte alla settimana. “Quanto costa?” Gli chiesi. Non aveva idea. Il governo paga per questo. Senza un trattamento sanitario sarebbe morto. Ma lui può ottenere i servizi di cui ha bisogno e grazie a questi si prepara per una carriera per aiutare gli altri. Questo è il potere della copertura sanitaria universale. Migliora la salute, ma riduce anche la povertà, crea posti di lavoro, guida la crescita economica, promuove l’uguaglianza di genere e protegge le popolazioni dalle epidemie. Ma la realtà è che in tutto il mondo, più di 400 milioni di persone non hanno accesso ai servizi sanitari essenziali e almeno 100 milioni di persone vengono spinte in povertà per pagare l’assistenza sanitaria dalle proprie tasche.
Ciò è inaccettabile. La buona notizia è che l’UHC è realizzabile. In luglio abbiamo presentato le prove che dimostrano che l’85% dei costi per raggiungere gli obiettivi sanitari SDG può essere coperto con risorse nazionali. Questi investimenti avrebbero impedito 97 milioni di morti premature tra oggi e il 2030 e in alcuni paesi avrebbero portato fino a 8,4 anni di aspettativa di vita in più. Tutti i paesi a tutti i livelli di reddito possono fare di più con le risorse che hanno e possono agire ora per migliorare la salute delle loro popolazioni. Mi sentirete dire sempre che la copertura sanitaria universale è una scelta politica. Ci vuole la vision, il coraggio e il pensiero a lungo termine. Ma il risultato dell’impegno è un mondo più sicuro, più equo e più sano, per tutti”.
Promuoviamo salute
Scoperto il punto del cervello da dove nascono i sogni
News, PsicologiaÈ stato scoperto, in una zona recondita del nostro cervello, il luogo da dove hanno origine i sogni. Si è sempre pensato che per generare esperienze coscienti dovesse essere implicata quasi tutta la corteccia cerebrale, invece è stata individuata, per quanto riguarda i sogni, una zona ben precisa e delimitata, detta “Hot Zone”, poco sopra la nuca. Il luogo in cui nascono i sogni è stato cercato a lungo ed è stato scoperto quasi per caso quando, durante passati esperimenti, dopo la stimolazione di questa specifica area, i volontari si erano descritti come in un mondo parallelo, disconnessi dalla realtà o come se si trovassero in un fumetto.
Lo studio è stato effettuato da un gruppo di ricercatori italiani tra cui Francesca Siclari, neurologa del centro di ricerca sul sonno dell’Università di Losanna, primo autore dell’articolo pubblicato su «Nature Neuroscience». La “Hot Zone” è stata individuata attraverso un esperimento in cui sono stati reclutati 32 volontari ai quali è stata registrata l’attività cerebrale tramite 256 elettrodi distribuiti su scalpo, volto e nuca, con un tasso di precisone molto elevato. Durante la notte sono stati svegliati a intervalli casuali per valutare la presenza di sogni anche con dei questionari. Gli scienziati hanno messo a confronto l’attività cerebrale registrata nei periodi di sonno precedenti al risveglio, in cui i partecipanti avevano affermato di aver sognato, con quella riscontrata nei momenti precedenti al risveglio, ma in cui i soggetti dicevano di non aver sognato. I risultati hanno rivelato che, indipendentemente dallo stadio del sonno, le esperienze coscienti legate ai sogni avvengono proprio quando una particolare zona posteriore del cervello è attiva: la “Hot Zone”. Prima si pensava che si sognasse soltanto durante la fase REM, la fase del sonno più profonda caratterizzata da una spiccata attività cerebrale, ora invece si è visto che si può avere la produzione di sogni in qualsiasi stadio del sonno, basta che l’area sopra nominata sia attiva. A conferma di ciò, i ricercatori sono riusciti a prevedere, con una precisione prossima al 90%, la presenza o l’assenza di sogni, a seconda se l’area era attiva o meno.
Varie strade si diramano da questa scoperta.
La prima è che un giorno, non così vicino purtroppo, sarà possibile osservare in tempo reale, attraverso un elettroencefalogramma ad alta densità, cosa una persona sta sognando. La seconda è prettamente medica: si potrebbero valutare altri stati di coscienza, come quelli derivanti da un’anestesia o dal coma.
Quando il gioco d’azzardo diventa una malattia
News PresaIl gioco d’azzardo è sì un gioco, ma troppo spesso si trasforma anche in una vera e propria dipendenza. Inquadrata dal punti di vista psicologico, questa dipendenza legata ad un disturbo del controllo degli impulsi e in pratica è connessa all’incapacità di resistere alla tentazione «persistente, ricorrente e maladattiva» di giocare somme di denaro. Facile comprendere come questa malattia finisca il più delle volte per divorare la persona, incidendo in maniera drammatica sulla vita, sugli affetti e sul lavoro.
Numero verde
Dal primo di ottobre, proprio per cercare di aiutare chi soffre di dipendenza da gioco, verrà attivato il numero verde 800 558822. La linea garantirà sostegno dal lunedì al venerdì, dalle 10.00 alle 16.00 alle persone in difficoltà con il gioco d’azzardo. L’iniziativa rientra nel piano di ricerca, formazione e informazione, dell’Agenzia dogane e monopoli e affidato nella sua realizzazione al Centro Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. Il piano in tre mosse è stato ideato e finanziato a gennaio 2016 da Adm per «conoscere meglio e fronteggiare le problematiche connesse al gioco d’azzardo, soprattutto nel suo possibile impatto sulla salute di soggetti vulnerabili». Il Telefono Verde Nazionale viene attivato con l’obiettivo di «informare la popolazione sui servizi sanitari a disposizione a livello territoriale; ne usufruiranno anche gli operatori del settore del gioco che troveranno un sostegno tecnico adeguato per affrontare particolari situazioni».
Conoscere per cambiare
Il piano di ricerca prevede la realizzazione di due studi: l’uno dedicato alla popolazione adulta (anni 18 e più) e l’altro alla popolazione minorenne compresa tra i 14 e i 17 anni. L’indagine nei maggiorenni sta interessando un campione di 12.000 cittadini rappresentativo della popolazione residente su tutto il territorio nazionale in 218 comuni italiani ed è stata avviata a luglio 2017. L’indagine sui minorenni coinvolgerà, invece, 200 scuole superiori di secondo grado a livello nazionale, con la somministrazione di un questionario on-line a un campione di 15.000 studenti, previo consenso informato dei genitori e partirà con il nuovo anno scolastico tra settembre e ottobre. La pubblicazione dei risultati di queste ricerche è prevista per il mese di marzo 2018. Un «grande contributo all’indagine è stato dato dal 90% dei Comuni che oltre ad aver rilasciato, per uso di pubblica utilità, nel rispetto della normativa sulla privacy, i dati demografici, hanno concesso il Patrocinio e l’uso dello Stemma Comunale mettendo a disposizione, nella maggior parte dei casi, anche una sala comunale nella quale somministrare il questionario ai cittadini che lo richiedono».
Influenza, i medici: attenzione a non sottovalutarla
PrevenzioneAncora con le immagini del mare (o della montagna) negli occhi, sembra impossibile che tra un po’ ci troveremo a fare i conti con clinex e termometri. In realtà proprio in questi “mezzi tempi” il rischio di ammalarsi è più alto. Tra la mattina e la sera in moltissime città si registrano escursioni termiche che possono superare i 7 gradi, con il risultato di essere esposti a copiose sudate e colpi di freddo.
La previsione
Fortunatamente, secondo gli esperti, quest’anno l’influenza dovrebbe essere di “media intensità”, simile insomma a quella del 2016. Intanto è partito il conto alla rovescia per l’inizio della campagna vaccinale che, come sempre inizierà a metà ottobre. Se l’influenza sarà più o meno la stessa dello scorso anno, non sarà uguale il vaccino, sulla Gazzetta ufficiale è stata già pubblicata la Determina dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sulla composizione per la stagione 2017-2018. Sulla base delle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Comitato per i Medicinali per Uso umano dell’Agenzia europea dei farmaci, è stata inserita una variante nuova del virus AH1N1, detta Michigan. Secondo Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli studi di Milano, «quella che ci aspetta dovrebbe essere una stagione influenzale di media intensità, con non meno di 5 milioni di casi».
Attenzione
Questo non significa che il rischio influenza sia da sottovalutare, considerando che l’anno scorso gli effetti più pesanti si sono avuti sui soggetti più a rischio e fragili. Nella stagione 2016-2017, stando ai dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss), l’influenza ha messo a letto 5,5 milioni circa di persone, con un’incidenza di 93 casi per 1000 abitanti (durante la pandemia del 2009-2010 furono 99 casi per 1000). Il numero di casi gravi confermati di influenza sono stati 162 e 68 i decessi. Dunque, meglio chiedere consiglio al proprio medico di famiglia sull’opportunità di fare il vaccino e fare in modo, sempre, che prevalga il buon senso.
Quanto ne sai di vaccini? La Sip mette alla prova i genitori
Genitorialità, PediatriaSul sito dei pediatri italiani è disponibile il “VaccinQuiz”, un test per chi vuole avere le idee chiare sull’argomento.
In pratica si tratta di un test di autovalutazione rivolto ai genitori che vogliono testare la propria conoscenza.
Le domande sono le più svariate. Ad esempio viene chiesto se prima di fare un vaccino bisogna eseguire esami per evitare reazioni gravi (la risposta è no). Oppure se chi ha contratto una malattia può essere vaccinato per quella malattia. Oppure se è possibile iniziare a vaccinare a qualsiasi età. Chiunque può mettersi alla prova con il test di autovalutazione della Società Italiana di Pediatria (Sip), l’obiettivo principale è quello di consentire ai genitori di testare la propria conoscenza in materia di vaccinazioni. È stata formulata un’infografica ragionata e interattiva dedicata alle famiglie, costruita con la formula del Vero o Falso, sulle 10 domande più comuni sulle vaccinazioni.
Per diffondere il più possibile la corretta informazione sui vaccini e sfatare i luoghi comuni la Società Italiana di Pediatria, a partire dal VaccinQuiz, ha realizzato anche un poster da esporre negli ambulatori pediatrici che sarà diffuso ai 10 mila pediatri aderenti alla Sip attraverso la rivista “Pediatria”.
L’iniziativa ha come obiettivo quello di fare chiarezza su tutto ciò che è stato detto riguardo ai vaccini, troppo spesso senza fare leva su basi scientifiche.
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