Tempo di lettura: 7 minutiSeicentosessantotto pazienti, provenienti da 32 Centri Ematologici diffusi su tutto il territorio nazionale, sono i protagonisti del primo Patient Journey europeo sulla Leucemia Linfatica Cronica. Questa mattina a Palazzo Farrajoli sono stati presentati i risultati del progetto “LLC: un incontro che cambia la vita”, promossa da AIL – Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma, con il contributo non condizionante di ABBVIE.
Attraverso il racconto delle esperienze dei pazienti e del loro percorso, il Patient Journey è uno strumento ormai diffuso in medicina per esplorare l’impatto che la gestione delle malattie ha sulla vita dei pazienti e delle persone a loro vicine, dal momento della diagnosi a quello di cura.
Leucemia Linfatica Cronica. I numeri
L’incidenza della Leucemia Linfatica Cronica aumenta con l’età: il 75% dei casi viene diagnosticato in pazienti con più di 60 anni. Il paziente passa dal disorientamento della diagnosi al voler conoscere quanto più possibile della malattia per capire l’impatto sulla sua quotidianità e sulla sua vita di relazione. L’obiettivo del lavoro è identificare le aree di criticità da migliorare per rendere i percorsi di cura più coerenti con i bisogni dei pazienti e realizzare una mappa ideale del percorso di cura.
Il report si apre con il momento della comunicazione della diagnosi destinata a cambiare la vita delle persone: se la maggior parte si dichiara soddisfatto rispetto alle modalità, al luogo e al tempo in cui è avvenuta, il 15% non si è sentito a proprio agio. Si tratta di un evento improvviso che costringe le persone a ripensare la propria vita. “Pensi sempre che a te non possa capitare mai una cosa del genere” è quello che riferiscono le persone malate. Una su due anche a distanza di anni ricorda il momento della diagnosi in modo estremamente nitido. “Avevo 41 anni, ero con mia moglie quando il medico pronunciò la parola leucemia. Sono precipitato nel baratro più profondo” dice un paziente. Un altro ricorda “mi sono spaventato e ho pensato che la mia vita fosse finita”. L’età è un fattore importante sulla reazione e la visione del futuro che è più pervasiva se la persona è giovane e nel pieno della realizzazione.
Il medico fa spesso la differenza nel modo in cui la notizia viene recepita: non può cambiare i fatti ma può annullare le distanze, rassicurare e creare un clima di fiducia in cui la persona può fare domande e chiedere cosa succederà, cosa si deve aspettare.
“Il momento della diagnosi è un ricordo che rimane impresso nella mente delle persone, una cicatrice indelebile nella memoria. La malattia irrompe come uno tsunami nella “vita normale” dei pazienti e dei loro familiari. La qualità del rapporto medico-paziente è un elemento determinante sull’efficacia della terapia: la giusta informazione, nella giusta dose, al momento giusto, con rivalutazione successiva. Il tempo della comunicazione costituisce tempo di cura, come indicato dalla legge 219/17” spiega Felice Bombaci, Referente del Gruppo AIL Pazienti, che aggiunge: “Un ascolto attento dei timori e dei bisogni del malato, la capacità di dare informazioni chiare ed esaustive sulla malattia, i cambiamenti dello stile di vita da adottare, ma anche indicazioni sui progressi della ricerca scientifica e le cure disponibili, aiutano a riprendersi dalle paure iniziali, a riprogrammare la propria vita e il proprio futuro, a ridefinire l’orizzonte”.
Capire a fondo la malattia e le sue conseguenze è il primo passo per accettarla e imparare a conviverci, per questo il momento della diagnosi, delle modalità e il luogo con cui avviene e del tempo dedicato sono fondamentali. Eppure dall’indagine emerge che proprio a questo momento clou non è dedicata sufficiente attenzione: l’81% dei pazienti infatti dopo l’incontro in cui viene comunicata la diagnosi sente il bisogno di ridiscutere con il medico aspetti che sono risultati poco chiari.
Un ascolto attento dei timori e dei bisogni del malato, la capacità di dare informazioni chiare ed esaustive sulla malattia, i cambiamenti dello stile di vita da adottare, ma anche indicazioni sui progressi della ricerca scientifica e le cure disponibili, aiutano a riprendersi dalle paure iniziali, a riprogrammare la propria vita e il proprio futuro, a ridefinire l’orizzonte.
Rapporto con le figure professionali – L’80% dei pazienti ha ricevuto la diagnosi da parte dell’ematologo e nel 63% dei casi il paziente si trovava in compagnia di un familiare o una persona cara (quindi uno su 3 era solo). “La leucemia linfatica cronica (LLC) può avere un profondo impatto sulla qualità di vita dei pazienti. In tal senso, i medici hanno un ruolo importante nell’aiutare i pazienti ad affrontare le sfide fisiche, intellettuali ed emotive scatenate dalla loro malattia utilizzando una comunicazione costantemente aggiornata alle varie fasi della LLC. Studi recenti hanno dimostrato, infatti, come l’efficacia con cui i medici comunicano con i pazienti incide sulla loro qualità della vita. Il progetto Patient journey (LEUCEMIA LINFATICA CRONICA: UN INCONTRO CHE CAMBIA LA VITA) fornisce uno strumento di conoscenza per avviare un percorso personalizzato di informazione e di supporto al paziente con LLC che si adatti alle esigenze individuali della persona” dichiara il Dottor Stefano Molica, Ematologo Oncologo presso l’A.O. Pugliese-Ciaccio di Catanzaro.
Relazioni interpersonali– Timore di essere un peso, senso di colpa, percezione di essere malato e quindi non integro, anche quando la malattia non si manifesta con sintomi evidenti, intralcia nella vita di relazione. I pazienti tentano di mantenere una normalità della vita quotidiana ma avrebbero bisogno di sostegno e di poter parlare di aspetti delicati come i problemi sessuali. Cercano quindi un luogo sicuro e protetto, un riferimento dove sentirsi accolti e capiti. Un supporto viene anche dalle associazioni pazienti, che sono state una risorsa ed un supporto per il 20% del campione interessato. Emerge invece il bisogno di un supporto psicologico professionale, richiesto dal 57% dei pazienti in generale e sino all’80% di quelli più giovani. Un aspetto ancora non previsto nell’iter terapeutico che potrebbe invece essere implementato.
Fasi del percorso di cura – Visite, controlli, spostamenti, attese, tempo dedicato alle terapie quando necessarie. Ma anche un tempo dell’attesa, imposto dall’approccio watch and wait, in cui esiste una diagnosi ma la malattia è in una fase in cui non è opportuno un trattamento ma solo una osservazione attiva (interessa circa il 30% dei pazienti che ricevono diagnosi di LLC). Ecco il parere del Professor Paolo Ghia dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano: “L’unicità di questo progetto deriva dal fatto che è il primo a valutare l’impatto che la diagnosi di leucemia linfatica cronica ha sui pazienti, non solo dal punto di vista psicologico e umano, ma anche da quello più pratico, organizzativo e logistico, conseguente alle modifiche della quotidianità, tipiche di una malattia cronica che necessita controlli protratti e terapie ripetute nel tempo. Questa valutazione è stata estesa anche ai caregivers e alle persone che in modo diretto e indiretto vengono coinvolte nei cambiamenti di vita di cui fanno esperienza i pazienti. Da questa analisi a più ampio raggio, emerge che l’organizzazione dei percorsi di cura, più o meno efficiente, altera in modo critico la quotidianità, influenzando la Qualità di Vita delle persone coinvolte.”
Il tempo diventa un elemento che assume un significato nuovo, è il tempo della cura anche in assenza di terapia: da 2 a 4 ore per ogni controllo, la cui frequenza dipende dallo status del paziente. Criticità che il campione riferisce a frequenza di controlli per il 64% e al tempo trascorso in ospedale per il 67% a causa di spazi inadeguati, talora poco confortevoli e non idonei con il timore di essere esposti e contagiati da nuove malattie a causa della compromissione del sistema immunitario. Ore a cui si aggiungono da mezz’ora a un’ora per ciascun tragitto, dato che informa della buona capillarità dei Centri sul territorio nazionale.
Aree di miglioramento – A margine del questionario i pazienti sono stati invitati ad esplorare gli ambiti che potrebbero migliorare la loro qualità di vita, ecco quelli emersi:
– necessità di informazioni su terapie naturali di supporto alla chemioterapia;
– consigli sull’alimentazione più adeguata;
– richiesta di rassicurazioni che le nuove terapie siano veramente utili ed efficaci;
– necessità di ottimizzare e migliorare la qualità del tempo dedicato ai controlli trimestrali;
– riorganizzazione dei servizi assistenziali.
“Questa indagine raccoglie la voce di più di 600 pazienti con Leucemia Linfatica Cronica e indica chiaramente in che misura questa particolare forma di leucemia ha un impatto sulla loro vita. I dati che derivano da questa survey permettono di identificare quali sono le principali difficoltà su cui è necessario un nostro concreto intervento per migliorare qualità di vita dei nostri pazienti” ha sottolineato la Professoressa Francesca Romana Mauro, dell’Università Sapienza di Roma che aggiunge: “Una proposta di miglioramento, in tal senso, potrebbe essere quella di fornire al paziente, in sede di colloquio, una brochure narrativa, che sintetizzi in maniera semplice, ma al tempo stesso empatica, le principali informazioni relative alla patologia e ai diversi percorsi terapeutici specifici per ciascuna fase di trattamento. Tale strumento può svolgere sia una funzione di supporto e “mediazione linguistica” nella relazione clinico-paziente, sia essere un veicolo per dare senso e contestualizzare le emozioni che si sperimentano in quel momento”.
“Mezzo secolo al fianco dei pazienti e a sostegno della ricerca scientifica sui tumori del sangue; 50 anni di valori, passione e impegno per migliorare la qualità di vita dei pazienti ematologici. – afferma il professor Sergio Amadori, Presidente Nazionale AIL – La promozione di questo progetto si inscrive perfettamente nell’ambito delle attività messe in campo da AIL da sempre protese al miglioramento della vita dei pazienti affetti da tumori del sangue. Quella della nostra Associazione è una grande storia fatta di tradizione e traguardi importanti, grandi successi e tanta solidarietà, ottenuti anche grazie alla collaborazione di migliaia di volontari, che rappresentano per AIL un patrimonio prezioso, all’efficace opera delle 81 sezioni provinciali diffuse su tutto il territorio nazionale, agli ematologi e ai ricercatori.”
L’Indagine – promossa da AIL e realizzata con il contributo non condizionato di AbbVie – ha evidenziato contenuti su due distinti livelli: uno pratico-organizzativo e l’altro che attiene alla relazione tra pazienti e sanitari. Considerare il processo di cura nella sua globalità prevede quindi un intervento ad ampio raggio che preveda misure come l’aumento del numero dei posti a sedere nelle sale d’attesa e un miglioramento dell’ambiente e interventi organizzativi come la creazione di canali preferenziali o ambulatori dedicati a seconda della fase di trattamento. Il tutto con una attenzione ai pazienti nella loro interezza e che li coinvolga senza farli sentire confinati in una posizione di marginalità rispetto alle decisioni che li riguardano.
Dati statistici del campione: i questionari sono stati rivolti a uomini e donne di età compresa tra i 50 e >80 anni con diagnosi di Leucemia Linfatica Cronica su tutto il territorio nazionale. Il 43% risultava in trattamento al momento della compilazione del questionario. Il 54% del campione risiedeva nel Nord Italia, l’81% non vive da solo, la maggior parte ha un titolo di maturità e oltre il 60% è in pensione, coerentemente con l’età dei rispondenti. Ha altre patologie il 61% ma la maggior parte NON percepisce una pensione di invalidità per la LLC sebbene sia a conoscenza dei diritti del malato e dei criteri per il riconoscimento della stessa.
Leucemia linfatica cronica, pubblicato primo Patient Journey.
Associazioni pazientiSeicentosessantotto pazienti, provenienti da 32 Centri Ematologici diffusi su tutto il territorio nazionale, sono i protagonisti del primo Patient Journey europeo sulla Leucemia Linfatica Cronica. Questa mattina a Palazzo Farrajoli sono stati presentati i risultati del progetto “LLC: un incontro che cambia la vita”, promossa da AIL – Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma, con il contributo non condizionante di ABBVIE.
Attraverso il racconto delle esperienze dei pazienti e del loro percorso, il Patient Journey è uno strumento ormai diffuso in medicina per esplorare l’impatto che la gestione delle malattie ha sulla vita dei pazienti e delle persone a loro vicine, dal momento della diagnosi a quello di cura.
Leucemia Linfatica Cronica. I numeri
L’incidenza della Leucemia Linfatica Cronica aumenta con l’età: il 75% dei casi viene diagnosticato in pazienti con più di 60 anni. Il paziente passa dal disorientamento della diagnosi al voler conoscere quanto più possibile della malattia per capire l’impatto sulla sua quotidianità e sulla sua vita di relazione. L’obiettivo del lavoro è identificare le aree di criticità da migliorare per rendere i percorsi di cura più coerenti con i bisogni dei pazienti e realizzare una mappa ideale del percorso di cura.
Il report si apre con il momento della comunicazione della diagnosi destinata a cambiare la vita delle persone: se la maggior parte si dichiara soddisfatto rispetto alle modalità, al luogo e al tempo in cui è avvenuta, il 15% non si è sentito a proprio agio. Si tratta di un evento improvviso che costringe le persone a ripensare la propria vita. “Pensi sempre che a te non possa capitare mai una cosa del genere” è quello che riferiscono le persone malate. Una su due anche a distanza di anni ricorda il momento della diagnosi in modo estremamente nitido. “Avevo 41 anni, ero con mia moglie quando il medico pronunciò la parola leucemia. Sono precipitato nel baratro più profondo” dice un paziente. Un altro ricorda “mi sono spaventato e ho pensato che la mia vita fosse finita”. L’età è un fattore importante sulla reazione e la visione del futuro che è più pervasiva se la persona è giovane e nel pieno della realizzazione.
Il medico fa spesso la differenza nel modo in cui la notizia viene recepita: non può cambiare i fatti ma può annullare le distanze, rassicurare e creare un clima di fiducia in cui la persona può fare domande e chiedere cosa succederà, cosa si deve aspettare.
“Il momento della diagnosi è un ricordo che rimane impresso nella mente delle persone, una cicatrice indelebile nella memoria. La malattia irrompe come uno tsunami nella “vita normale” dei pazienti e dei loro familiari. La qualità del rapporto medico-paziente è un elemento determinante sull’efficacia della terapia: la giusta informazione, nella giusta dose, al momento giusto, con rivalutazione successiva. Il tempo della comunicazione costituisce tempo di cura, come indicato dalla legge 219/17” spiega Felice Bombaci, Referente del Gruppo AIL Pazienti, che aggiunge: “Un ascolto attento dei timori e dei bisogni del malato, la capacità di dare informazioni chiare ed esaustive sulla malattia, i cambiamenti dello stile di vita da adottare, ma anche indicazioni sui progressi della ricerca scientifica e le cure disponibili, aiutano a riprendersi dalle paure iniziali, a riprogrammare la propria vita e il proprio futuro, a ridefinire l’orizzonte”.
Capire a fondo la malattia e le sue conseguenze è il primo passo per accettarla e imparare a conviverci, per questo il momento della diagnosi, delle modalità e il luogo con cui avviene e del tempo dedicato sono fondamentali. Eppure dall’indagine emerge che proprio a questo momento clou non è dedicata sufficiente attenzione: l’81% dei pazienti infatti dopo l’incontro in cui viene comunicata la diagnosi sente il bisogno di ridiscutere con il medico aspetti che sono risultati poco chiari.
Un ascolto attento dei timori e dei bisogni del malato, la capacità di dare informazioni chiare ed esaustive sulla malattia, i cambiamenti dello stile di vita da adottare, ma anche indicazioni sui progressi della ricerca scientifica e le cure disponibili, aiutano a riprendersi dalle paure iniziali, a riprogrammare la propria vita e il proprio futuro, a ridefinire l’orizzonte.
Rapporto con le figure professionali – L’80% dei pazienti ha ricevuto la diagnosi da parte dell’ematologo e nel 63% dei casi il paziente si trovava in compagnia di un familiare o una persona cara (quindi uno su 3 era solo). “La leucemia linfatica cronica (LLC) può avere un profondo impatto sulla qualità di vita dei pazienti. In tal senso, i medici hanno un ruolo importante nell’aiutare i pazienti ad affrontare le sfide fisiche, intellettuali ed emotive scatenate dalla loro malattia utilizzando una comunicazione costantemente aggiornata alle varie fasi della LLC. Studi recenti hanno dimostrato, infatti, come l’efficacia con cui i medici comunicano con i pazienti incide sulla loro qualità della vita. Il progetto Patient journey (LEUCEMIA LINFATICA CRONICA: UN INCONTRO CHE CAMBIA LA VITA) fornisce uno strumento di conoscenza per avviare un percorso personalizzato di informazione e di supporto al paziente con LLC che si adatti alle esigenze individuali della persona” dichiara il Dottor Stefano Molica, Ematologo Oncologo presso l’A.O. Pugliese-Ciaccio di Catanzaro.
Relazioni interpersonali– Timore di essere un peso, senso di colpa, percezione di essere malato e quindi non integro, anche quando la malattia non si manifesta con sintomi evidenti, intralcia nella vita di relazione. I pazienti tentano di mantenere una normalità della vita quotidiana ma avrebbero bisogno di sostegno e di poter parlare di aspetti delicati come i problemi sessuali. Cercano quindi un luogo sicuro e protetto, un riferimento dove sentirsi accolti e capiti. Un supporto viene anche dalle associazioni pazienti, che sono state una risorsa ed un supporto per il 20% del campione interessato. Emerge invece il bisogno di un supporto psicologico professionale, richiesto dal 57% dei pazienti in generale e sino all’80% di quelli più giovani. Un aspetto ancora non previsto nell’iter terapeutico che potrebbe invece essere implementato.
Fasi del percorso di cura – Visite, controlli, spostamenti, attese, tempo dedicato alle terapie quando necessarie. Ma anche un tempo dell’attesa, imposto dall’approccio watch and wait, in cui esiste una diagnosi ma la malattia è in una fase in cui non è opportuno un trattamento ma solo una osservazione attiva (interessa circa il 30% dei pazienti che ricevono diagnosi di LLC). Ecco il parere del Professor Paolo Ghia dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano: “L’unicità di questo progetto deriva dal fatto che è il primo a valutare l’impatto che la diagnosi di leucemia linfatica cronica ha sui pazienti, non solo dal punto di vista psicologico e umano, ma anche da quello più pratico, organizzativo e logistico, conseguente alle modifiche della quotidianità, tipiche di una malattia cronica che necessita controlli protratti e terapie ripetute nel tempo. Questa valutazione è stata estesa anche ai caregivers e alle persone che in modo diretto e indiretto vengono coinvolte nei cambiamenti di vita di cui fanno esperienza i pazienti. Da questa analisi a più ampio raggio, emerge che l’organizzazione dei percorsi di cura, più o meno efficiente, altera in modo critico la quotidianità, influenzando la Qualità di Vita delle persone coinvolte.”
Il tempo diventa un elemento che assume un significato nuovo, è il tempo della cura anche in assenza di terapia: da 2 a 4 ore per ogni controllo, la cui frequenza dipende dallo status del paziente. Criticità che il campione riferisce a frequenza di controlli per il 64% e al tempo trascorso in ospedale per il 67% a causa di spazi inadeguati, talora poco confortevoli e non idonei con il timore di essere esposti e contagiati da nuove malattie a causa della compromissione del sistema immunitario. Ore a cui si aggiungono da mezz’ora a un’ora per ciascun tragitto, dato che informa della buona capillarità dei Centri sul territorio nazionale.
Aree di miglioramento – A margine del questionario i pazienti sono stati invitati ad esplorare gli ambiti che potrebbero migliorare la loro qualità di vita, ecco quelli emersi:
“Questa indagine raccoglie la voce di più di 600 pazienti con Leucemia Linfatica Cronica e indica chiaramente in che misura questa particolare forma di leucemia ha un impatto sulla loro vita. I dati che derivano da questa survey permettono di identificare quali sono le principali difficoltà su cui è necessario un nostro concreto intervento per migliorare qualità di vita dei nostri pazienti” ha sottolineato la Professoressa Francesca Romana Mauro, dell’Università Sapienza di Roma che aggiunge: “Una proposta di miglioramento, in tal senso, potrebbe essere quella di fornire al paziente, in sede di colloquio, una brochure narrativa, che sintetizzi in maniera semplice, ma al tempo stesso empatica, le principali informazioni relative alla patologia e ai diversi percorsi terapeutici specifici per ciascuna fase di trattamento. Tale strumento può svolgere sia una funzione di supporto e “mediazione linguistica” nella relazione clinico-paziente, sia essere un veicolo per dare senso e contestualizzare le emozioni che si sperimentano in quel momento”.
“Mezzo secolo al fianco dei pazienti e a sostegno della ricerca scientifica sui tumori del sangue; 50 anni di valori, passione e impegno per migliorare la qualità di vita dei pazienti ematologici. – afferma il professor Sergio Amadori, Presidente Nazionale AIL – La promozione di questo progetto si inscrive perfettamente nell’ambito delle attività messe in campo da AIL da sempre protese al miglioramento della vita dei pazienti affetti da tumori del sangue. Quella della nostra Associazione è una grande storia fatta di tradizione e traguardi importanti, grandi successi e tanta solidarietà, ottenuti anche grazie alla collaborazione di migliaia di volontari, che rappresentano per AIL un patrimonio prezioso, all’efficace opera delle 81 sezioni provinciali diffuse su tutto il territorio nazionale, agli ematologi e ai ricercatori.”
L’Indagine – promossa da AIL e realizzata con il contributo non condizionato di AbbVie – ha evidenziato contenuti su due distinti livelli: uno pratico-organizzativo e l’altro che attiene alla relazione tra pazienti e sanitari. Considerare il processo di cura nella sua globalità prevede quindi un intervento ad ampio raggio che preveda misure come l’aumento del numero dei posti a sedere nelle sale d’attesa e un miglioramento dell’ambiente e interventi organizzativi come la creazione di canali preferenziali o ambulatori dedicati a seconda della fase di trattamento. Il tutto con una attenzione ai pazienti nella loro interezza e che li coinvolga senza farli sentire confinati in una posizione di marginalità rispetto alle decisioni che li riguardano.
Dati statistici del campione: i questionari sono stati rivolti a uomini e donne di età compresa tra i 50 e >80 anni con diagnosi di Leucemia Linfatica Cronica su tutto il territorio nazionale. Il 43% risultava in trattamento al momento della compilazione del questionario. Il 54% del campione risiedeva nel Nord Italia, l’81% non vive da solo, la maggior parte ha un titolo di maturità e oltre il 60% è in pensione, coerentemente con l’età dei rispondenti. Ha altre patologie il 61% ma la maggior parte NON percepisce una pensione di invalidità per la LLC sebbene sia a conoscenza dei diritti del malato e dei criteri per il riconoscimento della stessa.
Lo stress di un Natale in famiglia
News PresaLa tradizione vuole che a Natale si sia tutti più buoni, ma la verità è che spesso le feste ci rendono più insicuri è infelici. A confermare questo trend è anche uno studio di MioDottore (piattaforma specializzata nella prenotazione online di visite mediche).
AMORE E ODIO
Il Natale rappresenta un grande amore per quasi la metà degli abitanti dello Stivale (44%). Che si faccia parte degli entusiasti, degli indecisi (un ulteriore 43% che non lo disdegna, ma nemmeno lo preferisce) o del 12% che dice addirittura di detestarlo (donne in testa con l’81%) non ci sono dubbi: questo momento è un’enorme fonte di stress, con l’80% che ammette di averlo provato almeno una volta nella vita in questo periodo e ben il 13% che dichiara di vivere con difficoltà ogni singolo dicembre. Ma cosa genera maggior pressione? L’indagine ha identificato due macro aree di stress legate a questo speciale momento dell’anno: se da un lato ci sono ansia e stanchezza causate dall’organizzazione e dalla gestione di molteplici attività, predomina dall’altra parte una fatica interiore ed emotiva, legata a un disagio più privato e connesso alla sfera emozionale. Infatti, è quasi un terzo (30%) degli italiani a considerare la propria situazione familiare così delicata e poco serena, da non riuscire a godersi le feste. Mentre quasi un altro terzo (28%), nonostante abbia un menage casalingo gestibile, vive come una costrizione trascorrere del tempo con i familiari proprio in quelle giornate. A tutto questo, si aggiungono spesso anche le problematiche lavorative: le chiusure di fine anno e i progetti sul 2020 rappresentano una preoccupazione per ben il 18% dei rispondenti. Percentuali minori di stressati dall’agenda piena e dalle corse contro il tempo: tra loro un 23% di perenni indecisi o ritardatari sui regali – che vivono quindi lo shopping per gli altri come un fardello – e un 20% di soggetti provati da aperitivi pre-natalizi con amici, cene aziendali e brindisi assieme ai compagni di palestra.
CENE IN FAMIGLIA
Pranzi in famiglia: oltre la metà degli italiani (52%) ama l’idea di incontrare i parenti, ma poi non vede l’ora di scappare da tavola. Se la metà degli intervistati (52%) prova un sentimento positivo nel rivedere i propri familiari in occasione delle feste – perché spesso durante l’anno si è troppo occupati dal lavoro o questioni personali – il 45% inizia a sentirsi inquieto dopo poco. Tra chi scalpita sulla sedia c’è anche un 13% che considera alcuni parenti fastidiosi o “scomodi” e un 4% di chi espressamente spera di sedere lontano da zie indagatrici di vita amorosa o suoceri che non celano il desiderio di diventar nonni.
Consultori familiari, la prima fotografia dell’ISS: ancora troppo pochi sul territorio
News PresaI consultori familiari sono nati per tutelare la salute della donna e del bambino: dal concepimento fino alla nascita, per tutta l’adolescenza e anche nell’età adulta. Tuttavia sono troppo pochi rispetto ai bisogni della popolazione e presentano disparità territoriali. Questa la prima fotografia scattata dall’Istituto Superiore di Sanità grazie al progetto CCM “Analisi delle attività della rete dei consultori familiari per una rivalutazione del loro ruolo con riferimento anche alle problematiche relative all’endometriosi” finanziato e promosso dal Ministero della Salute e coordinato dal Reparto Salute della Donna e dell’Età Evolutiva dell’ISS. I dati saranno diffusi domani durante il convegno I Consultori Familiari a 40 anni dalla loro nascita tra passato, presente e futuro.
Consultori familiari. I numeri
In base a questa prima indagine sui modelli organizzativi, le attività e le risorse, effettuata su 1.800 consultori familiari italiani, è emerso che il loro numero sul territorio è quasi la metà in rapporto ai bisogni della popolazione. In Italia, infatti, vi è un consultorio ogni 35.000 abitanti sebbene la legge 34/96 ne preveda uno ogni 20.000. La differenza tra le regioni è così marcata che in sette il numero medio di abitanti per consultorio è superiore a 40.000. “I consultori risultano da questa prima analisi un servizio unico per la tutela della salute della donna, del bambino e degli adolescenti – afferma Laura Lauria dell’ISS, responsabile scientifico del progetto – nonostante la frequente indisponibilità di risorse dedicate e la carenza di organico, tutti i consultori svolgono un’insostituibile funzione di informazione a sostegno della prevenzione e della promozione della salute della donna e in età evolutiva. Accompagnano il percorso nascita seguendo le donne in gravidanza e nel dopo parto, offrono lo screening del tumore della cervice uterina e garantiscono supporto a coppie, famiglie e giovani, sebbene con diversità per area geografica suscettibili di miglioramento”.
Si tratta di servizi prevalentemente dedicati alla salute materno infantile, le cui aree più consolidate di attività sono l’assistenza al percorso nascita e al percorso IVG e gli screening oncologici per i tumori femminili.“Il ruolo dei consultori è stato e rimane strategico per il forte orientamento alla prevenzione e alla promozione della salute, la multidisciplinarietà dell’équipe professionale e l’approccio olistico alla salute. Nell’ambito della promozione della procreazione consapevole e responsabile, i consultori hanno contribuito a ridurre le Interruzioni Volontarie di Gravidanza nel Paese di oltre il 65% dal 1982 al 2017 – dice Serena Donati, Direttore del Reparto Salute della Donna e dell’Età Evolutiva – rimane critica l’offerta gratuita dei contraccettivi che è garantita dal 25% dei consultori e l’offerta di interventi di educazione all’affettività e di promozione delle salute nelle scuole che riguardano meno della metà dei servizi.”
L’indagine
L’indagine si è svolta su tre livelli: regionale, di ASL e di singolo consultorio, pubblico o privato accreditato. Tutte le Regioni e PA hanno aderito al progetto. La raccolta dei dati è iniziata a livello regionale nel novembre 2018 e si è conclusa con la raccolta nelle singole sedi consultoriali nel luglio 2019. È emerso che in 5 regioni i consultori sono incardinati nel Dipartimento materno infantile, in 2 regioni nel Dipartimento delle cure primarie, in 7 regioni fanno capo a Dipartimenti diversi nelle diverse ASL e in 5 non fanno parte di un Dipartimento ma di un Distretto.
I consultori privati sono presenti in 6 regioni e una PA e sono più numerosi nelle regioni del Nord.
Quasi tutte le regioni hanno istituito i Comitati Percorso Nascita aziendali dedicati al monitoraggio e miglioramento dell’assistenza in gravidanza, parto e puerperio in collaborazione con il livello regionale. L’assistenza al percorso nascita, il percorso d’interruzione volontaria di gravidanza e l’accesso allo spazio giovani sono prestazioni gratuite garantite in tutte le regioni. Cinque regioni prevedono il pagamento di un ticket per alcuni servizi: esami per infezioni/malattie sessualmente trasmissibili, visite per menopausa, consulenza psicologica e sessuologica, psicoterapie e contraccezione.
La quasi totalità dei consultori partecipanti all’indagine (1535 su 1800; 622 al Nord, 382 al Centro e 531 al Sud) operano nell’ambito della salute della donna. Più del 75% dei consultori si occupa di sessualità, contraccezione, percorso IVG, salute preconcezionale, percorso nascita, malattie sessualmente trasmissibili, screening oncologici e menopausa e postmenopausa. Nell’ambito del percorso nascita il consultorio prende in carico le gravidanze a basso rischio ostetrico e offre attivamente Corsi di Accompagnamento alla Nascita (CAN) e sostegno all’allattamento materno.
Per quanto riguarda l’area coppia, famiglia e giovani sono 1.226 (Nord 504, Centro 224, Sud 498) i consultori che effettuano attività in questo ambito. Gli argomenti più trattati sono la contraccezione, la sessualità e la salute riproduttiva, le infezioni/malattie sessualmente trasmissibili e il disagio relazionale.
Tra i consultori che hanno svolto attività nelle scuole il tema più frequente è l’educazione affettiva e sessuale (il 94%), seguito dagli stili di vita, dal bullismo e cyberbullismo; meno frequenti i programmi di prevenzione dell’uso di sostanze che però sono in carico anche ad altri servizi.
Le figure professionali più rappresentate nei consultori sono il ginecologo, l’ostetrica, lo psicologo e l’assistente sociale, con una grande sofferenza e variabilità in termini di organico tra le regioni. Prendendo ad indicatore il numero medio di ore lavorative settimanali per 20.000 abitanti previste per le diverse figure professionali per rispondere al mandato istituzionale, solo 5 regioni del Nord raggiungono lo standard atteso per la figura dell’ostetrica, 2 per il ginecologo, 6 per lo psicologo e nessuna per l’assistente sociale che al Sud registra un numero medio di ore settimanali (14) che è quasi il doppio rispetto al Centro (8 ore) e al Nord (9 ore).
Carcinoma mammario metastatico: i risultati dello studio DESTINY-Breast01 sul nuovo farmaco
News PresaI risultati dello studio DESTINY-Breast01 sono stati appena presentati alla stampa al San Antonio Breast Cancer Symposium e pubblicati sul The New England Journal of Medicine. Oltre ad una risposta oggettiva del 60,9%, il farmaco anticorpo-coniugato DS-8201 ha dimostrato una notevole durata mediana di risposta del tumore di 14,8 mesi e una sopravvivenza media libera da progressione di 16,4 mesi. Si tratta di una nuova possibilità per le pazienti affette da carcinoma mammario metastatico.
I risultati dello studio DESTINY-Breast01 sul farmaco contro il carcinoma mammario metastatico
Sono stati presentati i risultati positivi di DESTINY-Breast01, lo studio registrativo globale di fase II a braccio singolo su DS-8201 ([fam]-trastuzumab deruxtecan), un farmaco anticorpo-coniugato che attacca l’HER2 in pazienti affette da carcinoma mammario metastatico HER2-positivo. I dati sono stati comunicati alla stampa durante il San Antonio Breast Cancer Symposium (#SABCS19) che si sta svolgendo in Texas, e pubblicati contemporaneamente online sul The New England Journal of Medicine.
Nello studio, l’endpoint primario della risposta oggettiva (ORR), confermato da una valutazione centrale indipendente, è stato del 60,9% con DS-8201 in monoterapia (5,4 mg/kg) in pazienti con carcinoma mammario metastatico HER2-positivo che avevano ricevuto due o più precedenti trattamenti anti-HER2. Le pazienti hanno raggiunto una percentuale di controllo della malattia (DCR) del 97,3%, con una durata mediana della risposta (DOR) di 14,8 mesi (range 13,8 – 16,9) e una sopravvivenza mediana libera da progressione di 16,4 mesi (range 12,7 – non raggiunto). La sopravvivenza mediana globale (OS) non è stata ancora raggiunta, con una percentuale di sopravvivenza stimata per le pazienti trattate con DS-8201 dell’86% ad un anno. I risultati sono coerenti tra i sottogruppi di pazienti.
Le pazienti che hanno ricevuto DS-8201 nello studio DESTINY-Breast01 avevano una mediana di sei precedenti trattamenti (range 2-27) per la malattia metastatica, incluso ado-trastuzumab emtansine (T-DM1) (100%), trastuzumab (100%), pertuzumab (65,8%), altre terapie anti-HER2 (54,3%), terapie ormonali (48,9%) e altre terapie sistemiche (99,5%). La durata mediana del trattamento per DS-8201 è stata di 10 mesi (intervallo: 0,7 – 20,5 mesi) con una durata mediana del follow-up di 11,1 mesi (intervallo: 0,7 -19,9). Dal cut-off dei dati del 1 agosto 2019, il 42,9% delle pazienti è rimasto in trattamento.
Il profilo di sicurezza e tollerabilità di DS-8201 è stato coerente con quello osservato nello studio di fase I. Gli eventi avversi più comuni di grado 3 o superiore osservati nel corso del trattamento sono stati riduzione del numero dei neutrofili (20,7%), anemia (8,7%), nausea (7,6%), riduzione del numero dei leucociti (6,5%), riduzione del numero dei linfociti (6,5%) e spossatezza (6%).
Complessivamente, il 13,6% delle pazienti ha mostrato una malattia polmonare interstiziale (ILD) correlata al trattamento, come confermato da una valutazione indipendente. Rispetto alla gravità, gli eventi sono stati principalmente di grado 1 o 2 (10,9%), con uno di grado 3 (0,5%) e nessun evento di grado 4. E’ stato stabilito che quattro decessi (2,2%) sono stati causati da ILD.
L’immissione in commercio
La richiesta di valutazione prioritaria della domanda di autorizzazione all’immissione in commercio di DS-8201 per il trattamento di pazienti con carcinoma mammario metastatico HER2 positivo è stata recentemente accettata dalla Food and Drug Administration (FDA). È stata inoltre presentata una domanda di autorizzazione al Ministero della Salute, del Lavoro e della Previdenza del Giappone.
“Questi risultati sono particolarmente significativi poiché DS-8201 ha comportato un elevato livello di riduzione duratura del tumore nelle pazienti, la maggioranza delle quali aveva esaurito la maggior parte, se non tutte, delle terapie standard per il trattamento del carcinoma mammario metastatico HER2 positivo”, ha commentato Ian E. Krop, MD, PhD, capo associato della Divisione Breast Oncology del ‘Susan F. Smith Center for Women’s Cancers, Dana-Farber Cancer Institute’. “Siamo entusiasti di questi risultati e del loro potenziale di aiuto alle pazienti affette da carcinoma mammario in questa fase avanzata”.
HER2
L’HER2 è una proteina recettore di membrana del tipo tirosin-chinasico presente sulla superficie di alcune cellule tumorali, ed è associata ad una malattia aggressiva con una prognosi infausta nelle pazienti affette da carcinoma mammario. Per valutare la positività all’HER2, le cellule tumorali vengono solitamente testate con uno dei seguenti due metodi: immunoistochimica (IHC) o ibridazione fluorescente in situ (FISH). I risultati del primo test sono riportati come: 0, IHC 1+, IHC 2 + o IHC 3+.2 Un riscontro di IHC 3+ e/o amplificazione FISH è considerato HER2-positivo.
Carcinoma mammario HER2 positivo
Circa un cancro mammario su cinque è HER2-positivo. Nonostante i recenti progressi e l’approvazione di nuovi farmaci permangono significative esigenze di trattamento non soddisfatte per pazienti affette da carcinoma mammario metastatico avanzato HER2 positivo. Questo tumore resta incurabile per pazienti in cui la malattia continua alla fine a progredire dopo l’utilizzo dei trattamenti disponibili.
DESTINY-Breast01
DESTINY-Breast01 è uno studio registrativo di Fase II, in aperto, globale, multicentrico, in due parti, che valuta la sicurezza e l’efficacia di DS-8201 in pazienti con carcinoma mammario HER2 positivo non resecabile e/o metastatico precedentemente trattato con ado-trastuzumab emtansine (T-DM1). L’endpoint primario dello studio è la risposta oggettiva, così come determinata da una valutazione centrale indipendente. Gli obiettivi secondari comprendono la durata della risposta, il controllo della malattia, il beneficio clinico, la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale. L’arruolamento di DESTINY-Breast01 è stato completato nel settembre 2018, con 253 pazienti in più di 100 centri in Nord America, Europa, Giappone e altri Paesi in Asia.
Un ampio e completo programma di sviluppo con [fam-] trastuzumab deruxtecan è attualmente in corso a livello globale con cinque studi registrativi per il carcinoma metastatico mammario e gastrico, incluso una trial su pazienti affetti da carcinoma mammario metastatico e bassi livelli di espressione di HER2 (HER2 basso), Studi di fase II sono in corso per carcinoma colorettale avanzato con espressione di HER2, così come per carcinoma polmonare non-squamoso con sovraespressione di HER2 o carcinoma polmonare non a piccole cellule con mutazione di HER2. Sono in corso, inoltre trial clinici in combinazione con altri trattamenti anti-cancro come l’immunoterapia.
La statunitense Food and Drug Administration (FDA) ha recentemente garantito la valutazione accelerata sulla concessione della Licenza Biologica a DS8201 per il trattamento del carcinoma mammario metastatico HER2- positivo: l’ADC aveva già in precedenza ottenuto la designazione di Breakthrough Therapy e di Fast Track. Una domanda di autorizzazione per DS-8201 come trattamento per il carcinoma mammario metastatico HER2-positivo è stata anche sottoposta al Ministero della Salute, del Lavoro e della Previdenza giapponese, che aveva precedentemente concesso la designazione di SAKIGAKE per il trattamento del carcinoma gastrico o della giunzione gastro-esofagea HER2-positivo in stadio avanzato.[Fam-] trastuzumab deruxtecan è una molecola in fase di sperimentazione non ancora approvata per alcuna indicazione in alcun Paese. La sicurezza e l’efficacia non sono state ancora determinate.
Opportunità e rischi dell’Intelligenza Artificiale. Se ne parla al Gemelli
News PresaL’intelligenza artificiale può aiutare ad accelerare e migliorare la diagnosi di malattie, può contribuire a curare i pazienti, ad esempio oncologici? Dobbiamo immaginare un prossimo futuro in cui l’intelligenza artificiale sostituirà o integrerà il ruolo dei clinici nelle attività medico-sanitarie? Sono alcune delle domande che saranno al centro dell’evento #AI4DOCS “Opportunità e Rischi dell’Intelligenza Artificiale in Medicina”, che si terrà a Roma domani, mercoledì 11 dicembre, presso il Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, promosso dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS in collaborazione con la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica. Al dibattito parteciperanno istituzioni nazionali ed europee, scienziati ed esperti in machine learning, rappresentanti di company leader nel settore ICT e biomedicale e le Università Ecclesiastiche su sfide e rischi da affrontare, vantaggi, infrastrutture necessarie e sistema normativo di cui la sanità dovrebbe dotarsi per gestire l’applicazione di intelligenza artificiale nel migliore dei modi in un’ottica di reale evoluzione della società. Il Convegno sarà aperto dal Rettore dell’Università Cattolica Franco Anelli, dal Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS Giovanni Raimondi, e dall’Assistente Ecclesiastico Generale dell’Università Cattolica Mons. Claudio Giuliodori. Alla prima sessione intitolata “Verso il dominio dell’algoritmo?” interverranno: Roberto Cingolani, Chief Technology&Innovation Officer Leonardo SPA, Fabio Moioli, Head Consulting & Services @Microsoft, Agostino Santoni, AD CISCO Italy, Hassan Sawaf, Director AI @Facebook, Alexander Waibel, Professor at Carnegie Mellon University and Karlsruhe Institute of Technology. Seguirà il talk su “Intelligenza aumentata” di Massimo Chiriatti, IBM Italia. Successivamente alcune startup italiane (Allelica, E-Lisa, Huxelerate) presenteranno le loro soluzioni di avanguardia nel mondo della salute grazie all’implementazione di AI a cui seguirà il dibattito di Fabio Filocamo, Founder & CEO Dnamis, Giovanni Scambia, Direttore Scientifico Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Marco Trombetti, Founder & Ceo Translated. Alle ore 11 si aprirà la seconda sessione “Quali futuri possibili per la medicina?” il cui keynote speech sarà affidato a Paolo Benanti, teologo, esperto di bioetica e nuove tecnologie e membro Task Force MISE per l’AI. Al dibattito interverranno: Massimiliano Boggetti, Presidente Confindustria Dispositivi Medici, Roberto Chareun, Managing Director & VP Italy Getinge, Gianluca Garziera, Digital Business Lead J&J Medical Spa, Massimo Massetti, Direttore Area Cardiovascolare e UOC Cardiochirurgia Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Michele Perrino, Presidente e AD Medtronic Italia Spa. La terza sessione intitolata “Come governare l’Intelligenza Artificiale?” sarà introdotta da Mauro Ferrari, presidente designato per il 2020 European Research Council. Al dibattito interverranno: Rocco Bellantone, Preside Facoltà Medicina e Chirurgia Università Cattolica, Mons. Mauro Cozzoli,Ordinario Teologia Morale Pontificia Università Lateranense, Alessio D’Amato, Assessore alla Sanità e Integrazione Socio-Sanitaria della Regione Lazio, Marco Elefanti, Direttore Generale Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Irene Sardellitti, Programme officer in the Unit Robotics and Artificial Intelligence DG Connect European Commission, Marco Simoni, Presidente Human Technopole, Sandra Zampa, Sottosegretario di Stato alla Salute. Le conclusioni sono affidate a Mons. Edgar Peña Parra, Arcivescovo Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato della Santa Sede. Il convegno è moderato dalla giornalista, autrice e tecnologa Barbara Gasperini.
Colesterolo, a rischio soprattutto gli under 45
AlimentazionePiù è alto il livello di colesterolo nel sangue, maggiore è il rischio di un ictus o di un infarto. Soprattutto negli under 45. Certo non si tratta della scopetta dell’anno, ma in tempo di festività (con annessi panettoni e cioccolatini) ripetere non guasta. Soprattutto alla luce dei dati emersi da uno studio senza precedenti per dimensioni e durata che ha indagato (e confermato) proprio il nesso tra colesterolo alto e rischio di infarto e ictus. Condotto da Stefan Blankenberg, del Centro di Ricerca Cardiovascolare in Germania, lo studio per la prima volta calcola il rischio cardiovascolare a lungo termine (fino ai 75 anni di età), un avanzamento notevole (che in futuro potrebbe portare a modifiche della pratica clinica), perché finora il rischio era stimabile solo per i 10 anni successivi. Lo studio ha presone in considerazione 38 Paesi, il cui stato di salute è stato monitorato per un tempo medio di ben 43,5 anni tra 1970 e 2013. È emerso che gli individui con meno di 45 anni con colesterolo non-HDL elevato presentano un rischio di infarto (fatale e non) del 12-43% e un rischio di ictus più alto del 6-24% entro i 75 anni di vita.
NON HDL
Si guarda al cosiddetto “colesterolo non-HDL” che comprende tutte le forme esistenti di colesterolo “cattivo” (e non solo il più noto colesterolo LDL). Nel corso degli anni di follow up si sono verificati oltre 54 mila casi di infarto e ictus, fatali e non. È emerso che a rischiare di più di andare incontro a un infarto o un ictus sono gli under-45 con colesterolo alto (+16% di rischio per le donne, +29% per i maschi), mentre gli over-60 con colesterolo alto presentano un rischio di andare incontro a infarto o ictus del 12% e del 21% rispettivamente per le donne e per gli uomini. Il fatto che il rischio cardiovascolare sia maggiore per gli individui più giovani potrebbe dipendere dalla più lunga esposizione agli effetti nocivi dei grassi cattivi nel sangue, concludono gli autori. Resta da capire con studi clinici ad hoc se e quanto gli individui under-45 possano beneficiare di terapie precoci di riduzione del colesterolo e quale sia il rapporto benefici rischi (a breve e lungo termine) di queste cure.
Incontri online: nel 2037 più figli così e meno da incontri dal vivo
Bambini, Nuove tendenzeIl regista di un film d’amore non ne sarebbe entusiasta. Non è certo facile disegnare la scena romantica di un incontro dove ognuno è tra le rispettive mura domestiche dietro a dispositivo, magari un pc o uno smartphone. Eppure aumenteranno sempre di più le storie nate attraverso incontri online, fino a sorpassare quelle nate dal vivo. In particolare, secondo una ricerca, tra meno di 20 anni, saranno più i bimbi di coppie che si sono conosciute in rete di quelli con genitori che si sono incontrati ”offline”. Niente più incroci di sguardi, sorrisi imbarazzati o voli pindarici per realizzare un approccio. I locali notturni, i teatri, i parchi, le palestre o i caffè non saranno più di moda per fare nuove conoscenze. Al riparo da ogni rischio di rifiuto diretto, ognuno sarà dietro al proprio schermo, non si sa quanto a lungo prima di farsi coraggio e passare a una conversazione reale.
Incontri online e nuove nascite. Lo studio
Insomma, che piaccia o no, si faranno sempre più incontri online e meno dal vivo. In particolare, sarà il 2037 l’anno del sorpasso, in cui nasceranno più figli di genitori incontrati in rete rispetto a figli di genitori incontrati nella vecchia maniera. A disegnare il quadro è una proiezione realizzata dall’Imperial College Business School di Londra per il sito di appuntamenti online eHarmony. Lo studio è stato condotto partendo dai dati di un sondaggio condotto dallo stesso portale su 4.008 adulti del Regno Unito e dai tassi di natalità dell’Organizzazione mondiale della sanità. Una tendenza che farà certo felice i più timidi, ma lascerà con l’amaro in bocca i più romantici.
Genetica, scoperto il ruolo del DNA spazzatura
Ricerca innovazioneNella genetica, come in ogni terreno poco esplorato, la capacità di guardare il mondo con occhi differenti può essere tutto. Lo dimostra quanto scoperto dai ricercatori del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli, che hanno voluto rivedere il ruolo del DNA spazzatura e che, proprio grazie a questa perseveranza, hanno fatto una scoperta molto importante. Grazie all’utilizzo delle tecnologie di sequenziamento più avanzate, hanno scoperto che il “DNA spazzatura” è tutt’altro che “inutile” e che, al contrario, sono rintracciabili in esso elementi che causano il cancro. Il “DNA spazzatura”, Junk DNA, è quella porzione del genoma che, sino a ieri, non aveva un ruolo funzionale nelle attività biologiche della cellula. Sequenze dette anche noncoding DNA, che costituiscono circa il 99% del genoma umano e che sono oggi un terreno poco esplorato per la sua presunta inutilità.
MUTAZIONI
In particolare, il gruppo di ricerca di Mario Capasso e Achille Iolascon, Principal Investigator del CEINGE e rispettivamente, professore associato e ordinario di Genetica Medica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha preso in esame 151 casi di neuroblastoma, uno dei tumori del sistema nervoso periferico più aggressivi e diffusi, che colpisce i bambini nei primi anni di vita. Li hanno analizzati con metodiche di sequenziamento di ultima generazione (Next Generation Sequencing) e hanno scoperto che nel Junk DNA sono presenti mutazioni che possono partecipare allo sviluppo di un tumore. La ricerca, di considerevole portata, sia in termini di quantità di casi analizzati (151 pazienti affetti da neuroblastoma), sia per la complessità stessa dell’indagine (è stato realizzato il sequenziamento avanzato dell’intero genoma dei 151 pazienti), è stata pubblicata su una delle più autorevoli riviste scientifiche internazionali, la Cancer Research della American Association for Cancer Research.
ENCODE
Il sorprendente risultato è stato ottenuto anche grazie al lavoro di Vito Alessandro Lasorsa, dottorando di Ricerca dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ha sviluppato un metodo di analisi bioinformatica in cui le mutazioni del DNA non codificante sono state classificate in base al loro contesto genomico. I ricercatori hanno utilizzato dati provenienti dal sequenziamento avanzato dell’intero genoma di 151 pazienti affetti da neuroblastoma e dati pubblici del progetto ENCODE, che sono serviti a “contestualizzare” le mutazioni trovate nel DNA “spazzatura” «Negli ultimi anni, lo sviluppo e la diffusione di metodi di sequenziamento massivo del DNA, definiti “Next Generation Sequencing” – spiega Achille Iolascon – ha portato ad avanzamenti enormi sia in ambito diagnostico, che di ricerca. Anzi, queste tecniche hanno cambiato il modo di pensare di ricercatori e clinici. La ricerca di mutazioni del DNA è, quindi, diventata più immediata, ma sempre non semplice. Oggi si sa che la porzione del genoma umano Junk porta con sé regioni essenziali per la regolazione a distanza della funzione dei geni. Appare chiaro che anche mutazioni in queste regioni del genoma possono avere un peso nello sviluppo del cancro». Il tipo di ricerca svolto dai ricercatori del CEINGE ha costi molto elevati ed è stato possibile realizzarlo grazie ai finanziamenti delle associazioni di beneficenza. Con il sostegno dell’Associazione Italiana per la Ricerca contro il Cancro (AIRC), dell’Associazione Oncologia Pediatrica e Neuroblastoma (OPEN) e della Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma, il gruppo di Capasso e Iolascon riesce a portare avanti la propria attività e a dare una speranza di vita ai bambini malati di cancro.
Disidratazione cronica per il 20-30% degli over65 anche in inverno
News PresaDi idratazione si parla poco e ancor meno quando riguarda gli anziani. Eppure l’acqua è un nutriente tanto essenziale quanto sottovalutato. Ne sottolineano i benefici estetici gli spot pubblicitari in nome di purezza e liberazione di tossine mentre è meno rappresentata nelle priorità della corretta alimentazione e della nutrizione clinica. Sembriamo dimenticare che il corpo e in particolare le cellule sono composte per oltre il 75% da acqua che però perdiamo in molti modi: respirazione, traspirazione, sudorazione, ecc. Il dato sconcertante è che tra il 20 e il 30% degli over 65 è disidratato cronicamente. Bere da grandi è quindi un elemento cruciale. Se il giusto apporto di liquidi infatti determina un senso di benessere, anche piccole carenze idriche possono determinare importanti esiti negativi come l’insorgenza di patologie, disabilità, disturbi cognitivi e mortalità. La disidratazione cronica deriva spesso dalla mancanza della sete, uno stimolo che tende a decrescere con l’età e che impone quindi di ‘ricordarsi’ di bere. Inoltre negli anni i reni tendono a perdere la capacità e l’efficienza a trattenere l’acqua.
Ma c’è di più perché molta dell’acqua del nostro organismo è contenuta nei muscoli che con l’età subiscono una diminuzione importante di massa. Quel fenomeno chiamato ‘sarcopenia’ e che legato ad un aumento di debolezza e perdita di forza e mancata resilienza agli stressors esterni.
Dal momento che un adulto su tre di quelli con più di 60 anni soffre di una severa perdita di muscolo (così come rilevato da una review apparsa sulla rivista Age and Ageing nel 2014) ecco che siamo in presenza di condizioni che insieme rendono la disidratazione un fenomeno comune. Non va meglio se il soggetto è affetto da diabete non diagnosticato o non controllato, condizione che fa aumentare il volume urinario.
Le persone con ipertrofia prostatica o quelle più anziane con incontinenza urinaria invece tendono a bere di meno per limitare il problema, mentre disturbi neuro degenerativi come demenza o Alzheimer hanno un rischio aumentato di non bere abbastanza (Nutrients 2018), “un problema se pensiamo che anche una disidratazione moderata può determinare una più o meno grave alterazione dello stato cognitivo” spiega il Professor Maurizio Muscaritoli, Presidente SINuC che aggiunge: “E’ molto importante insegnare ai giovani medici a riconoscere tempestivamente le caratteristiche cliniche gli elevati rischi della disidratazione. Basta, infatti, una disidratazione lieve, pari al 2% del peso corporeo per scatenar senso di confusione e disorientamento, fatica, perdita di forza, di coordinazione e delle funzioni cognitive in generale. Le conseguenze di questo lieve deficit possono essere cadute, traumi e incidenti ma anche danni a reni e muscoli, aumento del rischio di contrarre infezioni. Terapie come quelle a base di diuretici, antistaminici e lassativi possono portare ad urinare di più senza che i liquidi vengano reintrodotti a sufficienza.
Ma non tutte le bevande sono state create uguali: la stessa glorificata acqua non è il liquido più idratante che abbiamo a disposizione, anche se la sua assunzione rimane fondamentale per non eccedere in calorie, permettere le funzioni di fegato e reni e mantenere l’elasticità cutanea. E’ quanto afferma una ricerca condotta all’Università di Saint Andrews in Scozia che ha messo a confronto il potere idratante di alcune bevande, detronizzando l’acqua dal podio: “l’acqua disseta a breve termine, mentre liquidi che contengano piccole quantità di zuccheri, grassi o proteine permettono una idratazione di organi e tessuti più a lungo” afferma il Professor Ronald Maughan autore dello studio (1) che sottolinea come uno dei fattori chiave dell’idratazione sia la composizione in nutrienti: il latte sarebbe più ‘idratante’ dell’acqua grazie al contenuto il lattosio (uno zucchero), proteine e grassi. Questa composizione induce l’organismo a trattenere il liquido più a lungo nello stomaco per metabolizzarne gli elementi, rispetto alla velocità di eliminazione della semplice acqua. A questa persistenza nel corpo contribuisce anche il sodio che trattiene i liquidi come una spugna ed impedisce che questi vengano eliminati con le urine troppo in fretta. E’ lo stesso principio su cui si basano le soluzioni reidratanti usate in caso di diarrea: contengono piccole quantità di zuccheri, sodio e potassio che favoriscono la ritenzione dei liquidi nell’organismo per compensare quelli perduti. Sono proprio gli elettroliti a contribuire ad una idratazione efficace, mentre una piccola quantità di calorie fa si che il liquido rimanga più a lungo nell’organismo. Ma attenzione perché questo non significa che le bevande molto zuccherate aumentino questo vantaggio, al contrario spingono il liquido nel piccolo intestino pronto per essere eliminato.
Ecco allora che l’acqua, talora poco gradita, può essere alternata a latte scremato o intero, spremuta di arancia e the in quantità moderate.
Già una ricerca pubblicata su Age and Ageing (3) aveva calcolato che il 37% degli accessi al Pronto Soccorso degli anziani constatava uno stato di disidratazione e per questo gli esiti risultavano peggiori rispetto agli anziani idratati.
“Fatica e crampi muscolari possono essere dei segnali indicativi. Sbagliato attribuire tutto all’età. Sarebbe opportuno studiare un piano personalizzato, specialmente nei soggetti a rischio, con l’obiettivo di aumentare l’introito di fluidi, ridurre quello di alcol che favorisce la disidratazione, favorire l’assunzione di frutta e verdura e pianificare con il curante la diminuzione dei farmaci diuretici quando ciò fosse possibile” conclude Muscaritoli.
Sanità, tra luci e ombre qualcosa sta cambiando
Economia sanitariaDa un lato un sistema che è sempre più in difficoltà, dall’altro la speranza di poter cambiare le cose. O meglio Speranza, il ministro, che sta lavorando alacremente per lasciare il segno in una sanità che (seppur tra luci e ombre) è ancora una delle migliori al mondo. I dati ad oggi sono critici, soprattutto nel settore dell’emergenza-urgenza. «Il sistema dei pronto soccorso e del 118 sta attraversando una condizione di estrema criticità, con pesanti ripercussioni sul diritto alla salute. L’emergenza-urgenza è uno degli anelli fondamentali del Servizio sanitario nazionale, l’assistenza deve essere garantita in maniera unitaria», dice Fabiola Fini, presidente della Federazione italiana di medicina di emergenza urgenza e delle Catastrofi. L’allarme sulla gravità della situazione lanciato da tempo dai medici di pronto soccorso e 118 – dicono gli addetti ai lavori – è stato a lungo sottovalutato. «Non si è capito che il cittadino che ha un’emergenza sanitaria non ha scelta», dice Anna Maria Ferrari di Fnomceo. E la risposta alla richiesta di salute deve esserci ed essere uniforme.
FORMAZIONE
Uno dei temi sui quali ancora oggi si discute molto è la formazione. A tutt’oggi il numero di borse di studio per la specializzazione non è sufficiente, nonostante nel 2019 vi sia stato un significativo aumento, da 80 a 475 posti. Mancano 2.000 medici di pronto soccorso e 118. Con l’incremento previsto la situazione dovrebbe normalizzarsi tra 5 anni ma intanto come tamponare? «Il problema è adesso, bisogna trovare una soluzione ponte», dice Lorenzo Ghiadoni, direttore della Scuola di specializzazione in Medicina di emergenza-urgenza di Pisa. Una soluzione che l’Ares Lazio individua nella sanatoria per i cosiddetti camici grigi, tutti quei medici che in questi anni non hanno avuto accesso alle borse di studio ma che hanno lavorato e fatto i “tappabuchi”. Una possibilità accolta anche dalla Fnomceo: «L’Ordine deve riprendere in mano la questione dei medici finiti nell’imbuto formativo, la sanatoria va fatta», afferma Anna Maria Calcagni, consigliere Fnomceo. I tavoli di lavoro istituiti oggi produrranno un documento finale di proposte che sarà presentato agli Stati Generali a Firenze il 5 e 6 marzo, e che sarà sottoposto al ministro della Salute Roberto Speranza.
PRECARI
Intanto, proprio di queste ore la notizia di una proroga delle norme per la stabilizzazione dei precari del Servizio sanitario nazionale, medici, infermieri e tecnici, fino al 2022. E lo scorrimento delle graduatorie in sanità per l’assunzione anche di idonei non vincitori. Queste misure sono state adottare per coprire le carenze di organico nella sanità proposte nel pacchetto di emendamenti alla manovra che i relatori hanno depositato in commissione Bilancio al Senato. Per superare il precariato si include anche chi ha maturato i 3 anni di anzianità fino al 30 giugno del 2019. «Battersi contro la precarietà del lavoro è sempre giusto. Lo è ancora di più se si parla di persone che ogni giorno si prendono cura di noi». Lo scrive su Facebook il Ministro della Salute, Roberto Speranza. «Su mia proposta – prosegue il ministro – è stato appena depositato un emendamento che, estendendo i termini della legge Madia per il comparto sanità, consentirà a moltissimi lavoratori di uscire finalmente dalla precarietà. È una scelta giusta che migliorerà la qualità delle loro vite e renderà il Servizio Sanitario Nazionale più forte, a vantaggio di tutti noi», aggiunge Speranza.