Tempo di lettura: 3 minutiLa decisione della Commissione Europea sull’autorizzazione all’immissione in commercio è attesa per la prima metà del 2020. Daiichi Sankyo Europa ha annunciato oggi che il Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP) dell’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) ha espresso parere positivo per l’autorizzazione all’immissione in commercio sia dell’acido bempedoico che dell’associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe, raccomandandone l’approvazione come trattamento per la riduzione del colesterolo LDL (lipoproteine a bassa intensità). L’acido bempedoico è stato sviluppato come molecola first-in-class, in monosomministrazione giornaliera orale, per le persone con ipercolesterolemia che non riescono a raggiungere i target di colesterolo LDL nonostante l’assunzione di terapie ipolipemizzanti orali ottimizzate, e che restano ad alto rischio di eventi cardiovascolari, come infarto o ictus.
Il CHMP ha raccomandato il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio di acido bempedoico per pazienti con ipercolesterolemia primaria (eterozigote familiare e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta:
- in associazione ad una statina o ad altre terapie ipolipemizzanti, in pazienti che non riescono a raggiungere i target di colesterolo LDL con la massima dose tollerata di una statina
oppure
- da solo o in associazione ad altre terapie ipolipemizzanti, in pazienti intolleranti alle statine o per i quali le statine sono controindicate.
Il CHMP ha raccomandato il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio della associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe in pazienti con ipercolesterolemia primaria (eterozigote familiare e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta:
- in associazione ad una statina, in pazienti che non riescono a raggiungere i target di colesterolo LDL con la massima dose tollerata di una statina in aggiunta a ezetimibe,
- da sola, in pazienti che sono intolleranti alle statine o per i quali le statine sono controindicate, e che non riescono a raggiungere i target di colesterolo LDL con il solo ezetimibe
- in pazienti già trattati con la associazione di acido bempedoico ed ezetimibe assunti separatamente, con o senza statina.
Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte in Europa, uccidono oltre quattro milioni di persone ogni anno e l’aumento dei livelli di colesterolo LDL è uno dei fattori di rischio più importanti. Tuttavia, ben l’80% delle persone che assumono statine non raggiunge i propri obiettivi di colesterolo LDL. Questo non è solo frustrante per loro, ma anche impegnativo per gli specialisti che li hanno in cura – ha dichiarato Benoit Creveau, Responsabile del Marketing Cardiovascolare presso Daiichi Sankyo Europa – “Il programma di sviluppo clinico per l’acido bempedoico ha dimostrato una riduzione consistente di colesterolo LDL in un ampio range di pazienti, compresi quelli che già ricevono terapie ipolipemizzanti orali ottimali L’opinione del CHMP è un riconoscimento di questi risultati e ci consente di fare un passo avanti rispetto all’impegno di aiutare i pazienti in UE che non hanno ancora raggiunto i loro livelli target di colesterolo LDL”.
Le opinioni positive del CHMP sono supportate dal programma di sviluppo clinico di fase III condotto in oltre 4.000 pazienti. L’acido bempedoico ha determinato una riduzione del colesterolo LDL fino al 18% corretto rispetto al placebo, quando somministrato con statine a moderata e alta intensità, e una riduzione del 21-28% corretto rispetto al placebo, quando usato con statine a basso dosaggio o in assenza di statine.3,4,5
L’associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe ha determinato una riduzione dei valori del colesterolo LDL del 38% corretto rispetto al placebo, quando somministrato in associazione ad una terapia con statine alla massima dose tollerata, che può significare anche nessuna statina.6
Il CHMP è un comitato scientifico dell’EMA che esamina le richieste di autorizzazione relative ai medicinali, dal punto di vista scientifico e clinico. La Commissione europea esaminerà il parere del CHMP e si prevede che prenderà la sua decisione finale nella prima metà del 2020. L’acido bempedoico e l’associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe sono attualmente in fase di valutazione anche da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense.
Acido Bempedoico
L’acido bempedoico è un inibitore orale dell’ATP citrato liasi (ACL) che, con un meccanismo d’azione mirato, riduce la biosintesi epatica del colesterolo, riducendo i livelli di colesterolo LDL in circolo. 3,5Utilizzato in monosomministrazione giornaliera, è destinato a pazienti affetti da ipercolesterolemia e/o ad alto rischio di malattia cardiovascolare aterosclerotica (ASCVD) che necessitano di una ulteriore riduzione di colesterolo LDL, nonostante abbiano ricevuto statine alla massima dose tollerata.
Con l’acido bempedoico si è osservata una riduzione della proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hsCRP), un marker chiave dell’infiammazione associata a malattia cardiovascolare.
Antibiotici ai bambini? Solo se lo dice il medico
News Presa, PrevenzioneTorna a farsi sentire la voce dei medici che avvertono sui rischi di un uso scorretto degli antibiotici. E i ragazzini sono tra i soggetti maggiormente a rischio. In età pediatrica le malattie delle alte vie respiratorie sono molto frequenti, a volte si tratta di un semplice raffreddore, altre volte di allergie o infiammazioni di vario genere. Il problema è che sempre più spesso ci sono genitori che ricorrono ad antibiotici senza aver prima consultato il medico di famiglia o il pediatra.
I dati
Michele Miraglia del Giudice, pediatra e allergologo della Seconda Università di Napoli spiega che «dal punto di vista epidemiologico, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le infezioni respiratorie sono la maggior causa di malattia nel mondo e sono responsabili del 18% dei casi di morte nei bambini con meno di 5 anni».
La situazione in Italia
«Nel nostro paese queste malattie danno luogo a circa l’80% delle visite pediatriche. Infatti, il 25% dei bambini entro il primo anno di vita e il 18% di quelli con età compresa fra 1 e 4 anni sono affetti da infezioni respiratorie ricorrenti (IRR) che sono generalmente non gravi ma presentano un elevato impatto sulla qualità di vita del bambino e dei genitori che si ritrovano a fare i conti con assenze da scuola e dal lavoro fino a 10-12 volte l’anno, quasi una volta al mese. Si calcola inoltre che il 10% dei bambini soffra di rinite allergica ed è opinione diffusa che i pazienti allergici possano presentare una maggiore suscettibilità a contrarre infezioni respiratorie rispetto ai bambini non allergici, generando un circolo vizioso. Possiamo infine dire che un terzo della popolazione pediatrica ha problemi alle alte vie respiratorie più o meno cronici».
Il ruolo della mucosa nasale
Matteo Gelardi, otorinolaringoiatra del Policlinico Universitario di Bari spiega che «la mucosa nasale è la prima barriera di difesa dagli agenti esterni quali batteri, virus, particolato atmosferico e pollini. La principale causa delle infezioni delle vie aeree è rappresentata dalla fisiologica immaturità immunologica del bambino. Nei primi 3 anni di vita esiste una difficoltà nella produzione anticorpale, soprattutto verso antigeni polisaccaridici. Questa scarsa efficienza delle risposte anticorpali è responsabile anche di una incompleta memoria immunologica con rischio di recidività della stessa infezione. Anche altri meccanismi di difesa sono immaturi; la riduzione della clearance mucociliare determina infatti un prolungamento della permanenza dei patogeni nelle mucose nasali e faringee facilitando l’infezione». Più che sottolineare cosa fare in caso di malanni, è bene ribadire cosa non fare. Vale a dire: mai somministrare antibiotici o medicinali che non siano stati richiesti o raccomandati dal medico o dal pediatra.
Ecco come memorizzare durante il sonno
News Presa, Ricerca innovazioneUn “tag” sui ricordi più importanti, gli altri potranno essere rimossi. Tutto succede la notte, stando ad uno studio realizzato da Jan Born dell’ dell’Università di Lubeck in Germania. Ricerca che dà nuovo interesse alle maratone di studio di centinaia di migliaia di studenti nelle ormai celebri “notti prima degli esami”.
Il test
Jan Born con il suo lavoro ha spiegato come il nostro cervello lavori per fare in modo da fissare i ricordi importanti ed eliminare il superfluo. In pratica tutte le informazioni acquisite durante il giorno vengono censite dal nostro cervello, che etichetta solo quelle rilevanti. Il resto è compito dell’ippocampo, che provvede a fissare quelle importati e lascia andare le altre. Lo studio è stato condotto su circa 200 candidati ai quali è stato chiesto di memorizzare alcune parole. Ad alcuni è stato detto che l’indomani avrebbero dovuto sostenere un test. È emerso che dopo una notte di sonno coloro che ricordavano meglio le parole era proprio quelli avvertiti del test. Usando un elettroencefalogramma, Born ha visto che durante la notte il cervello dei partecipanti avvertiti del test era pervaso per più tempo da onde lente, come se per loro il processo di memorizzazione durasse più a lungo.
La tesi di Born
Il motivo per il quale questo meccanismo si innesca, secondo lo scienziato dell’Università di Lubeck è nella consapevolezza del test. In pratica la corteccia prefrontale si attiva per le informazioni importanti e le etichetta. Questo aiuta l’ippocampo a distinguerle dal superfluo e a salvarle in memoria. Quindi è importante “addestrare” il nostro cervello a riconoscere i ricordi importanti da quelli superflui. In questo modo potrebbero nascere nuove tecniche mnemoniche basate sulla consapevolezza e sul sonno. Del resto il sogno di qualsiasi studente è quello di poter imparare durante una pennichella, chissà che questo non diventi possibile in un prossimo futuro .
Le Emoji usate negli SMS e sui Social rivelano qualcosa, arriva la cyber-psicologia
News Presa, Psicologia, Ricerca innovazioneLa comunicazione digitale oggi fornisce nuove chiavi interpretative del comportamento umano. Un gruppo di psicologhe di università inglesi e australiane (Linda K. Kaye, Helen J. Wall e Stephanie A. Malone) hanno realizzato un lavoro, pubblicato su Trends in cognitive sciences (Cell press), sui comportamenti online. La comunicazione avviene in forma verbale e non verbale, quest’ultima spesso più importante e portatrice di significato della comunicazione verbale. Riportando questi concetti alla comunicazione scritta, nella forma prima degli SMS (Short Message Service) poi sulle varie piattaforme dei social network, i semplici messaggi di testo non esistono quasi più nella modalità basic, ma sono nella maggior parte dei casi accompagnati da immagini e faccine (emoji).
Se alcuni social come Instagram hanno da subito fatto delle immagini il loro cavallo di battaglia e il principale mezzo di comunicazione, per tutti gli altri social network, e a maggior ragione per i messaggi di testo via SMS o whatsapp, si è assistito nel tempo all’inarrestabile boom delle emoji.
Le faccine sorridenti e i disegnini naive, non saranno mai abbastanza efficaci come nell’interazione del faccia a faccia di un incontro reale o anche virtuale, come quello di una videochiamata. Tuttavia, le emoji sono entrate nella quotidianietà della messaggistica e non accennano a tramontare. Anzi, il loro repertorio si arricchisce e si amplia periodicamente con i nuovi aggiornamenti.
Sebbene le ricerche sull’uso di emoticon/emoji sia ancora agli albori, gli esperti ritengono che siano strumenti preziosi per sondare la personalità dei loro utilizzatori. Un database sterminato insomma alla portata di tutti, vista l’accessibilità di molte piattaforme online, e la possibilità di esplorare il comportamento umano attraverso la lente della contemporaneità.
“Lavori pionieristici sull’analisi cognitiva delle emoticon – scrivono le tre psicologhe – rivelano che possono servire come utili forme di comportamento non verbale, oltre a rivelare nuovi aspetti dei meccanismi cognitivi e neurali coinvolti nella comunicazione digitale.” Alcuni studi ad esempio sono andati alla ricerca dei neurocorrelati delle frasi infiocchettate di emoticon per capire quali regioni cerebrali siano coinvolte in questa forma di comunicazione a metà tra il verbale e il non verbale. Pare che ad attivarsi siano sia il giro frontale inferiore destro, che il sinistro (quest’ultimo coinvolto soprattutto in compiti verbali).
Dal punto di vista dei rapporti interpersonali, le emoji sono eccellenti strumenti di disambiguazione, in grado ad esempio di chiarire il tono di un determinato messaggio. E per questo sono considerate un po’ alla stregua della comunicazione non verbale veicolata dai gesti o dalle espressioni del viso durante un discorso. Le emoji insomma danno quella pennellata di emozioni che si viene spesso a perdere in assenza di un’interazione faccia a faccia e forniscono agli utilizzatori una ‘tavolozza’ alla quale attingere per chiarire l’aspetto emotivo di un concetto.
“I dati digitali – scrivono le autrici – forniscono un modo nuovo ed eccitante per riesaminare molti concetti psicologici relativi a percezione e comunicazione, comprese le espressioni emotive, la mimica emotiva, la valutazione emotiva, la pragmatica e la scoperta delle intenzioni. Facendo un’analisi comparata dei comportamenti faccia a faccia con quelli online sarà possibile stabilire se i comportamenti attuali, come l’utilizzo delle emoji, possano essere considerati vere forme di emozione a livello neurologico e interpersonale”.
In conclusione, le interazioni virtuali sono sempre più comuni nella vita quotidiana e rappresentano una miniera di informazioni pronta per essere utilizzata da addetti ai lavori e non solo.
Trapianto di fegato, meglio se il donatore è “anziano”
Ricerca innovazioneUn passo avanti nel trapianto di fegato e la scoperta che l’organo, se impiantato in un paziente più giovane del donatore, invecchia più lentamente. E’ questo il cardine della ricerca condotta all’università di Bologna in collaborazione con l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma. Se è noto che il fegato ha capacità di rigenerarsi più accentuate di qualsiasi altro argano, in alcuni interventi ne viene asportato anche il 70%, nulla si sapeva sulla sua capacità di tenersi giovane e sui marcatori molecolari che rivelano questa condizione. Il fegato ha anche la caratteristica unica di poter essere utilizzato con successo per il trapianto, indipendentemente dall’età del donatore. Ora sappiamo che sarebbe sempre meglio avere un donatore più anziano di chi lo riceve. Questa originale ricerca sull’invecchiamento del fegato è stata condotta, per la prima volta, impiegando il modello del trapianto di fegato nell’uomo.
Lo studio
Il team di ricercatori, tra i quali ci sono Miriam Capri e Claudio Franceschi del dipartimento di Medicina Sperimentale Diagnostica e Specialistica dell’Università di Bologna, ha analizzato biopsie del fegato provenienti da donatori d’organo tra i 12 e i 92 anni, campioni di sangue da soggetti riceventi pre e post-trapianto, e anche biopsie di fegato pre-post-trapianto, provenienti da persone in cui la differenza di età con il donatore del fegato era particolarmente marcata. Lo studio ha portato alla luce, con un approccio molecolare e bioinformatico, nuovi marcatori di invecchiamento e l’incremento di alcune piccole molecole di RNA (microRNAs) attive nella regolazione dell’espressione dei nostri geni. Questo incremento si riduce molto in riceventi più giovani mentre è decisamente elevato in riceventi più anziani dei donatori. Inoltre, l’analisi dei profili di alcuni carboidrati complessi presenti nelle proteine del sangue periferico e che in parte sono prodotte da tessuto epatico, ha confermato come questo organo sia effettivamente funzionale dopo il trapianto e come vi siano alcuni segni molecolari di ringiovanimento indipendentemente dall’eta’ del donatore, proprio tramite l’analisi di questi carboidrati.
Il rischio di un tumore
«Lo studio – dice Gian Luca Grazi, direttore della Chirurgia EpatoBilioPancreatica dell’Istituto Tumori Regina Elena – rappresenta un importante passo in avanti nell’acquisizione di marcatori molecolari capaci di descrivere i processi di invecchiamento del fegato. Ma apre anche le porte ad ulteriori filoni di ricerca nella valutazione dell’invecchiamento dell’organo, con e senza patologia, e le relative modificazioni dell’espressione dei geni che possono contribuire al rischio dello sviluppo di tumori».
Sigarette elettroniche: non allontanano gli adolescenti dal fumo
Adolescenti, News Presa, Pediatria, Prevenzione, Ricerca innovazioneDa un po’ di anni ormai sono state introdotte nel mercato le sigarette elettroniche, molto spesso vengono utilizzate per smettere di fumare in maniera graduale. Uno studio statunitense, però, sostiene che le e-cig non sono legate a un calo nel fumo tra gli adolescenti. Non solo: le e-cig potrebbero allettare alcuni giovani che probabilmente non sarebbero attratti dalle sigarette tradizionali, anche se chi le fuma già, in questo modo ne fumerebbe di meno. Il fumo nei giovani è costantemente calato nell’ultimo decennio e non è stata osservata alcun incremento nella diminuzione dopo l’ingresso sul mercato delle sigarette elettroniche, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti.
“Vi sono forti evidenze negli adulti, e alcune più limitate nei giovani, che le sigarette elettroniche siano associate a un minor consumo di ‘bionde’, ma non a una maggiore disassefuazione del fumo”, afferma il coautore dello studio, Stanton Glantz, direttore del Center for Tobacco Control Research and Education dell’Università della California di San Francisco.”Il fatto è che fra i giovani, come accade con gli adulti, la maggior parte dei fumatori di sigarette elettroniche sono’doppi consumatori’, fumani sia sigarette tradizionali che elettroniche”, precisa Glantz. Tutte le grandi aziende di tabacco statunitensi stanno sviluppando e-cig, dispositivi alimentati a batteria con un elemento riscaldante che trasforma la nicotina liquida e aromatizza una nuvola di vapore che i fruitori inalano. Negli ultimi dieci anni gli esperti di salute pubblica hanno dibattuto se questi oggetti potessero aiutare a smettere di fumare o se potessero costitutire un’alternativa più sicura al fumo delle tradizionali sigarette combustibili.
Nello studio pubblicato da Pediatrics e diffuso da Reuters Health, i ricercatori hanno analizzato dati raccolti su più di 140.000 studenti delle scuole medie e superiori tra il 2004 e il 2014. Durante il periodo di osservazione, la percentuale generale di adolescenti che hanno riferito di aver fumato è calata dal 40% al 22%. La percentuale di giovani che si sono identificati come fumatori è scesa dal 16% al 6% durante lo stesso periodo. Tuttavia, li tassi di fumo di sigarette tra gli adolescenti non è calato più rapidamente dopo l’arrivo delle e-cig negli USA tra il 2007 e il 2009. Lo studio ha riscontrato che l’uso combinato di sigarette elettroniche e tradizionali negli adolescenti nel 2014 risultava maggiore rispetto al consumo totale di sigarette nel 2009. I ricercatori hanno anche esaminato le caratteristiche che potrebbero rendere gli adolescenti più a rischio di contrarre il vizio del fumo, come vivere con un fumatore o indossare indumenti con prodotti o loghi relativi ai brand del tabacco. Anche se gli adolescenti fumatori nello studio rispondevano spesso a questo profilo, quelli che usavano solo sigarette elettroniche non mostravano questi fattori di rischio.
Niente più sessualità precoce. Gli adolescenti hanno il primo rapporto a 17 anni.
Adolescenti, News Presa, Pediatria, Prevenzione, Ricerca innovazioneGli adolescenti di oggi hanno primo rapporto sessuale completo in media intorno ai 17 anni, mentre solo il 19,8% dichiara di averlo fatto prima dei 16 anni. Rispetto agli anni passati, c’è un recupero del gap tra ragazzi e ragazze: l’età della ‘prima volta’ è infatti molto simile, ovvero di 17,5 anni per maschi e 17,3 per le femmine. A raccontare i comportamenti il vissuto dei rapporti tra i giovani è la ricerca “Conoscenza e prevenzione del Papillomavirus e delle patologie sessualmente trasmesse tra i giovani in Italia”, realizzata dal Censis.
Quasi la totalità dei giovani italiani di 12-24 anni (il 93,8%) ha sentito parlare di infezioni e malattie trasmissibili attraverso un rapporto sessuale. È l’Aids la patologia che viene maggiormente citata (89,6%), mentre solo il 23,1% indica la sifilide, il 18,2% la candida, il 15,6% il Papilloma Virus e percentuali tra il 15% e il 13% la gonorrea, le epatiti e l’herpes genitale. Resta centrale il ruolo dei media nell’informazione, utilizzato dal 62,3% del campione, seguito dalla scuola (53,8%). Ma il ruolo di quest’ultima mostra differenze tra le diverse aree del Paese: è infatti più forte al Nord, rispetto che al e al Sud. Solo il 9,8% dei giovani si informa attraverso medici e farmacisti.
“Resta molta diffidenza – spiega Andrea Lenzi, presidente della Società Italiana di Endocrinologia – da parte dei giovani nei confronti dell’andrologo. Molti non lo conoscono, la maggior parte ritiene di non averne bisogno. Culturalmente non sono abituati a considerare la possibilità che anche i maschi possano essere interessati da patologie che riguardano il sesso. Dobbiamo sviluppare maggior informazione ed educazione”.
Anziani e longevità: il segreto è la mente impegnata… con i giochi
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneImpegnarsi in giochi mentalmente stimolanti è uno dei modi migliori per mantenere integro il proprio livello cognitivo. È quanto riscontrato da una ricerca su anziani over 70, che hanno presentato un minor rischio di sviluppare deterioramento cognitivo lieve impegnandosi in attività e giochi che mettono alla prova il cervello. Per gli adulti dai 70 anni in su con problemi cognitivi, l’attività ludica è stata associata a una riduzione del 22% del rischio di deterioramento cognitivo lieve di nuova insorgenza.
Dallo studio, pubblicato su JAMA Neurology e condotto da ricercatori della Mayo Clinic di Scottsdale, in Arizona, è emerso che lavorare sulle abilità si associa a una diminuzione del 28% di tale deterioramento, l’uso del computer a un tondo 30%. Ma anche le attività sociali incidono molto positivamente sul deterioramento cognitivo , riducendone il rischio di sviluppo del 23% . Largo quindi a rebus, parole crociate e navigazione in Internet. Senza trascurare gli incontri con gli amici e le attività all’aria aperta. I ricercatori – guidati da Yonas E. Geda – hanno esaminato dati relativi a 1929 adulti, con un’età minima di 70 anni, che non presentavano alcun problema cognitivo all’inizio dello studio. Il team ha valutato i partecipanti ogni 15 mesi e metà dei soggetti sono rimasti nello studio per più di quattro anni. Attraverso alcuni sondaggi i partecipanti hanno riferito la frequenza di diverse attività. Successivamente, i ricercatori hanno confrontato il rischio di una nuova insorgenza di deterioramento cognitivo lieve in base al fatto che le persone praticassero le loro attività almeno una o due volte a settimana o non più di due o tre volte al mese. Alla fine dello studio, 456 persone avevano sviluppato un deterioramento cognitive lieve.
Gli studiosi hanno esaminato più attentamente un sottogruppo di 512 persone che presentavano un maggior rischio di deterioramento cognitivo perché portatrici di una versione del gene dell’apoliproteina E (APOE), un fattore di rischio sia per il deterioramento cognitivo, sia per la demenza da Alzheimer. Per i portatori del gene APOE solo l’uso del computer e le attività sociali sono risultati associati a una riduzione del rischio di deterioramento cognitivo lieve.
Tumore alla prostata: a diagnosticarlo arriva la biopsia robotizzata
News, News Brevi, Ricerca innovazioneHa un incidenza del 12% ed è la più frequente neoplasia che colpisce l’uomo. Si tratta del tumore alla prostata ed è possibile capirne lo stadio di sviluppo solo sulla base dei valori dell’antigene prostatico specifico – il Psa – e soprattutto dei risultati della biopsia prostatica (cioè il prelievo di campioni di tessuto da analizzare), che è il mezzo diagnostico per eccellenza per individuare questo problema. Per questa ragione il reparto di Urologia di Novi Ligure, diretto dal dottor Franco Montefiore, ha sviluppato un progetto di biopsia prostatica robotizzata con l’obiettivo di rendere ancora più precisa la diagnosi di tumore alla prostata. Per intervenire con le cure adeguate, infatti, la biopsia deve essere il più precisa e attendibile possibile.
Per specializzarsi e sviluppare il progetto, tre medici dell’ospedale San Giacomo di Novi Ligure, Paolo Mondino, Walter Fusco e Roberto Pastorino hanno seguito un corso di formazione presso la Clinica Universitaria Urologica di Tuebingen in Germania.
Se con i tradizionali sistemi, anche aumentando il numero di prelievi, la percentuale di biopsie positive non ha mai superato il 30-35 per cento, con l’introduzione di questa nuova tecnica si è riusciti ad avere un aumento dei dati positivi e meno biopsie inutili. Al San Giacomo, sono già stati eseguiti i primi interventi di biopsia prostatica con il metodo “Fusion” grazie anche alla collaborazione degli ingegneri responsabili del sistema robotizzato, giunti da Singapore per fornire l’assistenza tecnica necessaria.
Tutte le sedute operatorie sono state eseguite con successo e tutti i pazienti sono stati dimessi dopo poche ore dalla procedura.
Sì alla legge sulla donazione post mortem
News PresaSe donare gli organi è sempre stato considerato (a giusta ragione) un gesto nobile, non sempre con la stessa benevolenza si è guardato in Italia alla donazione del proprio corpo alla scienza post mortem. Pratica sino a ieri vietata dalla legge. Ora però è arrivato il via libera definitivo della commissione Affari sociali della Camera, in sede legislativa, alla legge in materia di disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica. Il testo proposto in Senato per iniziativa del sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri (M5S), è stato definitivamente approvato a Montecitorio all’unanimità.
STRUMENTO IN PIU’
«Da oggi la sanità e la ricerca scientifica hanno uno valido strumento in più dalla loro parte». Ha detto Vito De Filippo, capogruppo di Italia Viva in Commissione Affari sociali della Camera, a proposito dell’approvazione della legge sull’utilizzo del corpo e dei tessuti post mortem a fini scientifici. «Quello compiuto dalla legge – spiega – è un passo significativo per il sistema medico e scientifico perché la possibilità di studiare il corpo umano e i tessuti post mortem permetterà alla ricerca di allargare il suo campo di applicazione e dunque, si spera, anche i suoi avanzamenti. E insieme offre agli aspiranti medici un decisivo strumento di formazione. Il tutto nel rispetto della volontà del ‘donatore’ che potrà esprimere il proprio consenso. Siamo per questo molto soddisfatti che un provvedimento importante, che abbiamo sostenuto e votato, sia diventato realtà», ha concluso.
DONO PREZIOSO
Molto positivo anche il commento di Elena Carnevali, capogruppo Pd in commissione Affari Sociali alla Camera. «Ci sono voluti anni e quasi due legislature per approvare la cosiddetta Legge post mortem, la cui storia richiama alla Proposta di Legge del collega Gero Grassi e altri approvata alla Camera nella scorsa legislatura. È una legge di solidarietà che permette a chi lo consente, nel rispetto del corpo umano, di donare corpo e tessuti ai fini di studio, formazione e ricerca scientifica. Con un decreto verranno individuati i centri di riferimento per i progetti di ricerca scientifica che avranno un ruolo cruciale per diversi campi, come l’eziologia di alcune malattie come Alzheimer o Sla oggi sconosciuta, a cui anche le Banche del cervello (Brain Bank) costituiscono un riferimento importante. Ora è necessario che si compia un lavoro di promozione dell’informazione e della conoscenza di questa legge. Abbiamo bisogno di un’alleanza tra istituzioni e professionisti perché vi sia la consapevolezza diffusa che il dono del corpo e dei tessuti per questi fini è un gesto che permette la crescita della ricerca e della formazione di tanti futuri professionisti».
Ipercolesterolemia. CHMP: parere positivo per nuova cura
News PresaLa decisione della Commissione Europea sull’autorizzazione all’immissione in commercio è attesa per la prima metà del 2020. Daiichi Sankyo Europa ha annunciato oggi che il Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP) dell’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) ha espresso parere positivo per l’autorizzazione all’immissione in commercio sia dell’acido bempedoico che dell’associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe, raccomandandone l’approvazione come trattamento per la riduzione del colesterolo LDL (lipoproteine a bassa intensità). L’acido bempedoico è stato sviluppato come molecola first-in-class, in monosomministrazione giornaliera orale, per le persone con ipercolesterolemia che non riescono a raggiungere i target di colesterolo LDL nonostante l’assunzione di terapie ipolipemizzanti orali ottimizzate, e che restano ad alto rischio di eventi cardiovascolari, come infarto o ictus.
Il CHMP ha raccomandato il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio di acido bempedoico per pazienti con ipercolesterolemia primaria (eterozigote familiare e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta:
oppure
Il CHMP ha raccomandato il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio della associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe in pazienti con ipercolesterolemia primaria (eterozigote familiare e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta:
Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte in Europa, uccidono oltre quattro milioni di persone ogni anno e l’aumento dei livelli di colesterolo LDL è uno dei fattori di rischio più importanti. Tuttavia, ben l’80% delle persone che assumono statine non raggiunge i propri obiettivi di colesterolo LDL. Questo non è solo frustrante per loro, ma anche impegnativo per gli specialisti che li hanno in cura – ha dichiarato Benoit Creveau, Responsabile del Marketing Cardiovascolare presso Daiichi Sankyo Europa – “Il programma di sviluppo clinico per l’acido bempedoico ha dimostrato una riduzione consistente di colesterolo LDL in un ampio range di pazienti, compresi quelli che già ricevono terapie ipolipemizzanti orali ottimali L’opinione del CHMP è un riconoscimento di questi risultati e ci consente di fare un passo avanti rispetto all’impegno di aiutare i pazienti in UE che non hanno ancora raggiunto i loro livelli target di colesterolo LDL”.
Le opinioni positive del CHMP sono supportate dal programma di sviluppo clinico di fase III condotto in oltre 4.000 pazienti. L’acido bempedoico ha determinato una riduzione del colesterolo LDL fino al 18% corretto rispetto al placebo, quando somministrato con statine a moderata e alta intensità, e una riduzione del 21-28% corretto rispetto al placebo, quando usato con statine a basso dosaggio o in assenza di statine.3,4,5
L’associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe ha determinato una riduzione dei valori del colesterolo LDL del 38% corretto rispetto al placebo, quando somministrato in associazione ad una terapia con statine alla massima dose tollerata, che può significare anche nessuna statina.6
Il CHMP è un comitato scientifico dell’EMA che esamina le richieste di autorizzazione relative ai medicinali, dal punto di vista scientifico e clinico. La Commissione europea esaminerà il parere del CHMP e si prevede che prenderà la sua decisione finale nella prima metà del 2020. L’acido bempedoico e l’associazione fissa di acido bempedoico/ezetimibe sono attualmente in fase di valutazione anche da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense.
Acido Bempedoico
L’acido bempedoico è un inibitore orale dell’ATP citrato liasi (ACL) che, con un meccanismo d’azione mirato, riduce la biosintesi epatica del colesterolo, riducendo i livelli di colesterolo LDL in circolo. 3,5Utilizzato in monosomministrazione giornaliera, è destinato a pazienti affetti da ipercolesterolemia e/o ad alto rischio di malattia cardiovascolare aterosclerotica (ASCVD) che necessitano di una ulteriore riduzione di colesterolo LDL, nonostante abbiano ricevuto statine alla massima dose tollerata.
Con l’acido bempedoico si è osservata una riduzione della proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hsCRP), un marker chiave dell’infiammazione associata a malattia cardiovascolare.