Tempo di lettura: 4 minutiL’emicrania è la terza patologia più diffusa al mondo e la più disabilitante, soprattutto se si considerano le donne fino ai 50 anni. Si tratta di una malattia ad andamento cronico, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Italia sono quindici milioni le persone che hanno avuto almeno un episodio di emicrania nella loro vita, di questi undici sono donne e presentano i quadri clinici più gravi. Secondo l’indagine “Vivere con l’emicrania” condotta nel 2019 dal Censis, che analizza in maniera approfondita il fenomeno, si può parlare a pieno titolo di patologia “di genere”.
Emicrania: malattia di genere
Come mostrano gli ultimi dati Censis: la malattia è più debilitante per le donne, che definiscono “scadente” il proprio stato di salute nel 34 per cento dei casi, contro il 15 per cento degli uomini. Inoltre, il tempo medio per arrivare a una diagnosi è doppio per le donne, quasi 8 anni, rispetto agli uomini, per i quali parliamo di 4 anni. Sono le donne ad avere gli attacchi più lunghi: il 39 per cento ha attacchi di emicrania che superano le 48 ore contro il 12 per cento degli uomini e sono sempre le donne a lamentare maggiormente anche la riduzione delle attività sociali (43 per cento vs 21 per cento) con difficoltà che si manifestano sul lavoro (40 per cento vs 27 per cento), nello svolgimento delle attività domestiche e familiari (36 per cento vs 18 per cento) e nella gestione dei figli (19 per cento vs 8 per cento). In generale, il 70 per cento dei pazienti dichiara di non riuscire a fare nulla durante l’attacco e il 58 per cento vive nell’angoscia dell’arrivo di una nuova crisi.
Dieci punti “Uniti contro l’emicrania”
Per richiamare l’attenzione sul tema dell’emicrania e portare avanti un impegno corale che coinvolga non solo la società civile e la classe medica ma anche le Istituzioni, Fondazione Onda ha realizzato il documento “Emicrania: una patologia di genere” che contiene il Manifesto in dieci punti “Uniti contro l’emicrania” presentato ieri con il patrocinio di AIC (Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee), AINAT (Associazione Italiana Neurologi Ambulatoriali Territoriali), AL.CE – (Alleanza Cefalalgici Group CIRNA Foundation ONLUS ), ANIRCEF (Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee), FISC (Fondazione Italiana per lo Studio delle Cefalee Onlus), SNO (Società dei Neurologi Neurochirurghi Neuroradiologi Ospedalieri italiani) e con il contributo incondizionato di Allergan an Abbvie Company, Lundbeck e Teva.
“Sebbene sia una delle patologie neurologiche di cui si possiedono maggiori conoscenze scientifiche e per le quali sono disponibili farmaci innovativi e specifici”, commenta Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda, “l’emicrania rimane ancora misconosciuta, sotto-diagnosticata e non adeguatamente trattata. Il Manifesto mette a sistema le dieci azioni necessarie per promuovere una maggior consapevolezza sulla malattia, un tempestivo e più facile accesso a percorsi specialistici personalizzati di diagnosi e cura e, in particolare, alle strategie terapeutiche più efficaci e innovative: una call to action per raccogliere un impegno concreto, collettivo e coordinato, per offrire una migliore qualità della vita a tutte le persone che soffrono di emicrania. Il Manifesto mira, dunque, ad essere un appello concreto per richiamare l’attenzione su questo tema e sollecitare ad unire le forze in un impegno collettivo multistakeholder volto a migliorare la qualità della vita di tutte le persone che ogni giorno combattono contro il dolore, la sofferenza e lo stigma legati a questa malattia. L’approvazione dal Senato, nel luglio 2020, del testo unificato del disegno di legge per il riconoscimento della cefalea cronica come malattia “sociale” è stato un primo, importante passo in questa direzione, ma c’è ancora molto da fare”.
Tra i punti principali del Manifesto: la necessità di promuovere campagne di sensibilizzazione, potenziare i collegamenti e le sinergie tra i professionisti del territorio e i centri cefalee, garantire un accesso tempestivo ai percorsi diagnostico-terapeutici riducendo i tempi della diagnosi, potenziare la formazione dei medici della medicina generale e specialistica, promuovere l’innovazione terapeutica e facilitarne l’accesso, ridurre l’impatto economico della malattia attraverso la presa in carico precoce del paziente.
“Gli ormoni sessuali femminili hanno un ruolo cruciale nella determinazione delle differenze di genere che si osservano nell’emicrania”, sostiene Piero Barbanti, Presidente ANIRCEF, Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee e Presidente AIC Onlus, Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee. “Esiste, infatti, una correlazione tra le cicliche variazioni ormonali, in particolare degli estrogeni, e la ricorrenza degli attacchi emicranici. L’emicrania compare nella donna tipicamente dopo il menarca, presentando durante l’età riproduttiva una caratteristica periodicità che correla con le fluttuazioni ormonali: le fasi di maggiore severità si osservano infatti nel periodo mestruale e ovulatorio. Ma la prevalenza dell’emicrania nella donna non è solo questione di ormoni. La maggiore velocità del cervello femminile lo espone infatti a maggiore rischio di attacchi. È essenziale una diagnosi tempestiva per instaurare le cure corrette, ridurre il rischio di cronicizzazione e di iperuso di farmaci ed evitare inutili peregrinazioni. Questo purtroppo ancora oggi non avviene. Il progetto IRON (parte del registro italiano dell’emicrania I-GRAINE) – condotto su 866 pazienti affetti da emicrania cronica visitati presso 24 centri cefalee italiani – ha infatti documentato che l’intervallo che intercorre tra l’esordio dell’emicrania ed il primo accesso ad un centro cefalee è pari a circa 20 anni e che l’80 per cento degli esami diagnostici eseguiti nel frattempo è perfettamente inutile. Infine, lo studio IRON ha dimostrato che il paziente con emicrania cronica consulta in media da 8 a 18 diversi specialisti nel corso della propria vita, a causa dell’emicrania. Occorre dunque elevare il livello di preparazione dei medici sul tema dell’emicrania cominciando dalla formazione universitaria, molto carente a questo riguardo. Ma occorre anche allargare il numero dei centri cefalee universitari, ospedalieri e territoriali sul territorio nazionale, definendo allo stesso tempo percorsi specifici affinché ciascun paziente incontri la giusta figura medica per la propria emicrania, sulla base della sua complessità”.
In Europa soffrire di emicrania costa dai 18 ai 27 miliardi di euro
Questa malattia ha quindi altissimi costi umani, sociali ma anche economici: si stima che in Europa soffrire di emicrania costa complessivamente dai 18 ai 27 miliardi di euro, mentre in Italia, stando ai dati raccolti dallo studio My Migraine Voice, è stato calcolato che il costo annuale legato alla perdita di produttività in persone con 4 o più giorni di emicrania al mese ammonti a 7,6 miliardi di euro. L’emicrania porta spesso chi ne soffre a una perdita di produttività: secondo lo studio Gema – Gender&Migraine del 2018, effettuato su un campione di 607 pazienti adulti con almeno quattro giorni di emicrania al mese, e realizzato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) e dall’Università Bocconi, il costo annuale stimato per paziente con emicrania è pari a 4.352 euro di cui il 25 per cento per prestazioni sanitarie, il 36 per cento per perdite di produttività, il 34 per cento per assistenza informale e il 5 per cento per assistenza formale; è stato evidenziato, inoltre, che nel genere femminile è più frequente il fenomeno del “presentismo”: le donne si recano al lavoro seppur in condizioni di malessere per 51,6 giorni all’anno contro i 35,6 degli uomini; nonostante ciò, sono sempre le donne a perdere più giorni di lavoro e di vita sociale all’anno rispetto agli uomini, rispettivamente, 16,8 vs 13,6 e 26,4 vs 20.
Emicrania: in Italia colpisce 15 milioni di persone, malattia al femminile
Associazioni pazientiL’emicrania è la terza patologia più diffusa al mondo e la più disabilitante, soprattutto se si considerano le donne fino ai 50 anni. Si tratta di una malattia ad andamento cronico, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Italia sono quindici milioni le persone che hanno avuto almeno un episodio di emicrania nella loro vita, di questi undici sono donne e presentano i quadri clinici più gravi. Secondo l’indagine “Vivere con l’emicrania” condotta nel 2019 dal Censis, che analizza in maniera approfondita il fenomeno, si può parlare a pieno titolo di patologia “di genere”.
Emicrania: malattia di genere
Come mostrano gli ultimi dati Censis: la malattia è più debilitante per le donne, che definiscono “scadente” il proprio stato di salute nel 34 per cento dei casi, contro il 15 per cento degli uomini. Inoltre, il tempo medio per arrivare a una diagnosi è doppio per le donne, quasi 8 anni, rispetto agli uomini, per i quali parliamo di 4 anni. Sono le donne ad avere gli attacchi più lunghi: il 39 per cento ha attacchi di emicrania che superano le 48 ore contro il 12 per cento degli uomini e sono sempre le donne a lamentare maggiormente anche la riduzione delle attività sociali (43 per cento vs 21 per cento) con difficoltà che si manifestano sul lavoro (40 per cento vs 27 per cento), nello svolgimento delle attività domestiche e familiari (36 per cento vs 18 per cento) e nella gestione dei figli (19 per cento vs 8 per cento). In generale, il 70 per cento dei pazienti dichiara di non riuscire a fare nulla durante l’attacco e il 58 per cento vive nell’angoscia dell’arrivo di una nuova crisi.
Dieci punti “Uniti contro l’emicrania”
Per richiamare l’attenzione sul tema dell’emicrania e portare avanti un impegno corale che coinvolga non solo la società civile e la classe medica ma anche le Istituzioni, Fondazione Onda ha realizzato il documento “Emicrania: una patologia di genere” che contiene il Manifesto in dieci punti “Uniti contro l’emicrania” presentato ieri con il patrocinio di AIC (Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee), AINAT (Associazione Italiana Neurologi Ambulatoriali Territoriali), AL.CE – (Alleanza Cefalalgici Group CIRNA Foundation ONLUS ), ANIRCEF (Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee), FISC (Fondazione Italiana per lo Studio delle Cefalee Onlus), SNO (Società dei Neurologi Neurochirurghi Neuroradiologi Ospedalieri italiani) e con il contributo incondizionato di Allergan an Abbvie Company, Lundbeck e Teva.
“Sebbene sia una delle patologie neurologiche di cui si possiedono maggiori conoscenze scientifiche e per le quali sono disponibili farmaci innovativi e specifici”, commenta Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda, “l’emicrania rimane ancora misconosciuta, sotto-diagnosticata e non adeguatamente trattata. Il Manifesto mette a sistema le dieci azioni necessarie per promuovere una maggior consapevolezza sulla malattia, un tempestivo e più facile accesso a percorsi specialistici personalizzati di diagnosi e cura e, in particolare, alle strategie terapeutiche più efficaci e innovative: una call to action per raccogliere un impegno concreto, collettivo e coordinato, per offrire una migliore qualità della vita a tutte le persone che soffrono di emicrania. Il Manifesto mira, dunque, ad essere un appello concreto per richiamare l’attenzione su questo tema e sollecitare ad unire le forze in un impegno collettivo multistakeholder volto a migliorare la qualità della vita di tutte le persone che ogni giorno combattono contro il dolore, la sofferenza e lo stigma legati a questa malattia. L’approvazione dal Senato, nel luglio 2020, del testo unificato del disegno di legge per il riconoscimento della cefalea cronica come malattia “sociale” è stato un primo, importante passo in questa direzione, ma c’è ancora molto da fare”.
Tra i punti principali del Manifesto: la necessità di promuovere campagne di sensibilizzazione, potenziare i collegamenti e le sinergie tra i professionisti del territorio e i centri cefalee, garantire un accesso tempestivo ai percorsi diagnostico-terapeutici riducendo i tempi della diagnosi, potenziare la formazione dei medici della medicina generale e specialistica, promuovere l’innovazione terapeutica e facilitarne l’accesso, ridurre l’impatto economico della malattia attraverso la presa in carico precoce del paziente.
“Gli ormoni sessuali femminili hanno un ruolo cruciale nella determinazione delle differenze di genere che si osservano nell’emicrania”, sostiene Piero Barbanti, Presidente ANIRCEF, Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee e Presidente AIC Onlus, Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee. “Esiste, infatti, una correlazione tra le cicliche variazioni ormonali, in particolare degli estrogeni, e la ricorrenza degli attacchi emicranici. L’emicrania compare nella donna tipicamente dopo il menarca, presentando durante l’età riproduttiva una caratteristica periodicità che correla con le fluttuazioni ormonali: le fasi di maggiore severità si osservano infatti nel periodo mestruale e ovulatorio. Ma la prevalenza dell’emicrania nella donna non è solo questione di ormoni. La maggiore velocità del cervello femminile lo espone infatti a maggiore rischio di attacchi. È essenziale una diagnosi tempestiva per instaurare le cure corrette, ridurre il rischio di cronicizzazione e di iperuso di farmaci ed evitare inutili peregrinazioni. Questo purtroppo ancora oggi non avviene. Il progetto IRON (parte del registro italiano dell’emicrania I-GRAINE) – condotto su 866 pazienti affetti da emicrania cronica visitati presso 24 centri cefalee italiani – ha infatti documentato che l’intervallo che intercorre tra l’esordio dell’emicrania ed il primo accesso ad un centro cefalee è pari a circa 20 anni e che l’80 per cento degli esami diagnostici eseguiti nel frattempo è perfettamente inutile. Infine, lo studio IRON ha dimostrato che il paziente con emicrania cronica consulta in media da 8 a 18 diversi specialisti nel corso della propria vita, a causa dell’emicrania. Occorre dunque elevare il livello di preparazione dei medici sul tema dell’emicrania cominciando dalla formazione universitaria, molto carente a questo riguardo. Ma occorre anche allargare il numero dei centri cefalee universitari, ospedalieri e territoriali sul territorio nazionale, definendo allo stesso tempo percorsi specifici affinché ciascun paziente incontri la giusta figura medica per la propria emicrania, sulla base della sua complessità”.
In Europa soffrire di emicrania costa dai 18 ai 27 miliardi di euro
Questa malattia ha quindi altissimi costi umani, sociali ma anche economici: si stima che in Europa soffrire di emicrania costa complessivamente dai 18 ai 27 miliardi di euro, mentre in Italia, stando ai dati raccolti dallo studio My Migraine Voice, è stato calcolato che il costo annuale legato alla perdita di produttività in persone con 4 o più giorni di emicrania al mese ammonti a 7,6 miliardi di euro. L’emicrania porta spesso chi ne soffre a una perdita di produttività: secondo lo studio Gema – Gender&Migraine del 2018, effettuato su un campione di 607 pazienti adulti con almeno quattro giorni di emicrania al mese, e realizzato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) e dall’Università Bocconi, il costo annuale stimato per paziente con emicrania è pari a 4.352 euro di cui il 25 per cento per prestazioni sanitarie, il 36 per cento per perdite di produttività, il 34 per cento per assistenza informale e il 5 per cento per assistenza formale; è stato evidenziato, inoltre, che nel genere femminile è più frequente il fenomeno del “presentismo”: le donne si recano al lavoro seppur in condizioni di malessere per 51,6 giorni all’anno contro i 35,6 degli uomini; nonostante ciò, sono sempre le donne a perdere più giorni di lavoro e di vita sociale all’anno rispetto agli uomini, rispettivamente, 16,8 vs 13,6 e 26,4 vs 20.
iPhone12 e rischio per pacemaker e defibrillatori. Studio ISS conferma
News PresaSe lo smartphone viene tenuto a meno di un centimetro dal cuore, il magnete presente nell’iPhone 12 può attivare l’interruttore magnetico di pacemaker e defibrillatori impiantabili. Si tratta di rari casi, ma è importante attenersi alle indicazioni fornite dai produttori di dispositivi medici e della Apple stessa, secondo cui deve essere mantenuta una distanza di almeno 15 cm tra un telefono cellulare e il dispositivo. Ora uno studio dell’Iss appena pubblicato dalla rivista Pacing and Clinical Electrophysiology. ha confermato questo rischio.
Nel febbraio 2021 alcuni dati presenti nella letteratura scientifica e ripresi dalla stampa non specializzata indicavano la possibilità che Il magnete utilizzato nello smartphone potesse attivare l’interruttore magnetico presente nel defibrillatore, disattivando la terapia prevista in caso di aritmia ventricolare. Lo studio dell’ISS è il primo a valutare in laboratorio l’interferenza magnetica dell’iPhone 12 e dei suoi accessori MagSafe su un campione rappresentativo dell’attuale mercato italiano di pacemaker e defibrillatori impiantabili, incluso il defibrillatore sottocutaneo. Inoltre, per la prima volta, i fenomeni di interferenza magnetica sono stati accuratamente correlati ai livelli di campo magnetico misurati attorno all’iPhone 12.
Smartphone e rischio per pacemaker e defibrillatori
I ricercatori hanno valutato i pacemaker e i defibrillatori impiantabili dei principali produttori mondiali (Abbott, Biotronik, Boston Scientific, Medico, Medtronic, Microport), utilizzando un simulatore di battito cardiaco. I risultati hanno mostrato che, in alcuni casi, il magnete presente nell’ iPhone 12 può attivare involontariamente l’interruttore magnetico nel campione di pacemaker e defibrillatori impiantabili. Il fenomeno è stato osservato fino ad una distanza massima di 1 cm. Va comunque sottolineato che l’attivazione della modalità magnetica è stata osservata solo in alcune specifiche posizioni dell’iPhone rispetto al dispositivo e che nella maggior parte delle posizioni il fenomeno non si innesca.
Il campo magnetico generato dal magnete interno all’iPhone12, misurato dai ricercatori ISS, è risultato essere maggiore del valore a cui i pacemaker e i defibrillatori impiantabili devono essere immuni. “L’attivazione non voluta dell’interruttore magnetico può raramente accadere anche in altre situazioni di vita comune in presenza di magneti – sottolineano gi autori – ma data la grande diffusione dell’iPhone 12 e l’abitudine di mettere lo smartphone nel taschino, l’attivazione involontaria della modalità magnete provocata da iPhone 12 può essere meno rara”. Oltre a seguire le indicazioni sulla distanza, concludono i ricercatori, sarebbe opportuno avvertire il paziente rispetto a questa caratteristica unica dell’Phone12 e valutare questo potenziale rischio in futuro per i nuovi modelli di smartphone.
Disturbi mentali comuni, molti senza cure: “formare i professionisti”
News PresaRiconoscere i disturbi mentali e consentire l’accesso ai servizi e alle cure, migliorando la comunicazione e aumentando la formazione dei professionisti. Questi obiettivi sono contenuti nel documento finale della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione promossa dal Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università degli Studi di Padova con il patrocinio dell’ISS. Il documento è disponibile in italiano e inglese.
Disturbi mentali, i numeri
Nel complesso i disturbi mentali rappresentano la seconda causa del carico di sofferenza e disabilità legato a tutte le malattie e rendono conto del 14% di tutti gli anni vissuti con disabilità (Years Lived with Disability, YLD), con una prevalenza nel mondo di oltre il 10%. I disturbi mentali comuni, con i disturbi da abuso di sostanze e alcol, sono quelli che contribuiscono maggiormente a questo carico. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il solo disturbo depressivo maggiore colpisce ogni anno circa 350 milioni di persone in tutto il mondo ed è la quarta causa del carico di tutte le malattie. Tale carico è aumentato del 37% dal 1990 al 2010 e, secondo recenti proiezioni, entro il 2030 il disturbo depressivo maggiore potrebbe diventare la prima causa di disabilità e sofferenza di tutte le malattie.
In Italia, le persone affette da disturbi mentali comuni ricorrono raramente, e meno che in altri Paesi europei, ai servizi sanitari e tra esse il minor ricorso si registra nella fascia d’età 18-24 anni. Questo nonostante sia stato stimato che oltre il 7% della popolazione generale tra i 18 e i 64 anni ha sofferto di almeno un disturbo mentale comune nell’ultimo anno e quasi il 19% di almeno uno nella vita.
Tre le aree di intervento
La prima di intervento riguarda il riconoscimento dei disturbi e i piani di trattamento. Molti studi dimostrano come molti pazienti con disturbi non vengano trattati o comunque non vengano seguiti in modo adeguato. Tra i fattori alla base del mancato o inadeguato trattamento, vi è il mancato riconoscimento della presenza dei disturbi per la difficoltà di intercettarli all’esordio o comunque in fase precoce. In tal senso, secondo la Consensus, il primo step decisivo è rendere più agevole la diagnosi precoce, suggerendo che tutti i servizi sanitari territoriali e i servizi di medicina penitenziaria siano considerabili, al pari dei servizi specialistici, luoghi direttamente coinvolti nell’individuazione degli assistiti con disturbi mentali comuni o a rischio di svilupparli.
La seconda riguarda l’accesso ai servizi e più in generale al trattamento. Il fallimento nel trattare le persone con disturbi mentali comuni, non solo in Italia, è dovuto oltre che alla scarsa offerta di risposta anche alla scarsa domanda. Investire, quindi, per promuovere una maggiore conoscenza e consapevolezza di questi disturbi, con una comunicazione efficace che possa ridurre lo stigma associato ancora oggi a queste problematiche. Le raccomandazioni della Consensus, propongono un investimento nella comunicazione rivolta e adattata ai diversi gruppi target (operatori sanitari, popolazione generale e mondo della scuola), sfruttando le potenzialità dei mass-media e dei social network. Per agevolare l’accesso alle cure, l’uso di modalità innovative e più sostenibili, integrate nei percorsi di cura, come ad esempio la tele-psicologia, merita pure attenzione e ulteriori ricerche, anche considerato il contesto dell’attuale pandemia e i risultati di recenti meta-analisi che mostrano che esse possono indurre dei benefici.
La terza area di interesse riguarda la formazione accademica e le scuole professionalizzanti. La Consensus ribadisce la necessità di percorsi di alfabetizzazione sui disturbi mentali comuni nel corso di studi della laurea triennale in Psicologia e della laurea in Medicina e nei corsi post laurea a partire da quello previsto per i Medici di Medicina Generale. Per quanto riguarda la laurea in Psicologia ad indirizzo clinico, raccomanda l’inserimento di un approfondimento delle conoscenze sui quadri sintomatologici e i livelli di gravità di questi disturbi, nonché sui trattamenti sostenuti da prove di efficacia e, più in generale, sui principi e metodi dell’epidemiologia clinica in salute mentale. Infine, la Consensus sollecita un potenziamento della ricerca in salute mentale compresa quella sugli interventi psicologici che coinvolgono adulti, bambini, adolescenti e terza e quarta età.
“Le raccomandazioni di questa Consensus – commenta Silvio Brusaferro, presidente dell’ISS – giungono in un momento in cui la nostra vita è cambiata a causa della pandemia SARS-CoV-2 che verosimilmente ha avuto e avrà tra gli altri impatti possibili ripercussioni sull’equilibrio psichico ed emotivo. Esempi chiaramente evidenti sono gli operatori sanitari, maggiormente esposti a rischio di stress psicologico, le donne, i giovani preoccupati per il loro futuro, i familiari dei pazienti affetti da COVID-19 esposti a minacce di perdita di una persona cara, e i lavoratori che hanno subito conseguenze sul versante economico. L’obiettivo è continuare a lavorare per fornire a tutti un trattamento adeguato e favorire la miglior qualità di vita possibile”
Botulino, attenzione alle conserve fatte in casa
AlimentazioneAnnebbiamento e sdoppiamento della vista, rallentamento e difficoltà di espressione, fatica nell’ingerire, secchezza della bocca o debolezza muscolare. Sono alcuni dei sintomi del botulismo e a quanto pare, benché in pochi conoscano questo rischio, l’Italia è il Paese europeo col più alto numero di casi di botulismo (dati del Centro Nazionale di Riferimento per il Botulismo – CNRB). La malattia ha il potere di paralizzare la persona che entra in contatto con il batterio Clostridium botulinum e altri clostridi produttori di tossine botuliniche. Anche se, nella fase di esordio, i sintomi sono aspecifici, comuni ad altre condizioni. Per questo, spesso, non si arriva ad una diagnosi immediata.
VELENO
Gli addetti ai lavori sanno bene che il botulino è il più potente veleno naturale finora conosciuto. Basti pensare che un grammo di tossina botulinica tipo A, per ingestione, può uccidere oltre quattordicimila persone e che il consumo di piccolissime quantità di alimenti contaminati può provocare la malattia e addirittura essere letale. Le forme principali di botulismo sono tre. Si può avere un botulismo alimentare, causato dall’ingestione di alimenti contaminati con le tossine botuliniche; infantile, dovuto alla produzione di tossine botuliniche nel lume intestinale di bambini con età inferiore ad un anno o da ferita, conseguente allo sviluppo di C. botulinum e alla conseguente produzione di tossine in ferite infette.
FONTI DI RISCHIO
Il botulino è un microrganismo anaerobio, vale a dire che si sviluppa in assenza di aria, che si può ritrovare nel suolo, nei sedimenti e nella polvere, sotto forma di spora. Il botulismo alimentare è il più diffuso ed è un’emergenza per la salute pubblica, dal momento che l’intossicazione può riguardare molte persone contemporaneamente. Fortunatamente esistono trattamenti efficaci, ma solo con la somministrazione di un’antitossina nelle prime ore dalla comparsa dei sintomi e il recupero è molto lento. La maggior parte dei pazienti ci mette settimane per guarire e spesso servono mesi di terapia di supporto. Ecco perché, soprattutto per ridurre i rischi alimentari, è bene fare molta attenzione alla preparazione e alla conservazione di alimenti fatti in casa. La maggior parte dei casi di botulismo, infatti, è correlata a conserve di produzione domestica. Come dire, ben vengano le famose “conserve della nonna”, purché fatte e conservate a regola d’arte. E nel dubbio è sempre meglio evitare di mangiarle.
Gli oncologi: il Covid ci porta verso un’ondata di casi avanzati di tumore
Economia sanitariaPresto, a causa del Covid, ci sarà una vera e propria ondata di casi avanzati di cancro. Sembra assurdo, ma l’allarme è più che concreto è arriva dall’Associazione italiana di Oncologia Medica in occasione del World Cancer Day, la Giornata mondiale contro il cancro. Il Covid è chiaramente da leggere come causa indiretta, perché ha causato dei ritardi nelle diagnosi e nelle cure accumulati in 24 mesi di pandemia. Gli esperti ora chiedono un Recovery plan, urgente, ovvero un Piano di recupero dell’oncologia, per colmare i ritardi nell’assistenza. «Senza un’adeguata programmazione – dicono gli oncologi . con assegnazione di risorse e personale, le oncologie non saranno in grado di affrontare l’ondata di casi in fase avanzata stimati nei prossimi mesi e anni». È dunque questa una delle facce più drammatiche, e meno nota, della pandemia.
SCREENING
Nel solo 2020, dice il presidente Aiom Saverio Cinieri, si sono registrati circa 2 milioni e mezzo di screening in meno e ridotti del 18% gli interventi chirurgici oncologici, mentre l’assistenza domiciliare è disponibile solo nel 68% dei centri. E cresce la preoccupazione degli oncologi: «In queste settimane, la nuova ondata della pandemia causata dalla variante Omicron sta mettendo in crisi la gestione dei reparti di oncologia e l’attività chirurgica programmata è stata sospesa o rallentata, poiché le terapie intensive sono occupate da pazienti con Covid. I danni per le persone colpite da cancro rischiano di essere molto gravi, in quanto il successo delle cure dipende anche dai tempi brevi entro cui viene eseguito l’intervento chirurgico». Stando agli esperti non c’è più tempo da perdere. La sanità è oggi nel pieno di una crisi che non può e non deve essere affrontata con iniziative estemporanee. Non si può continuare con iniziative «basate sull’apertura e chiusura dei reparti in relazione all’incremento del numero dei contagiati dal Covid-19 – afferma il presidente Aiom -. Chiediamo alle Istituzioni di definire una programmazione a medio e lungo termine sulla conservazione e implementazione dell’attività oncologica ospedaliera. Soffriamo in particolare la mancanza di personale e di spazi, sarebbe anche appropriato comprendere come la maggior parte dei trattamenti di oncologia medica venga effettuata in regime di Day-Hospital, permettendo ai pazienti di continuare, compatibilmente con la malattia e con le cure, una vita quanto più normale possibile».
Cataratta: intervento riduce rischio demenza. La scoperta
AnzianiL’intervento chirurgico della cataratta produce effetti positivi anche sul cervello e il beneficio dura almeno 10 anni. La scoperta della connessione tra occhi e cervello arriva da uno studio dell’Università di Washington che dimostra una diminuzione del 30 per cento del rischio di demenza.
L’intervento alla cataratta e i risvolti positivi sul cervello. Lo studio
L’operazione della cataratta viene realizzata per schiarire la vista, tuttavia produce benefici effetti non sospettabili anche nelle capacità cognitive. L’effetto positivo dura almeno 10 anni dopo l’intervento. Le cataratte si formano negli occhi della gran parte di persone anziane e le forme di demenza, tra cui preponderante l’Alzheimer, insorgono abitualmente in età tarda. Lo studio ha preso in esame tremila volontari di età superiore ai 65 anni. Il gruppo è stato seguito prima e dopo l’intervento della cataratta, l’équipe guidata dalla dottoressa Cecilia S. Lee ha riscontrato tra di loro il calo del 30 per cento nell’insorgere della demenza in confronto a quanti non si erano operati e, avanti nel tempo, il perdurare della speciale “immunità” per un decennio almeno. I dati e i risultati della ricerca sono stati pubblicati su Jama Internal Medicine. È la prima volta che viene dimostrata una simile associazione con l’abbassamento della possibilità di demenza. Lo studio è di tipo osservazionale, quindi non individua le cause. Tuttavia, le ipotesi sono più di una, tra cui che gli occhi operati ricevano più luce blu. Può essere che, tolte le cataratte, le persone ricevano più stimoli sensori di migliore qualità, e questo potrebbe contribuire alla resistenza contro il decadimento cognitivo. La ricerca di Washington è un’ulteriore spinta a proseguire la ricerca sulla connessione occhi-mente. Altri studi condotti dalla dottoressa Lee hanno mostrato come malattie della retina (per esempio la degenerazione maculare), possano facilitare l’insorgere dell’Alzheimer.
Un Fiorello “booster” gioca su vaccino e No Vax
News PresaQuella di ieri è stata una serata televisiva molto accesa sotto il profilo del dibattito vaccinale, a cominciare dal Festival di Sanremo dove un Fiorello in versione “booster” ha incalzato i No Vax facendo il verso a quanti credono in microchip, 5G e cospirazioni dei “poteri forti”. Lo showman chiamato da Amadeus ad accendere la serata ha ad un certo punto finto di aver perso il controllo del braccio destro. Agitando vistosamente il braccio ha detto: «È il vaccino! È il microchip, non sono io, è il grafene, sono i poteri forti», facendo il verso a molti temi più cari ai movimenti No Vax. Una gag che ha fatto ridere di gusto l’Ariston e la maggior parte dei telespettatori a casa, ma anche masticare amaro quella parte di Italia che ancora propone teorie strampalate sui vaccini.
RNA ALIENO
Un altro “siparietto”, se così lo si può definire, è quello andato in scena a Carta Bianca, trasmissione RAI condotta da Bianca Berlinguer. Oltre alla solita contrapposizione tra chi è più incline a credere nell’efficacia dei vaccini e chi invece continua a parlare di diritti negati, a far discutere sono state le parole del professor Claudio Giorlandino che ha definito il nostro (quello a mRNA) «un vaccino bizzarro». Parole, quelle del, direttore sanitario di Altamedica, che hanno suscitato non poche polemiche sui social, anche a causa di una scelta lessicale che alcuni hanno trovato inopportuna. Giorlandino ha infatti proseguito spiegando che «Molti non sono No Vax, sono No Pfizer Vax, chiunque si sarebbe vaccinato con serenità con un vaccino tradizione come quello indiano. Le perplessità degli immunologi – ha detto – è questo vaccino che usa un RNA alieno, che fa produrre una proteina (…)». Perché «obbligare le cellule con un RNA di un virus a produrre una proteina», si chiede l’esperto. Chiaramente Giorlandino non ha fatto altro che portare il parere di esperti del campo, ma molti No Vax hanno colto la palla al balzo per strumentalizzare quel termine “RNA alieno” e far leva sulle paure di molti. Ovviamente parlare di RNA alieno, significa fare cenno ad un RNA che non appartiene al nostro corpo ma ad un virus, benché svuotato e trasformato in un vettore, ma si sa, la galassia No Vax è ricca e variegata.
Scoperta “immunità innata”: ha un ruolo chiave anche contro COVID-19
Ricerca innovazioneSi chiama immunità innata e ha un ruolo chiave nella resistenza ai patogeni, incluso Sars-CoV-2 e le varianti, come Omicron. Questo meccanismo è stato appena scoperto da un team di ricercatori italiani. L’immunità innata, la prima linea di difesa del nostro organismo, risolve il 90% dei problemi causati dal contatto con batteri e virus. Precede e si accompagna all’immunità adattativa, la linea di difesa più specifica, degli anticorpi e delle cellule T, che può essere potenziata con i vaccini. Lo studio è iniziato a marzo 2020, grazie al sostegno di Dolce&Gabbana. I risultati sono stati pubblicati su Nature Immunology da Matteo Stravalaci, ricercatore di Humanitas, e Isabel Pagani, ricercatrice dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e da un team di scienziati coordinati dal professor Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito Humanitas University, la professoressa Cecilia Garlanda ricercatrice e docente di Humanitas University e la dottoressa Elisa Vicenzi, responsabile dell’Unità di Ricerca in Patogenesi virale e Biosicurezza dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. Lo studio ha coinvolto anche Fondazione Toscana Life Science con Rino Rappuoli, l’Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona e la Queen Mary University di Londra in uno sforzo internazionale volto a indagare le molecole presenti nel sangue e nei liquidi biologici e che funzionano come “antenati degli anticorpi” (i cosiddetti Ante-antibody).
Immunità innata: lo studio
“Anni fa abbiamo individuato alcuni geni che fanno parte di una famiglia di antenati degli anticorpi. Concentrandoci sull’interazione tra questi e SARS-CoV-2, abbiamo scoperto che una di tali molecole dell’immunità innata, chiamata Mannose Binding Lectin (MBL), si lega alla proteina Spike del virus e lo blocca” spiega il professor Alberto Mantovani. “Alla comparsa di Omicron, Sarah Mapelli, ricercatrice bio-informatica di Humanitas, ha esteso subito l’analisi sulla struttura della proteina in collaborazione con il gruppo di Bellinzona, scoprendo che MBL è in grado di vedere e riconoscere anche Omicron, oltre alle varianti classiche del virus come Delta”.
“È risultato che variazioni genetiche di MBL sono associate a gravità di malattia da COVID-19” spiega la professoressa Cecilia Garlanda.
“Ora si tratterà di valutare se questa molecola può fungere da biomarcatore per orientare le scelte dei medici di fronte a manifestazioni così diverse e mutevoli della malattia”.
I ricercatori, inoltre, stanno valutando se MBL può essere un candidato agente preventivo/terapeutico dal momento che è una molecola funzionalmente simile a un anticorpo, cui le varianti del virus, almeno quelle note, non possono sfuggire. Non ci sono ancora dati, invece, sull’interazione tra questo meccanismo protettivo della prima linea di difesa e la risposta immunitaria indotta dai vaccini.
Medici di famiglia in agitazione: “carichi insostenibili”
Economia sanitariaMedici di famiglia, fortunatamente non tutti, in stato di agitazione. Ad annunciare la protesta di una parte della medicina di base sono le sigle sindacali Fp Cgil Medici e Dirigenti Ssn, Smi, Simet, Federazione C.I.Pe – S.I.S.Pe – S.I.N.S.Pe che chiedono di poter «lavorare meglio per la cittadinanza». I medici denunciano «carichi di lavoro insostenibili, aggravati da procedure ammnistrative che sottraggono tempo prezioso all’assistenza, l’organizzazione frammentata, lo scarso sostegno dei sistemi sanitari e la mancanza di tutele contrattuali, impediscono ai medici di medicina generale ed ai pediatri di libera scelta, di garantire un’offerta di salute integrata». Un nodo chiave, a leggere la nota congiunta, sembra essere il rinnovo dell’accordo collettivo nazionale 2016/18, sul quale esprimono un giudizio fortemente negativo, perché «non risponde in alcun modo alle richieste dei professionisti di avere maggiori tutele, una più efficiente organizzazione, maggiore sostegno da parte delle Regioni e delle Aziende, e retribuzioni adeguate agli standard europei».
TRACCIAMENTO
Non solo: i medici di famiglia indicano che il sistema di tracciamento sul territorio è saltato e che gli studi medici di medicina generale e pediatri di libera scelta sono presi d’assalto con richieste burocratiche legate alle procedure di messa in quarantena, di isolamento, di fine isolamento, certificazioni Inps, certificazioni Inail e non da ultimo per il tracciamento nelle scuole. «Le piattaforme Regionali inefficienti – dicono – non si interfacciano con il Sistema di Tessera Sanitaria e stanno rendendo difficoltosa l’attività ordinaria rivolta ai pazienti affetti da patologie croniche, oncologiche, cardiache con o senza sintomi da Covid 19. I pazienti hanno difficoltà di accesso al proprio medico di famiglia perchè tutti i canali di contatto sono saturati da centinaia di migliaia richieste di informazioni procedurali da parte dell’utenza». La medicina generale registra inoltre «l’assoluta indisponibilità dei medici sostituti negli studi di medicina generale, pediatri di libera scelta, continuità assistenziale e nell’emergenza urgenza territoriale, nonché la difficoltà di reclutamento del personale di studio con conseguente ulteriore sovraccarico di lavoro improprio che ricade sui medici e i pediatri di libera scelta».
DIPENDENZA
Ciò su cui forse dovrebbero essere i cittadini a protestare è il tentativo da più parti di trasformare i medici di medicina di famiglia in dipendenti del servizio sanitario, andando verso un modello che imita un po quello portoghese con le Case della Salute. Non che le Case della Salute siano un male a prescindere, ma tutto sta a capire come queste vengono realizzate. Anche perché il bene più prezioso che si rischia di perdere è quello della prossimità e del rapporto fiduciario con il medico di famiglia.
Microangiopatia trombotica, al Cardarelli di Napoli un percorso certificato
News PresaIl più grande ospedale del Mezzogiorno d’Italia, il Cardarelli di Napoli, ha ottenuto la certificazione del Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA) per una patologia estremamente insidiosa e pericolosa: la microangiopatia trombotica. Una notizia che potrebbe sembrare di poco conto, o estremamente “tecnica”, ma che invece ha una ricaduta molto concreta sulla salute di centinaia e centinaia di pazienti. Ottenere la certificazione del PDTA significa infatti garantire ai pazienti standard assistenziali sempre più elevati e soprattutto uniformi. La certificazione di qualità è la Uni En Iso 9001:2015 del Percorso Paziente con microangiopatia trombotica ed è stata rilasciata dall’Organismo Bureau Veritas. «Una certificazione per noi molto importante – spiega il direttore generale del Cardarelli di Napoli Giuseppe Longo – perché rappresenta il riconoscimento della qualità del modello organizzativo che abbiamo messo a punto per garantire standard omogenei nell’erogazione dei servizi sanitari ai pazienti affetti da microangiopatie trombotiche». La valutazione del percorso ha tenuto conto di specifici indicatori relativi a processi clinici e gestionali, dell’organizzazione e competenza del personale, dell’appropriatezza delle attrezzature, della completezza e congruità della documentazione clinica e della soddisfazione del paziente e dell’operatore.
PUNTI CHIAVE
In particolare, la struttura che ottiene la certificazione dimostra che il percorso paziente applicato per le patologie in oggetto è capace di realizzare almeno tre punti. In primis ottimizzare i processi di presa in carico, diagnostici e terapeutici del paziente con TMA al fine di accrescere le performance in termini di efficienza e di efficacia, con un utilizzo razionale delle risorse e con migliori risultati clinici misurabili attraverso adeguati indicatori. Ancora, favorire il coinvolgimento delle diverse specialistiche in base alla gravità della malattia, alle comorbidità e all’impatto della patologia sulla qualità di vita del paziente, valorizzando il concetto di multidisciplinarietà intraospedaliera ed estesa sul territorio. E infine, facilitare la misurazione complessiva dei risultati raggiunti dall’organizzazione attraverso l’individuazione degli indicatori di performance (volume, appropriatezza, processo, esito).
LAVORO DI SQUDRA
«Siamo orgogliosi – dice la direttrice del pronto soccorso – OBI Fiorella Paladino – di aver raggiunto questo importante traguardo. Questa certificazione è il frutto di un efficace lavoro di squadra e vorrei quindi ringraziare tutti i professionisti che hanno partecipato e che continueranno a farlo. La certificazione non è infatti un punto di arrivo, ma il punto di partenza per un processo volto al continuo miglioramento della qualità del servizio offerto ai nostri pazienti». In merito all’importante traguardo si è espresso anche il direttore sanitario Giuseppe Russo, che ha dichiarato: «L’adozione di un Percorso Paziente certificato è un’ulteriore testimonianza dell’attenzione e della cura che riserviamo ai nostri pazienti, ai quali in questo modo ci impegniamo a garantire una presa in carico rapida, efficace ed efficiente e da parte di un team multidisciplinare in cui sia prevista una reale ed effettiva collaborazione tra le unità operative e tutti gli specialisti coinvolti. Per quest’ultimi e per il nostro ospedale la Certificazione rappresenta un’opportunità di miglioramento e di crescita oltre ad essere un importante riconoscimento del lavoro svolto quotidianamente da tutto il personale sanitario». Il PDTA per le microangiopatie trombotiche coinvolge diverse specialità: oltre alla Medicina d’Urgenza, la Rianimazione, l’Ematologia, la Medicina Interna, la Nefrologia, la Ginecologia, la Genetica, la Medicina di Laboratorio, il servizio Immunotrasfusionale e la Farmacia. La certificazione di qualità è la Uni En Iso 9001:2015 del Percorso Paziente con microangiopatia trombotica ed è stata rilasciata con il supporto tecnico-organizzativo di OPT s.r.l Consulenza di Direzione e la sponsorizzazione di Alexion.