Non si ferma l’attività trapiantologica del Cardarelli di Napoli, mai venuta meno nonostante le grandi difficoltà legate al Covid. In un mese sono già 6 gli interventi portati a termine dai chirurghi delle équipes del Dipartimento Trapianti e dell’Unità Operativa Complessa Terapia Intensiva Fegato (UTIF). Interventi possibili grazie alla generosità di chi ha scelto di donare. «Nonostante l’impatto della pandemia – ricorda il direttore generale Giuseppe Longo – il Cardarelli non ha mai ridotto l’attività nell’ambito dell’emergenza-urgenza, che resta un punto d’eccellenza di questa Azienda Ospedaliera. Le attività chirurgiche, e non solo quelle, ci confortano negli sforzi fatti e consentono di fissare nuovi obiettivi sempre più ambiziosi, in linea con la programmazione regionale che punta ad una sanità d’eccellenza». Oltre alla solidarietà e all’altruismo c’è poi da sottolineare il grande lavoro e l’organizzazione messa in piedi dalla direzione strategica che qualifica l’Azienda Ospedaliera partenopea come polo di riferimento regionale e non solo per l’emergenza urgenza, con un’attività di trapianti in crescita nonostante il Covid.
IN PRIMA LINEA
Oltre al direttore di dipartimento Ciro Esposito, il capo équipeGianni Vennarecci (direttore del Reparto Chirurgia Epatobiliare e Trapianto di Fegato), il direttore dell’Unità Operativa Complessa di Epatologia Giovanni Di Costanzo e l’epatologo Alfonso Galeota Lanza. Ma sono anche molti altri i nomi delle donne e degli uomini che ogni giorno regalano speranza a pazienti che altrimenti non avrebbero alcuna chance: Antonio Ceriello, Giuseppe Aragiusto, Giuseppe Arenga, Luca Campanella, Marcello Di Martino, Federica Falaschi, Daniele Ferraro, Simona Giordano, Alessandro Iacomino, Marilisa Maniscalco. E ancora, Carla Migliaccio, Francesco Orlando, Donatella Pisaniello, Walter Santaniello e Alfonso Terrone. Ai quali si aggiungono le equipes di anestesisti con Vittoria Amatucci, Gaetano Azan, Margherita Caggiano, Carmen Chierego, Luigi D’Alessio, Ada De Felice, Marianna Esposito, Giorgia Granato, Angela Grasso, Nicola Lisco, Raffaele Montesano, Giovanna Tozzi ed Elsa Maria Verniero. Nei giorni scorsi, con due interventi durati cinque ore sono stati realizzati due trapianti consecutivi, due operazioni che hanno restituito speranza e nuova vita ad altrettanti pazienti che la speranza l’avevano ormai persa. Imprescindibile anche il lavoro di tutti gli infermieri del complesso operatorio e della terapia intensiva.«Nei nostri reparti – spiega il direttore sanitario Giuseppe Russo – si intrecciano storie che si legano in modo indissolubile all’impegno e alla grande professionalità del personale, al quale va sempre la nostra gratitudine. Mantenere un ritmo serrato nonostante le grandi difficoltà del Covid non è stato facile, ma nessuno dei nostri dipendenti si è mai tirato indietro. Tutti hanno sempre sostenuto e rispettato i protocolli messi in campo portando avanti un lavoro straordinario e di vitale importanza».
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2022/02/Trapianti-di-Fegato.jpeg7681024Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-02-09 12:31:302024-06-09 12:32:21Trapianti di fegato, il Cardarelli in prima linea
Il fiuto dei cani “batte” anche i test rapidi. Proprio così: gli amici a quattro zampe riconoscono le persone positive al Covid con una sensibilità del 98-100%, quindi superiore a quella dei ‘tradizionali’ test antigenici rapidi che è pari all’87%-98%. Si tratta dei cani da rilevamento al centro del progetto “Screendog” coordinato dall’Università Politecnica delle Marche (Univpm) e che coinvolge gli atenei di Macerata e Camerino (Unicam), unità sanitarie (una delle Marche e una della Sardegna) e cinofile. Lo studio “C19-screendog” ha validato un protocollo per l’addestramento di cani specializzati, dimostrando un valido sistema di screening diretto su persona, senza ricorrere al prelievo di campioni biologici.
Fiuto dei cani abbatte costi e tempi. Lo studio
La diagnosi di Covid-19 prevede esami e test invasivi che richiedono tempo e soprattutto costi. Recenti ricerche scientifiche pubblicate su prestigiose riviste internazionali hanno già dimostrato che i cani da rilevamento sono in grado di riconoscere campioni di sudore ascellare prelevati da soggetti positivi al Sars-Cov-2 con sensibilità e specificità comparabili o superiori a quella dei migliori test rapidi. Lo studio “C19-screendog” ha permesso di testare 1251 soggetti e di mostrare una sensibilità dei cani specializzati al rilevamento del Covid19 tra il 98 e il 100% (maggiore rispetto ai test antigienici rapidi che hanno una sensibilità di 87-98%).
Nella prima fase dello studio sono stati raccolti i campioni di sudore perl’imprinting nei drive in (AV3 Marche e ASSL Sassari): i campioni sono stati conservati nei laboratori di ricerca UNIVPM e ATS Sassari. Successivamente i cani sono stati educati dai cinofili a distinguere i campioni positivi (sedendosi) dai negativi. Infine, si è passati alla validazione del test ai drive in: questa fase conclusiva, la più importante, è stata fondamentale per dimostrare che i cani sono capaci di segnalare persone positive in una situazione reale dove non è più il campione di sudore ad essere annusato, ma la persona stessa.
In 5 mesi sono stati testati 1251 soggetti, tra vaccinati e non, di cui 206 positivi. “I risultati ottenuti sono sorprendenti – commentano gli autori – al di sopra delle aspettative”. Il grafico indica la sensibilità del test se eseguito da un solo cane o da due cani (quando il primo cane dava una risposta dubbia), messe a confronto con i test antigenici rapidi attualmente in uso.
Grazie alla collaborazione dei ricercatori veterinari di UNICAM, è stata inclusa nello studio l’analisi del benessere dei cani in tutte le fasi: nessun indicatore comportamentale di stress, stanchezza o esaurimento è stato rilevato durante tutte le fasi, inclusa la sessione di screening.
Questo è il primo studio in Italia in cui la validazione del test di screening con i cani da rilevamento è stata eseguita direttamente su persona (senza raccolta del campione di sudore) su una coorte numerosa di soggetti (1251). È anche il primo studio in cui si è valutata l’opportunità di usare due cani nella stessa seduta per aumentare la sensibilità del test che è fondamentale per lo screening di popolazione, obiettivo per il quale potrà essere utilizzato C19-screendog.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2022/02/IMG_8665.jpg9131296Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2022-02-09 10:28:162024-06-09 12:32:22Covid: fiuto dei cani riconosce casi positivi più dei test rapidi
Torna la raccolta del Banco Farmaceutico, iniziativa che vede in prima fila i farmacisti e, naturalmente, la solidarietà degli italiani nell’aiutare quanti non hanno la possibilità di acquistare medicinali. Così, la ventiduesima giornata di raccolta del farmaco coinvolgerà 5mila farmacie e oltre 17mila farmacisti in tutta Italia, che fino a lunedì 14, saranno impegnati nella raccolta dei farmaci da banco donati dai cittadini a beneficio delle persone bisognose. L’iniziativa è di quelle da sostenere a tutti i costi, anche solo con una piccola donazione, perché In Italia (nel 2021) circa 600mila persone in condizione di povertà sanitaria non hanno potuto acquistare i medicinali di cui avevano bisogno e sono state costrette a rinunciare a visite mediche e prestazioni sanitarie per motivi economici.
SOLIDARIETÀ
La Giornata di Raccolta del Farmaco in questi anni ha registrato un successo crescente, coinvolgendo un numero sempre maggiore di farmacie e riscuotendo sempre maggiori adesioni da parte dei cittadini. I farmacisti sono da sempre vicini a questa iniziativa, che esprime al meglio di un’intera categoria alla comunità e che testimonia quanto sia forte lo spirito di solidarietà nel nostro Paese. È necessario fare fronte comune per contrastare il drammatico fenomeno della povertà sanitaria che interessa sempre più famiglie, anche per effetto della crisi economica causata dalla pandemia. Chi è povero ha in media un budget sanitario pari a 10,25 euro, meno di 1/5 (17%) della spesa sanitaria di chi non è povero (60,96 euro mensili). Per le famiglie povere, inoltre, ben il 62% della spesa sanitaria (6,37 euro) è assorbita dai farmaci e solo il 7% (0,75 euro) è dedicata ai servizi dentistici. Questo determina esiti problematici, poiché ai servizi dentistici si ricorre spesso in funzione preventiva oltre che terapeutica. Le famiglie non povere, invece, destinano il 43% del proprio budget sanitario mensile (25,94 euro) all’acquisto di medicinali e il 21% ai servizi dentistici (12,6 euro). Sia i poveri, sia i non poveri, compiono un “investimento” o un “sacrificio” simile per tutelare la propria salute. Il peso della spesa sanitaria sul totale della spesa per consumi si attesta, per entrambi, su valori molto simili (2% vs. 1,6%) anche se con valori monetari molto distanti (60,96 euro vs. 10,25 euro).
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2017/02/image-18.jpeg449600Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-02-08 18:49:302024-06-09 12:32:24Torna la raccolta dei farmaci per i più bisognosi
Agire sulle disuguaglianze inasprite dalla pandemia, promuovere la salute e intervenire a livello globale: queste le principali proposte emerse dalla lezione magistrale tenuta da Sir Michael Marmot, direttore dell’Institute of health equity della University College di Londra. Marmot è intervenuto al 33esimo Congresso internazionale di medicina del lavoro e ha ribadito più volte il concetto di “salute come misura di successo sociale” ed ha affermato che “come individui, ognuno di noi può lavorare per creare comunità più coese e sostenibili in grado di ridurre le disuguaglianze di salute”.
L’evento in corso, organizzato dalla Commissione internazionale di salute occupazionale (ICOH) – la più antica e rappresentativa società scientifica internazionale nel settore – vedrà, fino al prossimo 10 febbraio, la partecipazione in modalità online di 1.400 persone provenienti da 93 Paesi. Il Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha parlato della salute dei lavoratori: “il COVID-19 ha messo in luce la necessità di un’azione unitaria in grado di rispondere alle nuove sfide in tema di sanità pubblica globale”. Tedros ha proseguito il suo discorso focalizzandosi sull’impegno dell’OMS nel garantire accessibilità globale ed equa dei servizi sanitari” ed enfatizzando il ruolo degli operatori sanitari nel corso della pandemia.
Anche il Ministro della Salute Roberto Speranza è intervenuto in occasione dell’apertura e ha affermato che “l’esperienza della pandemia ci ha insegnato che dobbiamo lavorare molto di più insieme, che abbiamo bisogno di un maggior dialogo sociale e cooperazione internazionale, investendo, in particolare, nel coniugare il valore del lavoro e della salute pubblica come aspetti chiave della sostenibilità dello sviluppo sociale e produttivo”.
Alla cerimonia inaugurale – presieduta dal Presidente dell’ICOH Jukka Takala e da SergioIavicoli, Direttore Generale della Comunicazione e dei Rapporti Europei ed Internazionali del ministero – è intervenuto anche il Direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) Guy Rider, ribadendo l’importanza della cooperazione internazionale.
Un sogno che diventa realtà, tornare a camminare dopo un grave incidente che ha lesionato la colonna vertebrale. È successo a Michel Roccati, trentenne italiano, che dopo 4 anni è riuscito ad alzarsi dalla sua sedia a rotelle. «Un’emozione incredibile, un sogno che si avvera», come ha comprensibilmente sottolineato lui stesso. Ma come ha fatto questo giovane a caminare nuovamente? La risposta è legata ad una nuova tecnologia controllata dall’intelligenza artificiale, impiantata con un complesso intervento chirurgico e basata, semplificando non poco, su un elettrodo capace di stimolare con impulsi elettrici il midollo danneggiato. Stando ai risultati di uno studio pubblicato su Nature Medicine, questo sistema è in grado di ripristinare il movimento in poche ore. E adesso Michel cammina anche per un chilometro, può restare in piedi per due ore, e insieme ad altri 2 pazienti è diventato protagonista di una prima scientifica. Ha affrontato un intenso allenamento dopo l’impianto. E come lui gli altri pazienti coinvolti nel progetto. Fra loro c’è chi è tornato persino a nuotare.
COME UN PACEMAKER
Gli impianti, realizzati al Politecnico di Losanna, stimolano l’area del midollo spinale che attiva i muscoli del busto e delle gambe, consentendo ai pazienti con paralisi completa di camminare. E’ necessaria una formazione approfondita per acquisire familiarità con l’utilizzo del sistema, ma i pazienti selezionano l’attività desiderata su un dispositivo simile a un tablet che invia un messaggio a un altro device simile a un pacemaker. Ulteriori ricerche su come questa tecnologia potrebbe essere utilizzata per altri tipi di condizioni neurologiche, come il morbo di Parkinson, dovrebbero essere pubblicate a breve, annuncia Gregoire Courtine, dell’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia, che ha co-diretto lo studio. I tre pazienti ‘pionieri’ – di età compresa tra i 29 e i 41 anni – hanno seguito un allenamento basato sui programmi di stimolazione e hanno potuto recuperare massa muscolare, muoversi in modo più autonomo e partecipare ad attività sociali come bere un drink in piedi al bar, spiegano gli esperti.
TRE SU TRE
«Tutti e tre i pazienti sono stati in grado di stare in piedi, camminare, pedalare, nuotare e controllare i movimenti del busto in un solo giorno, dopo che i loro impianti sono stati attivati», spiegano gli esperti. I ricercatori affermano che, ora che hanno la conoscenza necessaria e la tecnologia per ‘parlare’ con il midollo spinale, utilizzeranno tutto questo per affrontare il maggior numero possibile di problematiche, inclusa la stimolazione della vescica, delle braccia e delle «Questo grazie ai programmi di stimolazione specifici che abbiamo scritto per ogni tipo di attività – precisa l’esperto – I pazienti possono selezionare l’attività desiderata sul tablet e i protocolli corrispondenti vengono trasmessi al pacemaker nell’addome». Il prossimo passo è quello di creare un mini computer impiantato nel corpo e in grado di comunicare in tempo reale con un iPhone esterno. Gli scienziati affermano che, mentre i progressi ottenibili in un solo giorno sono sorprendenti, i guadagni dopo diversi mesi lo sono ancora di più.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2022/02/Paralizzato-torna-a-camminare.png727997Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-02-08 11:19:392024-06-09 12:32:27Paralizzato da 4 anni torna a camminare
L’obiettivo è misurare l’inadeguatezza dei sistemi alimentari dal punto di vista della salute e della sostenibilità. Per questo un gruppo di ricercatori del Politecnico di Torino ha creato nuovo indicatore, il Diet Gap. Lo studio è stato pubblicato su Nature Food. Le abitudini alimentari sono peculiari di ogni paese e quindi possono variare molto per ragioni legate al contesto storico, religioso, culturale, economico e sociale: “siamo quello che mangiamo”.
“Secondo le indicazioni della commissione EAT-Lancet – spiegano gli autori – dovremmo limitare il nostro consumo settimanale di carne rossa a un massimo di 200 grammi. In media globale, tuttavia, superiamo di 2,5 volte questa soglia; in Europa tale soglia viene superata di ben 4 volte con importanti ripercussioni sulla salute e sull’ambiente – commentano gli autori dell’articolo – Guardando invece al consumo di legumi il Diet Gap mette in luce un consumo ben inferiore alla quantità ideale (circa 100 grammi al giorno), soprattutto nei paesi più sviluppati, dove il consumo di ceci, fagioli, lenticchie risulta circa stagnante e sotto soglia fin dagli anni Sessanta”
“Il consumo di frutta e verdura mostra invece una dinamica più virtuosa – proseguono gli autori – dal momento che in molti paesi del mondo le soglie suggerite dalla commissione (300 grammi di verdura al giorno e 200 grammi di frutta) sono rispettate.” Tuttavia, gli autori evidenziano la problematica dei cosiddetti Food Deserts, i deserti alimentari che si trovano in alcune città nei paesi più sviluppati, dove il reperimento di frutta e verdura fresca risulta spesso molto difficile soprattutto per i più poveri.
Complessivamente, lo studio mostra come una transizione verso un sistema alimentare più sano implichi una transizione verso un sistema alimentare più sostenibile. “Se tutti i paesi adottassero la dieta EAT–Lancet, l’impronta idrica diminuirebbe del 12% a scala globale” commentano gli autori. Il cibo presenta infatti impronte idriche molto diverse: in Italia 200 grammi di lenticchie richiedono circa 900 litri di acqua, mentre 200 grammi di carne bovina ne richiedono più del doppio.
A conclusione dello studio, gli autori offrono un’ampia panoramica degli approcci utili ad innestare la transizione verso a una dieta sana e sostenibile. Tra essi vengono menzionati la sensibilizzazione dei consumatori e una corretta educazione, gli incentivi economici per superare le barriere di accesso a un mercato sano nei deserti alimentari delle città, la tassazione delle bibite gasate. Inoltre il miglioramento della refrigerazione, della trasformazione degli alimenti e l’imballaggio sostenibile offrono un contributo fondamentale per preservare l’ambiente e migliorare la salute pubblica. Come suggerito dalla Commissione, la dieta Lancet è stata concepita per essere il più versatile possibile e per includere e promuovere le diverse esperienze culinarie come opportunità per imparare nuovi modi di preparare diete sane e piacevoli (come dimostra la raccolta di ricette e consigli disponibile online).
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2022/02/mappa_impronta_idrica_nature_food_full.png379773Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2022-02-08 08:41:282024-06-09 12:32:30‘Diet Gap’: quali sono le abitudini alimentari inadeguate
“La maleducazione dei giovani diventa” un progetto dedicato ai temi della prevenzione, della sessualità, degli stili di vita e del rapporto con gli adulti. Il tutto grazie all’impegno della Fondazione PRO con il contributo di Fondazione Banco di Napoli, in collaborazione con la IV Municipalità. Rivolto a 1000 giovani dai 16 ai 19 anni, il progetto ha visto la partecipazione di alcuni tra i principali Istituti scolastici della città di Napoli. «Questo progetto ci ha dato modo di conoscere meglio i giovani, per capire come è possibile educarli nel modo più corretto. I dati emersi dalle survey hanno mostrato criticità nelle loro abitudini – dice Vincenzo Mirone, presidente di Fondazione PRO –. Solo un ragazzo su cinque si è sottoposto a una visita dall’urologo, il 65% non ha mai parlato di sessualità con i propri genitori». Un aspetto allarmante è poi quello che rileva la frequentazione di siti pornografici, con otto ragazzi su dieci che ammettono di “frequentarli”. I dati più preoccupanti, però, sono quelli relativi al consumo di alcool, droghe leggere e sigarette: il 25% delle ragazze e il 18% dei ragazzi fumano abitualmente, il 25% dei maschi e il 10% delle femmine ha fatto uso di droghe leggere e una giovane su tre e un ragazzo su due assumono regolarmente superalcolici. Inoltre, uno su quattro ha rapporti sessuali non protetti.
IL MESSAGGIO DA LANCIARE
L’iniziativa, suddivisa in tre fasi, ha visto inizialmente il coinvolgimento degli Istituti Secondari di II grado della IV Municipalità, con la presentazione del progetto; successivamente è stato somministrato agli alunni un questionario i cui dati sono stati elaborati e presentati alla stampa, unitamente a uno spot, scritto e diretto da Giuseppe Bucci e realizzato da Stefano De Martino, Biagio Izzo e Francesco Paolantoni, testimonial e ambasciatori del “messaggio educazionale” che Fondazione PRO ha voluto condividere con tutti i giovani. Gli incontri in presenza nelle scuole con gli alunni, step finale del progetto, sono stati senza dubbio il momento più significativo per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. «L’educazione sentimentale è anche educazione sessuale – spiega Rossella Paliotto, presidente Fondazione Banco di Napoli –. Il nostro obiettivo è sensibilizzare i ragazzi affinché siano in grado di comunicare con i genitori, di decidere responsabilmente cosa è meglio per loro senza farsi trascinare dal gruppo. La prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili è fondamentale, soprattutto in una fascia d’età come quella a cui ci siamo rivolti, in cui si pensa che nulla di male possa accadere. Come Fondazione Banco di Napoli siamo orgogliosi di aver partecipato a un’iniziativa che ha offerto un’opportunità a Napoli, partendo dal quartiere Forcella, di mostrare quanto virtuosa sappia essere». L’obiettivo è dunque quello di alfabetizzare ragazze e ragazzi sui sentimenti, per arrivare poi a parlare di sessualità. Il progetto è stato accolto con grande successo dai giovani, che hanno manifestato la necessità di approfondire questi argomenti, di parlarne con esperti, di capire come e a chi rivolgersi in caso di problemi. «Da qui la nostra ambizione – rivela Mirone – proporre un format che divenga un modello per l’intero Paese, portando l’educazione affettiva dentro i programmi scolastici, com’è attualmente per quella civica».
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2016/10/Alcolismo.jpg333499Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-02-07 16:55:232024-06-09 12:32:31Tanto alcol e siti porno, la foto shock dei ragazzi di oggi
I programmi che promuovono l’esercizio fisico migliorano il benessere fisico e mentale di chi ha superato la malattia. Lo dimostrano due nuove ricerche. Se fino ad oggi era risaputo che l’attività fisica avesse un ruolo cruciale nella prevenzione e nella cura di patologie croniche, incluso il cancro, un nuovo riscontro oggettivo dimostra quanto ciò possa fare la differenza. I risultati appena pubblicati di due studi dimostrano che le donne con una diagnosi di tumore del seno che prendono parte a programmi che promuovono l’esercizio fisico vedono migliorare la propria efficienza fisica e la qualità della vita, inclusa la salute mentale. Sulla base delle evidenze scientifiche, gli esperti raccomandano ai pazienti che hanno terminato le cure contro il cancro di svolgere almeno 150 minuti di attività aerobica di intensità moderata o 75 minuti di attività aerobica ad alta intensità e almeno due allenamenti di resistenza alla settimana per migliorare la salute generale.
Attività fisica dopo il cancro al seno. Gli studi
In un articolo pubblicato sulla rivista Cancer sono descritti i risultati ottenuti con un programma sviluppato negli Stati Uniti, chiamato Active Living After Cancer (ALAC). I ricercatori dell’Università del Texas che hanno condotto lo studio, hanno dimostrato che questo programma può funzionare anche per le persone tra cui abitualmente si registra un minor grado di aderenza alle terapie, come quelle con un basso livello di istruzione o con limitato accesso all’assistenza sanitaria.
Il programma consisteva in 12 sessioni di gruppo, una a settimana. A ogni incontro, per circa 45 minuti, una persona adeguatamente formata illustrava alcuni compiti cognitivi e comportamentali da portare a termine (come fissarsi degli obiettivi, trovare sostegno sociale o identificare luoghi della propria comunità in cui svolgere attività fisica); per una decina di minuti si faceva esercizio (per esempio zumba, pallavolo o anche solo passeggiate) e nell’ultima mezz’ora dell’incontro si parlava di argomenti legati alla condizione di ex pazienti di tumore (per esempio la nutrizione, lo stress emotivo, la fatigue). Al termine delle 12 settimane, la resistenza all’attività fisica (valutata misurando la distanza percorsa in 6 minuti di cammino e il numero di volte in cui le pazienti si alzavano e si risedevano sulla sedia in 30 secondi) e la qualità di vita mentale e fisica (valutate con un questionario) erano oggettivamente migliorate.
Un’altra conseguenza spiacevole del tumore al seno è la ridotta mobilità del braccio e dell’ascella che può comparire dopo l’intervento chirurgico e la radioterapia. Anche in questo caso l’attività fisica può venire in aiuto. I risultati di un altro studio PROSPER, pubblicati sul British Medical Journal, mostrano che le donne con tumore della mammella che iniziano un programma di fisioterapia poco dopo aver subito un intervento chirurgico non ricostruttivo riacquistano maggiore mobilità e sentono meno dolore rispetto a quelle che non lo fanno.
Lo studio PROSPER è stato condotto in 17 strutture del Regno Unito e ha coinvolto 392 pazienti. Alle partecipanti erano offerte 3-6 sessioni a tu per tu con un fisioterapista, la prima a 7-10 giorni dall’intervento chirurgico. I risultati dimostrano che a distanza di un anno la funzionalità dell’arto superiore era migliore nel gruppo di pazienti coinvolte nel programma rispetto a quelle del gruppo controllo (che non avevano ricevuto trattamenti). Le prime provavano anche meno dolore e minori sintomi di disabilità. Uno dei problemi legati all’introduzione dei programmi di questo tipo è il costo. Tuttavia un’analisi mostra che le spese da sostenere per ovviare ai problemi di salute delle donne che non avevano aderito al programma erano superiori a quelle sostenute per attivare il piano di intervento stesso.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2016/12/image-1.jpeg296321Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2022-02-07 13:39:092024-06-09 12:32:33Sport dopo cancro al seno: studi dimostrano benefici
Nati da madri positive al virus e forse, proprio per questo, immuni. È una generazione in grande aumento quella dei “figli del Covid”stando ai dati della rilevazione della Federazione Italiana delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso) e relativa alla settimana dal 25 gennaio al 1 febbraio in 8 ospedali sentinella. In soli sette giorni la percentuale di donne in gravidanza ricoverate nelle aree Covid di Ginecologia e Ostetricia ed entrate in sala parto è cresciuta fino al 26%. Tra le positive al momento del parto, il 49% non era vaccinato. È stata analizzata, inoltre, la condizione vaccinale di tutte le partorienti, positive e non: le vaccinate erano solo il 55%. Di contro, il 45% non aveva fatto la profilassi nonostante sia raccomandata. Su un totale di 251 parti monitorati nelle 8 strutture sanitarie sentinella 65 sono avvenuti in area Covid. Complessivamente, dunque, il 26% delle gravide ha contratto l’infezione da Sars-Cov-2 e ha partorito con il Covid.
POSSIBILE IMMUNITÀ
Pochissimi in tutto il mondo sono i casi nei quali è stato possibile accertare una positività del bambino trasmessa già in utero, invece una delle evidenze che sembra essere ormai certa è che attraverso la placenta, queste madri potrebbero essere in grado di fornire anticorpi protettivi al loro bambino non ancora nato. L’attenzione degli scienziati si è concertata sulla ricerca di anticorpi nei campioni di sangue della madre e nel sangue del cordone ombelicale – dalla placenta e dal cordone ombelicale attaccato – immediatamente dopo il travaglio. Il sangue del cordone ombelicale è un riflesso accurato del sangue del neonato al momento della nascita. Nell’87% dei casi le analisi hanno riscontrato nel sangue dei neonati la presenza di anticorpi. Altri studi guardano al latte materno, grazie al quale i bambini nati da madri positive svilupperebbero anticorpi che li proteggono dal virus.
NON VACCINATE
Stando sempre ai dati Fiaso, tra le donne risultate positive al momento del parto, il 49% non era vaccinato e l’11% aveva sviluppato sintomi respiratori e polmonari tipici della malattia da Covid. È stata analizzata, inoltre, la condizione vaccinale di tutte le partorienti, sia le donne positive al virus sia le donne senza infezione: la percentuale delle vaccinate era solo del 55%. Di contro, il 45% delle donne in attesa e in procinto di partorire non aveva ancora fatto la profilassi vaccinale contro il virus Sars-Cov-2, nonostante sia raccomandato dal Ministero della Salute e dalle società scientifiche dei ginecologi e dei pediatri. Per il presidente di Fiaso, Giovanni Migliore: «Occorre più che mai rivolgere un appello non solo a mamme e papà, ma anche e soprattutto ai medici, in particolare i ginecologi, che seguono le gravidanze e con i quali le future madri hanno un rapporto di fiducia: avviino una campagna seria di sensibilizzazione per fugare i dubbi delle donne sulla sicurezza del vaccino e convincerle a vaccinarsi».
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2016/12/image-12.jpeg362644Redazione PreSahttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngRedazione PreSa2022-02-07 10:25:362024-06-09 12:32:34Aumentano i bambini nati da madri positive in gravidanza
Circa la metà di quanti bevono e poi guidano rischiano di oltrepassare i limiti imposti per legge perché sottostimano le quantità. Lo dimostra un’indagine sul rapporto alcol e guida, realizzata in collaborazione tra l’università di Cambridge (Inghilterra) e quella di Witten/Herdecke (Germania) sotto la direzione del dottor Kai Hensel. I risultati sono stati pubblicati su The Harm Reduction Journal. Lo studio fa prima la conta di quanto micidiali possano essere gli esiti di questa sottostima: tra i 5 e i 29 anni la prima causa di morte sono gli incidenti stradali e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che la principale causa è legata all’abuso di alcol.
Alcol e guida: errori di percezione dal 39 al 53 per cento. Lo studio
Chi si mette alla guida con un tasso alcolemico alto, fatica a tenere la carreggiata, ha i riflessi appannati e tende a fare manovre azzardate che a mente lucida non farebbe, perché l’alcol aumenta la fiducia in sé. Il team di ricercatori ha realizzato questo esperimento con 90 studenti di età media 24 anni, misti maschi e femmine, i quali sono stati invitati a bere vino, birra o ambedue, finché la concentrazione alcolica nell’aria espirata non ha raggiunto lo 0,11 per cento (Brac). Dopo essere stati controllati con l’etilometro, ad ognuno è stato chiesto se riteneva di essere dentro i limiti di legge. È emerso che il 39 per cento si sentiva a posto mentre il suo tasso di alcolemia era oltre il limite. Un’altra prova simile è stata fatta in un’altra giornata ed è risultato che ben il 53 per cento di quanti si ritenevano sotto il limite di legge erano invece ben al di sopra. L’esame è stato condotto in Germania dove il limite alcolimetrico per la guida è di 0,05 per cento (nel Regno Unito di 0,08 per cento). In altre parole, dai risultati emerge che una persona su due si sbaglia, sovrastimando il suo grado di lucidità.
https://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2020/01/Alcol-un-allarme-sociale.jpg480640Sofia Gorgonihttps://prevenzione-salute.com/wp-content/uploads/2024/04/prevenzione-e-salute-1.pngSofia Gorgoni2022-02-07 08:27:462024-06-09 12:32:36Alcol e guida: 1 su 2 sottostima quantità. Fino ai 29 anni prima causa di morte
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Trapianti di fegato, il Cardarelli in prima linea
News PresaNon si ferma l’attività trapiantologica del Cardarelli di Napoli, mai venuta meno nonostante le grandi difficoltà legate al Covid. In un mese sono già 6 gli interventi portati a termine dai chirurghi delle équipes del Dipartimento Trapianti e dell’Unità Operativa Complessa Terapia Intensiva Fegato (UTIF). Interventi possibili grazie alla generosità di chi ha scelto di donare. «Nonostante l’impatto della pandemia – ricorda il direttore generale Giuseppe Longo – il Cardarelli non ha mai ridotto l’attività nell’ambito dell’emergenza-urgenza, che resta un punto d’eccellenza di questa Azienda Ospedaliera. Le attività chirurgiche, e non solo quelle, ci confortano negli sforzi fatti e consentono di fissare nuovi obiettivi sempre più ambiziosi, in linea con la programmazione regionale che punta ad una sanità d’eccellenza». Oltre alla solidarietà e all’altruismo c’è poi da sottolineare il grande lavoro e l’organizzazione messa in piedi dalla direzione strategica che qualifica l’Azienda Ospedaliera partenopea come polo di riferimento regionale e non solo per l’emergenza urgenza, con un’attività di trapianti in crescita nonostante il Covid.
IN PRIMA LINEA
Oltre al direttore di dipartimento Ciro Esposito, il capo équipe Gianni Vennarecci (direttore del Reparto Chirurgia Epatobiliare e Trapianto di Fegato), il direttore dell’Unità Operativa Complessa di Epatologia Giovanni Di Costanzo e l’epatologo Alfonso Galeota Lanza. Ma sono anche molti altri i nomi delle donne e degli uomini che ogni giorno regalano speranza a pazienti che altrimenti non avrebbero alcuna chance: Antonio Ceriello, Giuseppe Aragiusto, Giuseppe Arenga, Luca Campanella, Marcello Di Martino, Federica Falaschi, Daniele Ferraro, Simona Giordano, Alessandro Iacomino, Marilisa Maniscalco. E ancora, Carla Migliaccio, Francesco Orlando, Donatella Pisaniello, Walter Santaniello e Alfonso Terrone. Ai quali si aggiungono le equipes di anestesisti con Vittoria Amatucci, Gaetano Azan, Margherita Caggiano, Carmen Chierego, Luigi D’Alessio, Ada De Felice, Marianna Esposito, Giorgia Granato, Angela Grasso, Nicola Lisco, Raffaele Montesano, Giovanna Tozzi ed Elsa Maria Verniero. Nei giorni scorsi, con due interventi durati cinque ore sono stati realizzati due trapianti consecutivi, due operazioni che hanno restituito speranza e nuova vita ad altrettanti pazienti che la speranza l’avevano ormai persa. Imprescindibile anche il lavoro di tutti gli infermieri del complesso operatorio e della terapia intensiva.«Nei nostri reparti – spiega il direttore sanitario Giuseppe Russo – si intrecciano storie che si legano in modo indissolubile all’impegno e alla grande professionalità del personale, al quale va sempre la nostra gratitudine. Mantenere un ritmo serrato nonostante le grandi difficoltà del Covid non è stato facile, ma nessuno dei nostri dipendenti si è mai tirato indietro. Tutti hanno sempre sostenuto e rispettato i protocolli messi in campo portando avanti un lavoro straordinario e di vitale importanza».
Covid: fiuto dei cani riconosce casi positivi più dei test rapidi
PrevenzioneIl fiuto dei cani “batte” anche i test rapidi. Proprio così: gli amici a quattro zampe riconoscono le persone positive al Covid con una sensibilità del 98-100%, quindi superiore a quella dei ‘tradizionali’ test antigenici rapidi che è pari all’87%-98%. Si tratta dei cani da rilevamento al centro del progetto “Screendog” coordinato dall’Università Politecnica delle Marche (Univpm) e che coinvolge gli atenei di Macerata e Camerino (Unicam), unità sanitarie (una delle Marche e una della Sardegna) e cinofile. Lo studio “C19-screendog” ha validato un protocollo per l’addestramento di cani specializzati, dimostrando un valido sistema di screening diretto su persona, senza ricorrere al prelievo di campioni biologici.
Fiuto dei cani abbatte costi e tempi. Lo studio
La diagnosi di Covid-19 prevede esami e test invasivi che richiedono tempo e soprattutto costi. Recenti ricerche scientifiche pubblicate su prestigiose riviste internazionali hanno già dimostrato che i cani da rilevamento sono in grado di riconoscere campioni di sudore ascellare prelevati da soggetti positivi al Sars-Cov-2 con sensibilità e specificità comparabili o superiori a quella dei migliori test rapidi. Lo studio “C19-screendog” ha permesso di testare 1251 soggetti e di mostrare una sensibilità dei cani specializzati al rilevamento del Covid19 tra il 98 e il 100% (maggiore rispetto ai test antigienici rapidi che hanno una sensibilità di 87-98%).
Nella prima fase dello studio sono stati raccolti i campioni di sudore per l’imprinting nei drive in (AV3 Marche e ASSL Sassari): i campioni sono stati conservati nei laboratori di ricerca UNIVPM e ATS Sassari. Successivamente i cani sono stati educati dai cinofili a distinguere i campioni positivi (sedendosi) dai negativi. Infine, si è passati alla validazione del test ai drive in: questa fase conclusiva, la più importante, è stata fondamentale per dimostrare che i cani sono capaci di segnalare persone positive in una situazione reale dove non è più il campione di sudore ad essere annusato, ma la persona stessa.
In 5 mesi sono stati testati 1251 soggetti, tra vaccinati e non, di cui 206 positivi. “I risultati ottenuti sono sorprendenti – commentano gli autori – al di sopra delle aspettative”. Il grafico indica la sensibilità del test se eseguito da un solo cane o da due cani (quando il primo cane dava una risposta dubbia), messe a confronto con i test antigenici rapidi attualmente in uso.
Grazie alla collaborazione dei ricercatori veterinari di UNICAM, è stata inclusa nello studio l’analisi del benessere dei cani in tutte le fasi: nessun indicatore comportamentale di stress, stanchezza o esaurimento è stato rilevato durante tutte le fasi, inclusa la sessione di screening.
Questo è il primo studio in Italia in cui la validazione del test di screening con i cani da rilevamento è stata eseguita direttamente su persona (senza raccolta del campione di sudore) su una coorte numerosa di soggetti (1251). È anche il primo studio in cui si è valutata l’opportunità di usare due cani nella stessa seduta per aumentare la sensibilità del test che è fondamentale per lo screening di popolazione, obiettivo per il quale potrà essere utilizzato C19-screendog.
Torna la raccolta dei farmaci per i più bisognosi
FarmaceuticaTorna la raccolta del Banco Farmaceutico, iniziativa che vede in prima fila i farmacisti e, naturalmente, la solidarietà degli italiani nell’aiutare quanti non hanno la possibilità di acquistare medicinali. Così, la ventiduesima giornata di raccolta del farmaco coinvolgerà 5mila farmacie e oltre 17mila farmacisti in tutta Italia, che fino a lunedì 14, saranno impegnati nella raccolta dei farmaci da banco donati dai cittadini a beneficio delle persone bisognose. L’iniziativa è di quelle da sostenere a tutti i costi, anche solo con una piccola donazione, perché In Italia (nel 2021) circa 600mila persone in condizione di povertà sanitaria non hanno potuto acquistare i medicinali di cui avevano bisogno e sono state costrette a rinunciare a visite mediche e prestazioni sanitarie per motivi economici.
SOLIDARIETÀ
La Giornata di Raccolta del Farmaco in questi anni ha registrato un successo crescente, coinvolgendo un numero sempre maggiore di farmacie e riscuotendo sempre maggiori adesioni da parte dei cittadini. I farmacisti sono da sempre vicini a questa iniziativa, che esprime al meglio di un’intera categoria alla comunità e che testimonia quanto sia forte lo spirito di solidarietà nel nostro Paese. È necessario fare fronte comune per contrastare il drammatico fenomeno della povertà sanitaria che interessa sempre più famiglie, anche per effetto della crisi economica causata dalla pandemia. Chi è povero ha in media un budget sanitario pari a 10,25 euro, meno di 1/5 (17%) della spesa sanitaria di chi non è povero (60,96 euro mensili). Per le famiglie povere, inoltre, ben il 62% della spesa sanitaria (6,37 euro) è assorbita dai farmaci e solo il 7% (0,75 euro) è dedicata ai servizi dentistici. Questo determina esiti problematici, poiché ai servizi dentistici si ricorre spesso in funzione preventiva oltre che terapeutica. Le famiglie non povere, invece, destinano il 43% del proprio budget sanitario mensile (25,94 euro) all’acquisto di medicinali e il 21% ai servizi dentistici (12,6 euro). Sia i poveri, sia i non poveri, compiono un “investimento” o un “sacrificio” simile per tutelare la propria salute. Il peso della spesa sanitaria sul totale della spesa per consumi si attesta, per entrambi, su valori molto simili (2% vs. 1,6%) anche se con valori monetari molto distanti (60,96 euro vs. 10,25 euro).
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Medicina del lavoro: “disuguaglianze inasprite dalla pandemia”
News PresaAgire sulle disuguaglianze inasprite dalla pandemia, promuovere la salute e intervenire a livello globale: queste le principali proposte emerse dalla lezione magistrale tenuta da Sir Michael Marmot, direttore dell’Institute of health equity della University College di Londra. Marmot è intervenuto al 33esimo Congresso internazionale di medicina del lavoro e ha ribadito più volte il concetto di “salute come misura di successo sociale” ed ha affermato che “come individui, ognuno di noi può lavorare per creare comunità più coese e sostenibili in grado di ridurre le disuguaglianze di salute”.
L’evento in corso, organizzato dalla Commissione internazionale di salute occupazionale (ICOH) – la più antica e rappresentativa società scientifica internazionale nel settore – vedrà, fino al prossimo 10 febbraio, la partecipazione in modalità online di 1.400 persone provenienti da 93 Paesi. Il Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha parlato della salute dei lavoratori: “il COVID-19 ha messo in luce la necessità di un’azione unitaria in grado di rispondere alle nuove sfide in tema di sanità pubblica globale”. Tedros ha proseguito il suo discorso focalizzandosi sull’impegno dell’OMS nel garantire accessibilità globale ed equa dei servizi sanitari” ed enfatizzando il ruolo degli operatori sanitari nel corso della pandemia.
Anche il Ministro della Salute Roberto Speranza è intervenuto in occasione dell’apertura e ha affermato che “l’esperienza della pandemia ci ha insegnato che dobbiamo lavorare molto di più insieme, che abbiamo bisogno di un maggior dialogo sociale e cooperazione internazionale, investendo, in particolare, nel coniugare il valore del lavoro e della salute pubblica come aspetti chiave della sostenibilità dello sviluppo sociale e produttivo”.
Alla cerimonia inaugurale – presieduta dal Presidente dell’ICOH Jukka Takala e da Sergio Iavicoli, Direttore Generale della Comunicazione e dei Rapporti Europei ed Internazionali del ministero – è intervenuto anche il Direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) Guy Rider, ribadendo l’importanza della cooperazione internazionale.
Paralizzato da 4 anni torna a camminare
Ricerca innovazioneUn sogno che diventa realtà, tornare a camminare dopo un grave incidente che ha lesionato la colonna vertebrale. È successo a Michel Roccati, trentenne italiano, che dopo 4 anni è riuscito ad alzarsi dalla sua sedia a rotelle. «Un’emozione incredibile, un sogno che si avvera», come ha comprensibilmente sottolineato lui stesso. Ma come ha fatto questo giovane a caminare nuovamente? La risposta è legata ad una nuova tecnologia controllata dall’intelligenza artificiale, impiantata con un complesso intervento chirurgico e basata, semplificando non poco, su un elettrodo capace di stimolare con impulsi elettrici il midollo danneggiato. Stando ai risultati di uno studio pubblicato su Nature Medicine, questo sistema è in grado di ripristinare il movimento in poche ore. E adesso Michel cammina anche per un chilometro, può restare in piedi per due ore, e insieme ad altri 2 pazienti è diventato protagonista di una prima scientifica. Ha affrontato un intenso allenamento dopo l’impianto. E come lui gli altri pazienti coinvolti nel progetto. Fra loro c’è chi è tornato persino a nuotare.
COME UN PACEMAKER
Gli impianti, realizzati al Politecnico di Losanna, stimolano l’area del midollo spinale che attiva i muscoli del busto e delle gambe, consentendo ai pazienti con paralisi completa di camminare. E’ necessaria una formazione approfondita per acquisire familiarità con l’utilizzo del sistema, ma i pazienti selezionano l’attività desiderata su un dispositivo simile a un tablet che invia un messaggio a un altro device simile a un pacemaker. Ulteriori ricerche su come questa tecnologia potrebbe essere utilizzata per altri tipi di condizioni neurologiche, come il morbo di Parkinson, dovrebbero essere pubblicate a breve, annuncia Gregoire Courtine, dell’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia, che ha co-diretto lo studio. I tre pazienti ‘pionieri’ – di età compresa tra i 29 e i 41 anni – hanno seguito un allenamento basato sui programmi di stimolazione e hanno potuto recuperare massa muscolare, muoversi in modo più autonomo e partecipare ad attività sociali come bere un drink in piedi al bar, spiegano gli esperti.
TRE SU TRE
«Tutti e tre i pazienti sono stati in grado di stare in piedi, camminare, pedalare, nuotare e controllare i movimenti del busto in un solo giorno, dopo che i loro impianti sono stati attivati», spiegano gli esperti. I ricercatori affermano che, ora che hanno la conoscenza necessaria e la tecnologia per ‘parlare’ con il midollo spinale, utilizzeranno tutto questo per affrontare il maggior numero possibile di problematiche, inclusa la stimolazione della vescica, delle braccia e delle «Questo grazie ai programmi di stimolazione specifici che abbiamo scritto per ogni tipo di attività – precisa l’esperto – I pazienti possono selezionare l’attività desiderata sul tablet e i protocolli corrispondenti vengono trasmessi al pacemaker nell’addome». Il prossimo passo è quello di creare un mini computer impiantato nel corpo e in grado di comunicare in tempo reale con un iPhone esterno. Gli scienziati affermano che, mentre i progressi ottenibili in un solo giorno sono sorprendenti, i guadagni dopo diversi mesi lo sono ancora di più.
‘Diet Gap’: quali sono le abitudini alimentari inadeguate
AlimentazioneL’obiettivo è misurare l’inadeguatezza dei sistemi alimentari dal punto di vista della salute e della sostenibilità. Per questo un gruppo di ricercatori del Politecnico di Torino ha creato nuovo indicatore, il Diet Gap. Lo studio è stato pubblicato su Nature Food. Le abitudini alimentari sono peculiari di ogni paese e quindi possono variare molto per ragioni legate al contesto storico, religioso, culturale, economico e sociale: “siamo quello che mangiamo”.
“Secondo le indicazioni della commissione EAT-Lancet – spiegano gli autori – dovremmo limitare il nostro consumo settimanale di carne rossa a un massimo di 200 grammi. In media globale, tuttavia, superiamo di 2,5 volte questa soglia; in Europa tale soglia viene superata di ben 4 volte con importanti ripercussioni sulla salute e sull’ambiente – commentano gli autori dell’articolo – Guardando invece al consumo di legumi il Diet Gap mette in luce un consumo ben inferiore alla quantità ideale (circa 100 grammi al giorno), soprattutto nei paesi più sviluppati, dove il consumo di ceci, fagioli, lenticchie risulta circa stagnante e sotto soglia fin dagli anni Sessanta”
“Il consumo di frutta e verdura mostra invece una dinamica più virtuosa – proseguono gli autori – dal momento che in molti paesi del mondo le soglie suggerite dalla commissione (300 grammi di verdura al giorno e 200 grammi di frutta) sono rispettate.” Tuttavia, gli autori evidenziano la problematica dei cosiddetti Food Deserts, i deserti alimentari che si trovano in alcune città nei paesi più sviluppati, dove il reperimento di frutta e verdura fresca risulta spesso molto difficile soprattutto per i più poveri.
Complessivamente, lo studio mostra come una transizione verso un sistema alimentare più sano implichi una transizione verso un sistema alimentare più sostenibile. “Se tutti i paesi adottassero la dieta EAT–Lancet, l’impronta idrica diminuirebbe del 12% a scala globale” commentano gli autori. Il cibo presenta infatti impronte idriche molto diverse: in Italia 200 grammi di lenticchie richiedono circa 900 litri di acqua, mentre 200 grammi di carne bovina ne richiedono più del doppio.
A conclusione dello studio, gli autori offrono un’ampia panoramica degli approcci utili ad innestare la transizione verso a una dieta sana e sostenibile. Tra essi vengono menzionati la sensibilizzazione dei consumatori e una corretta educazione, gli incentivi economici per superare le barriere di accesso a un mercato sano nei deserti alimentari delle città, la tassazione delle bibite gasate. Inoltre il miglioramento della refrigerazione, della trasformazione degli alimenti e l’imballaggio sostenibile offrono un contributo fondamentale per preservare l’ambiente e migliorare la salute pubblica. Come suggerito dalla Commissione, la dieta Lancet è stata concepita per essere il più versatile possibile e per includere e promuovere le diverse esperienze culinarie come opportunità per imparare nuovi modi di preparare diete sane e piacevoli (come dimostra la raccolta di ricette e consigli disponibile online).
Tanto alcol e siti porno, la foto shock dei ragazzi di oggi
Stili di vita“La maleducazione dei giovani diventa” un progetto dedicato ai temi della prevenzione, della sessualità, degli stili di vita e del rapporto con gli adulti. Il tutto grazie all’impegno della Fondazione PRO con il contributo di Fondazione Banco di Napoli, in collaborazione con la IV Municipalità. Rivolto a 1000 giovani dai 16 ai 19 anni, il progetto ha visto la partecipazione di alcuni tra i principali Istituti scolastici della città di Napoli. «Questo progetto ci ha dato modo di conoscere meglio i giovani, per capire come è possibile educarli nel modo più corretto. I dati emersi dalle survey hanno mostrato criticità nelle loro abitudini – dice Vincenzo Mirone, presidente di Fondazione PRO –. Solo un ragazzo su cinque si è sottoposto a una visita dall’urologo, il 65% non ha mai parlato di sessualità con i propri genitori». Un aspetto allarmante è poi quello che rileva la frequentazione di siti pornografici, con otto ragazzi su dieci che ammettono di “frequentarli”. I dati più preoccupanti, però, sono quelli relativi al consumo di alcool, droghe leggere e sigarette: il 25% delle ragazze e il 18% dei ragazzi fumano abitualmente, il 25% dei maschi e il 10% delle femmine ha fatto uso di droghe leggere e una giovane su tre e un ragazzo su due assumono regolarmente superalcolici. Inoltre, uno su quattro ha rapporti sessuali non protetti.
IL MESSAGGIO DA LANCIARE
L’iniziativa, suddivisa in tre fasi, ha visto inizialmente il coinvolgimento degli Istituti Secondari di II grado della IV Municipalità, con la presentazione del progetto; successivamente è stato somministrato agli alunni un questionario i cui dati sono stati elaborati e presentati alla stampa, unitamente a uno spot, scritto e diretto da Giuseppe Bucci e realizzato da Stefano De Martino, Biagio Izzo e Francesco Paolantoni, testimonial e ambasciatori del “messaggio educazionale” che Fondazione PRO ha voluto condividere con tutti i giovani. Gli incontri in presenza nelle scuole con gli alunni, step finale del progetto, sono stati senza dubbio il momento più significativo per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. «L’educazione sentimentale è anche educazione sessuale – spiega Rossella Paliotto, presidente Fondazione Banco di Napoli –. Il nostro obiettivo è sensibilizzare i ragazzi affinché siano in grado di comunicare con i genitori, di decidere responsabilmente cosa è meglio per loro senza farsi trascinare dal gruppo. La prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili è fondamentale, soprattutto in una fascia d’età come quella a cui ci siamo rivolti, in cui si pensa che nulla di male possa accadere. Come Fondazione Banco di Napoli siamo orgogliosi di aver partecipato a un’iniziativa che ha offerto un’opportunità a Napoli, partendo dal quartiere Forcella, di mostrare quanto virtuosa sappia essere». L’obiettivo è dunque quello di alfabetizzare ragazze e ragazzi sui sentimenti, per arrivare poi a parlare di sessualità. Il progetto è stato accolto con grande successo dai giovani, che hanno manifestato la necessità di approfondire questi argomenti, di parlarne con esperti, di capire come e a chi rivolgersi in caso di problemi. «Da qui la nostra ambizione – rivela Mirone – proporre un format che divenga un modello per l’intero Paese, portando l’educazione affettiva dentro i programmi scolastici, com’è attualmente per quella civica».
Sport dopo cancro al seno: studi dimostrano benefici
News Presa, Prevenzione, SportI programmi che promuovono l’esercizio fisico migliorano il benessere fisico e mentale di chi ha superato la malattia. Lo dimostrano due nuove ricerche. Se fino ad oggi era risaputo che l’attività fisica avesse un ruolo cruciale nella prevenzione e nella cura di patologie croniche, incluso il cancro, un nuovo riscontro oggettivo dimostra quanto ciò possa fare la differenza. I risultati appena pubblicati di due studi dimostrano che le donne con una diagnosi di tumore del seno che prendono parte a programmi che promuovono l’esercizio fisico vedono migliorare la propria efficienza fisica e la qualità della vita, inclusa la salute mentale. Sulla base delle evidenze scientifiche, gli esperti raccomandano ai pazienti che hanno terminato le cure contro il cancro di svolgere almeno 150 minuti di attività aerobica di intensità moderata o 75 minuti di attività aerobica ad alta intensità e almeno due allenamenti di resistenza alla settimana per migliorare la salute generale.
Attività fisica dopo il cancro al seno. Gli studi
In un articolo pubblicato sulla rivista Cancer sono descritti i risultati ottenuti con un programma sviluppato negli Stati Uniti, chiamato Active Living After Cancer (ALAC). I ricercatori dell’Università del Texas che hanno condotto lo studio, hanno dimostrato che questo programma può funzionare anche per le persone tra cui abitualmente si registra un minor grado di aderenza alle terapie, come quelle con un basso livello di istruzione o con limitato accesso all’assistenza sanitaria.
Il programma consisteva in 12 sessioni di gruppo, una a settimana. A ogni incontro, per circa 45 minuti, una persona adeguatamente formata illustrava alcuni compiti cognitivi e comportamentali da portare a termine (come fissarsi degli obiettivi, trovare sostegno sociale o identificare luoghi della propria comunità in cui svolgere attività fisica); per una decina di minuti si faceva esercizio (per esempio zumba, pallavolo o anche solo passeggiate) e nell’ultima mezz’ora dell’incontro si parlava di argomenti legati alla condizione di ex pazienti di tumore (per esempio la nutrizione, lo stress emotivo, la fatigue). Al termine delle 12 settimane, la resistenza all’attività fisica (valutata misurando la distanza percorsa in 6 minuti di cammino e il numero di volte in cui le pazienti si alzavano e si risedevano sulla sedia in 30 secondi) e la qualità di vita mentale e fisica (valutate con un questionario) erano oggettivamente migliorate.
Un’altra conseguenza spiacevole del tumore al seno è la ridotta mobilità del braccio e dell’ascella che può comparire dopo l’intervento chirurgico e la radioterapia. Anche in questo caso l’attività fisica può venire in aiuto. I risultati di un altro studio PROSPER, pubblicati sul British Medical Journal, mostrano che le donne con tumore della mammella che iniziano un programma di fisioterapia poco dopo aver subito un intervento chirurgico non ricostruttivo riacquistano maggiore mobilità e sentono meno dolore rispetto a quelle che non lo fanno.
Lo studio PROSPER è stato condotto in 17 strutture del Regno Unito e ha coinvolto 392 pazienti. Alle partecipanti erano offerte 3-6 sessioni a tu per tu con un fisioterapista, la prima a 7-10 giorni dall’intervento chirurgico. I risultati dimostrano che a distanza di un anno la funzionalità dell’arto superiore era migliore nel gruppo di pazienti coinvolte nel programma rispetto a quelle del gruppo controllo (che non avevano ricevuto trattamenti). Le prime provavano anche meno dolore e minori sintomi di disabilità. Uno dei problemi legati all’introduzione dei programmi di questo tipo è il costo. Tuttavia un’analisi mostra che le spese da sostenere per ovviare ai problemi di salute delle donne che non avevano aderito al programma erano superiori a quelle sostenute per attivare il piano di intervento stesso.
Aumentano i bambini nati da madri positive in gravidanza
News PresaNati da madri positive al virus e forse, proprio per questo, immuni. È una generazione in grande aumento quella dei “figli del Covid”stando ai dati della rilevazione della Federazione Italiana delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso) e relativa alla settimana dal 25 gennaio al 1 febbraio in 8 ospedali sentinella. In soli sette giorni la percentuale di donne in gravidanza ricoverate nelle aree Covid di Ginecologia e Ostetricia ed entrate in sala parto è cresciuta fino al 26%. Tra le positive al momento del parto, il 49% non era vaccinato. È stata analizzata, inoltre, la condizione vaccinale di tutte le partorienti, positive e non: le vaccinate erano solo il 55%. Di contro, il 45% non aveva fatto la profilassi nonostante sia raccomandata. Su un totale di 251 parti monitorati nelle 8 strutture sanitarie sentinella 65 sono avvenuti in area Covid. Complessivamente, dunque, il 26% delle gravide ha contratto l’infezione da Sars-Cov-2 e ha partorito con il Covid.
POSSIBILE IMMUNITÀ
Pochissimi in tutto il mondo sono i casi nei quali è stato possibile accertare una positività del bambino trasmessa già in utero, invece una delle evidenze che sembra essere ormai certa è che attraverso la placenta, queste madri potrebbero essere in grado di fornire anticorpi protettivi al loro bambino non ancora nato. L’attenzione degli scienziati si è concertata sulla ricerca di anticorpi nei campioni di sangue della madre e nel sangue del cordone ombelicale – dalla placenta e dal cordone ombelicale attaccato – immediatamente dopo il travaglio. Il sangue del cordone ombelicale è un riflesso accurato del sangue del neonato al momento della nascita. Nell’87% dei casi le analisi hanno riscontrato nel sangue dei neonati la presenza di anticorpi. Altri studi guardano al latte materno, grazie al quale i bambini nati da madri positive svilupperebbero anticorpi che li proteggono dal virus.
NON VACCINATE
Stando sempre ai dati Fiaso, tra le donne risultate positive al momento del parto, il 49% non era vaccinato e l’11% aveva sviluppato sintomi respiratori e polmonari tipici della malattia da Covid. È stata analizzata, inoltre, la condizione vaccinale di tutte le partorienti, sia le donne positive al virus sia le donne senza infezione: la percentuale delle vaccinate era solo del 55%. Di contro, il 45% delle donne in attesa e in procinto di partorire non aveva ancora fatto la profilassi vaccinale contro il virus Sars-Cov-2, nonostante sia raccomandato dal Ministero della Salute e dalle società scientifiche dei ginecologi e dei pediatri. Per il presidente di Fiaso, Giovanni Migliore: «Occorre più che mai rivolgere un appello non solo a mamme e papà, ma anche e soprattutto ai medici, in particolare i ginecologi, che seguono le gravidanze e con i quali le future madri hanno un rapporto di fiducia: avviino una campagna seria di sensibilizzazione per fugare i dubbi delle donne sulla sicurezza del vaccino e convincerle a vaccinarsi».
Alcol e guida: 1 su 2 sottostima quantità. Fino ai 29 anni prima causa di morte
News PresaCirca la metà di quanti bevono e poi guidano rischiano di oltrepassare i limiti imposti per legge perché sottostimano le quantità. Lo dimostra un’indagine sul rapporto alcol e guida, realizzata in collaborazione tra l’università di Cambridge (Inghilterra) e quella di Witten/Herdecke (Germania) sotto la direzione del dottor Kai Hensel. I risultati sono stati pubblicati su The Harm Reduction Journal. Lo studio fa prima la conta di quanto micidiali possano essere gli esiti di questa sottostima: tra i 5 e i 29 anni la prima causa di morte sono gli incidenti stradali e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che la principale causa è legata all’abuso di alcol.
Alcol e guida: errori di percezione dal 39 al 53 per cento. Lo studio
Chi si mette alla guida con un tasso alcolemico alto, fatica a tenere la carreggiata, ha i riflessi appannati e tende a fare manovre azzardate che a mente lucida non farebbe, perché l’alcol aumenta la fiducia in sé. Il team di ricercatori ha realizzato questo esperimento con 90 studenti di età media 24 anni, misti maschi e femmine, i quali sono stati invitati a bere vino, birra o ambedue, finché la concentrazione alcolica nell’aria espirata non ha raggiunto lo 0,11 per cento (Brac). Dopo essere stati controllati con l’etilometro, ad ognuno è stato chiesto se riteneva di essere dentro i limiti di legge. È emerso che il 39 per cento si sentiva a posto mentre il suo tasso di alcolemia era oltre il limite. Un’altra prova simile è stata fatta in un’altra giornata ed è risultato che ben il 53 per cento di quanti si ritenevano sotto il limite di legge erano invece ben al di sopra. L’esame è stato condotto in Germania dove il limite alcolimetrico per la guida è di 0,05 per cento (nel Regno Unito di 0,08 per cento). In altre parole, dai risultati emerge che una persona su due si sbaglia, sovrastimando il suo grado di lucidità.