Tempo di lettura: 2 minutiLa University College London ha recentemente condotto un’indagine su circa 3.000 ragazzi tra i 9 e i 15 anni che ha dimostrato come il contatto con la natura abbia conseguenze favorevoli sullo sviluppo cognitivo dei ragazzi.
La ricerca della University College London su un campione di 3.000 ragazzi
Durante la ricerca, è emerso come i ragazzi e i bambini che hanno vissuto a stretto contatto con la natura, con gli alberi, in ambienti caratterizzati dalla presenza di laghi, fiumi e boschi, abbiano rendimenti superiori rispetto ai coetanei vissuti in città e in tutt’altro ambiente e un maggior sviluppo cognitivo in generale.
Si tratta di una ricerca che fa pensare: le nostre città sono piene di cemento, con sempre meno spazi dedicati al verde e alla vita sana. Eppure, questa dovrebbe essere una priorità delle istituzioni, per costruire generazioni più sane e pronte al futuro.
Non è detto che un bambino debba crescere fra praterie, boschi, laghi e fiumi, ma la presenza di uno spazio verde e incontaminato anche nelle nostre città, un parco o un giardino, può fare la differenza per il futuro dei ragazzi.
A risentirne favorevolmente è la cosiddetta memoria di lavoro spaziale, quella che consente ai ragazzi di registrare i movimenti e di replicarli. La conseguenza è una vita migliore, caratterizzata da una salute mentale nettamente superiore rispetto ai ragazzi cresciuti in contesti urbani e privi di verde pubblico.
Il verde in città è essenziale
La presenza di parchi cittadini o giardini nei quali respirare aria più pulita ha conseguenze benefiche anche sulla salute in generale dei ragazzi, che sviluppano, crescendo, meno problemi legati alla respirazione (come l’asma), alle ossa e muscolari; il movimento e l’attività all’aria aperta mettono in atto, infatti, un miglioramento della salute dell’organismo.
Un’altra implicazione benefica riguarda la psiche: i ragazzi che crescono in contesti più sani hanno meno probabilità di sviluppare patologie fisiche che andrebbero a incidere sulla psiche. Non soltanto, dunque, disturbi dell’umore – si è sempre più irritabili quando si è costretti tra le quattro mura domestiche – ma anche vere e proprie patologie mentali, che vengono scongiurate da una sana attività fisica, che ha impatto positivo anche sulla qualità del sonno.
In definitiva, dunque, la presenza di alberi, di aree verdi, di parchi e di giardini, di zone prive di smog e di rumori, anche in contesti urbani è essenziali per consentire alle nuove generazioni di crescere nella maniera più sana e serena possibile.
Anziani: troppi farmaci e poco attenti ad attività fisica e alimentazione
Anziani, News PresaGli anziani si sentono in salute, ma i dati rivelano una situazione diversa. È la fotografia scattata alla popolazione over 65 da Passi d’Argento (PdA), il sistema di sorveglianza sulla popolazione con 65 anni e più condotto da Asl e Regioni e coordinato dall’Istituto superiore di sanità. Se l’87% della popolazione nazionale degli ultrasessantacinquenni si percepisce in buona salute, i dati analizzati dicono il contrario, in particolare nei parametri relativi a immunizzazione, alimentazione, attività fisica e uso dei farmaci.
“Anche se si registrano lievi miglioramenti nella lotta alla sedentarietà, – sostiene Michele Conversano, presidente di HappyAgeing Alleanza italiana per l’invecchiamento attivo – rimangono abitudini alimentari sostanzialmente scorrette e un’immunizzazione non sufficiente. Inoltre, si conferma la grande disuguaglianza tra le regioni nelle politiche sanitarie messe in atto a favore degli anziani.”
Infatti, su base nazionale il 60% di anziani si ritiene parzialmente o completamente attivo contro il 38% di coloro che si definiscono totalmente sedentari. “Sul versante opposto, – prosegue Conversano – rimane insufficiente la percentuale di copertura vaccinale antinfluenzale per gli ultra65enni su base nazionale: solo il 55%.Se poi si va a vedere la copertura vaccinale negli ultra65enni con almeno 1 patologia cronica il dato sale al 61,7% ma scende al 44.9% in assenza di patologie”.
L’indagine – online su Passi D’Argento – aggiorna il quadro sullo stato di salute e di vita degli over 65enni, fascia in costante crescita e che ormai si avvicina al 25% della popolazione complessiva. L’Italia è infatti ai primi posti in Europa per la crescita dell’indice di vecchiaia: il rapporto tra gli anziani (65 anni e più) e i giovani (meno di 15 anni) raggiunge quota 168,9 e registra così un nuovo record nazionale. I dati riportati da Passi d’Argento elaborano circa 40.000 interviste– telefoniche e in presenza, fatte da operatori sanitari specializzati con anziani campionati in tre anni.
Sul fronte dell’alimentazione, in Italia, nel triennio 2016-2018, fra le persone con 65 anni o più il consumo medio giornaliero di frutta e verdura non raggiunge la quantità indicata dalle linee guida per una corretta nutrizione: su 10 persone, 4 non consumano più di 2 porzioni al giorno di frutta o verdura, una quota analoga ne consuma 3-4 porzioni, solo 1 persona su 10 arriva a consumare almeno 5 porzioni al giorno (five a day),come raccomandato. E ciò a fronte di una percentuale piuttosto contenuta – il 12,7 % su base nazionale – di ultrasessantacinquenni con problemi accertati di masticazione e di circa il 43% di popolazione anziana sovrappeso.
Se attenzione nutrizionale, immunizzazione, attività fisica, controllo di fumo e alcool sono tutti parametri che favoriscono un invecchiamento in salute per una sana prevenzione verso le patologie dell’età matura, di contro va registrata una tendenza ancora forte alla “medicalizzazione” della popolazione anziana. L’89,2% degli ultra65enni italiani dichiara di aver assunto farmaci nella settimana precedente l’intervista. Un dato che in parte – commenta Michele Conversano – viene confortato dall’attenzione data dal medico alla corretta assunzione e controllo di farmaci da parte degli anziani.
L’analisi dei dati dell’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità fa emergere una enorme disparità regionale dello stato di salute degli anziani e stili di vita ancora lontani dalla soglia stabilita per il raggiungimento di un invecchiamento attivo. Per questo, HappyAgeing sostiene la necessità di sensibilizzare la popolazione con campagne di comunicazione sul territorio e di coordinare con maggiore forza le politiche sanitarie delle regioni a favore degli anziani per assicurare livelli minimi di prevenzione e invecchiamento in salute per l’intera popolazione anziana.
Dermatite atopica, non chiamatela allergia
News Presa, PrevenzioneSono moltissimi i genitori che si trovano a combattere contro la dermatite atopica, un nemico insidioso sul quale la disinformazione è tanta. Un vero esperto in questo campo è il dottor Porfirio Toscano, pediatra di famiglia e vicesegretario della Fimp Napoli. «La prima cosa da sapere – spiega – è che con la dermatite atopica ci si nasce. Sino a qualche tempo fa si credeva che fosse una malattia allergica, oggi sappiamo che a partenza cutanea». Vale a dire che i bambini che ne soffrono hanno una pelle particolarmente soggetta a infiammazioni. Questo succede perché la loro cute perde più acqua di quanto dovrebbe. «Si genera così un terribile prurito e spesso il bambino grattandosi si procura anche delle lesioni».
Un mito da sfatare
Il dottor Toscano chiarisce che il sole non fa male ai bambini affetti da questa patologia, anzi con il mare le cose migliorano. «Il prurito – sottolinea – si scatena prevalentemente durante l’inverno, più fa freddo più la situazione peggiora. Il mare, invece, fa migliorare le cose nel 90% dei casi. La maggiore umidità, l’effetto antinfiammatorio del sole e i sali minerali dell’acqua sono un toccasana».
I sintomi e l’esordio
Per un genitore alle prime armi non sempre è facile individuare da subito il problema. Vediamo allora quando e come la malattia si manifesta. «La dermatite atopica è la più frequente tra le malattie dermatologiche in età pediatrica. Il 25% dei bambini ne è affetto. Nel 60% dei casi i sintomi si manifestano nei primi 6 mesi di vita. In questi casi si notano arrossamenti della pelle e talvolta anche delle crosticine, la cosa da non sottovalutare è la perdita della qualità del sonno». E’ bene entrare nell’ordine di idee che non esiste una terapia eziologica, ma solo sintomatica. Il che, tradotto, significa che anche se in maniera molto efficace si può intervenire esclusivamente sui sintomi. Poi con il trascorrere degli anni nella stragrande maggioranza dei casi la malattia tende a sparire da sola.
La terapia
L’ultima e forse anche la più importante delle cose da sapere è come intervenire. «Il primo trattamento – conclude il dottor Toscano – lo si fa sempre con creme emollienti specifiche per la dermatite atopica. Bisogna comprarle in farmacia e si applicano due volte al giorno. E’ molto importante anche non lavare il bambino con saponi comuni, bensì con detergenti realizzati ad hoc che non fanno seccare la pelle. Nel caso dell’acuirsi dei sintomi, quindi quando c’è un’infiammazione marcata, si deve intervenire con una terapia a base di cortisonici topici (sempre in crema). Ai genitori voglio dire di non aver paura di usare queste creme, perché non fanno male al bambino e anzi servono per far passare la fase acuta dell’infiammazione. Sono terapie che durano 7 o 10 giorni».
Allergia o intolleranza alimentare? Quando si abusa dei termini
AlimentazioneLa salute passa anche e soprattutto dall’alimentazione. Tuttavia l’organismo non sempre riesce a metabolizzare tutti gli alimenti. Così nascono intolleranze o allergie ad alcuni cibi. Si avverte gonfiore e dolori addominali, mal di testa o nausea e diarrea. Ma non tutte le reazioni negative dipendono da un’ intolleranza o un’ allergia alimentare. Allora, come fare per arrivare ad una corretta diagnosi?
L’approccio più comune tende a eliminare dalla dieta un alimento per capire se è responsabile del disturbo, ma ci sono anche test mirati sul sangue. Stabilire i numeri esatti della diffusione del fenomeno è ancora difficile, spesso si fa confusione nella terminologia, si adottano criteri di diagnosi differenti e alcune procedure non sono idonee.
Secondo le stime più recenti dell’European Academy of Allergy and Clinical Immunology, nell’Unione europea ci sarebbero circa 17 milioni di casi, un fenomeno che in Italia interesserebbe circa 2 milioni e 100 mila persone, pari al 3,5% della popolazione. Dare una definizione esatta neanche è facile: sono stati e vengono tuttora usati molti termini. L’American Academy of Allergy Asthma and Immunology ha proposto una classificazione, largamente accettata, che utilizza il termine generico “reazione avversa al cibo”, distinguendo poi tra allergie e intolleranze (che pur essendo entrambe mediate dal sistema immunitario, provocano la reazione di classi di anticorpi differenti).
Il passaggio obbligato è quindi distinguere un’ intolleranza da un’ allergia. La prima è un malessere scatenato dall’ingestione di alcuni cibi che, a lungo andare, causa disturbi ricorrenti a livello gastrointestinale, dermatologico e respiratorio. In pratica il corpo non riesce a metabolizzare correttamente un alimento o un suo componente. Alcune intolleranze sono di natura enzimatica (legate al deficit di uno specifico enzima). L’esempio più comune è quella al lattosio causata dal deficit di lattasi (deputato a far digerire lo zucchero del latte).
L’ allergia alimentare è una risposta del sistema immunitario a un determinato allergene, alimentare o aeroallergene, con la produzione di anticorpi IgE. Le intolleranze, invece, si possono manifestare con sintomi simili alle allergie, ma la reazione provoca la produzione di un’altra classe di anticorpi.
Le reazioni avverse al cibo, insomma, possono dipendere da allergie o da intolleranze alimentari. Spesso le sintomatologie sono simili, ma le cause differenti. Basta un test di laboratorio semiquantitativo e un colloquio con un nutrizionista per arrivare ad una corretta diagnosi e gestione dei disturbi.
Parkinson: se la malattia nasce dall’intestino
News PresaIl Parkinson è una malattia misteriosa. Si tratta del secondo più diffuso disturbo neurodegenerativo legato all’età (dopo l’Alzheimer) che colpisce il 3 per cento delle persone sopra i 65 anni e il 5 per cento dopo gli 85 anni. Quando parte dal cervello, viene colpito un emisfero e i tremori si manifestano solo su un lato. Negli altri casi, invece, la malattia potrebbe nascere dall’intestino. Proprio per la sua variabilità di sintomi, la patologia risulta difficile da individuare anche per il medico. Esistono diversi modelli per dare ordine a tanti dolori o disabilità, ma mettere a confronto due malati non è un’operazione semplice. Il Parkinson può presentarsi con tremori e lentezza di movimenti in un solo lato del corpo. Succede, all’inizio, in 3 malati su 4. Poi: alcuni pazienti sviluppano costipazione, perdita dell’odorato, disturbi del sonno e altri sintomi parecchi anni prima della diagnosi di Parkinson. Altri no. Ma da cosa dipende?
Secondo le ricerche la malattia potrebbe nascere dalla proteina alfa-sinucleina che si diffonde tra i neuroni. Alla base di questa ipotesi che spiegherebbe l’asimmetria del Parkinson ci sono studi di imaging, lavori condotti su modelli animali e analisi dei tessuti cerebrali post mortem. Sul Journal of Parkinson’s Disease, Per Borghammer (direttore del Dipartimento di Medicina nucleare & Pet all’Università danese di Aarhus) ha presentato un modello unificante di tante variazioni tra i pazienti, col nome di alfa-sinucleina Origin and Connectome (Soc). Il connettoma indica una mappa di tutte le connessioni neurali del cervello. Il modello Soc si basa sul luogo o l’origine dei primi aggregati di alfa-sinucleina e sul ruolo del connectoma nel trasmettere la malattia provocata dall’accumulo dell’alfa-sinucleina alle altre parti del sistema nervoso. In altre parole, il grande distributore della malattia su tutto l’organismo sarebbe proprio il connectoma.
Parkinson: nasce dal corpo o dal cervello?
Se l’origine della malattia è intestinale, i primi sintomi sono disturbi enterici, stipsi, problemi col sonno. Se origina dalla testa, invece, emerge prima con disturbi motori, tremori e lentezza dei movimenti, in base a quale dei due emisferi è stato colpito. Come spiega Borghammer: le due parti del cervello «hanno soltanto l’1 per cento delle loro connessioni rivolte all’altra metà», quindi la «contaminazione» di tutto il cervello è lenta, all’inizio si hanno sintomi motori sballati nella parte destra del corpo se è colpito l’emisfero sinistro e viceversa. Con l’avanzare della malattia, i sintomi diventano simmetrici, perché si allargano anche all’altra area cerebrale. Quando il paziente si presenta da subito con una malattia bilaterale, quindi in modo simmetrico sin dall’inizio, vuol dire che l’origine del Parkinson è intestinale. In questo caso, il Parkinson più facilmente causa declino cognitivo. Al contrario di quanto si possa pensare questo non accade con la malattia «brain-first», cioè se il cervello è colpito per primo.
Alimentazione e adolescenza, binomio da incubo
AlimentazioneMamma che fame. Con un simpatico gioco di parole la nutrizionista Stefania Ruggeri ha sintetizzato in un titolo uno dei problemi più complicati che le mamme (ma anche i papà) devono affrontare quando i loro ragazzi diventano adolescenti. Proprio il passaggio dall’infanzia alla pubertà è un momento di grande sconvolgimento: il corpo si trasforma, gli ormoni sono alle stelle, la voglia di ribellione cresce. I genitori possono perdere il controllo su ciò che i ragazzi mangiano e quanto, perché spesso consumano i pasti fuori, inizia purtroppo sempre prima il consumo di alcol e comincia talvolta un controllo spasmodico del peso. O si ha a che fare con una fame irrefrenabile. Il cibo diventa anche terreno di scontro con mamma e papà.
Un terreno comune
Trovare un dialogo è però possibile. Se ne parla proprio nel volume Mamma che fame di Stefania Ruggeri, che tra le altre cose una ricercatrice del Centro di ricerca alimenti e nutrizione. Il suo libro ha un grande segreto, nasce dall’esperienza che Ruggeri ha grazie alle due figlie. «Questa casa non è un albergo»: verrebbe quasi da dire così, quando i ragazzi iniziano a uscire spesso con i coetanei. Una regola può essere quella del “Massimo 3” (massimo tre uscite a settimana). E poi bilanciare l’alimentazione disordinata con i cosiddetti piatti di recupero, a base di legumi, anche sperimentando ricette etniche come l’hummus, o insalate di verdura e frutta insieme (un modo di mangiare rapido e sano, adatto anche ai ragazzi che fremono per tornare nella loro cameretta).
Alcol e mode alimentari
Contro i troppi drink del sabato sera c’è un decalogo anti-alcol, con suggerimenti come quello di bere a stomaco pieno e in discoteca prendere sempre il bicchiere dal bancone. E se il proprio figlio vuole abbracciare una alimentazione vegetariana? Importante è che sia sempre sotto stretto monitoraggio medico e fare in modo di evitare carenze nutrizionali con alcune strategie, come l’introduzione della frutta secca. Se l’acne fa capolino, cosa che accade al 70% dei ragazzi, oltre alle cure dermatologiche una svolta può arrivare con l’alimentazione. Dal consumo di cereali integrali (riso, avena, pasta, pane, farro, alimenti con basso indice glicemico) e latte nelle quantità giuste, eliminando bevande gassate e merendine e mangiando più pesce e verdure. In generale, poi, mai parlare di dieta per ragazze (e ragazzi) ma di giusto regime alimentare. Se il problema, invece, con i maschi è lo sviluppo di una super-fame, un trucco può essere far diventare la colazione, anche salata, un mini-pranzetto, con un po’ di grassi, proteine e alimenti integrali.
Il contatto con la natura porta a un miglioramento della salute dei ragazzi
Stili di vitaLa University College London ha recentemente condotto un’indagine su circa 3.000 ragazzi tra i 9 e i 15 anni che ha dimostrato come il contatto con la natura abbia conseguenze favorevoli sullo sviluppo cognitivo dei ragazzi.
La ricerca della University College London su un campione di 3.000 ragazzi
Durante la ricerca, è emerso come i ragazzi e i bambini che hanno vissuto a stretto contatto con la natura, con gli alberi, in ambienti caratterizzati dalla presenza di laghi, fiumi e boschi, abbiano rendimenti superiori rispetto ai coetanei vissuti in città e in tutt’altro ambiente e un maggior sviluppo cognitivo in generale.
Si tratta di una ricerca che fa pensare: le nostre città sono piene di cemento, con sempre meno spazi dedicati al verde e alla vita sana. Eppure, questa dovrebbe essere una priorità delle istituzioni, per costruire generazioni più sane e pronte al futuro.
Non è detto che un bambino debba crescere fra praterie, boschi, laghi e fiumi, ma la presenza di uno spazio verde e incontaminato anche nelle nostre città, un parco o un giardino, può fare la differenza per il futuro dei ragazzi.
A risentirne favorevolmente è la cosiddetta memoria di lavoro spaziale, quella che consente ai ragazzi di registrare i movimenti e di replicarli. La conseguenza è una vita migliore, caratterizzata da una salute mentale nettamente superiore rispetto ai ragazzi cresciuti in contesti urbani e privi di verde pubblico.
Il verde in città è essenziale
La presenza di parchi cittadini o giardini nei quali respirare aria più pulita ha conseguenze benefiche anche sulla salute in generale dei ragazzi, che sviluppano, crescendo, meno problemi legati alla respirazione (come l’asma), alle ossa e muscolari; il movimento e l’attività all’aria aperta mettono in atto, infatti, un miglioramento della salute dell’organismo.
Un’altra implicazione benefica riguarda la psiche: i ragazzi che crescono in contesti più sani hanno meno probabilità di sviluppare patologie fisiche che andrebbero a incidere sulla psiche. Non soltanto, dunque, disturbi dell’umore – si è sempre più irritabili quando si è costretti tra le quattro mura domestiche – ma anche vere e proprie patologie mentali, che vengono scongiurate da una sana attività fisica, che ha impatto positivo anche sulla qualità del sonno.
In definitiva, dunque, la presenza di alberi, di aree verdi, di parchi e di giardini, di zone prive di smog e di rumori, anche in contesti urbani è essenziali per consentire alle nuove generazioni di crescere nella maniera più sana e serena possibile.
Ansia e depressione possono essere causa di disturbi respiratori?
PsicologiaLa dispnea, ovvero la sensazione di fatica nel respirare, è uno dei fattori causati dall’ansia e dalla depressione e talvolta è davvero difficile capire se si tratta di sintomi dovuti alla situazione psicologica o psichiatrica del paziente o a disturbi riconducibili a malattie legate all’apparato respiratorio.
I due tipi di disturbi spesso sono correlati: può accadere che patologie fisiche di tipo cronico siano accompagnate da una forte componente ansiosa. Lo afferma Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asset di Lodi.
Una diagnosi in grado di distinguere un disturbo d’ansia da un disturbo respiratorio può essere difficile poiché alcune patologie fisiche non causano una carenza di ossigenazione, confondendo le carte in tavola e rendendo la ricerca delle cause dei disturbi nella respirazione difficili sia per il paziente sia per i familiari, nonché per gli stessi medici – precisa Cerveri. Per questo motivo è necessario, oltre a una serie di analisi con l’obiettivo di scongiurare le patologie fisiche legate alla respirazione, anche effettuare un’accurata valutazione psichiatrica.
La presenza di disturbi psicologici o psichiatrici potrebbe inoltre causare nel paziente affetto da patologie respiratorie un peggioramento della situazione. In presenza di una forte depressione può succedere che i pazienti trascurino se stessi e non seguano in modo preciso e accurato le indicazioni mediche e le cure prescritte, con assunzione di farmaci in maniera discontinua o con interruzione delle cure stesse.
Secondo quanto afferma Cerveri, moltissimi pazienti affetti da ansia e depressione non seguono uno stile di vita sano, lasciandosi andare ad abitudini nocive come il fumo, l’assenza di attività fisica e un insufficiente riposo notturno. Sono tutti fattori che, a lungo andare, creano una vera a propria predisposizione ai disturbi dell’apparato respiratorio.
In presenza di più patologie- aggiunge il Dottor Cerveri – diventa difficile capire quale sia la patologia originaria e quale invece sia insorta come conseguenza.
Anche chi soffre di attacchi di panico potrebbe essere spaventato dall’eventuale presenza di un disturbo respiratorio, anche se in questo caso si tratta di episodi isolati di affaticamento respiratorio e tachicardia che si esauriscono nel giro di massimo un’ora.
Inoltre con l’ausilio di un saturimetro, strumento che consente di misurare e monitorare il grado di saturazione di ossigeno nel sangue, è possibile controllare che la situazione sia nella norma. Questo strumento è molto consigliato anche per monitorare i livelli di ossigeno nel sangue in caso di sintomi assimilabili al COVID-19.
Disforia di genere, una realtà poco conosciuta
PsicologiaIn psicologia viene definita disforia di genere e no, non è una malattia. Resta però tanto da fare affinché tutti, medici compresi, possano meglio comprendere le difficoltà che scaturiscono dal riconoscersi in un genere differente da quello “assegnato” alla nascita. Importante in questo senso l’iniziativa degli esperti dell’Associazione medici endocrinologi (Ame) che dal 2014 ha costituito un gruppo di lavoro interdisciplinare “dedicato” e che, con la collaborazione di Consulcesi Club, ha realizzato un corso di formazione professionale dedicata a medici e operatori sanitari. E sono stati proprio gli esperti del gruppo Ame a lanciare un allarme sul fatto che in Italia alcune persone con disforia di genere hanno uno scarso accesso alle cure.
DISAGIO
Ma cosa si intende invece per disforia di genere? In alcuni casi, la persona può vivere un’incongruenza tra il genere assegnatole alla nascita e quello in cui invece si identifica. Questo senso di incongruenza può comportare un disagio significativo che non permette alla persona di vivere una vita pienamente soddisfacente: si parla allora di disforia di genere. Immaginiamo ad esempio una persona assegnata maschio alla nascita che si percepisca invece come soggetto femmina e che presenta disagio e sofferenza verso il proprio corpo. Il superamento di questa incongruenza avviene attraverso un percorso psicologico di consapevolezza del sé e spesso attraverso interventi medici affermativi di genere che possono includere terapie ormonali o chirurgiche.
IDENTITA’ DI GENERE
Nell’immaginario collettivo, l’identità di genere è concepita come un sistema binario che vede contrapposti il genere maschile e quello femminile. Antonio Prunas psicologo esperto di disforia di genere e tra gli autori del corso Ecm di Consulcesi spiega che in realtà l’identità di genere può essere immaginata come uno spettro in cui agli estremi si collocano il maschile e il femminile e, tra questi due poli, un’infinita varietà di possibili identità ed espressioni di genere. In un sistema non binario, sono possibili contaminazioni tra i generi, oscillazioni o movimenti fluidi tra i generi o l’appartenenza a nessun genere. Su questa base concettuale, nascono le definizioni di Cisgender (una persona sente di appartenere al genere assegnato alla nascita), e transgender, che sono le persone in cui il genere cui sentono di appartenere non coincide con quello assegnato loro alla nascita.
Sorriso sano, ecco il menù salva-gengive
AlimentazioneDal punto di vista estetico, il sorriso è il nostro miglior biglietto di presentazione, un modo per interfacciarci con il mondo che ci circonda e rompere il ghiaccio in un attimo. Non è secondario poi il tema della salute, perché dalle condizioni della bocca posso dipendere molte patologie. Lo sappiamo ormai tutti che una buona igiene orale è la sola strada da seguire, ma anche l’alimentazione può essere una valida alleata. Il latte, ad esempio, può essere davvero un buon “pompiere” delle gengive in fiamme, così come il minestrone. Sono i classici consigli della nonna, ma sono stati innalzati a verità scientifica da alcuni studi fatti in Giappone e in Germania. Un buon apporto quotidiano di latticini e un consumo adeguato di frutta e verdura sono infatti efficaci nel tenere sotto controllo l’infiammazione gengivale. Ma attenzione, latte e vegetali non bastano: il menù salva – gengive per un sorriso bello e soprattutto sano non è molto diverso dalla consueta alimentazione mediterranea: abbonda infatti di frutta e verdura per fare il pieno di vitamine, degli acidi grassi “buoni2 dell’olio extravergine d’oliva e del pesce, delle proteine da uova e prodotti ittici, ricchi anche di vitamine preziose per la salute orale. Messi al bando invece tutti i cibi e le bevande che rendono più acido l’ambiente orale, come gli agrumi consumati in eccesso e le bibite gassate, e gli zuccheri raffinati di cui sono ‘ghiotti’ i batteri che provocano la placca e l’infiammazione gengivale.
DISTURBI GENGIVALI
Gengive che sanguinano, si arrossano e fanno male sono infatti un problema per 20 milioni di italiani, ma in 8 milioni il disturbo diventa una parodontite, infiammazione estesa che può portare fino alla perdita dei denti: 3 milioni di italiani rischiano di perdere uno o più denti per questo motivo, perciò mantenere la bocca in salute con una buona igiene orale e un’alimentazione proteggi-gengive è molto importante. Uno studio giapponese sul Journal of Periodontology dimostra che una porzione quotidiana di almeno 55 grammi di latte, yogurt o formaggi, aiuta a ridurre l’infiammazione gengivale. A supportare i benefici del minestrone è invece uno studio dell’Università di Friburgo, in Germania, condotto su 30 persone la metà delle quali sottoposta a una dieta simile a quella vegana, con molti antiossidanti, frutta e verdura ricche di vitamina D. Dai risultati, pubblicati sul Journal of Clinical Periodontology, emerge che questo gruppo ha mostrato notevole riduzione del sanguinamento gengivale e della mobilità dei denti rispetto al gruppo di controllo.
LA VITAMINA D
È importante non solo per la salute delle ossa, ma anche perché in caso di deficit si può avere bocca secca a causa di una carenza di saliva, che è indispensabile avere in giusta quantità perché è ricca di enzimi che proteggono le gengive. Per questo in un menù per preservare la salute della bocca e il sorriso non devono mancare i cibi che ne sono ricchi come il pesce, soprattutto quelli grassi come salmone, sgombro o trota, il fegato e i latticini. E proprio perché le vitamine di cui i vegetali sono ricchi sono fondamentali per mantenere integri e sani tutti i tessuti, gengive comprese, anche il minestrone dei consigli della nonna è un ottimo alimento salva-sorriso.
Respirare per anni aria inquinata può portare all’infarto. Lo studio
News PresaL’aria inquinata causa anche la morte. Ogni anno nel mondo sono almeno 4,2 milioni i decessi (per ictus, infarto, BPCO e tumore del polmone) attribuibili all’inquinamento dell’aria, come mostrano i dati dell’OMS. L’aumento di malattie dell’apparato respiratorio, infatti, riduce l’aspettativa di vita. Ad oggi però non era ancora chiaro quali fossero i meccanismi che legano l’inquinamento atmosferico alle patologie cardiovascolari, e in particolare al rischio di infarto miocardico e di arresto cardiaco. Ora uno studio appena pubblicato su JACC Cardiovascular Imaging firmato dai cardiologi della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS fa luce su alcuni di questi meccanismi causali. Nello studio è stata evidenziata un’associazione tra i livelli di esposizione alle polveri fini (PM2,5) e la presenza di placche aterosclerotiche più infiammate ed aggressive, cioè pronte a causare un infarto per rottura di placca, il peggiore tra i vari meccanismi che portano all’infarto.
Aria inquinata e rischio di infarto. Lo studio
La ricerca ha preso in esame 126 pazienti con infarto miocardico, utilizzando uno speciale microscopio (Optical Coherence Tomography) che permette di visualizzare le placche coronariche direttamente dall’interno dei vasi. Le caratteristiche delle placche rilevate all’OCT, sono state quindi confrontate con la precedente esposizione, per un periodo di almeno due anni, a vari inquinanti ambientali (PM2,5, PM10, monossido di carbonio), registrati dai dati delle centraline di rilevamento della qualità dell’aria, poste in prossimità della residenza dei pazienti. I risultati dimostrano per la prima volta che i pazienti che respirano a lungo aria inquinata, in particolare il particolato fine, che penetra in profondità nei polmoni (PM2,5) soprattutto respirando dalla bocca, presentano placche aterosclerotiche coronariche più ‘aggressive’ e prone alla rottura (sono più ricche di colesterolo e hanno un cappuccio fibroso più sottile). Questo spiega perché nelle persone esposte ad elevati livelli di PM2,5 il fattore scatenante dell’infarto risulta essere più spesso la rottura della placca aterosclerotica. “Le loro placche appaiono più ‘infiammate’ (cioè infiltrate da macrofagi) ed è presente anche un maggior livello di infiammazione sistemica, testimoniato dall’aumento dei livelli di proteina C reattiva (PCR) nel sangue – come spiega il primo autore dello studio, dott. Rocco A. Montone, cardiologo interventista e di terapia intensiva cardiologica, presso la Fondazione Gemelli. Si tratta della prima indagine condotta ‘in vivo’ nell’uomo ad aver individuato un nesso patogenetico tra esposizione a lungo termine all’inquinamento ambientale e meccanismi di vulnerabilità e instabilità della placca coronarica, nei pazienti con infarto miocardico acuto. Questi risultati, oltre a sottolineare l’importanza di adottare stili di vita e politiche che contengano l’inquinamento dell’aria, danno una migliore comprensione dei meccanismi patogenetici alla base degli infarti correlati all’esposizione all’aria inquinata. “Un ruolo cruciale è svolto ancora una volta da un’aumentata risposta infiammatoria sia a livello di placca coronarica, che sistemica– come spiega il professor Filippo Crea, Direttore UOC di Cardiologia della Fondazione Gemelli, Ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica ed editor in chief di European Heart Journal. Questo lavoro potrebbe in futuro portare a terapie mirate per minimizzare gli effetti negativi dell’inquinamento.