Tempo di lettura: 3 minutiDifficoltà a urinare, dolore, diminuzione del flusso di urina, stimolo impellente o più frequente del normale. Ad una indagine conoscitiva svolta tra 320 pazienti di tre città italiane (Roma, Catania e Arezzo) chiamata “Quello che gli uomini non dicono” l’85% del campione intervistato ha risposto chiamando in causa la prostata. “È la prima cosa che viene in mente perché sulla prostata è stata fatta molta informazione, ma la risposta giusta è un problema uretrale”.
Succede infatti che all’interno del canale che porta all’esterno urina e spermatozoi si possono creare restringimenti dovuti al deposito di tessuto cicatriziale. Le cause più frequenti, condizioni congenite, un trauma meccanico (come impatti sportivi o causati dall’uso di endoscopi rigidi o cateteri urinari), infezioni batteriche o virali. Meno frequente la responsabilità di una condizione dermatologica chiamata Lichen Sclerosus un processo infiammatorio di natura sclerotica cronica, che coinvolge cute e mucose e nell’83% dei casi si presenta a livello dei tessuti genitali maschili e femminili.
Stenosi uretrale: frequente negli uomini over 50
La ‘stenosi uretrale’ è una condizione relativamente poco nota ma abbastanza diffusa (specialmente nei maschi con più di 50 anni). Per essere diagnosticata correttamente ha bisogno di una accurata anamnesi prima (la raccolta dei dati della storia medica e familiare del soggetto) e di esami strumentali poi.
Dopo la diagnosi si passa alla distinzione rispetto al tratto di uretra interessato: anteriore (bulbare) o posteriore e alla valutazione dei problemi che ne derivano e l’impatto sulla qualità di vita del paziente. La scelta ricade di solito sulla chirurgia.
L’ Italia é leader nel mondo nella chirurgia dell’uretra grazie al lavoro del Professor Guido Barbagli che ha dato il suo nome ad una tecnica ricostruttiva utilizzata nella stenosi uretrale.
L’intervento di uretroplastica con innesto di mucosa orale
Si tratta di un intervento delicato in cui è necessario riaprire il canale uretrale e ripristinare la sua funzionalità, il tutto salvaguardando la funzione sessuale ed estetica. Spiega il Professor Sansalone: “Si tratta di un vero e proprio intervento che coniuga l’urologia alla chirurgia plastica ricostruttiva e all’andrologia: prevede infatti di ripristinare la funzione urinaria e sessuale utilizzando tessuti del paziente. Se sino a qualche anno fa si usava una porzione di cute prelevata dal glande con la circoncisione, più di recente proprio Barbagli ha avuto la felice intuizione di usare un lembo di mucosa prelevata dall’interno della guancia che ha mostrato di avere un tasso di successo elevatissimo. Il fastidio del prelievo dura solo pochi giorni, il paziente può riprendere a mangiare il giorno dopo l’intervento e i punti di sutura si riassorbono spontaneamente dopo circa 1 mese.” spiega Sansalone che aggiunge “un intervento non eseguito a regola d’arte può determinare complicazioni, danni alla funzione sessuale e la necessità di intervenire di nuovo, oltre ad una lunga sequela di problematiche psicologiche che possono interferire con la vita sessuale e di coppia”.
Tecnica gold standard
La mucosa orale è oggi considerata il “gold standard” per qualsiasi tipo di uretroplastica anteriore : le sue caratteristiche biologiche e strutturali la rendono un prodotto altamente versatile e adattabile a qualsiasi chirurgia ricostruttiva dell’uretra. “Nel frattempo – spiega l’esperto – stiamo lavorando a tecniche di ingegneria tissutale per cui le cellule della mucosa epiteliale orale saranno coltivate ed espanse in uno scaffold (supporto)”.
Per chi non è indicato
Alcuni gruppi di pazienti non sono candidati ideali per il prelievo delle guance della mucosa orale: quelli che masticano tabacco o consumano prodotti a base di noce di areca (betel quid, pan masala), poiché sono a rischio di sviluppare fibrosi della sottomucosa orale, che porta a disfagia e una ridotta capacità di aprire la bocca. Pollice verso anche ai pazienti che hanno una malattia infettiva orale (candida, lichene, virus della varicella, virus dell’herpes e altri). Inoltre è controindicato nei pazienti che hanno avuto un precedente intervento chirurgico nell’arco mandibolare che vieta un’ampia apertura della bocca. Quelli che suonano strumenti a fiato o lavorano come oratori dovrebbero essere informati che il prelievo chirurgico della mucosa orale può influenzare negativamente queste attività nel periodo postoperatorio anche se le limitazioni sono temporanee e reversibili. Prima di pianificare il prelievo della mucosa orale, i pazienti devono essere valutati a fondo per verificare l’estensione dell’apertura della bocca, la dimensione del tessuto disponibile su entrambe le guance e la presenza di cicatrici dovute a morsi cronici sulla guancia o interventi chirurgici precedenti.
Colesterolo “cattivo”: intervista al Prof. Indolfi
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Sole e vitamina D: come fare scorte senza rischi per la pelle
News Presa, PrevenzioneL’estate è la stagione migliore per sfruttare i benefici del sole e fare scorta di vitamina D. L’esposizione al sole, però, non deve esporci a rischi per la pelle. È importante mantenere sempre l’equilibrio tra il bisogno di esposizione al sole per la produzione di un livello adeguato di vitamina D e il rischio di danni alla pelle dovuti ad una esposizione eccessiva.
Importanza della vitamina D e fonti di approvvigionamento
La vitamina D, oltre ad essere coinvolta nel funzionamento del sistema nervoso, nella coagulazione e nella contrazione muscolare, è essenziale per la corretta mineralizzazione delle ossa e dei denti durante l’accrescimento e per mantenere un’adeguata massa ossea e l’integrità dello smalto dei denti negli adulti.
In natura per l’uomo le fonti di approvvigionamento di vitamina D sono due:
La Società Italiana di Nutrizione Umana indica che il fabbisogno medio giornaliero di vitamina D è di 10 microgrammi. Sebbene questo dato rappresenti un’indicazione generalmente valida, va considerato che nelle fasce d’età più avanzate possono intervenire fattori specifici che rendono più difficile acquisire vitamina D.
Tintarella e ossa forti: tempi di esposizione consigliati per non danneggiare la pelle
Esporsi al sole in modo costante è importante affinché le nostre ossa siano meno soggette a fratture, tuttavia dobbiamo sempre ricordare che, soprattutto in estate, questo vuol dire anche esporsi all’effetto dannoso dei raggi UV, perciò bisogna prendere le dovute precauzioni.
Studi scientifici hanno dimostrato che, in estate, basta esporsi per poco tempo al sole per produrre adeguati livelli di vitamina D: esporre viso e braccia al sole per 10 minuti quasi ogni giorno è sufficiente affinché la pelle sintetizzi la giusta quantità di questa sostanza così preziosa. Il tempo di esposizione al sole varia ovviamente in base alla stagione, al luogo in cui ci troviamo, al tipo di pelle e all’area del corpo esposta.
Vediamo più in dettaglio i tempi di esposizione consigliati in base al tipo di pelle*:
– pelle chiara: in estate è sufficiente esporsi quasi ogni giorno per 5-10 minuti a metà mattina o a metà pomeriggio, evitando le ore di picco dei raggi UV; è sufficiente esporre viso e braccia o una superficie equivalente. In inverno è necessario esporre viso e braccia (o equivalente) per 7-30 minuti (a seconda della latitudine), preferibilmente a mezzogiorno.
– pelle scura: in estate è sufficiente esporsi quasi ogni giorno per 15-60 minuti a metà mattina o a metà pomeriggio, evitando le ore di picco dei raggi UV; è sufficiente esporre viso e braccia o una superficie equivalente. In inverno è necessario esporre viso e braccia (o equivalente) per 20 min-3 ore (a seconda della latitudine), preferibilmente a mezzogiorno.
*Fonte: Vitamin D and Health in adults in Australia and New Zealand
Leggi anche: Bimbi e sole, ecco cosa dicono gli esperti
Se le bibite zuccherate fanno invecchiare il cervello
News PresaCon lo zucchero o senza? Quando si sceglie una bibita la decisione non riguarda solo la forma fisica. A rivelarlo sono due studi della Boston University pubblicati dalle riviste Stroke e Alzheimer and Dementia. Entrambe le ricerche sono state condotte su soggetti arruolati nel Framingham Heart Study’s Offspring and Third-Generation, che comprende figli e nipoti dei partecipanti al Framingham Study del 1948. L’esito? Le bibite zuccherate fanno invecchiare il cervello, aumentando il rischio di Alzheimer, e anche quelle «diet» sono associate ad un aumento del rischio di demenza e di ictus.
Gli studi
Nella prima ricerca sono state analizzate 4mila persone sottoposte a risonanza magnetica e a test cognitivi. In quelle che avevano un consumo definito «alto», cioè più di due bibite zuccherate al giorno, sono stati trovati diversi segni di invecchiamento del cervello, da un volume ridotto a una memoria peggiore, considerati fattori di rischio per l’Alzheimer.
Nel secondo studio i ricercatori hanno analizzato quante bibite zuccherate e diet erano state bevute dal gruppo tra il 1991 e il 2001, verificando poi se nel decennio successivo c’erano stati episodi di ictus o demenza. Rispetto a chi non assumeva bevande diet il rischio per chi invece ne consumava una o più al giorno è risultato tre volte maggiore sia per demenza che per ictus. «Questi studi dimostrano una correlazione, ma non un rapporto di causa-effetto – sottolineano gli autori -. Ci sono diverse teorie sul possibile legame tra bibite diet e demenza, ma servono più ricerche».
Una ragione in più
Altri buoni motivi per lasciar perdere le bibite gassate sono legati all’effetto di sostanze come i dolcificanti artificiali. Del resto anche lo zucchero raffinato è considerato dannoso da molti medici. Inoltre, alcuni studi scientifici ripresi tra l’altro attraverso la campagna volta a scoraggiare il consumo di bibite gasate «The Unhappy Truth About Soda», hanno posto in correlazione il consumo di tali bevande con la diffusione, soprattutto nel mondo occidentale, di patologie del «benessere», quali il diabete di tipo 2.
I cereali integrali alleati nella dieta: fanno bruciare più calorie
Alimentazione, News Presa, PrevenzioneMangiare cereali integrali al posto di quelli raffinati riduce l’assorbimento di calorie durante la digestione e accelera il metabolismo. Lo dimostra una prova sperimentale nell’ambito di uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition.
Precedenti ricerche epidemiologiche hanno suggerito effetti benefici di grano, riso, avena e orzo integrali, ovvero ricchi di fibre, per il controllo glicemico e la sensibilità all’insulina. Mancavano però dati scientifici sulla loro supposta utilità nella regolazione del peso. Per colmare questa lacuna, ricercatori della Tufts University di Boston hanno realizzato uno studio randomizzato e controllato, su 81 uomini e donne di età compresa tra 40 e 65 anni. Nel corso di otto settimane hanno fornito loro pasti completi, per esser sicuri che i regimi alimentari differissero solo per il tipo di cereali e farine. Rispetto alle persone che mangiavano cereali raffinati, quelle che rispettavano una dieta con cereali integrali hanno perso un extra di 100 calorie al giorno, a causa di una combinazione di aumento del metabolismo basale a riposo e maggiori perdite fecali. Le conclusioni sono state che la fibra ha avuto effetto anche sull’assunzione di calorie provenienti da altri alimenti. La fame e il senso di pienezza non erano invece statisticamente differenti tra le due diete. “Le calorie in eccesso perse erano equivalente a quelle di una camminata di 30 minuti o al godersi un biscotto in più al giorno”, ha detto l’autore senior dello studio, Susan B. Roberts, direttore dell’Energy Metabolism Laboratory dell’università.
Speciale MOLTO SALUTE – Il Messaggero
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Parkinson: essere nevrotici aumenta il rischio di svilupparlo
Ricerca innovazioneTra i fattori che contribuiscono all’insorgenza della malattia di Parkinson c’è anche uno specifico tratto di personalità chiamato nevroticismo. Questo è il risultato dello studio multicentrico su quasi mezzo milione di persone, realizzato dalla Florida State University in collaborazione con Cnr-Irib, Cnr-Ibfm e pubblicato su Movement Disorders.
Il Parkinson
La malattia di Parkinson colpisce circa l’1-2% della popolazione anziana mondiale ed è la seconda patologia neurodegenerativa più comune dopo il morbo di Alzheimer. Seppur le cause non siano ancora note, gli scienziati ritengono che fattori genetici e ambientali contribuiscano alla sua insorgenza. Una nuova ricerca con partecipazione dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irib) di Cosenza e l’Istituto per le bioimmagini e fisiologia molecolare (Cnr-Ibfm) di Milano, pubblicata su Movement Disorders, indica che anche il tratto di personalità “nevroticismo” è costantemente associato a un maggiore rischio di sviluppare la malattia di Parkinson.
Lo studio
“Il nevroticismo è stato collegato ai disturbi dell’umore e all’Alzheimer, ma ci sono meno studi sulla sua connessione prospettica con il Parkinson, disturbo degenerativo a lungo termine che causa un progressivo declino delle funzioni motorie e fisiche. Quando la malattia progredisce, il danno alle cellule nervose nel cervello provoca un calo dei livelli di dopamina che porta a sintomi come tremori, movimenti lenti, rigidità e perdita di equilibrio”, spiega Luca Passamonti, primo ricercatore presso Cnr-Ibfm di Milano e neurologo presso l’Università di Cambridge.
“In precedenza si pensava che il legame tra la personalità nevrotica e insorgenza del Parkinson fosse collegato all’eccesso di attività dopaminergica che caratterizza il profilo neurocognitivo del nevrotico e che porterebbe a una condizione di stress chimico delle aree dopaminergiche legate allo sviluppo della malattia in età avanzata”, prosegue Antonio Cerasa, neuroscienziato e responsabile della sede Cnr-Irib di Cosenza. “Quest’ipotesi è stata però rigettata negli ultimi anni a favore di una visione rivolta alla compromissione del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene che, nel nevrotico, porterebbe a uno stato di stress ossidativo a lungo termine”.
“Grazie alla possibilità di usare i dati della UK Biobank, in questo studio sono stati reclutati e seguiti per circa 12 anni mezzo milione di individui, di età compresa tra 40 e 69 anni tra il 2006 e il 2010. Durante le valutazioni longitudinali sono comparsi nel campione 1.142 casi di Parkinson. I soggetti che all’inizio dello studio mostravano livelli più elevati di nevroticismo hanno mostrato più dell’80% di rischio di sviluppare la malattia”, conclude Antonio Terracciano della Florida State University di Tallahassee (USA), coordinatore dello studio, condotto in collaborazione anche con università francesi, inglesi e italiane (Roma Tor Vergata). “Ansia e depressione sono fenomeni associati con la malattia di Parkinson. In parte questo problema potrebbe essere dovuto a come la malattia altera il cervello e può avere un’influenza sulle emozioni. Alcuni clinici pensano che ansia e depressione siano solo il risultato del Parkinson, tuttavia i nostri risultati suggeriscono che una certa vulnerabilità emotiva è presente molti anni prima dello sviluppo della malattia”.
Borracce: scelta sostenibile, ma attenzione ai batteri
AlimentazioneLa plastica è un nemico del pianeta. Ogni anno, nel solo Mar Mediterraneo, finiscono in acqua circa 570mila tonnellate di plastica, equivalenti a 33mila bottigliette al minuto. Tuttavia negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza da parte di molti cittadini e oggi sono sempre più le persone che adottano comportamenti più sostenibili e rispettosi nei confronti del pianeta, tra cui l’utilizzo di borracce al posto delle bottiglie di plastica monouso. Ci sono però alcune accortezze da seguire per evitare rischi per la salute.
Borracce sono sostenibili, ma vanno usate correttamente
Le borracce sono una scelta intelligente che riduce il consumo di bottigliette di plastica, ma vanno usate e pulite correttamente. Molti studi hanno dimostrato che, se non vengono lavate bene, possono favorire la nascita di batteri nocivi come le Pseudomonadaceae, tra cui la Pseudomonas Stutzeri e la Pseudomonas Diminuta. Il cattivo odore è il primo campanello d’allarme che significa che la borraccia non è stata pulita adeguatamente. Le borracce sono progettate per mantenere il liquido in esse contenuto in un ambiente umido e scuro, l’ideale per la proliferazione dei batteri, compresi quelli nocivi.
Solo acqua
Nelle borracce andrebbe messa l’acqua, a meno che ci siano precise indicazioni nella confezione che giustifichi il loro utilizzo per contenere altre bevande, dal té alle bevande zuccherate. Infatti, spiega il dottor Michele Lagioia, Direttore Medico Sanitario di Humanitas: “alcune sostanze acide potrebbero andare a intaccare la borraccia stessa, e lo zucchero residuo contenuto in alcune bevande potrebbe creare l’ambiente adatto per la proliferazione dei batteri”. Per quanto riguarda il materiale, è preferibile l’acciaio inossidabile per uso alimentare: riportato sulla confezione con la dicitura “Acciaio inox 18/8” o “304”. Altri ottimi materiali sono il vetro e il rame, ma anche le borracce di plastica non hanno particolari controindicazioni, se mantenute pulite.
Come pulire una borraccia
La borraccia va pulita ogni giorno, lasciandola asciugare senza il tappo. Bastano poche gocce di detersivo per piatti diluite in acqua inserite nella borraccia: basta chiuderla e agitarla forte per fare in modo che il detersivo raggiunga ogni angolo, per poi sciacquarla ripetutamente.
“Se specificato sulla confezione, la si può lavare direttamente in lavastoviglie, mentre una volta alla settimana si può igienizzare più a fondo, magari lasciando agire al suo interno, per una notte, un quinto di aceto bianco e quattro quinti di acqua”, consiglia l’esperto.
Urologia: solo il 15% riconosce una stenosi uretrale. L’indagine
Ricerca innovazioneDifficoltà a urinare, dolore, diminuzione del flusso di urina, stimolo impellente o più frequente del normale. Ad una indagine conoscitiva svolta tra 320 pazienti di tre città italiane (Roma, Catania e Arezzo) chiamata “Quello che gli uomini non dicono” l’85% del campione intervistato ha risposto chiamando in causa la prostata. “È la prima cosa che viene in mente perché sulla prostata è stata fatta molta informazione, ma la risposta giusta è un problema uretrale”.
Succede infatti che all’interno del canale che porta all’esterno urina e spermatozoi si possono creare restringimenti dovuti al deposito di tessuto cicatriziale. Le cause più frequenti, condizioni congenite, un trauma meccanico (come impatti sportivi o causati dall’uso di endoscopi rigidi o cateteri urinari), infezioni batteriche o virali. Meno frequente la responsabilità di una condizione dermatologica chiamata Lichen Sclerosus un processo infiammatorio di natura sclerotica cronica, che coinvolge cute e mucose e nell’83% dei casi si presenta a livello dei tessuti genitali maschili e femminili.
Stenosi uretrale: frequente negli uomini over 50
La ‘stenosi uretrale’ è una condizione relativamente poco nota ma abbastanza diffusa (specialmente nei maschi con più di 50 anni). Per essere diagnosticata correttamente ha bisogno di una accurata anamnesi prima (la raccolta dei dati della storia medica e familiare del soggetto) e di esami strumentali poi.
Dopo la diagnosi si passa alla distinzione rispetto al tratto di uretra interessato: anteriore (bulbare) o posteriore e alla valutazione dei problemi che ne derivano e l’impatto sulla qualità di vita del paziente. La scelta ricade di solito sulla chirurgia.
L’ Italia é leader nel mondo nella chirurgia dell’uretra grazie al lavoro del Professor Guido Barbagli che ha dato il suo nome ad una tecnica ricostruttiva utilizzata nella stenosi uretrale.
L’intervento di uretroplastica con innesto di mucosa orale
Si tratta di un intervento delicato in cui è necessario riaprire il canale uretrale e ripristinare la sua funzionalità, il tutto salvaguardando la funzione sessuale ed estetica. Spiega il Professor Sansalone: “Si tratta di un vero e proprio intervento che coniuga l’urologia alla chirurgia plastica ricostruttiva e all’andrologia: prevede infatti di ripristinare la funzione urinaria e sessuale utilizzando tessuti del paziente. Se sino a qualche anno fa si usava una porzione di cute prelevata dal glande con la circoncisione, più di recente proprio Barbagli ha avuto la felice intuizione di usare un lembo di mucosa prelevata dall’interno della guancia che ha mostrato di avere un tasso di successo elevatissimo. Il fastidio del prelievo dura solo pochi giorni, il paziente può riprendere a mangiare il giorno dopo l’intervento e i punti di sutura si riassorbono spontaneamente dopo circa 1 mese.” spiega Sansalone che aggiunge “un intervento non eseguito a regola d’arte può determinare complicazioni, danni alla funzione sessuale e la necessità di intervenire di nuovo, oltre ad una lunga sequela di problematiche psicologiche che possono interferire con la vita sessuale e di coppia”.
Tecnica gold standard
La mucosa orale è oggi considerata il “gold standard” per qualsiasi tipo di uretroplastica anteriore : le sue caratteristiche biologiche e strutturali la rendono un prodotto altamente versatile e adattabile a qualsiasi chirurgia ricostruttiva dell’uretra. “Nel frattempo – spiega l’esperto – stiamo lavorando a tecniche di ingegneria tissutale per cui le cellule della mucosa epiteliale orale saranno coltivate ed espanse in uno scaffold (supporto)”.
Per chi non è indicato
Alcuni gruppi di pazienti non sono candidati ideali per il prelievo delle guance della mucosa orale: quelli che masticano tabacco o consumano prodotti a base di noce di areca (betel quid, pan masala), poiché sono a rischio di sviluppare fibrosi della sottomucosa orale, che porta a disfagia e una ridotta capacità di aprire la bocca. Pollice verso anche ai pazienti che hanno una malattia infettiva orale (candida, lichene, virus della varicella, virus dell’herpes e altri). Inoltre è controindicato nei pazienti che hanno avuto un precedente intervento chirurgico nell’arco mandibolare che vieta un’ampia apertura della bocca. Quelli che suonano strumenti a fiato o lavorano come oratori dovrebbero essere informati che il prelievo chirurgico della mucosa orale può influenzare negativamente queste attività nel periodo postoperatorio anche se le limitazioni sono temporanee e reversibili. Prima di pianificare il prelievo della mucosa orale, i pazienti devono essere valutati a fondo per verificare l’estensione dell’apertura della bocca, la dimensione del tessuto disponibile su entrambe le guance e la presenza di cicatrici dovute a morsi cronici sulla guancia o interventi chirurgici precedenti.
Atrofia muscolare spinale, i progressi della genetica
Ricerca innovazioneGrazie ad una terapia genetica una bimba di soli 3 anni è stata salvata da una malattia che sino a qualche anno fa le sarebbe costata la vita. Affetta da Atrofia muscolare spinale (SMA), Aurora (nome di fantasia per tutelarne la privacy) è stata restituita alla vita grazie ai medici dell’Ospedale Pediatrico Regina Margherita di Torino. In particolare alla piccola è stata applicata una terapia di modulazione genetica, messa a punto dal Dipartimento di Patologia e Cura del Bambino ‘Regina Margherita’ della Città della Salute, diretto dalla professoressa Franca Fagioli. Un trattamento all’avanguardia – sperimentato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2016 – eseguito dalla dottoressa Federica Ricci, dell’équipe della Neuropsichiatria Infantile (diretta dal professor Benedetto Vitiello), in collaborazione con l’area pediatrica del Gruppo Neuromuscolare (coordinato dalla professoressa Tiziana Mongini).
IL TRATTAMENTO
Utilizzando dei piccoli frammenti di DNA è stato possibile insegnare all’organismo di Aurora a produrre la proteina mancante alla base della SMA, necessaria per lo sviluppo e la sopravvivenza dei motoneuroni, “mascherando” il difetto spontaneo del gene. Proprio da questi piccoli frammenti di DNA i ricercatori hanno ottenuto quello che a tutti gli effetti è un farmaco che viene somministrato nel liquido cerebrospinale grazie ad una puntura lombare. In questo modo il farmaco può raggiungere i motoneuroni del midollo spinale. In età pediatrica, dopo le prime quattro punture lombari in due mesi, la terapia procede con somministrazioni ogni 4 mesi. Per consentire alla piccola di camminare è stato anche necessario procedere con un doppio intervento chirurgico per correggere la conformazione delle anche, anomale a causa di un’altra complicanza dovuta alla SMA. Le operazioni sono state eseguite dall’equipe specializzata in chirurgia dell’anca di Ortopedia pediatrica dello stesso Dipartimento di Patologia e Cura del bambino, composta dal dottor Alessandro Aprato e dal dottor Mattia Cravino. Grazie a questa terapia e a questi interventi chirurgici la piccola ora è letteralmente tornata a vivere, aprendo la strada a tante altre storie come questa. Fatte di sofferenza ma anche di grande speranza e di gioia.
Fibromialgia, la malattia invisibile che colpisce molte donne
Associazioni pazientiSoltanto in Italia colpisce circa 3 milioni di persone, la maggior parte donne, tra i 25 e i 55 anni. La Fibromialgia viene spesso definita come la “malattia invisibile” per via della sua complessa diagnosi, nonostante già ventisei anni fa sia stata catalogata dalla Dichiarazione di Copenaghen nell’ambito delle ‘malattie del sistema muscoloscheletrico e del tessuto connettivo’
La malattia
Si tratta di una sindrome dolorosa cronica da sensibilizzazione centrale caratterizzata dalla disfunzione dei circuiti neurologici preposti all’elaborazione degli impulsi provenienti dalle afferenze del dolore dalla periferia al cervello. I sintomi possono essere diversi, tra cui un dolore muscolo scheletrico diffuso, un affaticamento costante, rigidità di varie parti del corpo, insonnia, continui mal di testa, disfunzioni urinarie, ma anche per la scarsa resistenza all’esercizio fisico, l’astenia o l’alterazione della concentrazione. Questa malattia man mano tende a condizionare e a limitare le normali attività quotidiane di chi ne soffre, con ripercussioni anche gravi sulla qualità della vita. Si tratta di una malattia invalidante, anche se nel nostro Paese ad oggi non è ancora considerata come tale e chi ne è affetto spesso non riceve cure adeguate. Le difficoltà nascono in primo luogo dalla difficile diagnosi che spesso si realizza attraverso un percorso lungo e costoso e, in assenza di una cura specifica. La malattia, infatti, richiede trattamenti multidisciplinari, farmacologici convenzionali e non convenzionali. L’associazione CFU Italia (Comitato Fibromialigici Uniti), presieduta da Barbara Suzzi, gestita da soli malati, da anni si batte, in base all’art.32 della Costituzione che tutela la salute di tutti i cittadini, affinché anche la Fibromialgia venga inserita nei Livelli essenziali di assistenza (LEA) per ampliare i diritti dei malati e per riconoscere cure, spese mediche ed esami diagnostici al pari delle altre malattie invalidanti. Ad oggi l’Associazione sta seguendo l’iter del Ddl 299 all’esame del Senato e per sensibilizzare la cittadinanza ieri è stata presente in molte città italiane, a partire da Roma, con banchetti informativi e raccolta firme. A fianco dei malati è scesa in campo, con un video promozionale della giornata, anche l’attrice Marina Giulia Cavalli.