Tempo di lettura: 5 minutiSono molte le difficoltà espresse dai pazienti con tumori del sangue residenti nel Lazio. Secondo l’indagine molti presidi hanno limitate possibilità diagnostiche e terapeutiche a causa della disparità di risorse. Anche il supporto psicologico è carente e manca continuità di presa in carico tra ospedale e medico di famiglia. Questi sono alcuni dei gap vissuti dai malati oncoematologici laziali. Sono stati illustrati nell’ultimo appuntamento regionale del progetto BRIDGE THE GAP – Insieme per una nuova assistenza ai pazienti oncoematologici, a cura di Isheo srl e La Lampada di Aladino ETS, associazione fondata da ex pazienti, tenutosi al Policlinico Tor Vergata di Roma. Il progetto BRIDGE THE GAP è realizzato con il supporto non condizionante di Astellas Pharma, Astrazeneca e Roche.
L’obiettivo è individuare i GAP da colmare in termini di criticità e di prestazioni erogate per ottimizzare il percorso di cura dei pazienti affetti da tumori del sangue e costruire, infine, uno scenario auspicabile sul piano nazionale. L’indagine è stata eseguita in 3 Regioni italiane (Lazio, Lombardia e Puglia) coinvolgendo per ciascuna 5 stakeholder di riferimento. L’intera ricerca, è validata da un comitato scientifico composto da sei ematologi.
“Per migliorare l’assistenza al paziente ematologico e oncologico, credo che oggi si debba agire in più direzioni sul concetto di fragilità, che in sé va al di là della malattia oncologica – ha detto introducendo i lavori Giuseppe Quintavalle, direttore generale della Fondazione Policlinico Tor Vergata –. Per esempio, sulle modalità di presa in carico, la de-burocratizzazione del sistema può aiutare ad avere più tempo da dedicare al paziente e può aiutare a individuare precocemente i bisogni, non solo sanitari. Soprattutto può favorire la domiciliarità del paziente anche nelle fasi terminali, con accompagnamenti e aiuti, ed evitando il ricorso a ricoveri inappropriati. Il cambiamento culturale è in atto, non possiamo più tornare indietro. Dobbiamo altresì agire sulle inappropriatezze, che esistono nel sistema e da queste ricavare poi una parte dei fondi necessari per realizzare il cambiamento assistenziale”.
Tumori del sangue, i dati sull’assistenza
Dai dati provenienti dal Ministero della Salute – Piano Oncologico Nazionale documento di pianificazione 2023/2027 – l’incidenza complessiva delle neoplasie ematologiche è di circa il 10% rispetto a tutti i tumori, e linfomi e leucemie si classificano rispettivamente come l’ottava e la nona causa di morte per neoplasie.
Quella nel Lazio è l’ultima tappa regionale del progetto Bridge the Gap. “L’individuazione dei gap – precisa Davide Petruzzelli, presidente di Lampada di Aladino ETS – è un punto di partenza per un confronto a cui hanno partecipato tutti gli stakeholders: oncologi, farmacisti ospedalieri, medici di medicina generale, pazienti, manager sanitari. Perché solo ascoltando tutti si può pensare a un cambiamento appropriato e sostenibile. Il messaggio chiave che ne emerge è la necessità di creare sinergie tra ospedale e territorio, per avere cure più prossime ai cittadini come prevede il PNRR, da un lato, e una organizzazione di qualità come disegna il Piano Oncologico Nazionale, dall’altro. In ematologia oncologica l’innovazione inizia a cambiare la storia di alcune patologie e proprio per questo è indispensabile coniugarla con una qualità di vita che non tenga conto solo degli aspetti strettamente clinici”.
Per quanto riguarda il focus sul Lazio, “al fine di poter coniugare una maggiore omogeneità nell’accesso ai servizi sanitari con la qualità delle cure – ha chiarito Adriano Venditti, Ordinario di Ematologia, Università di Roma Tor Vergata Direttore UOC Trapianto Cellule Staminali e UOSD Patologie Mieloproliferative Azienda Policlinico Tor Vergata – è importante affrontare il tema dei modelli organizzativi e delle scelte di politica sanitaria. Essenziale è l’adozione di Linee di indirizzo da parte delle Regioni per creare sinergie tra medicina territoriale ed ospedaliera, rendendo meno complesso il percorso del paziente per accedere alle cure, all’assistenza e alla riabilitazione. In quest’ottica, il ricorso alla telemedicina e l’uso di percorsi diagnostico terapeutici caratterizzati da multidisciplinarietà, rappresentano un valore aggiunto”.
La cura
Il progresso nella ricerca scientifica e l’avvento di terapie innovative e personalizzate hanno permesso, negli ultimi anni, che ci fossero più opportunità per la cura delle neoplasie ematologiche, con un netto guadagno a favore nella qualità di vita dei pazienti da un punto di vista di effetti collaterali, tollerabilità della terapia e risultati terapeutici. “Oggi guarisce il 70% delle persone colpite da tumori del sangue. Quindici anni fa questa percentuale non superava il 30%. Conoscere i gap dell’assistenza ad essi rappresenta il punto di partenza imprescindibile – conferma Maria Teresa Voso, Ordinario di Ematologia, Direttore UOSD Diagnostica avanzata Oncoematologica, Azienda Policlinico Tor Vergata – Per far sì che ciò accada è necessario però che tutti gli stakeholders coinvolti nel percorso di cura dei pazienti ematologici siano resi partecipi del cambiamento, obiettivo cardine del progetto BRIDGE THE GAP. Questo può contribuire, infatti, a indirizzare il percorso del paziente in termini di appropriatezza diagnostica e terapeutica, tempestività delle cure, di un’adeguata assistenza cioè dalla comunicazione della diagnosi, alla spiegazione del percorso terapeutico e al follow-up. In questo contesto, i fabbisogni insoddisfatti dei pazienti e familiari comprendono inoltre l’attuazione di un programma di assistenza smart a domicilio, già nelle fasi precoci della malattia, che permetta una gestione personalizzata delle problematiche soprattutto nei pazienti anziani. Questo richiede il coinvolgimento di personale medico, ma anche infermieristico e di supporto, con l’obiettivo della gestione integrata”.
Va in questa direzione il progetto pilota “Home Delivery” a cura della Società Italiana di Farmacia Ospedaliera (SIFO), illustrato da Marcello Pani. Il progetto, ha spiegato Pani, segretario nazionale SIFO, sta partendo in 4 Regioni (Veneto, Lazio, Abruzzo e Campania), attraverso un’attività integrata ospedale e territorio che coinvolge anche le farmacie di comunità. “In sintesi, si tratta di un progetto pilota di assistenza a domicilio, in partenza nelle prossime settimane, che vuol essere trasversale e universale – specifica Pani – Si adatta a quei pazienti che, in generale, hanno problematiche di fragilità, di residenza disagiata da un punto di vista geografico e di assenza di supporto sufficiente di caregivers. Per i pazienti oncoematologici, questo progetto consentirà di fornire a domicilio terapie orali classificate in fascia H. Ricevendo il farmaco a casa, si vuole azzerare il disagio per il paziente di recarsi in ospedale. Contemporaneamente, questo vantaggio logistico di natura pubblica aiuta anche il SSN perché il farmaco viene consegnato in sicurezza nel momento e nella quantità giusta, evitando attese e sprechi. Inoltre, al paziente viene dato anche un software, un’app scaricabile sul proprio pc, tablet o smartphone, con la quale inserire e gestire in modo autonomo tempi e modalità individuali di somministrazione del farmaco. Tutto ciò innesca – precisa Pani – un percorso virtuoso di informazioni e di dati condivisi con i clinici che permettono di garantire l’aderenza terapeutica, oltre che registrare e correggere eventuali eventi avversi”.
”Sulla base della Gap Analysis svolta anche in Puglia e Lombardia, verrà infine costruito un modello sostenibile di gestione dei pazienti con tumori del sangue che confluirà in un Piano di Intervento nazionale indirizzato a tutte le regioni italiane, alle aziende sanitarie locali e ai centri di cura dei pazienti con neoplasie ematologiche”, spiega Davide Integlia, Ceo di ISHEO, società impegnata nell’analisi e ricerca di strumenti e proposte per contribuire a superare i bisogni medici insoddisfatti, agendo sul fronte della ricerca e della divulgazione, attraverso il coinvolgimento di tutti gli stakeholders che entrano in gioco nella cura del paziente.
Il Piano di Intervento operativo avrà il compito di definire i punti cardine i dell’assistenza al paziente oncoematologico, per rendere le cure uniformi su tutto il territorio e sarà presentato il prossimo 30 maggio al convegno nazionale BRIDGE THE GAP che si terrà a Roma, a Palazzo Ferrajoli.
Disuguaglianze pesano su obesità e diabete. Mortalità doppia al Sud
Alimentazione, Stili di vitaIn Italia il divario socio economico tra il nord e il sud del Paese si riflette su malattie come il diabete. Se nelle regioni settentrionali è pari al 3% in quelle meridionali, dove la mortalità del diabete è doppia, viaggia sull’ 8%, con punte massime in Calabria e Campania. Inoltre le disuguaglianze sono un fattore di rischio: il diabete nei ceti più svantaggiati è pari al 16% fra chi non ha alcun titolo di studio o la sola licenza elementare. Le persone in sovrappeso o obese si trovano principalmente in Calabria e Campania, regione quest’ultima con la più alta prevalenza di obesità infantile con oltre il 50% dei bambini obesi e sovrappeso e con il tasso di mortalità per diabete più alto d’Italia: 5,3 decessi per 10 mila abitanti. A Napoli, in particolare, il tasso è del 4,9 decessi per 10 mila abitanti.
Roma riflette in piccolo questo andamento, con i quartieri più centrali che hanno una prevalenza del diabete pari al 6%, dimezzata rispetto a quella delle periferie, dove è pari al 10-11%. La stessa tendenza si registra a livello mondiale, dove l’incremento del diabete nei prossimi 25 anni riflette la stessa dinamica: contro un aumento del 13% in Europa e del 24% nel Nord America, l’Africa conoscerà una crescita del 134% e il Sud Est asiatico del 68%. Inoltre, la mortalità nel 2021 è stata compresa tra il 9% e il 12% in paesi come l’Etiopia o il Messico, mentre è stata inferiore al 3% negli stati europei e in Canada.
Disuguaglianze diminuiscono aspettativa di vita
Al divario socio economico tra nord e sud in Italia corrisponde anche una differenza nella qualità dei sistemi sanitari di riferimento, che si traduce anche in termini di disparità nelle aspettative di vita che, tra Trentino e Campania, registra un distacco di 3 anni.
Il tema stato affrontato durante “Panorama Diabete – Prevedere per prevenire” organizzato dalla Sid, il Presidente della SID, Angelo Avogaro ha detto: “l’alimentazione corretta è un fattore fondamentale della prevenzione del diabete ed è strettamente legata alle condizioni socioeconomiche degli individui. Anche le informazioni sulla qualità e sulla quantità dei cibi che i pazienti affetti da questa patologia possono assumere sono spesso erronee e derivate da teorie a volte distorte, proprio a causa del livello di istruzione”.
“Il reddito gioca un ruolo fondamentale nella scelta dell’alimentazione – ha detto il Presidente Eletto della SID, Raffaella Buzzetti – dove gli alimenti di bassa qualità hanno una maggiore densità calorica, hanno più grassi e sono fatti per essere conservati più a lungo. Bisogna sostenere coloro che hanno meno strumenti culturali e meno istruzione, dimostrandosi capaci di raggiungere anche chi non è incline alla ricerca di informazioni serie e affidabili riguardo gli stili di vita, fondamentali per la prevenzione del diabete”.
Dai cereali allo yogurt, attenzione ai falsi magri
Alimentazione, BenessereTanti cibi che promettono di essere leggeri o dietetici sono in realtà vere e proprie bombe caloriche. Con l’estate alle porte, sono in molti a cercare di correre ai ripari rispetto ad un’alimentazione spesso eccessiva. Lo spettro della prova costume inizia infatti a palesarsi e, quindi, via con la palestra e con le diete. Tuttavia, anche quando i buoni propositi ci spingono a fare attenzione, può capitare di commettere errori di valutazione che possono vanificare ogni sforzo. Proviamo allora a vedere quali sono i falsi amici della nostra linea e come evitarli.
CEREALI
I primi a richiamare alla mente la leggerezza, ma spesso tutt’altro che dietetici, sono i cereali. Quelli glassati, in particolare, sono bombe caloriche. Attenzione sempre a scegliere un prodotto realmente light perché il più delle volte i cereali contengono molti zuccheri, grassi idrogenati, grassi vegetali di scarsa qualità e tanti conservanti. Benché la pubblicità ce li proponga sempre come una colazione leggera, il rischio di commettere un errore è dietro l’angolo. Se proprio non si può fare a meno di mangiarli, dunque, meglio scegliere qualcosa di integrale. Sempre consultando l’etichetta che indica l’apporto energetico.
SUCCHI DI FRUTTA
Al di là delle premute di frutta fresca, che comunque non dovrebbero essere consumate in eccesso, sono da evitare i succhi di frutta. A meno che non si tratti di prodotti ideati appositamente per mantenere la linea. I succhi di frutta, il più delle volte, sono veri e propri concentrati di zuccheri. E, cosa strana ma vera, spesso contengono pochissima frutta. Attenzione in modo particolare ad evitare i succhi che contengano edulcoranti o che siano ottenuti da concentrato. Questi succhi, infatti, il più delle volte hanno il doppio delle calorie di quelli con frutti non trattati.
SUSHI
Un errore che si commette spesso è quello pensare che il sushi, così come lo si trova preparato nella stragrande maggioranza dei ristoranti in Italia, sia un pasto leggero. Le cause di questo errore sono due: la soia è ricca di sale, favorisce quindi la ritenzione idrica. Difficile anche contenere le porzioni, visto che un singolo rotolo di sushi tagliato in sei o otto pezzi può avere fino a 500 calorie. Inoltre, la maggior parte del riso per sushi viene prodotto aggiungendo aceto e zucchero, il ché lo rende più calorico del normale.
YOGURT
Ultimo alimento che spesso può ingannare chi vuole evitare cibi calorici è lo yogurt. Premesso che uno yogurt di buona qualità, se consumato in modo moderato è perfetto, spesso quello che troviamo al supermercato è un prodotto che contiene molto zucchero e che neanche è propriamente yogurt. In molti casi pensando di acquistare yogurt finiamo per consumare deliziose mousse. Certo, il gusto è avvolgente, ma non si può certo dire che in quel caso si tratti di alimenti dietetici. La morale è semplice: attenzione sempre all’etichetta nella quale vengono riportati valori nutrizionali e ricordare sempre che, spesso, il numero delle calorie è riportato in relazione ad un quantitativo di 100 grammi, non all’intera porzione.
Microplastiche anche nel liquido seminale
Alimentazione, News Presa, One health, Ricerca innovazione, Stili di vitaMicroplastiche nel liquido seminale umano. È allarmante quanto emerso da uno studio presentato al Congresso della Società Italiana della Riproduzione Umana, in corso a Siracusa. Su 10 campioni, raccolta da uomini residenti in Campania, ben 6 hanno mostrato la presenza di micro particelle di plastica. Risultati che, ancora una volta, mettono in luce quanto sia ormai contaminato l’ambiente e quali ripercussioni ci siano per la salute.
IL PRECENDENTE
Lo studio ha un precedente che aveva già destato non poca preoccupazione da parte degli addetti ai lavori. A gennaio 2023, lo stesso gruppo di lavoro che ha svolto questa nuova indagine aveva trovato per la prima volta microplastiche in urine di residenti di Napoli e Salerno. Oggi, invece, grazie ad un esame molto accurato (la microspettroscopia raman) sono stati identificati 16 frammenti di microplastiche nello sperma umano delle dimensioni da 2 a 6 micron. Tanto per rendere l’idea, di una dimensione inferiore ad un granellino di polvere. Molto piccolo, insomma, ma non per questo meno preoccupante. Tra le sostanze ritrovate polipropilene, polietilene, polistirene, polivinilcloruro, policarbonato e materiale acrilico.
CAVALLO DI TROIA
Una delle osservazioni degli scienziati è anche quella che riguarda la quantità di liquido seminale, apparsa scarsa. Benché non sia ancora possibile affermare una correlazione tra la presenza delle microplastiche e questa condizione, per commenta Luigi Montano, coordinatore del progetto di ricerca EcoFoodFertility e past president della Società della Riproduzione Umana, l’ipotesi potrebbe esser supportata dal fatto che le stesse microplastiche «fanno da cavallo di Troia per altri contaminanti ambientali che, legandosi ad esse procurano ulteriori danni all’interno agli organi riproduttivi, molto sensibili agli inquinanti chimici».
DETERGENTI E COSMETICI
Ma come avviene la contaminazione? Le possibilità allo studio sono varie. La colpa può essere di cosmetici, detergenti, dentifrici, creme per il corpo, bevande, cibi o anche particelle disperse nell’aria, e le vie di ingresso nell’organismo possono essere l’alimentazione, la respirazione e anche la pelle, spiegano gli autori, Oriana Motta (dell’Università di Salerno), Marina Piscopo (dell’Università Federico II di Napoli) e Elisabetta Giorgini (dell’Università Politecnica delle Marche). «Le vie più probabili di passaggio al seme umano – conclude Montano – sembra siano l’epididimo e le vescicole seminali, strutture più facilmente suscettibili a processi infiammatori che possono favorire la maggiore permeabilità».
Tumore della mammella, in Italia le migliori cure
Medicina Sociale, News Presa, Prevenzione, Stili di vitaLa chirurgia e la cura del tumore della mammella? L’Italia è forse il Paese migliore in Europa. C’è da crederci se dirlo è Paolo Veronesi, ordinario di Chirurgia generale dell’Università di Milano e direttore dell’Unità operativa di Chirurgia senologica dell’Istituto Europeo di Oncologia.
Il professor Paolo Veronesi
Intervenuto a Napoli per una lezione nell’ambito dei seminari di chirurgia organizzati dalla Scuola di Specializzazione in Chirurgia generale dell’Università Federico II, Veronesi ha spiegato che «in Italia si cura meglio e si guarisce meglio dal tumore al seno grazie al nostro Sistema sanitario nazionale e all’istituzione delle Breast Unit che sono l’unico luogo in cui si possono curare i tumori della mammella perché al loro interno dialogano tutti gli specialisti. L’approccio multidisciplinare è quello che dà i migliori risultati in termini di guarigione».
CHIRURGIA CONSERVATIVA
Ruolo chiave nella cura del tumore alla mammella lo ha avuto la ricerca. Per Veronesi la chirurgia senologica ha fatto negli ultimi anni enormi passi in avanti e grandi progressi arrivando così a una chirurgia sempre più “conservativa e rispettosa” dell’immagine della donna, evitando di fare interventi che compromettano le attività funzionali. Oggi è possibile effettuare radioterapie sempre più limitate nel tempo e più concentrate e quindi con minori effetti collaterali. Soprattutto la grande innovazione è stata nelle terapie mediche sempre più mirate con terapie a bersaglio molecolare, immunoterapia e la possibilità di evitare la chemioterapia quando se ne può fare a meno grazie ai test genomici che sono patrimonio comune in tutte le regioni italiane.
GUARIGIONI
Veronesi ha fatto riferimento ad alcuni dati che indicano come oggi si tocchi il 90 per cento di guarigioni a 5 anni, ma allo stesso tempo si registra un aumento dell’incidenza della malattia. «Per fortuna – ha sottolineato – dopo la pandemia sono ripresi gli screening e le attività di prevenzione che ci consentono di vedere i tumori in fase inziale con elevatissime possibilità di guarigione».
SINERGIE
In sala non solo specializzandi dell’Ateneo federiciano ma anche oncologi, biologi e professori. «Ritengo che questo sia un momento importante – ha detto Giovanni De Palma, direttore della Scuola federiciana – per l’elevata qualificazione scientifica del professore Veronesi, tra i massimi esperti di una patologia sempre più frequente ma sempre più curabile soprattutto se identificata in fase precoce». Tra i presenti anche Tommaso Pellegrino, chirurgo oncologo Breast Unit dell’Azienda ospedaliera universitaria Federico II, che ha evidenziato come l’Unità federiciana costituisca «un punto di riferimento per la Campania in termini di numeri, di ricerca e per qualità. La presenza del professore Veronesi – ha concluso – è la dimostrazione che nel nostro territorio abbiamo costruito una sinergia importante finalizzata a formare nel modo migliore possibile i nostri specializzandi».
I bambini abusati invecchiano prima e si ammalano di più
Bambini, Madri-padri, Ricerca innovazioneI bambini che subiscono abusi invecchiano prima. La cosa che lascia basiti è che questo invecchiamento precoce non è legato a stati d’animo, ma ad una modificazione genetica. Il Dna, infatti, si modifica a causa delle violenze subite. Facile comprendere le implicazioni di questa scoperta, visto che adesso è provato che la violenza lascia segni e alterazioni indelebili sul codice genetico, tanto da compromettere la salute da adulti.
LO STUDIO
A dimostrare la correlazione tra le violenze subite nell’infanzia e un cambiamento nel Dna è uno studio congiunto dell’Università di Glasgow e dall’Università di Hong Kong. La ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati sul prestigioso British Journal of Psychiatry, hanno dimostrato che le violenze sofferte durante l’infanzia e l’adolescenza possono accorciare i telomeri, la parte del Dna che decide quanto dobbiamo vivere. I risultati sono tanto più importanti se si considera il campione analizzato. L’analisi retrospettiva, la più ampia mai realizzata, ha infatti preso in esame un campione di ben 141.748 individui di età compresa fra i 37 e i 73 anni.
I TELOMERI
Per comprendere al meglio lo studio è importante spiegare, seppur in modo semplicistico, cosa sono e a cosa servono i telomeri. Si tratta di piccole porzioni di Dna che si trovano alla fine di ogni cromosoma. La funzione dei telomeri è quella di impedire all’elica di sfibrarsi. Come una guaina che, posta alla fine di una corda, le impedisce di sfilacciarsi. Benché ci sia ancora molto da comprendere nei meccanismi che regolano il loro funzionamento, i telomeri sono fondamentali nel determinare la durata della vita di ciascuna cellula e, quindi, dell’individuo.
PATOLOGIE ONCOLOGICHE
Al di là dell’invecchiamento precoce, gli abusi sono associati anche a una maggiore frequenza di tumori. In particolare, le donne mostrano un rischio doppio di ammalarsi di cancro rispetto a chi non ha subito maltrattamenti. I risultati dello studio hanno dimostrato che gli adulti esposti da bambini a tre episodi o più tipi di maltrattamento (fisico, sessuale ed emotivo) hanno i telomeri più corti rispetto a chi non ha subito alcuna violenza o ne ha subita una sola. I telomeri sono risultati ancor più corti nelle persone che avevano sofferto la combinazione di abusi fisici e sessuali.
Ipercolesterolemia, terapia riduce rischio eventi cardiovascolari
Farmaceutica, Ricerca innovazioneSi parla di ipercolesterolemia quando il colesterolo totale (LDL più HDL) è troppo alto. Quando le LDL – il cosiddetto “colesterolo cattivo” – sono in eccesso tendono a depositarsi sulla parete delle arterie, creando ispessimento e indurimento progressivi. Le malattie cardiovascolari continuano a rappresentare la prima causa di morte in Europa e sono responsabili della perdita di oltre 10 mila vite al giorno. Alti livelli di colesterolo non danno sintomi diretti, per questo molte persone ignorano di soffrire di ipercolesterolemia.
Secondo delle ultime evidenze, l’acido bempedoico riduce il rischio di eventi cardiovascolari maggiori. I pazienti, quindi, possono raggiungere più facilmente i target di colesterolo LDL (C-LDL) delle linee guida. I dati emergono dal trial di Fase 3 CLEAR Outcomes e dallo studio osservazionale multinazionale SANTORINI presentati nel corso del congresso della Società Europea di Aterosclerosi, in corso a Mannheim.
I risultati dello studio CLEAR Outcomes, condotto dall’azienda biotecnologica statunitense Esperion Therapeutics Inc., dimostrano una riduzione del rischio relativo (RRR) del 13% nell’endpoint primario costituito da un insieme di quattro componenti di eventi avversi cardiovascolari maggiori (MACE-4), definiti come morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o rivascolarizzazione coronarica. I risultati del trial CLEAR Outcomes includono anche tassi di riduzione del rischio per l’endpoint chiave secondario del composito a tre componenti di eventi avversi cardiovascolari maggiori (MACE-3: morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico non fatale o ictus non fatale); infarto del miocardio fatale o non fatale e rivascolarizzazione coronarica. Questi risultati integrano le precedenti evidenze che hanno dimostrato che l’acido bempedoico riduce i livelli di colesterolo LDL del 17-28%, e mostrano che il trattamento nei pazienti che non potevano o non volevano assumere statine è anche associato a un minor rischio di eventi cardiovascolari avversi maggiori. I nuovi dati fanno dell’acido bempedoico il primo inibitore orale dell’ATP citrato-liasi (ACL) a ridurre sia il C-LDL che il rischio di eventi cardiovascolari maggiori, e segnano un passo fondamentale nella lotta alle malattie cardiovascolari in Europa.
Ipercolesterolemia, lo studio
Lo studio SANTORINI è il primo studio a indagare come la gestione dei lipidi si sia evoluta nella pratica clinica, dopo la pubblicazione delle linee guida ESC/EAS 2019 che raccomandano obiettivi di colesterolo LDL più bassi rispetto al passato.
I dati di follow-up a un anno dello studio, che ha incluso 7.210 pazienti, hanno mostrato un miglioramento dei livelli medi di colesterolo LDL di ~0,4 mmol/L nei pazienti a rischio alto e molto alto. A un anno di follow-up, una percentuale maggiore di pazienti ha raggiunto l’obiettivo di C-LDL rispetto al basale (31,2% vs. 21,2%). Questo potrebbe essere in parte dovuto al cambiamento del regime terapeutico di quei pazienti che al basale non assumevano terapie ipolipemizzanti e che hanno iniziato un trattamento a un anno di follow-up. Inoltre, a un anno di follow-up, si è registrato un maggiore uso di terapie di combinazione rispetto al basale (41,2% vs. 27,5%).2 Dunque le terapie di combinazione, rispetto alle monoterapie, dovrebbero essere considerate come standard di cura nei pazienti ad alto rischio e, in particolare, in quelli a rischio molto alto.
“Sono incoraggiato dagli ultimi risultati dello studio SANTORINI, secondo cui un numero maggiore di persone sta raggiungendo gli obiettivi di colesterolo LDL, ma la strada da percorrere è ancora lunga. In Europa quasi l’80% dei pazienti a rischio alto o molto alto di eventi cardiovascolari non raggiunge gli obiettivi di C-LDL raccomandati dalle linee guida, esponendoli a un rischio elevato di incorrere in un evento cardiovascolare acuto e spesso fatale. È fondamentale che gli operatori sanitari utilizzino appieno tutti gli strumenti a loro disposizione per ridurre il C-LDL dei pazienti e, conseguentemente, il rischio di infarto e ictus ischemico”, ha spiegato il Professor Kausik Ray, Professore di Sanità Pubblica e Presidente della Società Europea di Aterosclerosi, nonché sperimentatore principale dello studio SANTORINI. “I dati presentati oggi segnano un passo entusiasmante e cruciale nel fornire ai medici le opzioni terapeutiche necessarie per mitigare l’impatto delle malattie cardiovascolari in tutta Europa e dimostrano chiaramente il ruolo essenziale che le terapie di associazione svolgono nel raggiungimento degli obiettivi di C-LDL.”
Eventi avversi
“Le evidenze sino ad oggi a disposizione sull’acido bempedoico, farmaco first in class che inibisce la sintesi epatica del colesterolo limitando l’azione dell’enzima ACL, riguardavano il suo effetto sulla riduzione del colesterolo LDL, ma non il suo impatto sulla morbilità e mortalità cardiovascolare. Lo studio CLEAR Outcomes risponde a questa domanda e dimostra che l’acido bempedoico riduce gli eventi avversi cardiovascolari maggiori in pazienti con o ad alto rischio di malattia cardiovascolare”, ha commentato il Professore Alberico Catapano, di Multimedica IRCCS e Università degli Studi di Milano, nonché co-chairman delle linee guida EAS/ESC per il trattamento delle dislipidemie. Questo pone l’acido bempedoico come una opzione terapeutica aggiuntiva che, attraverso la riduzione del colesterolo LDL, può aiutare i pazienti a rischio alto e molto alto a ridurre il loro rischio cardiovascolare. Inoltre, questi dati mostrano che l’acido bempedoico può rispondere a un’esigenza clinica insoddisfatta, fornendo un’opzione terapeutica efficace per quei pazienti che non vogliono aumentare il dosaggio o non possono assumere la terapia statinica”.
Il trattamento con acido bempedoico nello studio CLEAR Outcomes è stato associato a pochi eventi avversi e, l’incidenza complessiva di quelli che hanno portato all’interruzione del trattamento, non differiva in modo significativo tra i gruppi acido bempedoico e placebo. Inoltre, l’acido bempedoico rispetto al placebo non ha aumentato i livelli di glucosio nel sangue o l’incidenza di diabete di nuova insorgenza.
Prediabete: terapie preventive, fattori di rischio, stili di vita
Alimentazione, Prevenzione, Stili di vitaDiabetici non si diventa da un giorno all’altro. Quando si parla di diabete di tipo II le premesse che conducono alla malattia in genere vanno avanti per diversi anni. Siamo in una fase definita di prediabete, un problema che riguarda oltre quattro milioni di italiani, soprattutto donne. Almeno una persona su quattro scivolerà verso il diabete conclamato entro cinque anni. Infatti, il prediabete è un fattore di rischio per lo sviluppo del diabete di tipo 2. Nell’11 per cento dei casi non trattati, la malattia arriva entro tre anni e nel 25 per cento entro cinque anni. Ad oggi non esistono linee guida definitive per gestire la condizione che non è ancora patologica. Si riconosce dalla glicemia a digiuno che può essere appena sopra il limite normale (tra 100 e 125 mg/dl). Nel frattempo però si fa strada una ridotta tolleranza al glucosio, con valori di glicemia nel sangue tra 140 e 199 mg/dl due ore dopo un esame di curva da carico.
Il prediabete
Secondo i dati più recenti, si stima che siano circa 4,5 milioni le persone con prediabete in Italia. In questi casi, il rischio cardio-vascolare è più alto rispetto alla popolazione con glicemia bassa, pari al 18% contro l’11% nell’arco di 5 anni. Sebbene non per forza debba sopraggiungere il diabete, ci sono strategie di prevenzione per impedire o ritardare la malattia. Il primo step è lo screening glicemico. Se ne è parlato di recente al forum multidisciplinare “Panorama diabete – Prevedere per prevenire” promosso dalla Società Italiana di Diabetologia presieduta da Angelo Avogaro. Oggi la definizione del prediabete non tiene conto dell’associazione tra tratti genetici e caratteristiche cliniche della fisiopatologia del diabete di tipo 2. Inoltre non è predittiva delle future traiettorie metaboliche degli individui.
Patologie correlate alle città
Queste patologie sono sempre più strettamente correlate all’ambiente in cui si vive: eccessiva urbanizzazione, inquinamento, stili di vita errati e istruzione. L’International Diabetes Federation e l’OMS ribadiscono che la città è il luogo dove contrastare la crescita del diabete. Infatti, la vita nelle aree urbane corrisponde a una minore attività fisica. Se nel 2025 il 65% degli individui con diabete vivrà nelle città, nel 2040 saranno il 75%. L’esposizione prolungata allo smog, associata all’adiposità, è responsabile del 15% dei casi di diabete di tipo 2 nel mondo. Il resto lo fanno lo stile di vita e un’alimentazione inadeguati, oltre allo scarso esercizio fisico. L’obesità o il sovrappeso favoriscono il diabete mellito. Infine, nelle persone meno istruite il rischio di diabete è in media superiore del 60%. L’obesità e il sovrappeso in Italia interessano oltre 25 milioni di persone. Si tratta del 46% degli adulti e il 26,3% dei bambini e adolescenti tra i 3 e i 17 anni, secondo i numeri dell’Italian Barometer Obesity Report.
Prediabete e fenotipi
“Il tema del prediabete – dichiara il Presidente di SID, Angelo Avogaro – è attualissimo anche alla luce del milione di cittadini che in Italia soffrono di diabete ma non sanno di averlo. È necessario quindi identificare il prediabete nei cittadini a rischio per la malattia: i sedentari, quelli con forte familiarità per diabete, i pazienti con sovrappeso e anche coloro che per altre patologie devono seguire per lungo tempo terapie a base di cortisone”. “Già da anni – dichiara il Presidente Eletto di SID, Raffella Buzzetti – abbiamo dimostrazioni scientifiche che dallo stato di “prediabete” si può regredire a normoglicemia con un cambiamento dello stile di vita in termini di incremento dell’esercizio fisico e di dieta equilibrata, accompagnato da perdita di peso se si è in sovrappeso. Il diabetologo è lo specialista che più di ogni altro può effettuare medicina di prevenzione suggerendo il percorso terapeutico più appropriato a questi pazienti”.
Malattie infiammatorie intestino: un terzo dei pazienti non accede a biologici
Farmaceutica, Ricerca innovazioneIn Italia un terzo dei pazienti con malattia di Crohn e colite ulcerosa non accede ai farmaci biologici. A dirlo è uno studio, basato su dati nazionali, pubblicato sul numero di maggio della rivista “Digestive and Liver Disease”. Su oltre 26mila persone affette da malattie infiammatorie croniche dell’intestino, il 68% viene trattato farmacologicamente. Fra questi, solo all’11,7% viene prescritto il biologico. Lo studio ha individuato 7.651 pazienti che pure essendo eleggibili, non accedono ai biologici. Negli ultimi 25 anni, questi farmaci si sono dimostrati efficaci nell’induzione e nel mantenimento della remissione clinica ed endoscopica, abbassando il rischio di intervento chirurgico e di ospedalizzazione Bikinis, Swimsuits, Swimwear for Women.
Malattie intestino, spesso sottostimate
“Una delle cause della scarsa prescrizione dei biologici nel nostro Paese è la sottostima della severità e della progressione della malattia”, spiega uno degli autori dello studio, il professor Flavio A. Caprioli, Segretario Generale dell’Italian Group For The Study Of Inflammatory Bowel Disease (IG-IBD), gastroenterologo presso laFondazione IRCSS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.
“Un uso più appropriato dell’endoscopia – continua – potrebbe aiutare a valutare in maniera obiettiva lo stato dell’infiammazione dell’intestino. L’indagine endoscopica permette infatti di valutare la severità delle lesioni della mucosa e, di conseguenza, procedere alla prescrizione dei trattamenti farmacologici più consoni, fra i quali i farmaci biologici. Allo stesso tempo, grazie all’endoscopia, lo specialista può accertare l’eventuale remissione endoscopica della malattia e stabilire di interromperne la somministrazione, evitando così l’aggravio per il paziente e gli sprechi per il Servizio sanitario nazionale”.
Il ruolo dell’endoscopia
A distanza di dieci anni dalla prima edizione, la Società scientifica ha promosso di recente a Milano l’evento formativo IG-IBD Endo 3.0, con l’obiettivo di aggiornare e diffondere la conoscenza di metodiche e standard di valutazione endoscopica. “È necessario – osserva il professor Caprioli – che la formazione sugli strumenti diagnostici sia ampiamente diffusa e che tutti gli operatori utilizzino un linguaggio condiviso, visto che le informazioni scaturite dal quadro endoscopico hanno implicazioni cliniche”.
“Come dimostrano i risultati in letteratura, in particolare per la malattia di Crohn, l’uso ottimale dei sistemi di misurazione dell’infiammazione della mucosa attraverso gli indici consente di rilevare il miglioramento endoscopico, individuare i casi in cui è possibile personalizzare le terapie e predire il decorso della patologia”, commenta il dottor Marco Daperno, Dirigente Medico di I Livello S.C. Gastroenterologia A.O. Ordine Mauriziano di Torino, fra i membri del board scientifico del progetto formativo.
Dopo la prima edizione, con la serie di incontri fra il 2013 e il 2014, al quale parteciparono 237 specialisti italiani, i risultati furono già oggetto di una pubblicazione sul “Journal of Crohn’s and Colitis” nel 2016. “Grazie al processo di formazione dedicato, fu registrato un aumento significativo dell’accordo di valutazioni tra gli osservatori dei video endoscopici”, ricorda il dottor Daperno, fra gli autori dello stesso articolo. Inoltre l’applicazione più recente delle tecnologie avanzate nell’endoscopia permette di prevedere la guarigione istologica nella colite ulcerosa in maniera accurata, grazie all’identificazione delle caratteristiche endoscopiche, valutate sulla base di punteggi. “Le innovazioni tecnologiche oggi consentono allo specialista di osservare con ancora maggiore accuratezza lo stato della malattia e di stabilire la probabilità di risposta alle terapie, considerando allo stesso tempo l’andamento più favorevole”, commenta il dottor Ambrogio Orlando, direttore della IBD Unit della Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti “Villa Sofia-Cervello” di Palermo, fra i membri del board scientifico del progetto formativo. “L’uso delle terapie avanzate – aggiunge – negli ultimi anni ha contribuito a ridurre il tasso di ileostomie definitive nei pazienti affetti da colite di Crohn con malattia perianale, rispetto al passato. I dati italiani dimostrano che, anche in questo caso, l’indagine endoscopica consente di orientare le terapie sulla base di osservazioni e valutazioni più accurate dello stadio della patologia”.
Tumori del sangue e assistenza, il progetto fa tappa nel Lazio
News PresaSono molte le difficoltà espresse dai pazienti con tumori del sangue residenti nel Lazio. Secondo l’indagine molti presidi hanno limitate possibilità diagnostiche e terapeutiche a causa della disparità di risorse. Anche il supporto psicologico è carente e manca continuità di presa in carico tra ospedale e medico di famiglia. Questi sono alcuni dei gap vissuti dai malati oncoematologici laziali. Sono stati illustrati nell’ultimo appuntamento regionale del progetto BRIDGE THE GAP – Insieme per una nuova assistenza ai pazienti oncoematologici, a cura di Isheo srl e La Lampada di Aladino ETS, associazione fondata da ex pazienti, tenutosi al Policlinico Tor Vergata di Roma. Il progetto BRIDGE THE GAP è realizzato con il supporto non condizionante di Astellas Pharma, Astrazeneca e Roche.
L’obiettivo è individuare i GAP da colmare in termini di criticità e di prestazioni erogate per ottimizzare il percorso di cura dei pazienti affetti da tumori del sangue e costruire, infine, uno scenario auspicabile sul piano nazionale. L’indagine è stata eseguita in 3 Regioni italiane (Lazio, Lombardia e Puglia) coinvolgendo per ciascuna 5 stakeholder di riferimento. L’intera ricerca, è validata da un comitato scientifico composto da sei ematologi.
“Per migliorare l’assistenza al paziente ematologico e oncologico, credo che oggi si debba agire in più direzioni sul concetto di fragilità, che in sé va al di là della malattia oncologica – ha detto introducendo i lavori Giuseppe Quintavalle, direttore generale della Fondazione Policlinico Tor Vergata –. Per esempio, sulle modalità di presa in carico, la de-burocratizzazione del sistema può aiutare ad avere più tempo da dedicare al paziente e può aiutare a individuare precocemente i bisogni, non solo sanitari. Soprattutto può favorire la domiciliarità del paziente anche nelle fasi terminali, con accompagnamenti e aiuti, ed evitando il ricorso a ricoveri inappropriati. Il cambiamento culturale è in atto, non possiamo più tornare indietro. Dobbiamo altresì agire sulle inappropriatezze, che esistono nel sistema e da queste ricavare poi una parte dei fondi necessari per realizzare il cambiamento assistenziale”.
Tumori del sangue, i dati sull’assistenza
Dai dati provenienti dal Ministero della Salute – Piano Oncologico Nazionale documento di pianificazione 2023/2027 – l’incidenza complessiva delle neoplasie ematologiche è di circa il 10% rispetto a tutti i tumori, e linfomi e leucemie si classificano rispettivamente come l’ottava e la nona causa di morte per neoplasie.
Quella nel Lazio è l’ultima tappa regionale del progetto Bridge the Gap. “L’individuazione dei gap – precisa Davide Petruzzelli, presidente di Lampada di Aladino ETS – è un punto di partenza per un confronto a cui hanno partecipato tutti gli stakeholders: oncologi, farmacisti ospedalieri, medici di medicina generale, pazienti, manager sanitari. Perché solo ascoltando tutti si può pensare a un cambiamento appropriato e sostenibile. Il messaggio chiave che ne emerge è la necessità di creare sinergie tra ospedale e territorio, per avere cure più prossime ai cittadini come prevede il PNRR, da un lato, e una organizzazione di qualità come disegna il Piano Oncologico Nazionale, dall’altro. In ematologia oncologica l’innovazione inizia a cambiare la storia di alcune patologie e proprio per questo è indispensabile coniugarla con una qualità di vita che non tenga conto solo degli aspetti strettamente clinici”.
Per quanto riguarda il focus sul Lazio, “al fine di poter coniugare una maggiore omogeneità nell’accesso ai servizi sanitari con la qualità delle cure – ha chiarito Adriano Venditti, Ordinario di Ematologia, Università di Roma Tor Vergata Direttore UOC Trapianto Cellule Staminali e UOSD Patologie Mieloproliferative Azienda Policlinico Tor Vergata – è importante affrontare il tema dei modelli organizzativi e delle scelte di politica sanitaria. Essenziale è l’adozione di Linee di indirizzo da parte delle Regioni per creare sinergie tra medicina territoriale ed ospedaliera, rendendo meno complesso il percorso del paziente per accedere alle cure, all’assistenza e alla riabilitazione. In quest’ottica, il ricorso alla telemedicina e l’uso di percorsi diagnostico terapeutici caratterizzati da multidisciplinarietà, rappresentano un valore aggiunto”.
La cura
Il progresso nella ricerca scientifica e l’avvento di terapie innovative e personalizzate hanno permesso, negli ultimi anni, che ci fossero più opportunità per la cura delle neoplasie ematologiche, con un netto guadagno a favore nella qualità di vita dei pazienti da un punto di vista di effetti collaterali, tollerabilità della terapia e risultati terapeutici. “Oggi guarisce il 70% delle persone colpite da tumori del sangue. Quindici anni fa questa percentuale non superava il 30%. Conoscere i gap dell’assistenza ad essi rappresenta il punto di partenza imprescindibile – conferma Maria Teresa Voso, Ordinario di Ematologia, Direttore UOSD Diagnostica avanzata Oncoematologica, Azienda Policlinico Tor Vergata – Per far sì che ciò accada è necessario però che tutti gli stakeholders coinvolti nel percorso di cura dei pazienti ematologici siano resi partecipi del cambiamento, obiettivo cardine del progetto BRIDGE THE GAP. Questo può contribuire, infatti, a indirizzare il percorso del paziente in termini di appropriatezza diagnostica e terapeutica, tempestività delle cure, di un’adeguata assistenza cioè dalla comunicazione della diagnosi, alla spiegazione del percorso terapeutico e al follow-up. In questo contesto, i fabbisogni insoddisfatti dei pazienti e familiari comprendono inoltre l’attuazione di un programma di assistenza smart a domicilio, già nelle fasi precoci della malattia, che permetta una gestione personalizzata delle problematiche soprattutto nei pazienti anziani. Questo richiede il coinvolgimento di personale medico, ma anche infermieristico e di supporto, con l’obiettivo della gestione integrata”.
Va in questa direzione il progetto pilota “Home Delivery” a cura della Società Italiana di Farmacia Ospedaliera (SIFO), illustrato da Marcello Pani. Il progetto, ha spiegato Pani, segretario nazionale SIFO, sta partendo in 4 Regioni (Veneto, Lazio, Abruzzo e Campania), attraverso un’attività integrata ospedale e territorio che coinvolge anche le farmacie di comunità. “In sintesi, si tratta di un progetto pilota di assistenza a domicilio, in partenza nelle prossime settimane, che vuol essere trasversale e universale – specifica Pani – Si adatta a quei pazienti che, in generale, hanno problematiche di fragilità, di residenza disagiata da un punto di vista geografico e di assenza di supporto sufficiente di caregivers. Per i pazienti oncoematologici, questo progetto consentirà di fornire a domicilio terapie orali classificate in fascia H. Ricevendo il farmaco a casa, si vuole azzerare il disagio per il paziente di recarsi in ospedale. Contemporaneamente, questo vantaggio logistico di natura pubblica aiuta anche il SSN perché il farmaco viene consegnato in sicurezza nel momento e nella quantità giusta, evitando attese e sprechi. Inoltre, al paziente viene dato anche un software, un’app scaricabile sul proprio pc, tablet o smartphone, con la quale inserire e gestire in modo autonomo tempi e modalità individuali di somministrazione del farmaco. Tutto ciò innesca – precisa Pani – un percorso virtuoso di informazioni e di dati condivisi con i clinici che permettono di garantire l’aderenza terapeutica, oltre che registrare e correggere eventuali eventi avversi”.
”Sulla base della Gap Analysis svolta anche in Puglia e Lombardia, verrà infine costruito un modello sostenibile di gestione dei pazienti con tumori del sangue che confluirà in un Piano di Intervento nazionale indirizzato a tutte le regioni italiane, alle aziende sanitarie locali e ai centri di cura dei pazienti con neoplasie ematologiche”, spiega Davide Integlia, Ceo di ISHEO, società impegnata nell’analisi e ricerca di strumenti e proposte per contribuire a superare i bisogni medici insoddisfatti, agendo sul fronte della ricerca e della divulgazione, attraverso il coinvolgimento di tutti gli stakeholders che entrano in gioco nella cura del paziente.
Il Piano di Intervento operativo avrà il compito di definire i punti cardine i dell’assistenza al paziente oncoematologico, per rendere le cure uniformi su tutto il territorio e sarà presentato il prossimo 30 maggio al convegno nazionale BRIDGE THE GAP che si terrà a Roma, a Palazzo Ferrajoli.
Chip nel cervello, via alla sperimentazione sull’uomo
News Presa, Ricerca innovazioneUn cervello potenziato, capace di collegarsi con l’intelligenza artificiale. Quello che sino a ieri sembrava più che altro un sogno, sta velocemente diventando realtà grazie ad un chip impiantato a livello neurale. È ormai un fatto che Neuralink, la società che sviluppa l’interfaccia cervello-macchina di Elon Musk, ha ricevuto l’approvazione dalla Food and Drug Administration (Fda) statunitense per condurre il suo primo studio clinico sull’uomo.
INTERFACCIA
Il commento della società di Musk è arrivato puntuale su Twitter, anche quello di Musk, con un auspicio: la nostra tecnologia aiuterà molte persone. Nonostante questo, il reclutamento per la sperimentazione sull’uomo non è ancora iniziato. Né tantomeno la Fda ha detto alcun ché sulla portata del progetto. Ma come nasce Neuralink? La società è stata fondata nel 2016 e finanziata principalmente da Musk per sviluppare un nuovo tipo di chip e di tecnologia di interfaccia tra il cervello umano e i dispositivi informatici.
NUOVE PROSPETTIVE
Se i più fantasiosi pensano già a super cervelli con le potenzialità pressocché infinite dell’unione tra uomo e macchina, la realtà sembra essere per ora un po’ più contenuta. Ma non per questo meno stupefacente. L’installazione di un chip nel cranio umano potrebbe ripristinare la funzione degli arti, migliorare il movimento umano, risolvere problemi con la vista e l’udito e aiutare con malattie come il Parkinson.