Tempo di lettura: 5 minutiSi cerca lo “sballo” e si trova la morte e le pagine di cronaca si riempiono ogni settimana di tragedie del sabato sera. Hanno avuto un arresto soltanto durante il “lockdown”, dovuto all’epidemia da Covid-19, ma il problema dell’abuso di alcol resta ed è il primo responsabile delle morti nei giovani fino ai 24 anni. Non solo. Abuso e dipendenza da alcol sono responsabili di oltre 200 patologie: da quelle psichiatriche, alle malattie croniche, ai tumori, fino agli incidenti, infatti sono uno dei primi fattori di rischio di morte prematura in Europa. Nel mondo occidentale l’abuso di alcol è la più frequente causa di malattie del fegato: dalla steatosi (fegato grasso), alla steatoepatite (fegato grasso infiammato), alla fibrosi (‘cicatrizzazione’ del fegato), alla cirrosi (fegato sostituito da tessuto fibrotico-cicatriziale e non più funzionante), al cancro. Oltre il 60% dei casi di cirrosi epatica in Occidente sono dovuti all’alcol. L’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF) ha di recente pubblicato su Digestive and Liver Disease delle linee guida pratiche che includono tutte le ultime novità in campo clinico e di ricerca. Ad essere più a rischio sono i giovani. “Il solo parlare di ‘abuso di alcol’ nei ragazzi – racconta il primo autore dello studio, il professor Giovanni Addolorato, Associato di Gastroenterologia, Università Cattolica di Roma, Direttore UOSD Medicina Interna e Patologie Alcol-Correlate Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS – è un ossimoro, un’assurdità. I ragazzi non solo non devono ‘abusare’, ma non devono proprio avvicinarsi all’alcol perché non sono in grado di metabolizzarlo (i sistemi enzimatici deputati a questo sono immaturi almeno fino ai 18 anni). Purtroppo negli ultimi anni abbiamo mutuato dai Paesi del Nord Europa un’abitudine, una modalità di assunzione di alcol molto pericoloso: il cosiddetto bingedrinking”.
La moda del bingedrinking tra i giovani
Si tratta dell’assunzione di 5 o più drink nei ragazzi (o di più di 4 nelle ragazze) in un intervallo di tempo molto ristretto (da 15 minuti a 1-2 ore). Questo perché concentrare l’assunzione di alcol in poco tempo dà uno ‘sballo’ molto più forte rispetto ad una assunzione distribuita in un arco di tempo più lungo. Se questa modalità avviene a stomaco vuoto, l’effetto tossico dell’alcol è ancora maggiore e pericoloso. Da questa tendenza ne deriva un effetto collaterale: la cosiddetta ‘drunkressia’, che nasce dal desiderio di non ingrassare. In pratica si beve tanto e non si mangia, per compensare le tante calorie (7,1 per grammo) assunte con l’alcol. “Uno studio che abbiamo effettuato qualche tempo fa nei licei romani supportato da Fondazione Roma e pubblicato su Scientific Reports – continua il professore – ha evidenziato che nel bingedrinking i nostri adolescenti hanno superato i loro ‘maestri’ del Nord-Europa, visto che a praticarlo sono il 60% dei liceali della Capitale, contro il 35% degli altri”.
Morti per alcol: più colpiti i giovani
L’abuso dell’alcol, secondo dati dell’Istituto Superiore di Sanità, è la prima causa di morte nei ragazzi fino a 24 anni (vedi incidenti del sabato sera). “La quantità di alcol ‘tollerata’– spiega il professor Addolorato – è di 2 drink al giorno per l’uomo e di 1 drink per la donna. Sempre ai pasti e mai a stomaco vuoto. Per ‘drink’ si intende l’unità internazionale pari a circa12 grammi di etanolo e che corrisponde ad una lattina di birra da 33 ml o ad un bicchiere di vino o ad un bicchierino di superalcolico”. Ma anche questa quantità ‘moderata’ diventa eccessiva (e questo è riportato anche nelle linee guida del National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism-NIAAA dei NIH americani) in tutte quelle condizioni in cui vi sia una controindicazione fisica (ad esempio minori e anziani, persone che hanno già patologie croniche, come un danno epatico, in terapia farmacologica cronica, gravidanza, ecc.), psicologica o sociale o lavorativa (persone che lavorano sulle impalcature, autisti, ecc).
Cosa succede al fegato
Chi abusa di alcol ha una steatosi epatica che regredisce nel momento in cui si interrompe il consumo di alcol. Se, invece, si continua a bene il danno progredisce; nel 40-60% delle persone che abusano, comparirà un’infiammazione cronica delle cellule del fegato (‘epatite’); anche in questo caso, smettendo di bere, si può ancora far regredire il danno. Viceversa, continuando a bere, il 20-25% dei pazienti passa dall’epatite cronica, alla cirrosi epatica; a quel punto, smettere di bere, può arrestare il danno, ma non consente di tornare indietro. La diagnosi si fa sulla base dell’imaging: ecografia addominale ed elastografia (che determina il grado di fibrosi, cioè di cicatrizzazione del fegato). Nei casi più gravi si ricorrere alla diagnosi istologica, cioè alla biopsia del fegato.
“Dire al paziente ‘smetti di bere’ – afferma il professor Addolorato – purtroppo non porta da nessuna parte. Non si beve per scelta a certi livelli; l’ordine parte dal cervello, dalla parte più antica del nostro sistema nervoso (il sistema meso-limbico corticale) che è quello che regola anche il tono dell’umoree la maggior parte dei comportamenti necessari a tutti gli animali per far perdurare la specie (il sonno, il cibo, la riproduzione). Il sistema risponde a questi stimoli liberando i neurotrasmettitori della gratificazione (serotonina, dopamina e GABA). Purtroppo però questo sistema, quando si sregola, risponde allo stesso modo alle sostanze psicotrope (eroina, cocaina, benzodiazepine, alcol). E quando si perde il controllo sull’assunzione di queste sostanze, smettere di bere o di assumere droghe non è più una scelta, perché l’ordine, una volta che si è in deprivazione, parte da quella parte del sistema nervoso che è svincolato dal nostro controllo. L’abuso di alcol non è né di un vizio, né di una cattiva abitudine, ma una malattia vera e propria e già codificata da almeno 50 anni con i criteri del DSM”. Secondo l’ultima edizione (la quinta) del DSM, la diagnosi si fa attraverso due criteri principali: 1) il paziente ha continuato ad usare una sostanza, nonostante la consapevolezza di avere un problema fisico, psicologico o sociale che ne controindi chi l’uso; 2) il paziente beve non per gustare un bicchiere di vino, ma per ricercare gli effetti psicotropi dell’alcol (il cosiddetto craving, distinto in relief carving – bevo per ridurre i livelli di tensione – o il reward craving – bevo per ricercare un aumento del tono dell’umore).
Uscirne si può
“Come per tutte le malattie – spiega il professor Addolorato – è fondamentale la presa in carico del paziente che si basa su tre capisaldi da utilizzare insieme: la terapia farmacologica, il trattamento di supporto psicologico individuale e di gruppo. Abbiamo a disposizione diversi farmaci cosiddetti anti-craving, due dei quali identificati dal nostro gruppo di ricerca. Purtroppo quasi nessuno può essere utilizzato nei pazienti con epatopatia avanzata, perché vengono metabolizzati dal fegato. Qualche anno fa abbiamo dunque cominciato a studiare il baclofen (un farmaco che non viene metabolizzato dal fegato, ma viene eliminato in maniera immodificata dal rene), dimostrandone l’efficacia e la sicurezza anche nei pazienti cirrotici (lo studio è stato pubblicato da Lancet nel 2007). Avere a disposizione un farmaco efficace, maneggevole e senza effetti collaterali ha rivoluzionato il trattamento di questi pazienti. Qui al Gemelli abbiamo integrato il centro alcologico all’interno del centro epatologico e lavoriamo tutti insieme. E il fatto che il paziente epatopatico con disturbi da abuso di alcol debba essere trattato col modello integrato lo abbiamo esplicitato anche nelle linee guida dell’AISF (Associazione Italiana Studio del Fegato). Purtroppo in Italia la situazione è ancora a macchia di leopardo e non tutti i centri epatologici hanno integrato nel loro interno le figure specifiche per la gestione delle patologie alcol-correlate”.