Tempo di lettura: 3 minutiMarco Matteazzi, Psicologo Psicoterapeuta SIPPR , parla di un preoccupante fenomeno che prende piede tra i giovani: il bullismo. «Il termine bullismo si riferisce a quelle azioni continuate e intenzionali che una persona, apparentemente più forte, compie a scapito di un’altra persona più fragile, allo scopo di offenderla o di recarle danno. L’avverbio “apparentemente” è d’obbligo, perché il soggetto che interpreta il ruolo di “bullo” (ad esempio a scuola) spesso vive il ruolo di “vittima” in un’altra situazione (nel gruppo di amici, in famiglia, ecc.). Il bullo, dunque, mette in scena un copione che impara, suo malgrado, in un altro contesto. Alcune ricerche mostrano che nelle famiglie dei ragazzi/e più inclini a vestire i panni del “bullo” prevalgono un clima di rifiuto e scarsa accettazione del figlio e uno stile educativo autoritario e violento. Nelle famiglie dei ragazzi/e tendenti a giocare il ruolo di “vittime”, invece, sembra prevalere un’eccessiva coesione familiare che rende i figli molto dipendenti dai genitori, con conseguente difficoltà nell’aprirsi agli altri e nel gestire le difficoltà di relazione con i coetanei.
Con l’avvento delle tecnologie social (Facebook, WhatsApp, Instagram, Snapchat, ecc.) il bullismo ha assunto nuove forme (cyber-bullismo). Le prepotenze che nel bullismo “tradizionale” sono praticate nel rapporto dal vivo (o off-line) trovano una formidabile cassa di risonanza nel mondo on-line. Spesso si tratta di insulti inviati tramite siti web o chat, o della diffusione di video che offendono e intimidiscono la vittima. In queste forme di “bullismo tecnologico” è facile raggiungere un grande numero di contatti in breve tempo, ed è molto difficile (a volte impossibile) rimuovere il materiale circolante in rete. Sono sempre più note, purtroppo, le storie di (cyber)bullismo; sono storie in cui si fa spesso riferimento a due soli personaggi (bullo e vittima). In realtà si tratta di vicende dove il numero di personaggi rilevanti non è due, bensì tre. Il terzo personaggio è lo spettatore. Il suo è un ruolo trascurato, come fosse la comparsa di un film dove, a catturare l’attenzione, sono i personaggi principali (protagonista e antagonista). Ma nel (cyber)bullismo il ruolo di chi osserva è molto più importante di quanto si pensi. Si stima che più dell’85% delle situazioni di bullismo, infatti, avvengano in momenti in cui è presente un pubblico, che talvolta mostra al bullo un sostegno attivo (con risate, incitamenti), altre volte mostra un tacito consenso o una timorosa deferenza (per paura di subire trattamenti simili), altre volte (meno male) mostra sostegno alla vittima. Di fatto la presenza degli spettatori crea una situazione simile a quella di un teatro, o di un’arena; quando il pubblico è complice del bullo, rimane viva in lui la sensazione di aver regalato ai compagni un’occasione di ilarità e di divertimento, che contribuisce ad aumentare la sua popolarità e la possibilità che il triste “spettacolo” si ripeta. Il pubblico, vociante o silenzioso, può fare la differenza, nel bene e nel male. Nel caso specifico del cyber-bullismo gli spettatori hanno un peso ancora più importante, perché la vittima è esposta a una platea potenzialmente infinita, per un tempo indefinito. C’è poi un altro personaggio importante e sempre presente nelle storie di (cyber)bullismo: è l’adulto distratto. Può essere il genitore indaffarato con il lavoro, o l’insegnante oberato da impegni didattici, o lo psicologo che non parla con i ragazzi ma si limita a qualche indicazione data ai genitori. Tutto questo rende il (cyber)bullismo un problema sociale.
C’è molto lavoro da fare, in termini culturali ed educativi, con i giovani e con gli adulti; soprattutto con la scuola e con le famiglie, perché il loro rapporto sembra mostrare sempre più fratture e purtroppo, in alcuni casi, si arriva al conflitto aperto. È indispensabile ritrovare sinergia tra educatori; abbiamo bisogno di adulti attenti, alleati e responsabili. I ragazzi non imparano ciò che diciamo, ma ciò che facciamo. Se gli adulti scelgono lo scontro, è lo scontro che i ragazzi impareranno».
Marco Matteazzi del Centro Padovano di Terapia della Famiglia