Tempo di lettura: 3 minutiSe non avete mai avuto quella strana sensazione di “aver perso tempo”, potreste essere tra i pochi fortunati (forse avete scoperto il Sacro Graal o la Pietra Filosofale). Per tutti gli altri una riflessione sistemica potrà dare indicazioni sulla misteriosa faccenda ‘tempo perso’.
Un monito arriva da un saggio Capo Tuiavii di Tiavea (Nuova Zelanda), secondo il quale: “il papalagi” – l’uomo bianco – ha una grave malattia che gli impedisce di vivere il tempo a sua disposizione. Intrappolato nella sua angosciante sensazione di non averne mai abbastanza, l’uomo bianco cerca di afferrare il tempo, ma questo, come un serpente, gli sguscia via tra le mani. Poche parole, ma di evidente saggezza.
Cominciamo, allora, dall’inizio: cos’è il tempo? E’ quella intuizione secondo cui “i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto tra di loro (per cui essi avvengono prima, dopo o durante altri eventi – Treccani)”, anche se la relazione tra passato e presente non è cosi lineare.
In un’ottica sistemica, infatti, la chiave sta proprio nella messa in discussione della visione lineare con la quale ci poniamo delle domande e alle quali riteniamo di dover trovare una risposta di tipo causa-effetto. La stessa domanda “perché ho perso tempo?” sembra proprio una di quelle trappole della comunicazione paradossale che ci imbriglia nelle strettoie del giudizio della nostra coscienza spingendoci a controllare il tempo.
Giudizio e controllo (qui sì che bisognerebbe prendersi un po’ di tempo per studiare). Diciamo che il giudizio limita la visione del tempo stesso, trasformandolo in un tiranno: c’è poco tempo, si deve fare qualsiasi cosa in tempo, senza tempo perso. Giudichiamo e controlliamo ciò che è inaccettabile, tentando così di prevenire la variabilità del comportamento, la nostra imprevedibilità e quella degli altri.
Il controllo è antico quanto l’uomo, è fondamentale per la sopravvivenza dell’intera specie umana (senza controllo non ci sarebbe stata possibilità di difesa) ed è un comportamento adattivo: quando ci sfugge di mano, passando da strumento di crescita ed evoluzione a strumento di interdizione e repressione, produce quella sensazione sottile, di non farci sentire liberi.
Per coltivare il nostro benessere psicofisico è necessario riformulare il concetto di ‘tempo perso’, capovolgerne il senso fino a divenire coscienti che trovare il tempo per donarselo nel qui ed ora (in fondo il “presente” non è un “dono”?) allevia la sensazione di sentirsi schiavi degli eventi, di vivere una vita che non ci appartiene fino in fondo. Illudersi di poter controllare il tempo giudicandolo come perso, è forse “la malattia” dalla quale il capo Tuiavii vuole salvare l’uomo bianco: “Dobbiamo liberare il papalagi dalla follia, annunciargli che dall’alba al tramonto esiste più tempo di quanto l’uomo possa averne bisogno”. Superare la visione lineare vuol dire sperimentare “l’essere cerchio”, cioè quel luogo in cui non ha senso chiedersi dove si inizia e dove si finisce, se viene prima l’evento A” piuttosto che l’evento B. In quest’ottica è possibile riconsiderare la modalità di collocare gli eventi, interrogandoci sul contesto più ampio in cui “ho perso tempo”, fino a capovolgere la domanda stessa in : “cosa ci ho guadagnato?”. “Rimanere distesi sulla propria amaca a osservare l’alba” come propone il capo Twavi, leggere un buon libro, impegnare il proprio tempo per amare e amarsi, come sottolinea Pennac, è sempre un tempo rubato, diciamo al “dovere di vivere”.
La salute psicologica passa proprio da qui: imparare a coltivare piccolo tempo perso, concedersi quel tempo per vivere appieno, esperienze e emozioni e per capire cosa ci appassiona.
Spesso viviamo in modo frammentario, preoccupati delle gioie e dei dolori passati o di quelli del futuro. Alcuni autori suggeriscono che nella crescita di ogni individuo è fondamentale imparare ad essere, “liberarsi dal passato e dal futuro, buoni o cattivi che siano” per divenire ciò che si è.
Il tempo stesso non “si trova” ne “si perde”: il tempo semplicemente è. Sarà forse che il Sacro Graal, la nostra Pietra Filosofale, è proprio nel riconsiderare quello che per alcuni resta solo un ausiliare da imparare a memoria, e cioè il verbo Essere. Il segreto per ricongiungersi al tempo potrebbe essere proprio nello sperimentare questo verbo a partire dalla sua “coniugazione propria” e cioè quella che coniuga (sposa) l’esistere, il sentire, il trovarsi, lo stare, con sé e con l’altro, sin dal famoso qui ed ora.
Dott.ssa Amelia Cozzolino
Psicologa e Psicoterapeuta
Socio ordinario Sippr