Tempo di lettura: 4 minutiPer affacciarsi con prudenza alla normalità, passando alla cosiddetta ‘fase 2’, secondo un’ipotesi gli italiani potrebbero conseguire una ‘patente di immunità’. Per ottenerla, bisognerà dimostrare di essere stati contagiati dal coronavirus e di aver superato l’infezione. Ma come si dimostra? Grazie agli anticorpi. “Le IgA, gli anticorpi cosiddetti ‘secretori’ – spiega il professor Maurizio Sanguinetti, Direttore del Dipartimento Scienze di laboratorio e infettivologiche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore – che si trovano tipicamente sulle mucose, come quelle respiratorie; le IgA sono molto importanti perché sono le più efficaci nel difenderci da future infezioni respiratorie. Nel sangue sono inoltre dosabili le IgM, che cominciano ad aumentare una settimana circa dopo il contagio e le IgG, la vera cicatrice immunologica, la prova che il virus è stato sconfitto dalle nostre difese immunitarie. Sono questi i cosiddetti test anticorpali o test sierologici di cui tanto si parla in questi giorni. E spesso a sproposito. Perché questi test non servono a fare diagnosi di infezione, a stabilire cioè se un paziente è ‘positivo’. Per quello l’unico test a disposizione è ancora il famoso ‘tampone’, il test molecolare. I test sierologici invece servono solo a stabilire se una persona ha contratto e superato l’infezione da SARS CoV-2. Cioè se ha sviluppato l’immunità contro il virus. Che è quanto di più prezioso abbiamo a disposizione, almeno fin quando non sarà disponibile il tanto agognato vaccino”.
Test sierologici (anticorpali): non servono a fare diagnosi
Ci sono varie tipologie di test sierologici: quelli ‘rapidi’ o ‘qualitativi’ (che si basano sull’immunocromatografia) che danno una risposta in un quarto d’ora, ma con un margine di errore alto e quelli più affidabili, i ‘quantitativi’ (al momento si basano sulla chemiluminescenza e sull’Elisa) che sono più complessi e costosi, ma anche più precisi. Tuttavia, gli esperti sottolineano che si tratta di test sperimentali, con un livello di affidabilità a volte molto modesto. Ma le Regioni fremono e sono almeno 36 i laboratori pubblici dislocati presso 11 regioni che si stanno organizzando per effettuarli, procedendo in autonomia. “Ancora troppo pochi questi laboratori – afferma il professor Sanguinetti – per una popolazione di 60 milioni di abitanti”. Non è scontato poi che i vari test in circolazione siano validi, soprattutto quelli ‘rapidi’, venduti anche online, hanno un’affidabilità tutt’altro che scontata. “Con i test rapidi – afferma in un’intervista ad ADN Kronos, il dottor Pierangelo Clerici, presidente dell’Amcli (Associazione microbiologi clinici italiani) – il tasso di falsi negativi oscilla dal 20 al 60%. Chiediamo di verificare i test e chiediamo che le regioni si coordinino: possiamo esaminare questi prodotti con delle analisi su 10 mila casi, per validarli. E possiamo stilare un protocollo nazionale per evitare false sicurezze. Ci occorrono due giorni per valutare i test sierologici e dire quali sono quelli affidabili”.
I test sierologici, a cosa servono
“I test – spiega il professor Sanguinetti – sono tutti validi a seconda di cosa vogliamo ‘chiediamo’ all’esame. Se voglio fare diagnosi di COVID sulla base di un test sierologico, mi trovo già con un problema di fondo. Con questi test, perderò qualsiasi paziente all’inizio della malattia, perché in genere occorrono almeno 7 giorni per registrare un primo movimento anticorpale. Quindi se il test è positivo, ho fatto diagnosi; ma se è negativo, c’è il rischio che si tratti di un falso negativo. Al contrario, se quello che intendo indagare è se un gruppo di persone è stato a contatto col virus e se possono aver sviluppato l’immunità, allora i test sierologici sono quelli d’elezione”. In altre parole, i test sierologici, opportunamente validati, sono utili a fini epidemiologici, perché potranno individuare la parte della popolazione che ha sviluppato un’immunità contro il coronavirus. Sono invece del tutto inutili per far diagnosi di infezione in atto, perché nella prima settimana dall’infezione il paziente non ha ancora cominciato a sviluppare anticorpi, ma può diffondere attivamente il virus tra le persone che lo circondano.
Come ha ribadito anche il Ministero della Salute in una circolare del 3 aprile: i test sierologici sono “molto importanti nella ricerca e nella valutazione epidemiologica della circolazione virale. Diversamente, come attualmente anche l’OMS raccomanda, per il loro uso nell’attività diagnostica d’infezione in atto da SARS-CoV-2, necessitano di ulteriori evidenze sulle loro performance e utilità operativa. In particolare, i test rapidi basati sull’identificazione di anticorpi IgM, IgG, [IgA] specifici per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, secondo il parere espresso dal CTS, non possono, allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica, sostituire il test molecolare basato sull’identificazione di RNA virale dai tamponi nasofaringei secondo i protocolli indicati dall’OMS”.
Secondo gli esperti, tutti i Paesi dovrebbero avviare adesso delle ‘sero-surveys’, delle vaste indagini epidemiologiche basate su questi test per rispondere a due domande cruciali: quante sono nell’ambito della popolazione le persone con infezioni inapparenti e quale livello di immunità di popolazione (‘di gregge’) è stato raggiunto. Le risposte a queste domande avranno ricadute mondiali.
L’immunità è per sempre?
Un’altra delicata questione, ancora senza risposta, è quale sia la durata della protezione data dallo scudo anticorpale, fabbricato dal nostro organismo. “Si tratta di una questione ancora aperta – commenta il professor Sanguinetti. E’ necessario intanto scoprire se una determinata persona sia venuta a contatto con il virus. Per stabilirlo devo individuare una parte del virus che sia immunogenica (cioè che induca la produzione di anticorpi altamente specifici per il SARS CoV-2, e non per altri coronavirus ad esempio); per costruire il test anticorpale, posso scegliere vari antigeni, come ad esempio la ‘nucleoproteina’, che è un antigene strutturale; ma gli anticorpi che vengono prodotti in risposta a questa proteina sono probabilmente importanti dal punto di vista diagnostico, ma non da quello di immunizzazione. Questo perché gli anticorpi diretti contro questa proteina non immunizzano (cioè non proteggono da una nuova infezione) l’individuo. Al contrario, gli anticorpi contro la proteina spike sono immunizzanti. Ed esistono dei test che permettono di misurare gli anticorpi anti-spike. Scegliendo questi ultimi, posso associare al lato diagnostico, anche quello prognostico. In questo momento tuttavia non siamo in grado di dire se l’immunità acquisita per esposizione al virus sia duratura e purtroppo nemmeno se gli anticorpi che si sviluppano in un individuo siano protettivi o meno nei confronti di una reinfezione.” L’immunità inoltre potrebbe non essere infinita; alcuni esperti ipotizzano che potrebbe durare 1 o 2 anni al massimo, dopodiché si diventerebbe di nuovo suscettibili all’infezione. L’unico modo per scoprirlo sarà quello di ripetere i test sierologici a intervalli prestabiliti.