Tempo di lettura: 6 minutiTempi lunghi per diagnosi e cure, tempi ristretti per l’ascolto dei pazienti. Costi insostenibili, burocrazia problematica. Sono le difficoltà a cui vanno incontro quotidianamente le persone con malattie croniche e rare, secondo “in cronica attesa” del XV Rapporto sulle politiche della cronicità di Cittadinanzattiva.
Il rapporto parla chiaro: si attende anni per una diagnosi, mesi per una visita, un esame di controllo o per ricevere un ausilio, giorni al Pronto Soccorso per un posto letto. Per contro, il tempo dedicato alla visita e quindi all’ascolto è sempre più ridotto, le ore dedicate all’assistenza domiciliare ed alla riabilitazione sono troppo esigue.
Il rapporto è stato presentato oggi a Roma dal Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici (CnAMC) di Cittadinanzattiva. con il contributo non condizionato di Merck & Co per il tramite della sua consociata MSD.
Le persone con malattie croniche e rare e i loro familiari devono sopperire a molte carenze, utilizzando il proprio tempo e le proprie risorse economiche: fino a 10.000€ l’anno per l’assistenza psicologica, l’acquisto di farmaci e parafarmaci, la riabilitazione a domicilio; fino a 60.000€ l’anno per pagare la retta della residenza sanitaria assistita. A questo si aggiunge la burocrazia “trita-diritti”, afferma il report, perché non si snelliscono le procedure burocratiche, come nel caso del rilascio di piani terapeutici per i farmaci o di protesi e ausili, l’assegnazione del contrassegno auto per invalidi o il rinnovo della patente.
Al Rapporto di quest’anno hanno partecipato 46 associazioni aderenti al CnAMC, rappresentative di oltre 100mila cittadini affetti per il 64% da patologie croniche e per il restante 36% da malattie rare. Le stesse sono state intervistate tramite un questionario strutturato a partire dai punti cardine del Piano nazionale delle cronicità varato a settembre 2016, al fine di individuare gli elementi positivi e quelli critici su cui occorrerà lavorare per garantire una reale presa in carico dei pazienti.
Il 38,3% degli italiani dichiara di avere almeno una patologia cronica e di questi circa il 70% dichiara di essere comunque in buona salute. Ipertensione (17,1%), artrosi/artrite (15,6%) e malattie allergiche (10,1%) sono nell’ordine le tre malattie croniche più diffuse. Per quanto riguarda le malattie rare, in Italia si stima ci siano tra i 450mila e i 670mila malati rari.
Oltre il 60% delle associazioni segnala la carenza di servizi socio-sanitari sul proprio territorio (ad esempio logopedia, riabilitazione, assistenza domiciliare, servizi di trasporto) e le difficoltà di orientarsi fra i servizi, più del 50% evidenzia difficoltà in ambito lavorativo, legate alla propria patologia, disagi nel comunicare la malattia, difficoltà economiche.
Nel rapporto con il medico, il 78% riscontra di aver poco tempo a disposizione per l’ascolto, di aver visto sottovalutati i propri sintomi (44%), la poca reperibilità (42%) e la scarsa empatia (26%). Ancora indietro sui programmi di prevenzione: non solo perché l’Italia, come riporta l’indagine, investe 83€ a persona (cifra inferiore a quella di paesi come il Regno Unito, la Germania, Danimarca, Olanda e Svezia), ma anche perché, come dichiarano le associazioni, ben il 56% non è stato coinvolto in programmi di prevenzione nel corso dell’ultimo anno. Laddove svolti, tali programmi riguardano per lo più l’alimentazione corretta (24%) e i corretti stili di vita (20%).
Diagnosi in tempi lunghi ed esiti incerti: a volte occorrono anni di attesa, sofferenza, solitudine ed incertezza, accompagnati da costi non indifferenti, prima di arrivare ad una diagnosi certa, che si tratti di malattie croniche o rare. Più della metà (58%) dice di non essere stato sottoposto a programmi di screening nel caso in cui ad un familiare sia stata riscontrata una malattia genetica e il 60% conferma un ritardo diagnostico.
La presa in carico del paziente con patologia cronica rappresenta il cuore del Piano nazionale della cronicità e il punto sul quale si misura la qualità dell’assistenza fornita. Il 40% dichiara che sono stati coinvolti in progetti di cura multidisciplinari solo alcuni pazienti e in ugual percentuale (39%) addirittura nessun paziente. In merito alla riorganizzazione dell’assistenza prestata sul territorio, nonostante la legge abbia introdotto ad esempio le AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali) e le UCCP (Unità Complesse di Cure Primarie), il 39% non riscontra alcun cambiamento. Di conseguenza, i cittadini, nel 68% dei casi devono ricorrere al Pronto soccorso. E, ancora, non si accorciano i tempi di attesa nel percorso di cura: un’associazione su due afferma che non esiste un percorso agevolato che garantisca tempi certi per l’accesso alle prestazioni sanitarie.
“A distanza di circa sette mesi dalla introduzione del Piano nazionale delle cronicità, alla cui stesura ed approvazione abbiamo contribuito come Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici, non possiamo permettere che questo rimanga solo sulla carta. Infatti, ci risulta che, ad oggi, solo le Regioni Umbria e Puglia abbiano recepito formalmente il Piano; altre, ma ancora troppo poche, si stanno muovendo e lo fanno in ordine sparso. Chiediamo che entro l’anno tutte le Regioni lo recepiscano formalmente con delibera e che il Ministero della Salute istituisca al più presto la cabina di regia, garantendo la partecipazione di associazioni di cittadini e pazienti. Rispetto alle strategie di finanziamento del Piano, si potrebbe contare su circa 21 milioni di Euro, relativi al PoN GOV cronicità e sanità digitale per gli anni 2016-2023, ma anche su questo è necessario accelerare”. Queste le dichiarazioni di Tonino Aceti, responsabile del Coordinamento nazionale della Associazioni dei Malati Cronici. “E ancora, servono segnali e impegni concreti per la vita quotidiana dei pazienti: un piano nazionale per la semplificazione della burocrazia, a cominciare dalle procedure per il rinnovo del piano terapeutico sui farmaci salvavita, per il rilascio di protesi e ausili, per superare gli ostacoli nel riconoscimento di invalidità civile ed handicap. E ancora, un impegno per assicurare percorsi di cura reali ed esigibili per tutti: deve essere direttamente il SSN a prenotare esami, visite e prestazioni di controllo per il cittadino con malattia cronica o rara e a garantirli in tempi certi”.
Nel frattempo, la riduzione dei posti letto ospedalieri comporta che, in due casi su cinque, i pazienti debbano ricoverarsi lontano dalla propria residenza o, in più di un caso su tre, accontentarsi di un posto letto in un reparto non idoneo (ad esempio, ragazzi ricoverati in reparti per adulti, pazienti immuno-compromessi in reparti affollati e potenzialmente pericolosi). Una volta ricoverati bisogna, poi, in più di un caso su cinque, fare i conti con pasti non adeguati e mancanza di attenzione del personale medico/infermieristico. Per il 15% delle Associazioni non viene rispettata la dignità della persona a causa della dotazione del reparto.
Quando il ricovero avviene in una struttura riabilitativa, lungodegenza o RSA, i cittadini segnalano lunghe attese per accedervi (68%), la mancanza di equipe multi-professionali (40%), la necessità di pagare una persona che assista il paziente ricoverato (32%) o il costo eccessivo della stessa struttura (28%). In caso di assistenza domiciliare, il primo ostacolo è nella sua attivazione (63%), il numero insufficiente di ore erogate (60%) o la mancanza di figure specialistiche necessarie (45%). Per il 40% manca anche l’assistenza di tipo sociale.
Sul fronte dell’assistenza farmaceutica, i cittadini denunciano limitazioni nella prescrizione da parte dei medici (35%), il costo eccessivo dei farmaci non rimborsati dal SSN (33%) o ancora la difficoltà nel rilascio del piano terapeutico (33%). A volte le limitazioni sono imposte dalle aziende ospedaliere o dalla Asl per motivi di budget (28%) o a monte attraverso delibere regionali (20%).
Pesanti le difficoltà burocratiche soprattutto legate al riconoscimento dell’invalidità civile e dell’handicap e riguardano: per il 46% l’accesso all’indennità di accompagnamento, per il 39% il riconoscimento dell’handicap, per il 31% l’accesso alla pensione di inabilità, per il 27% l’assegno mensile di invalidità civile, per il 15% l’indennità di frequenza. Sull’assistenza protesica ed integrativa, oltre la metà delle associazioni lamenta troppe differenze regionali. In generale, le problematiche principali riguardano i tempi eccessivamente lunghi per la fornitura (35%), la scarsa qualità dei presidi erogati (23%) e un problema di scarsa quantità (18%).
Altro aspetto critico, la gestione del dolore: per il 62% delle associazioni, il personale sanitario sottovaluta il dolore; per il 38% manca un raccordo tra specialista e servizio di cure palliative. Inoltre, il 28% lamenta che i costi per una adeguata terapia analgesica siano a carico dei cittadini; il 24% ha difficoltà a farsi prescrivere farmaci oppiacei.
Ancora molto poche le Asl (14% secondo le associazioni del CnAMC) che promuovono corsi di formazione per i pazienti e i loro familiari per la gestione della patologia, mentre ben l’80% delle associazioni ha coinvolto i propri associati in corsi su terapie e prevenzione, sostegno psicologico, aderenza terapeutica, campi scuola per i giovani.
Sull’appropriatezza, emergono criticità rilevanti: ben il 58% riferisce che i suoi sintomi sono stati sottovalutati con conseguente ritardo nella cura; uno su quattro segnala invece di aver dovuto fare esami inutili o perché non adatti alla propria patologia o perché ripetuti più volte. In tema di aderenza terapeutica, il 59% riferisce che la mancata aderenza è dovuta ai costi indiretti della cura (spostamenti, permessi di lavoro etc..), il 52% alle difficoltà burocratiche, il 39% a interazioni con altri farmaci, o ai costi della terapia. In altri casi interviene lo scoraggiamento perché non si ottengono i risultati attesi (36%) o perché si tratta di una terapia eccessivamente lunga e complicata (26%).
Sulla sanità digitale ancora arranchiamo: il 64% dice di non essere stato coinvolto in nessun progetto di telemedicina e, nonostante la ricetta elettronica sia stata introdotta già da alcuni anni, il 49% ritiene che essa non abbia prodotto alcun risultato, o solo in alcune realtà (22%).
Malattie rare. Il primo problema per chi è affetto da patologie rare è la distanza dal centro di riferimento (68%) e di conseguenza i costi privati per lo spostamento e l’alloggio (61%). Segue, per un’associazione su due, la difficoltà di arrivare alla diagnosi e la mancanza di centri di riferimento. Ancora, la difficoltà nel riconoscimento dell’invalidità e/o dell’handicap (46%) e il mancato riconoscimento della patologia (43%). Sempre la stessa percentuale ha difficoltà nell’acquisto di parafarmaci (colliri, pomate, alimenti particolari, ecc.) e nel pagare privatamente esami e visite specialistiche.
Difficoltà ancora più pesanti, soprattutto dal punto di vista psicologico, quando si parla di bambini e ragazzi affetti da patologie rare, che spesso devono rinunciare a partecipare alle attività extrascolastiche (46%), si scontrano con problemi concreti come la presenza di barriere all’interno dell’edificio scolastico (42%) e talvolta subiscono situazioni come l’isolamento dai compagni o addirittura atti di bullismo (21%).
Cibi ‘light’ potrebbero far ingrassare. Saziano meno
Alimentazione, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneSe è vero che hanno poche calorie, i cibi “light” hanno anche tanti zuccheri e saziano meno.
Gli alimenti cosiddetti “light” o low fat, insomma, spesso pubblicizzati per il loro basso contenuto calorico e talvolta accentuando un loro presunto ruolo nel controllo del peso, in realtà potrebbero addirittura far ingrassare oltre che favorire altri problemi quali infiammazione cerebrale e problemi metabolici.
Ad affermarlo è uno studio su animali pubblicato sulla rivista Physiology & Behavior da Krzysztof Czaja dell’Università della Georgia. Chi vuole dimagrire spesso sceglie di mettere nel frigo cibi low fat. Questi ultimi contengono in zuccheri tutto quello che non hanno in grassi, spiega Czaja, quindi pur essendo effettivamente meno calorici di un analogo cibo con normale contenuto di grassi, in realtà non sortiscono gli effetti sperati da chi li consuma. Czaja ha sottoposto topolini a una dieta con cibi “diet”, poveri di grasso e quindi ricchi di zuccheri, confrontandoli con topolini con una dieta bilanciata per contenuto di grassi e zuccheri. Nonostante questi ultimi mangiassero più grassi dei primi, i topolini alimentati con cibi “dietetici”, low fat, accumulano, per metà delle calorie consumate, la stessa quantità di grasso corporeo dei topi che mangiano in modo equilibrato.
Il perché è semplice. Innanzitutto, pochi grassi significa più zuccheri che fanno male al metabolismo e aumentano il rischio diabete, spiega la studiosa; inoltre mangiare low fat porta a mangiare di più proprio perché i cibi sono meno calorici e quindi ci si sazia meno; per di più l’eccesso di zuccheri si trasforma in grasso corporeo anche se si consumano meno calorie rispetto a una dieta bilanciata. La dieta low fat è risultata anche legata a infiammazione a livello cerebrale, per via di sostanze chimiche che esaltano i sapori.
Allarme super- fungo letale a New York. 17 morti
News Presa, PrevenzioneC’è un super- fungo letale che sta creando panico in tutta l’America. Si chiama Candida auris resistente, arriva dal Giappone e ha già procurato 17 vittime nella Grande Mela. L’allarme è arrivato negli ospedali newyorchesi dopo i numerosi casi ed è allerta in tutti i nosocomi Usa. Il super- fungo potenzialmente letale – originariamente identificato in Giappone nel 2009 – si sta diffondendo negli Stati dell’Unione ed e’ giunto a NY. La facilità di contagio ha fatto scattare il timore di una facile diffusione nella metropoli. Negli ospedali di New York sono stati riportati di recente 44 casi dell’infezione resistente ai medicinali disponibili e 17 morti. Anche se per i decessi non si e’ stabilita’ una incontrovertibile relazione causa-effetto. Tutte le infezioni sono state trasmesse in cliniche o in uffici e centri medici.
Il primo caso negli Stati Uniti fu segnalato nel 2013, ma la diffusione del super- fungo e’ iniziata lo scorso anno.
Tra i sintomi del contagio: sensazioni di bruciore e difficolta’ a deglutire. “Il super- fungo – hanno spiegato gli esperti dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) – agisce come un super-batterio,non risponde agli anti-funghicidi, è difficile da identificare nei test di laboratorio”. Il microrganismo colpisce in particolare gli individui più deboli ed esposti, come neonati ed anziani, ed è stato identificato sulle attrezzature degli ospedali e sulla pelle persino di pazienti già trattati con i medicinali.
Da Napoli una rete nazionale contro gli abusi sui minori
News PresaGli «orchi» e i «ladri di infanzia» hanno quasi sempre i volti delle persone più amate e vicine, soprattutto quelli di mamma e papà, ma anche dei parenti, degli amici più intimi, o dei vicini di casa, come tristemente insegnano i più recenti casi di cronaca. Crisi economica, famiglie in difficoltà, conflittualità fra genitori e nella società ed ecco che sale il rischio di maltrattamenti e abusi: sono circa 9.000 i bambini e gli adolescenti under 14 campani a rischio di maltrattamenti e violenze, di questi il 10% è a rischio di abusi sessuali. Si tratta di un tipico fenomeno “iceberg” sottostimato, che nel 70% dei casi si consuma fra le mura domestiche, due volte su tre per mano di uno dei familiari. Nella metà dei casi si tratta di maltrattamenti e violenze psicologiche o fisiche, in uno su dieci di abusi sessuali. Pochissime le piccole vittime che riescono a chiedere aiuto: uno su cinque fra coloro che subiscono abusi sessuali, uno su tre fra chi è oggetto di maltrattamenti e violenze. Le sofferenze restano troppo spesso coperte dal silenzio ed è per questo che Menarini attraverso il sostegno di eventi formativi diretti ai medici, realizzati in collaborazione con la Società Italiana di Pediatria (SIP) e la Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP), si è impegnata nella creazione di una rete antiabusi su tutto il territorio nazionale, sostenuta dalla multinazionale farmaceutica fiorentina con un investimento di 1 milione di euro.
In prima linea
«E’ a Napoli il primo appuntamento con cui oggi parte il progetto“Stop agli abusi sui bambini”che unisce professionalità, sensibilità ed entusiasmo, doti che tutti i pediatri hanno dimostrato per una problematica tra le più delicate e dolorose dell’infanzia e dell’adolescenza», dice Luigi Nigri, responsabile del progetto per Fimp. «A Napoli saranno coinvolti circa 50 pediatri campani e nell’arco del 2017 molti altri parteciperanno ai corsi che si terranno in altre 18 città italiane. L’iniziativa contribuirà a un risveglio delle coscienze: i pediatri che seguiranno i corsi diventeranno un punto di riferimento per i colleghi sul territorio che riceveranno consigli e aiuto per la gestione di casi sospetti di abusi e maltrattamenti. Tutto questo aiuterà a fare uscire dall’ombra un numero sempre maggiore di piccole vittime e speriamo ad aumentare le denunce: la Polizia giudiziaria riferisce che sono 700/800 in tutto il Paese ogni sei mesi. Il problema resta quindi troppo spesso ancora nascosto e taciuto».
Pediatri in campo
«In Campania non sono disponibili dati di incidenza di abusi e maltrattamenti perché non abbiamo un osservatorio sui minori ma la prevalenza del fenomeno non è diversa da quella del resto del Paese e si conferma il dato di letteratura scientifica di un bimbo su mille a rischio di abusi sessuali – commenta Renato Vitiello, vicepresidente SIP Campania – Il tessuto sociale del territorio è purtroppo un humus fertile per il verificarsi di maltrattamenti, come ricordano anche i molti casi recenti di cronaca, non ultima la vicenda della piccola Fortuna che ha addolorato e commosso l’Italia. I temi dell’abuso e del maltrattamento oggi non possono essere più trascurati anche per le gravi conseguenze che determinano sulla salute del bambino nel breve e lungo termine: un bambino maltrattato o abusato, infatti, non solo è più a rischio di disturbi fisici, psicologici e del comportamento, ma anche di danni organici nella vita adulta. Per questo FIMP e SIP ritengono motivo di orgoglio professionale la partecipazione a un percorso di conoscenza capace di coinvolgere tutte le componenti della pediatria con spirito di collaborazione reciproca che è il pilastro su cui costruire una rete efficace».
ADT, il disturbo della modernità che ostacola i propri obiettivi
News Presa, Nuove tendenze, Prevenzione, PsicologiaUna costante sensazione di non riuscire a fare tutto, o come si vorrebbe. Si tratta dell’Attention Deficit Trait (ADT). A scoprirlo è stato il ricercatore Edward Hallowell che lo descrive nel suo libro Driven to distraction, cioè l’incapacità di resistere alle notifiche, selezionare le opportunità e scegliere le cose da fare.
È una specie di disturbo da deficit di attenzione (ADD), anche se non è riconosciuto come malattia, indotto dalla sovrabbondanza del rumore di sottofondo, che sovraccarica il cervello costringendolo ad agire in una sorta di “modalità provvisoria”.
La buona notizia è che esiste un rimedio.
A differenza del disturbo da deficit dell’attenzione, che, invece, è una vera malattia che colpisce il 5% della popolazione adulta, l’ADT è indotto dalla vita moderna. Nasce dalla tendenza ad essere sempre impegnati a rispondere a troppi impulsi e stimoli diversi e che rendono sempre più distratti, irritabili, impulsivi, irrequieti e, a lungo andare, incapaci di raggiungere obiettivi alla propria portata. In altre parole, inefficaci, perché si dà attenzione a più cose di quelle che si è in grado di gestire.
Per chi soffre di questo disturbo della modernità, la vita diventa sempre più difficile e chi ne soffre avverte lievi sensazioni di panico e di colpa per non essere in grado di gestire tutto. La combinazione di questi fattori rende chi soffre di ADT incapace di individuare le cose importanti e dedicarsi a esse.
I sintomi dell’Attention Deficit Trait sono diversi e spesso si tratta di sensazioni comuni, come non rendere al massimo delle proprie capacità; voler fare di più, ma riuscire solo a fare di meno; fare meno esercizio fisico e avere meno spazi di socialità.
Chi soffre di ADT è come se perdesse di vista la visione d’insieme, i propri obiettivi e i propri valori. Ad esempio, si ritrova a pensare a qualcosa di diverso da quello a cui si sta dedicando per il 50 per cento del proprio tempo; cede alle distrazioni (che si presentano in media ogni 11 minuti) e fatica a rimanere concentrato (ogni distrazione costa 23 minuti di tempo prima di riuscire a ritrovare la stessa concentrazione di prima, come dimostrano i dati dello studio Steelcase). La conseguenza ultima è l’alterazione della percezione del tempo, dalla quale dipende la pianificazione della nostra vita.
La “malattia” può presentarsi anche in forme più lievi e chi si riconosce in alcuni dei sintomi potrebbe in realtà averla già “incubata”.
Per affrontare l’ADT e ripristinare la capacità di concentrazione è necessario per prima cosa riconoscere di soffrirne.
Prendersi cura di corpo e mente, in quanto strettamente collegati fra di loro.
Avere un sonno adeguato (fra le 7 e le 8 ore), una dieta equilibrata (cercando di mangiare verdure a ogni pasto e facendo spuntini a base di frutta) e un regolare esercizio fisico.
Ridurre il rumore di sottofondo. L’80 per cento dei propri risultati dipende dal 20 per cento delle proprie azioni, secondo l’universalmente riconosciuto Principio di Pareto. Individuare quel 20 per cento è il primo passo per ridurre il sovraccarico del proprio cervello.
Per farlo, è buona cosa scrivere in un’agenda o in un’app ogni pensiero, organizzare bene il lavoro, così da non spendere energie mentali a ricordarlo, come insegna David Allen, autore del metodo GTD.
Eliminare le notifiche, che sono azioni di disturbo che richiamano l’attenzione su altro rispetto a quello in cui si è impegnati.
Ridurre le notifiche all’essenziale e ogni giorno programmare qualche ora di lavoro ad alta concentrazione, quello che lo studioso Cal Newport definisce Deep Work, è un viatico per riprendere possesso della propria attenzione.
Sorridere. Studi scientifici hanno dimostrato che la felicità rende il 31% più produttivi. La felicità è presente in ogni individuo a prescindere da quello che fa e non come conseguenza di ciò, come spiega lo psicologo Richard Wiseman in The As If Principle, in pratica basta sorridere di più per essere più felici.
Meditare
I benefici della meditazione che la scienza ha rilevato si estendono all’umore e alla capacità di concentrazione.
Sclerosi multipla, individuato un gene responsabile della malattia
News Presa, Ricerca innovazioneAll’origine del rischio di sviluppare sclerosi multipla e lupus eritematoso sistemico (malattie autoimmuni a carico rispettivamente della mielina del sistema nervoso centrale e di pelle, reni e altri organi) ci sarebbe anche una particolare forma di un gene che presiede alla sintesi di una proteina con importanti funzioni immunologiche: la cosiddetta «citochina Baff». A rivelarlo su New England Journal of Medicine, la più antica e prestigiosa rivista di medicina al mondo, uno studio di un gruppo internazionale di ricercatori cofinanziato dalla Fondazione italiana sclerosi multipla (Fism) e coordinato da Francesco Cucca, direttore dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Irgb-Cnr) e professore di genetica medica dell’Università di Sassari. Alla pubblicazione italiana la rivista americana dedica anche un editoriale.
Diverse cause
«Sclerosi multipla e lupus eritematoso sistemico – spiega Francesco Cucca – sono “malattie multifattoriali”, in cui il processo autoimmune è determinato dall’azione congiunta di diversi fattori genetici e ambientali. Più le cause di questo processo sono conosciute, più diventa facile comprendere i meccanismi biologici alla loro base e identificare i corretti bersagli terapeutici, creando anche le premesse per capire a quali individui debbano essere somministrati specifici farmaci». Il sistema immunitario è costituito da centinaia di cellule e molecole e non è semplice stabilire quali siano implicate nel rischio di sviluppare determinate malattie. «Per lungo tempo si è ritenuto che i linfociti T fossero le cellule primariamente coinvolte nella Sm», prosegue il direttore dell’Irgb-Cnr. «Oggi, anche grazie a questo studio, emerge un ruolo primario dei linfociti B in questa patologia. Queste cellule immuni, tra le altre funzioni, producono anticorpi che normalmente ci difendono da certi tipi di microbi ma che, in qualche caso, possono diventare auto-anticorpi e partecipare così alla risposta infiammatoria che sta alla base di alcune forme di autoimmunità».
Sequenziamento genomico
La ricerca si è basata sul sequenziamento dell’intero genoma in migliaia di individui sani e malati, abbinato a una caratterizzazione ultra-dettagliata dei loro profili immunologici. “Le analisi, inizialmente condotte su individui sardi – grazie alla collaborazione tra i principali centri di ricerca (il Cnr, il CRS4 e le Università di Sassari e Cagliari) e ospedalieri dell’isola – sono state estese ad ampie casistiche provenienti da Italia peninsulare, Spagna, Portogallo, Regno Unito e Svezia. Dopo sei anni di ricerche siamo stati in grado di identificare la correlazione diretta tra una particolare forma del gene Tnfsf13B e il rischio di sviluppare la Sm o il lupus. L’individuazione di questo nesso di causa- effetto è un evento rarissimo in studi di questo genere.
Verso nuove terapie
Un’altra peculiarità dello studio è che rileva attraverso quali meccanismi la variante genetica predisponente nei confronti dell’autoimmunità, denominata Baff-var, esercita i suoi effetti deleteri. Baff-var è associata con il rischio di sviluppare sclerosi multipla e lupus attraverso particolari meccanismi molecolari da noi chiariti in dettaglio, che determinano un aumento considerevole dei livelli ematici di Baff, che a sua volta determina un aumento del numero dei linfociti B e dei livelli di anticorpi, suggerendo quindi un ruolo di queste variabili immunologiche nel processo alla base della malattia. «I risultati di questo studio sono coerenti con il fatto che il primo farmaco ad aver dimostrato efficacia terapeutica nel lupus in uno studio clinico controllato era proprio uno specifico farmaco anti-Baff. Le conclusioni sono inoltre supportate dai risultati positivi recentemente ottenuti con terapie in grado di ridurre il numero di cellule B nella sclerosi multipla, nel lupus e in altre patologie autoimmuni»
Politiche sulle malattie croniche e rare. Rapporto Cittadinanzattiva
Associazioni pazienti, Economia sanitaria, News Presa, PrevenzioneTempi lunghi per diagnosi e cure, tempi ristretti per l’ascolto dei pazienti. Costi insostenibili, burocrazia problematica. Sono le difficoltà a cui vanno incontro quotidianamente le persone con malattie croniche e rare, secondo “in cronica attesa” del XV Rapporto sulle politiche della cronicità di Cittadinanzattiva.
Il rapporto parla chiaro: si attende anni per una diagnosi, mesi per una visita, un esame di controllo o per ricevere un ausilio, giorni al Pronto Soccorso per un posto letto. Per contro, il tempo dedicato alla visita e quindi all’ascolto è sempre più ridotto, le ore dedicate all’assistenza domiciliare ed alla riabilitazione sono troppo esigue.
Il rapporto è stato presentato oggi a Roma dal Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici (CnAMC) di Cittadinanzattiva. con il contributo non condizionato di Merck & Co per il tramite della sua consociata MSD.
Le persone con malattie croniche e rare e i loro familiari devono sopperire a molte carenze, utilizzando il proprio tempo e le proprie risorse economiche: fino a 10.000€ l’anno per l’assistenza psicologica, l’acquisto di farmaci e parafarmaci, la riabilitazione a domicilio; fino a 60.000€ l’anno per pagare la retta della residenza sanitaria assistita. A questo si aggiunge la burocrazia “trita-diritti”, afferma il report, perché non si snelliscono le procedure burocratiche, come nel caso del rilascio di piani terapeutici per i farmaci o di protesi e ausili, l’assegnazione del contrassegno auto per invalidi o il rinnovo della patente.
Al Rapporto di quest’anno hanno partecipato 46 associazioni aderenti al CnAMC, rappresentative di oltre 100mila cittadini affetti per il 64% da patologie croniche e per il restante 36% da malattie rare. Le stesse sono state intervistate tramite un questionario strutturato a partire dai punti cardine del Piano nazionale delle cronicità varato a settembre 2016, al fine di individuare gli elementi positivi e quelli critici su cui occorrerà lavorare per garantire una reale presa in carico dei pazienti.
Il 38,3% degli italiani dichiara di avere almeno una patologia cronica e di questi circa il 70% dichiara di essere comunque in buona salute. Ipertensione (17,1%), artrosi/artrite (15,6%) e malattie allergiche (10,1%) sono nell’ordine le tre malattie croniche più diffuse. Per quanto riguarda le malattie rare, in Italia si stima ci siano tra i 450mila e i 670mila malati rari.
Oltre il 60% delle associazioni segnala la carenza di servizi socio-sanitari sul proprio territorio (ad esempio logopedia, riabilitazione, assistenza domiciliare, servizi di trasporto) e le difficoltà di orientarsi fra i servizi, più del 50% evidenzia difficoltà in ambito lavorativo, legate alla propria patologia, disagi nel comunicare la malattia, difficoltà economiche.
Nel rapporto con il medico, il 78% riscontra di aver poco tempo a disposizione per l’ascolto, di aver visto sottovalutati i propri sintomi (44%), la poca reperibilità (42%) e la scarsa empatia (26%). Ancora indietro sui programmi di prevenzione: non solo perché l’Italia, come riporta l’indagine, investe 83€ a persona (cifra inferiore a quella di paesi come il Regno Unito, la Germania, Danimarca, Olanda e Svezia), ma anche perché, come dichiarano le associazioni, ben il 56% non è stato coinvolto in programmi di prevenzione nel corso dell’ultimo anno. Laddove svolti, tali programmi riguardano per lo più l’alimentazione corretta (24%) e i corretti stili di vita (20%).
Diagnosi in tempi lunghi ed esiti incerti: a volte occorrono anni di attesa, sofferenza, solitudine ed incertezza, accompagnati da costi non indifferenti, prima di arrivare ad una diagnosi certa, che si tratti di malattie croniche o rare. Più della metà (58%) dice di non essere stato sottoposto a programmi di screening nel caso in cui ad un familiare sia stata riscontrata una malattia genetica e il 60% conferma un ritardo diagnostico.
La presa in carico del paziente con patologia cronica rappresenta il cuore del Piano nazionale della cronicità e il punto sul quale si misura la qualità dell’assistenza fornita. Il 40% dichiara che sono stati coinvolti in progetti di cura multidisciplinari solo alcuni pazienti e in ugual percentuale (39%) addirittura nessun paziente. In merito alla riorganizzazione dell’assistenza prestata sul territorio, nonostante la legge abbia introdotto ad esempio le AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali) e le UCCP (Unità Complesse di Cure Primarie), il 39% non riscontra alcun cambiamento. Di conseguenza, i cittadini, nel 68% dei casi devono ricorrere al Pronto soccorso. E, ancora, non si accorciano i tempi di attesa nel percorso di cura: un’associazione su due afferma che non esiste un percorso agevolato che garantisca tempi certi per l’accesso alle prestazioni sanitarie.
“A distanza di circa sette mesi dalla introduzione del Piano nazionale delle cronicità, alla cui stesura ed approvazione abbiamo contribuito come Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici, non possiamo permettere che questo rimanga solo sulla carta. Infatti, ci risulta che, ad oggi, solo le Regioni Umbria e Puglia abbiano recepito formalmente il Piano; altre, ma ancora troppo poche, si stanno muovendo e lo fanno in ordine sparso. Chiediamo che entro l’anno tutte le Regioni lo recepiscano formalmente con delibera e che il Ministero della Salute istituisca al più presto la cabina di regia, garantendo la partecipazione di associazioni di cittadini e pazienti. Rispetto alle strategie di finanziamento del Piano, si potrebbe contare su circa 21 milioni di Euro, relativi al PoN GOV cronicità e sanità digitale per gli anni 2016-2023, ma anche su questo è necessario accelerare”. Queste le dichiarazioni di Tonino Aceti, responsabile del Coordinamento nazionale della Associazioni dei Malati Cronici. “E ancora, servono segnali e impegni concreti per la vita quotidiana dei pazienti: un piano nazionale per la semplificazione della burocrazia, a cominciare dalle procedure per il rinnovo del piano terapeutico sui farmaci salvavita, per il rilascio di protesi e ausili, per superare gli ostacoli nel riconoscimento di invalidità civile ed handicap. E ancora, un impegno per assicurare percorsi di cura reali ed esigibili per tutti: deve essere direttamente il SSN a prenotare esami, visite e prestazioni di controllo per il cittadino con malattia cronica o rara e a garantirli in tempi certi”.
Nel frattempo, la riduzione dei posti letto ospedalieri comporta che, in due casi su cinque, i pazienti debbano ricoverarsi lontano dalla propria residenza o, in più di un caso su tre, accontentarsi di un posto letto in un reparto non idoneo (ad esempio, ragazzi ricoverati in reparti per adulti, pazienti immuno-compromessi in reparti affollati e potenzialmente pericolosi). Una volta ricoverati bisogna, poi, in più di un caso su cinque, fare i conti con pasti non adeguati e mancanza di attenzione del personale medico/infermieristico. Per il 15% delle Associazioni non viene rispettata la dignità della persona a causa della dotazione del reparto.
Quando il ricovero avviene in una struttura riabilitativa, lungodegenza o RSA, i cittadini segnalano lunghe attese per accedervi (68%), la mancanza di equipe multi-professionali (40%), la necessità di pagare una persona che assista il paziente ricoverato (32%) o il costo eccessivo della stessa struttura (28%). In caso di assistenza domiciliare, il primo ostacolo è nella sua attivazione (63%), il numero insufficiente di ore erogate (60%) o la mancanza di figure specialistiche necessarie (45%). Per il 40% manca anche l’assistenza di tipo sociale.
Sul fronte dell’assistenza farmaceutica, i cittadini denunciano limitazioni nella prescrizione da parte dei medici (35%), il costo eccessivo dei farmaci non rimborsati dal SSN (33%) o ancora la difficoltà nel rilascio del piano terapeutico (33%). A volte le limitazioni sono imposte dalle aziende ospedaliere o dalla Asl per motivi di budget (28%) o a monte attraverso delibere regionali (20%).
Pesanti le difficoltà burocratiche soprattutto legate al riconoscimento dell’invalidità civile e dell’handicap e riguardano: per il 46% l’accesso all’indennità di accompagnamento, per il 39% il riconoscimento dell’handicap, per il 31% l’accesso alla pensione di inabilità, per il 27% l’assegno mensile di invalidità civile, per il 15% l’indennità di frequenza. Sull’assistenza protesica ed integrativa, oltre la metà delle associazioni lamenta troppe differenze regionali. In generale, le problematiche principali riguardano i tempi eccessivamente lunghi per la fornitura (35%), la scarsa qualità dei presidi erogati (23%) e un problema di scarsa quantità (18%).
Altro aspetto critico, la gestione del dolore: per il 62% delle associazioni, il personale sanitario sottovaluta il dolore; per il 38% manca un raccordo tra specialista e servizio di cure palliative. Inoltre, il 28% lamenta che i costi per una adeguata terapia analgesica siano a carico dei cittadini; il 24% ha difficoltà a farsi prescrivere farmaci oppiacei.
Ancora molto poche le Asl (14% secondo le associazioni del CnAMC) che promuovono corsi di formazione per i pazienti e i loro familiari per la gestione della patologia, mentre ben l’80% delle associazioni ha coinvolto i propri associati in corsi su terapie e prevenzione, sostegno psicologico, aderenza terapeutica, campi scuola per i giovani.
Sull’appropriatezza, emergono criticità rilevanti: ben il 58% riferisce che i suoi sintomi sono stati sottovalutati con conseguente ritardo nella cura; uno su quattro segnala invece di aver dovuto fare esami inutili o perché non adatti alla propria patologia o perché ripetuti più volte. In tema di aderenza terapeutica, il 59% riferisce che la mancata aderenza è dovuta ai costi indiretti della cura (spostamenti, permessi di lavoro etc..), il 52% alle difficoltà burocratiche, il 39% a interazioni con altri farmaci, o ai costi della terapia. In altri casi interviene lo scoraggiamento perché non si ottengono i risultati attesi (36%) o perché si tratta di una terapia eccessivamente lunga e complicata (26%).
Sulla sanità digitale ancora arranchiamo: il 64% dice di non essere stato coinvolto in nessun progetto di telemedicina e, nonostante la ricetta elettronica sia stata introdotta già da alcuni anni, il 49% ritiene che essa non abbia prodotto alcun risultato, o solo in alcune realtà (22%).
Malattie rare. Il primo problema per chi è affetto da patologie rare è la distanza dal centro di riferimento (68%) e di conseguenza i costi privati per lo spostamento e l’alloggio (61%). Segue, per un’associazione su due, la difficoltà di arrivare alla diagnosi e la mancanza di centri di riferimento. Ancora, la difficoltà nel riconoscimento dell’invalidità e/o dell’handicap (46%) e il mancato riconoscimento della patologia (43%). Sempre la stessa percentuale ha difficoltà nell’acquisto di parafarmaci (colliri, pomate, alimenti particolari, ecc.) e nel pagare privatamente esami e visite specialistiche.
Difficoltà ancora più pesanti, soprattutto dal punto di vista psicologico, quando si parla di bambini e ragazzi affetti da patologie rare, che spesso devono rinunciare a partecipare alle attività extrascolastiche (46%), si scontrano con problemi concreti come la presenza di barriere all’interno dell’edificio scolastico (42%) e talvolta subiscono situazioni come l’isolamento dai compagni o addirittura atti di bullismo (21%).
Cefalee, non chiamatele «mal di testa»
News Presa, RubricheL’emicrania? Non è un banale mal di testa e per combatterla ci sono centri specializzati. Emanuela Di Napoli Pignatelli firma nell’inserto salute che PreSa realizza in partnership con il Corriere del Mezzogiorno un articolo nel quale si svelano i segreti di quelli che, senza mezzi termini termini, sono attentati alla qualità di vita di chi ne soffre. La Di Napoli Pignatelli parla di una «condizione disabilitante, caratterizzata da cefalee accompagnate da nausea, vomito e fastidio per suoni, odori e luci. In Italia sono oltre 5milioni i pazienti che ne soffrono. Le cause del disturbo sono in parte sconosciute, ma la sinergia tra fattori genetici ed ambientali sembra giocare un ruolo predominante. Discorso parallelo è quello dei fattori scatenanti, tra i quali vanno annoverati: stress, stanchezza, ansia, cambiamenti ormonali, ma anche clima, rumori, il consumo di alimenti vaso dilatatori, alcol e alcuni farmaci. E’ stimato che circa la metà dei pazienti non riceve una diagnosi corretta e tempestiva e quindi una terapia adeguata».
L’iniziativa
Nasce quindi un progetto della Società italiana di neurologia che prevede l’organizzazione di una «Settimana di prevenzione del mal di testa» (dall’8 al 14 maggio) su tutto il territorio nazionale. Il Centro Cefalee della prima Clinica neurologica dell’A.O.U. dell’Università della Campania «Luigi Vanvitelli» diretto dal professor Gioacchino Tedeschi coordinerà i centri cefalee più qualificati del Sud Italia per l’attivazione di un servizio gratuito di visite specialistiche. Lo scopo del progetto spiega il professor Tedeschi, è creare una sinergia di competenze su tutto il territorio nazionale, per mettere a disposizione dei pazienti i migliori esperti e ampliare la cultura della prevenzione. Ma una buona pratica clinica non può essere disgiunta da una altrettanto valida ricerca scientifica che aiuti a capire approfonditamente i meccanismi sottostanti la patologia.
Diagnostica per immagini
Grazie alle tecniche avanzate di imaging cerebrale, negli ultimi anni si è assistito per quanto riguarda l’emicrania ad un’evoluzione nella comprensione delle strutture coinvolte, delle anomalie di funzionamento, delle diverse modalità di processare non solo il dolore ma anche altre tipologie di stimoli come ad esempio quelli luminosi, spiega Tedeschi, che ci hanno permesso di comprendere che l’emicrania non è una malattia vascolare o una semplice patologia dolorosa ma uno specifico disturbo neurologico. In passato, infatti, si considerava l’emicrania come un problema collegato ai vasi sanguigni poiché spesso i pazienti riferiscono di sentire come una pulsazione alle tempie nel corso di una crisi. Leggi l’articolo completo
Trapianti pediatrici, a Napoli monta la protesta
News PresaTrapianti pediatrici, a Napoli la tensione tra genitori e istituzioni sanitarie è ormai palpabile. Ora però c’è almeno una data per l’incontro tra i genitori dei bimbi che hanno avuto un trapianto di cuore nell’unica struttura fino a tre mesi fa operativa nel Mezzogiorno e alcuni responsabili della sanità campana. Tutto questo avviene all’indomani delle dichiarazioni del Dg Giuseppe Longo che ha spiegato come le attività del programma pediatrico per i trapianti di cuore, esclusivamente per quel che riguarda la fase di trapianto cardiaco, sono temporaneamente sospese a seguito dell’audit del Ministero della Salute, attraverso il Centro Nazionale Trapianti – Istituto Superiore di Sanità, che ha valutato negativamente le attività degli ultimi due anni anche a causa di un modello organizzativo non adeguato.
Attività clinico assistenziali
«La salute dei bambini trapiantati è una delle nostre priorità – ha detto il direttore generale – abbiamo provveduto ad individuare un nuovo modello organizzativo, così come definito dalla delibera del dicembre 2016. Attualmente, continuano ad essere garantite le attività clinico-assistenziali connesse alle fasi del pre e del post trapianto, nonché l’individuazione di specifici percorsi assistenziali per le modalità in emergenza-urgenza h24, sia per i pazienti adulti che pediatrici, come da delibera del gennaio 2017. In questo modo tutti i bambini che afferiscono alla struttura ospedaliera sono seguiti».
Sinergia con lo Regione
Per garantire la migliore risposta assistenziale per i bambini in attesa di trapianto, con il supporto della Regione e del Centro Nazionale Trapianti, l’Azienda dei Colli sta provvedendo a definire un programma assistenziale altamente efficiente da presentare al Ministero della Salute per la riattivazione del programma trapiantologico pediatrico. «È utile, infine, precisare che non sono mai state interrotte le attività assistenziali della cardiochirurgia pediatrica del Monaldi».
Ci schieriamo con i supereroi già appena nati. Senso di giustizia innato
Bambini, News Presa, Psicologia, Ricerca innovazionePrima ancora di imparare a parlare, ogni bambino ama i supereroi che combattono contro i cattivi. Il senso di giustizia, infatti, e quindi anche l’amore per gli eroi che fanno del bene è sostanzialmente innato. La giustizia viene riconosciuta ancora prima di imparare a parlare. A sei mesi di vita infatti, i bambini, sono già attratti dai personaggi che proteggono i deboli. A svelare questo meccanismo è uno studio dell’Università di Kyoto, pubblicato su Nature Human Behaviour. Gli studiosi hanno esaminato 132 piccoli, di sei e dieci mesi.
Durante una serie di esperimenti, ai piccoli sono state fatte vedere animazioni in cui un personaggio con fattezze di figura geometrica inseguiva un altro e vi sbatteva contro, con un terzo personaggio che guardava invece da lontano, in alcuni casi intervenendo o fuggendo. Poi sono seguite repliche ‘real life’, cioè basate su situazioni reali, da cui è emerso che i bambini erano più propensi a scegliere il personaggio che interveniva.
“A sei mesi sono ancora in una fase di sviluppo iniziale, e la maggior parte non saranno ancora in grado di parlare. Tuttavia possono già comprendere le dinamiche di potere tra questi diversi personaggi, cosa che suggerisce che riconoscere l’eroismo è forse una capacità innata”, rileva David Butler, uno dei collaboratori allo studio. Crescendo, i bambini sviluppano una comprensione più complessa della giustizia e del ruolo dei supereroi e il prossimo passo del team di ricerca è proprio tracciare il percorso di questo sviluppo, anche per contribuire a soluzioni contro il bullismo. “In questo studio, a sei mesi i bambini non hanno mostrato una preferenza per un tipo di aiuto intenzionale piuttosto che accidentale, mentre a dieci mesi lo hanno fatto” sottolinea Masako Myowa, autrice principale della ricerca.
Tumori urologici: Italia prima per guarigioni
Associazioni pazienti, News Presa, PrevenzioneIn Italia 780mila persone vivono dopo la diagnosi di un tumore urologico, ovvero a rene, vescica o prostata. Soprattutto la buona notizia è che l’Italia è al primo posto per guarigioni in Europa. Se aumenta il numero di persone che stanno lottando o hanno sconfitto queste neoplasie (erano 560mila nel 2012), arrivano anche nuove armi come l’immuno-oncologia. A questo tema è dedicato il XXVII Congresso Nazionale della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO), che vede riuniti a Napoli oltre 600 esperti.
I numeri sulla sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di un tumore genito-urinario nel nostro Paese sono più alti rispetto alla media europea: vale per il carcinoma della vescica (78% e 68%); rene (67% e 60%) e prostata (88% e 83%). Si tratta di dati “incoraggianti che dimostrano l’ottimo livello di assistenza che il nostro sistema sanitario nazionale riesce a garantire ai pazienti”, rileva il presidente Siuro Riccardo Valdagni. Le neoplasie genito-urinarie sono dunque “sempre più delle patologie croniche. Quindi è necessario spostare l’attenzione dall’urgenza della cura dell’organo malato alla presa in carico della persona a 360 gradi. E la scelta del tipo di trattamento – sottolinea – deve quindi anche contemplare aspetti non secondari come la salvaguardia della fertilità e il reinserimento del paziente nel mondo del lavoro”. Il vicepresidente SIUrO Sergio Bracarda, spiega che negli ultimi anni “gli specialisti hanno a disposizione un’ulteriore arma: l’immuno-oncologia, che stimola il sistema immunitario a riconoscere le cellule tumorali attraverso l’utilizzo di anticorpi monoclonali, creati in laboratorio. Ha dimostrato di essere particolarmente efficace e di aumentare la sopravvivenza dei pazienti colpiti da carcinoma del rene ed è inoltre mediamente ben tollerata. Sono allo studio o in fase di approvazione anche nuovi farmaci per il trattamento del tumore della vescica e della prostata”. Oggi “8 pazienti su 10 riescono ormai a sconfiggere la malattia – conclude il segretario Siuro Giario Conti -. Tuttavia resta ancora molta strada da fare, soprattutto per quanto riguarda la prevenzione”. Resta solo il dato positivo dell’Italia, prima in classifica per le guarigioni.