Tempo di lettura: 3 minutiNel mondo più di 5 milioni di persone muoiono ogni anno a causa della sedentarietà. Così l’Università di Stanford ha individuato lo strumento ideale per monitorare il fenomeno: lo smartphone. Con il più grande studio mai condotto finora sull’attività fisica ‘spontanea’ (oltre 700.000 persone, in oltre un centinaio di Paesi diversi), sono stati registrati i ‘passi’ fatti ogni giorno e sono stati delineati i pattern di sedentarietà: maggiori nelle città meno ‘camminabili’ e tra le donne.
In pratica, lo studio ha messo il naso nei cellulari di oltre 700 mila persone, con l’obiettivo di aprire la strada ad iniziative mirate contro l’obesità.
Ad annunciarlo al mondo con un post su Twitter (‘Big data in action!’) è lo stesso Francis Collins direttore dei National Institutes of Health americani anche perché questa ricerca, appena pubblicata come lettera su Nature online, è stata realizzata grazie ad un grant dei NIH.
Il Big data, quindi, conferma il suo potenziale, in grado di spiegare, attraverso le informazioni, i trend di salute. Lo sottolinea Grace Peng, direttore del programma di Computational Modeling, Simulation and Analysis del National Institute of Biomedical Imaging and Bioengineering (NIBIB).
Gli smartphone, posseduti ormai da 3 adulti su 4 nei Paesi industrializzati e 1 su 4 in quelli in via di sviluppo, sono lo strumento più efficace per tracciare le abitudini della popolazione.
Lo studio
Sono stati selezionati gli utilizzatori di un’app gratuita su smartphone (Azumio Argus) per il monitoraggio dell’attività fisica e di altre misure (età, genere, altezza, peso registrati dagli utenti sull’applicazione).
I ricercatori hanno analizzato 68 milioni di giorni di registrazioni da 717.527 utilizzatori anonimi di questa applicazione, residenti in 110 Paesi diversi. La ricerca si è poi focalizzata su 46 nazioni (un migliaio di utenti per ognuna). Il 90% degli utenti vivevano in 32 nazioni industrializzate e solo il 10% in Paesi a medio income.
Per calcolare le disparità di attività fisica per nazione i ricercatori della Stanford hanno utilizzato il Gini index, parametro usato dagli economisti per descrivere le disparità di income. Ne è venuta fuori la misura di quanto una nazione fosse ‘ricca’ o ‘povera’ in attività fisica.
L’utente medio di questa applicazione faceva circa 5.000 passi al giorno; sono state anche confrontate le nazioni con pattern di attività fisica più uniformi e quelle con maggior disparità. Ne è emerso che i soggetti residenti nelle 5 nazioni con la maggiore disparità di attività fisica sono anche quelle con i maggiori problemi di obesità: il loro rischio di obesità è risultato del 200% maggiore rispetto ai soggetti residenti nelle nazioni con il più basso indice di disparità nell’attività fisica.
Le nazioni con maggiori disparità nel livello di attività fisica sono anche quelle con il maggior numero di donne sedentarie. Dove invece l’attività fisica presenta livelli più uniformi (come ad esempio in Giappone), maschi e femmine risultano attivi in maniera confrontabile. Al contrario, ne Paesi con le maggiori disparità di attività fisica (es. Arabia Saudita e USA), sono in genere le donne quelle più sedentarie, con un gender gap di ben il 43% tra i due sessi per quanto riguarda il livello di attività, un dato questo riflesso anche la più rapido aumento di prevalenza di obesità tra le donne, nelle popolazioni più sedentarie.
Insomma, i ricercatori hanno delineato dalla ‘disparità’ il target specifico che richiederebbe interventi più urgenti contro l’obesità. Il team americano, inoltre, auspica l’aumento della ‘camminabilità’ delle città, creando cioè un ambiente sano e piacevole per fare delle passeggiate.
In effetti, dati provenienti da 69 città degli Stati Uniti confermano che le città con i maggiori ‘walkability score’ sono anche quelle che hanno le minori disparità di attività. Le città più percorribili a piedi sono quelle che hanno fatto registrare tra gli utilizzatori dell’app per smartphone il maggior numeri di passi individuali al giorno in tutte le categorie considerate (età, sesso, BMI), anche se le donne per qualche motivo restano sempre un po’ più indietro rispetto agli uomini.
Una caratteristica, quella delle città poco percorribili, fonte di malattia. Ne emergono, però, anche possibili ‘strumenti’ di salute, tirati in ballo di recente anche dalla ‘Lettera aperta ai sindaci’, siglata da Anci (Enzo Bianco, Presidente Consiglio nazionale ANCI) e Federsanità (Angelo Lino Del Favero, Presidente Federsanità Anci), e firmata tra gli altri anche da Andrea Lenzi, Presidente di Health City Institute, Giovanni Malagò, Presidente del Coni e Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
La lettera chiede di porre come priorità la salute nelle agende e nelle strategie.
Nel fare ciò, ha proposto nuovi modi per progettare, costruire e gestire le città per aiutare le persone a vivere una vita sana.
“Spiati” dallo smartphone. Il più grande studio sulla sedentarietà
PrevenzioneNel mondo più di 5 milioni di persone muoiono ogni anno a causa della sedentarietà. Così l’Università di Stanford ha individuato lo strumento ideale per monitorare il fenomeno: lo smartphone. Con il più grande studio mai condotto finora sull’attività fisica ‘spontanea’ (oltre 700.000 persone, in oltre un centinaio di Paesi diversi), sono stati registrati i ‘passi’ fatti ogni giorno e sono stati delineati i pattern di sedentarietà: maggiori nelle città meno ‘camminabili’ e tra le donne.
In pratica, lo studio ha messo il naso nei cellulari di oltre 700 mila persone, con l’obiettivo di aprire la strada ad iniziative mirate contro l’obesità.
Ad annunciarlo al mondo con un post su Twitter (‘Big data in action!’) è lo stesso Francis Collins direttore dei National Institutes of Health americani anche perché questa ricerca, appena pubblicata come lettera su Nature online, è stata realizzata grazie ad un grant dei NIH.
Il Big data, quindi, conferma il suo potenziale, in grado di spiegare, attraverso le informazioni, i trend di salute. Lo sottolinea Grace Peng, direttore del programma di Computational Modeling, Simulation and Analysis del National Institute of Biomedical Imaging and Bioengineering (NIBIB).
Gli smartphone, posseduti ormai da 3 adulti su 4 nei Paesi industrializzati e 1 su 4 in quelli in via di sviluppo, sono lo strumento più efficace per tracciare le abitudini della popolazione.
Lo studio
Sono stati selezionati gli utilizzatori di un’app gratuita su smartphone (Azumio Argus) per il monitoraggio dell’attività fisica e di altre misure (età, genere, altezza, peso registrati dagli utenti sull’applicazione).
I ricercatori hanno analizzato 68 milioni di giorni di registrazioni da 717.527 utilizzatori anonimi di questa applicazione, residenti in 110 Paesi diversi. La ricerca si è poi focalizzata su 46 nazioni (un migliaio di utenti per ognuna). Il 90% degli utenti vivevano in 32 nazioni industrializzate e solo il 10% in Paesi a medio income.
Per calcolare le disparità di attività fisica per nazione i ricercatori della Stanford hanno utilizzato il Gini index, parametro usato dagli economisti per descrivere le disparità di income. Ne è venuta fuori la misura di quanto una nazione fosse ‘ricca’ o ‘povera’ in attività fisica.
L’utente medio di questa applicazione faceva circa 5.000 passi al giorno; sono state anche confrontate le nazioni con pattern di attività fisica più uniformi e quelle con maggior disparità. Ne è emerso che i soggetti residenti nelle 5 nazioni con la maggiore disparità di attività fisica sono anche quelle con i maggiori problemi di obesità: il loro rischio di obesità è risultato del 200% maggiore rispetto ai soggetti residenti nelle nazioni con il più basso indice di disparità nell’attività fisica.
Le nazioni con maggiori disparità nel livello di attività fisica sono anche quelle con il maggior numero di donne sedentarie. Dove invece l’attività fisica presenta livelli più uniformi (come ad esempio in Giappone), maschi e femmine risultano attivi in maniera confrontabile. Al contrario, ne Paesi con le maggiori disparità di attività fisica (es. Arabia Saudita e USA), sono in genere le donne quelle più sedentarie, con un gender gap di ben il 43% tra i due sessi per quanto riguarda il livello di attività, un dato questo riflesso anche la più rapido aumento di prevalenza di obesità tra le donne, nelle popolazioni più sedentarie.
Insomma, i ricercatori hanno delineato dalla ‘disparità’ il target specifico che richiederebbe interventi più urgenti contro l’obesità. Il team americano, inoltre, auspica l’aumento della ‘camminabilità’ delle città, creando cioè un ambiente sano e piacevole per fare delle passeggiate.
In effetti, dati provenienti da 69 città degli Stati Uniti confermano che le città con i maggiori ‘walkability score’ sono anche quelle che hanno le minori disparità di attività. Le città più percorribili a piedi sono quelle che hanno fatto registrare tra gli utilizzatori dell’app per smartphone il maggior numeri di passi individuali al giorno in tutte le categorie considerate (età, sesso, BMI), anche se le donne per qualche motivo restano sempre un po’ più indietro rispetto agli uomini.
Una caratteristica, quella delle città poco percorribili, fonte di malattia. Ne emergono, però, anche possibili ‘strumenti’ di salute, tirati in ballo di recente anche dalla ‘Lettera aperta ai sindaci’, siglata da Anci (Enzo Bianco, Presidente Consiglio nazionale ANCI) e Federsanità (Angelo Lino Del Favero, Presidente Federsanità Anci), e firmata tra gli altri anche da Andrea Lenzi, Presidente di Health City Institute, Giovanni Malagò, Presidente del Coni e Walter Ricciardi, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.
La lettera chiede di porre come priorità la salute nelle agende e nelle strategie.
Nel fare ciò, ha proposto nuovi modi per progettare, costruire e gestire le città per aiutare le persone a vivere una vita sana.
Da sceriffo a commissario, la vittoria di De Luca
News PresaLa nomina di Vincenzo De Luca a commissario ad acta per la Sanità in Campania ha sollevato un polverone. Come sempre la pletora dei commenti si divide tra chi lo reputa uno scandalo e chi invece si complimenta, augurando a De Luca un buon lavoro. Nel mezzo ci sono i cittadini, quelli che devono pensare più che altro a sbarcare il lunario e che, per questo, non si curano troppo di chi sia commissario alla Sanità. In realtà, molti non sanno neanche che la sanità campana sia commissariata. Ma queste è un’altra storia. Tornando a De Luca, si è chiusa finalmente una partita che rischiava di tenere al paolo la nostra regione ancora per molto tempo.
L’Ordine dei Medici di Napoli
Tra i primi ad esprimere un cenno di approvazione per la rottura di questo stallo c’è l’Ordine dei Medici di Napoli.
Silvestro Scotti
«Abbiamo appreso dello sblocco di uno stallo che durava ormai da troppo, una nomina fatta nell’interesse dei cittadini della nostra Regione e speriamo in una nuova stagione di rapporti tra Ministero della Salute e Regione Campania». Scotti avverte: «Ora non c’è più tempo per tergiversare. E’ evidente quali responsabilità siano legate a questa nomina, responsabilità, che va dato atto, il Governatore dall’inizio del suo mandato non ha mai rifiutato, sono certo che l’intera classe medica campana sarà pronta a fare squadra nell’interesse della salute dei cittadini se finalmente si superano le sole logiche economiche in sanità e si comincia ad investire su quelle assistenziali».
La reazione dei Cinque Stelle
Preoccupati per la sovrapposizione di ruoli sono i pentastellati, per i quali la dicotomia “controllore controllato” in questo modo viene a mancare.
Silvia Giordano
«L M5S – scrive in una nota la parlamentare Silvia Giordano – ha denunciato questo conflitto di interesse moltissime volte con interrogazioni e interpellanza, ma evidentemente gli interessi politico-elettorali sono più forti di ogni denuncia legale e fondata. Sembra chiaro che l’avvicinarsi delle elezioni politiche solleciti la conclusione di accordi e patti per qualche manciata di voti in più. Così come sembra palese la necessità di ricorrere a chi, come Vincenzo De Luca, promuova campagne elettorali scientifiche e organizzate sulle fritture di pesce sponsorizzate già in occasione dell’ultima campagna referendaria».
Niente più scuse
Bruno Zuccarelli, segretario regionale Anaao, ha accolto la nomina di De Luca con un commento molto chiaro:
Bruno Zuccarelli
«Finalmente il governo si è ricordato dei cittadini campani, ora però non ci sono più scuse». Per Zuccarelli «ora è il momento di iniziare ad affrontare i problemi, tanti, che questa regione, la sua Sanità, si trascina dietro. Ora – conclude il leader regionale Anaao – le chiacchiere stanno a zero. E’ bene che il neo commissario inizi da subito a lavorare per recuperare il tempo perso, e soprattutto sarà determinante evitare ogni tipo di polemica con il sub commissario, nell’interesse dei cittadini/pazienti».
L’ora del rilancio
Gabriele Peperoni
Gabriele Peperoni, segretario provinciale del Sumai parla di una nomina «che va nel senso di ciò che ci aspettavamo e che sicuramente potrà rilanciare nei prossimi mesi la Sanità campana senza che vi siano conflitti tra il commissario e la Regione come abbiamo, purtroppo, dovuto assistere in quest’ultimo anno. Un sincero augurio di buon lavoro a De Luca, sperando che il neo commissario convochi al più presto le parti sindacali per la riorganizzazione di tutte le attività sia territoriali che ospedaliere della Sanità campana».
La rete contratto
Elisabetta Argenziano
Per Betty Argenziano e Silvana Papa, rispettivamente presidente di Federbiologi e Confapi Sanità Campania: «La nomina di Vincenzo De Luca a commissario della Sanità rappresenta un nuovo inizio per la Campania, una regione e una sanità nella quale c’è bisogno di attenzione ai cittadini, di aiuto alle fasce deboli, di oculatezza nella gestione delle risorse e di meritocrazia nel pubblico, così come nel privato. Siamo sicuri che ora si risolveranno velocemente i problemi legati al riconoscimento della rete contratto nel settore dei laboratori, con conseguente tutela della professionalità dei biologi e dei tanti posti di lavoro che questi garantiscono. Allo stesso tempo siamo certi che si risolverà l’annoso problema del fabbisogno soprattutto nel campo della riabilitazione. L’azione del governatore, da commissario alla Sanità, potrà e dovrà guardare alla Campania come modello di efficienza e catalizzatore di energie e competenze nel campo della ricerca. L’augurio è di un buon lavoro, noi siamo pronti a fare la nostra parte».
La Medicina generale
Luigi Sparano
La Fimmg, per voce di Luigi Sparano, auspica che il mandato ricevuto «consenta al presidente di poter incidere in maniera significativa nello sviluppo e nelle nuove forme organizzative della Medicina Generale proseguendo con i medici di famiglia quella progettualità già iniziata con le forme sperimentali delle AFT, funzionali alla sostenibilità del nostro Sistema sanitario».
Rimboccarsi le maniche
Non c’è dubbio, dunque, che De Luca abbia vinto una partita importante, ma è altrettanto chiaro che ora ci sarà da rimboccarsi le maniche e cambiare veramente le cose. I presupposti ci sono tutti, del resto lo sceriffo, diventato ora commissario, non si è mai sottratto. Il suo decisionismo, spesso contestato dai suoi detrattori, è forse ciò che più di tutto è mancato alla Campania. Forse è il momento di crederci, di volere con tutte le nostre forse di rialzarci. Per dirla con il fortunato slogan che ha portato alla vittoria De Luca di non essere «mai più ultimi».
[wl_chord]
Over65: solo 3 su 100 curati a domicilio. La Babele di costi e servizi
Economia sanitariaSolo il 2,7% degli ultrasessantacinquenni italiani con patologie croniche riceve assistenza domiciliare a lungo termine: un privilegio per pochi. Eppure è un’alternativa più efficace e sostenibile dal punto di vista economico, rispetto al modello che ruota attorno all’ospedale. In alcuni Paesi del Nord Europa l’assistenza in casa riguarda il 20% degli over65. In Italia, ci sono circa 3 milioni di persone con disabilità severe, dovute a malattie croniche, e che necessiterebbero di cure continuative, ma solo 370 mila vengono assistiti a domicilio. Non solo: le ore dedicate a ciascun assistito, la natura pubblica o privata degli operatori e il costo pro capite dei servizi risultano del tutto disomogenei nelle diverse aree italiane.
I dati del ministero, sono stati presentati nel corso della seconda edizione degli Stati Generali dell’assistenza a lungo termine (Long Term Care 2), organizzati da Italia Longeva, il network scientifico del Ministero della Salute dedicato all’invecchiamento attivo e in buona salute.
Precisamente, i dati regionali sono di fonte ministeriale, mentre Italia Longeva ha sviluppato un’analisi di dettaglio per comprendere come siano organizzati i servizi di assistenza a domicilio in 12 Aziende sanitarie presenti in 11 regioni italiane: un campione distribuito in modo bilanciato tra nord e centro-sud, relativo ad Aziende che offrono servizi territoriali a 10,5 milioni di persone, ossia quasi un quinto della popolazione italiana.
In pratica, l’Italia dedica in media, a ciascun paziente, 20 ore di assistenza domiciliare ogni anno, mentre altre nazioni europee garantiscono le stesse ore di assistenza in poco più di un mese. «I dati Istat – commenta il prof. Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva – ci dicono che quasi un italiano su 4 ha più di 65 anni, e che questo rapporto salirà a 1 su 3 nel 2050. Al contempo noi non auspichiamo, né saremmo in grado, di curare tutte queste persone in ospedale, e proprio da questa evidenza nasce il nostro sforzo, che si sostanzia anche nel dibattito animato da questi Stati Generali della Long Term Care, per individuare un modello alternativo. Però oggi scopriamo che assistiamo a domicilio meno di 3 anziani su 100. Tutti gli altri? A intasare i pronto soccorsi, nella migliore delle ipotesi, oppure rimessi alle cure fai- da-te di familiari e badanti, quando non abbandonati all’oblio di chi non ha le risorse per farsi assistere. A mio avviso – prosegue Bernabei – questi dati dovrebbero rappresentare non solo per i professionisti della salute, ma anche per i cittadini e per la politica, un campanello di allarme non più trascurabile».
Su un totale di 31 attività erogabili a domicilio (all’interno del panel di ASL analizzato) solo le ASL di Salerno e Catania le erogano tutte, seguite dalla Brianza e da Milano. Ci sono persino aree del Paese in cui l’assistenza domiciliare agli over65 è inesistente. Emergono poi differenze macroscopiche nel numero di ore dedicate dalle ASL agli over65: si va, per esempio, dalle oltre 40 ore annuali della ASL di Potenza alle 9 ore di Torino.
«L’Italia – commenta ancora Bernabei – non ha ancora dato una risposta univoca, né ha individuato un modello condiviso, per la gestione della più grande emergenza demografica ed epidemiologica del presente e del futuro. La nostra indagine dice anzitutto che l’assistenza domiciliare in Italia è una vera e propria Babele, nella quale ogni area del Paese parla una lingua diversa e sembra non esserci nessun dialogo. Tuttavia – prosegue Bernabei – da questa disomogeneità emergono due tendenze, che possono suggerire altrettante strategie per la domiciliarità che abbiamo il compito e la responsabilità di costruire: anzitutto, tranne rare eccezioni, le prestazioni sono quasi sempre insufficienti nelle aree in cui è meno sviluppata l’integrazione fra servizio sanitario e operatori sociali dei Comuni; in secondo luogo, il costo annuo per assistito a domicilio non cresce in maniera proporzionale al numero di ore dedicate a ogni paziente (over65): al di sopra di una certa soglia diminuiscono le successive richieste di assistenza e quindi sembra innescarsi un’economia di scala, che fa decrescere i costi marginali. In altre parole, al di sopra di un certo numero di ore ‘di qualità’, che devono essere considerate quelle ottimali, gli anziani iniziano a stare meglio, e l’assistenza domiciliare si conferma un ottimo investimento collettivo sulla salute dei nostri padri e dei nostri nonni».[wl_cloud][wl_chord]
Epatite E, arriva l’allarme dall’Efsa
PrevenzioneIn pochi conoscono l’epatite E, ma in molti in Europa dovranno farci i conti. L’allarme arriva dall’autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), che punta il dito sul consumo di carne suina cruda o non cotta a dovere. Stando ai dati Efsa negli ultimi dieci anni il ceppo E dell’epatite ha fatto registrare una decuplicazione dei casi, arrivati a 21.000 in tutta Europa. Non a caso l’Efsa ha deciso di costituire un gruppo di esperti sulla diffusione della malattia.
Nemico silenzioso
L’epatite E è per lo più asintomatica, ma può causare insufficienza epatica in soggetti a rischio, come gli immuno-depressi o coloro che già hanno danni epatici. «Anche se non è così diffusa come altre malattie alimentari – spiega la presidente dell’Efsa Rosa Girones – l’epatite E è una crescente preoccupazione nell’Ue. In passato le persone pensavano che la principale fonte di infezione fosse acqua contaminata bevuta durante viaggi fuori Ue. Ora, invece, sappiamo che la principale fonte di trasmissione della malattia in Europa è il cibo». In particolare, come detto, le carni suine. L’Efsa raccomanda quindi agli stati membri di sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi per la salute pubblica associati al consumo di carne di maiale cruda o poco cotta, che viene quindi consigliato di cuocere bene.
Diagnosi e cura
Per avere una diagnosi di epatite E si deve ricorrere ad un’analisi del sangue e delle feci per la determinazione degli anticorpi specifici per l’HEV o per l’HEV-RNA. Inoltre, può verificarsi un aumento degli enzimi epatici, comprese le ALT e le GGT, che indicano uno stato infiammatorio o di lesione del tessuto epatico. Ma, come si cura questo tipo di epatite? I casi di epatite E sono tendenzialmente autolimitanti, cioè si esauriscono da sé. Per questo solitamente non si procede ad un ricovero e in realtà non esiste una terapia specifica e realmente efficace, motivo per cui la prevenzione rimane l’intervento più importante.
Verità per Ibrahim, morto a 24 anni dopo la corsa in ospedale
News Presa, RubricheC’è qualcosa che non torna nella storia di Ibrahim, ventiquattrenne originario della Costa d’Avorio, morto in una sala operatoria del Loreto Mare di Napoli dopo una giornata passata tra pronto soccorso e strada. Ieri, nel piazzale antistante il nosocomio di Via Marina, uno striscione chiedeva «verità». E’ la richiesta fatta dagli attivisti dell’ex Opg «Je so Pazzo», al quale il ragazzo aveva chiesto supporto legale per ottenere asilo. I ragazzi hanno annunciato la loro intenzione di rivolgersi alla Procura della Repubblica. Denunciano che non si tratta solo «di un caso di malasanità», ma anche – dice l’attivista Chiara «di un caso di razzismo. Se Ibrahim fosse stato italiano, oggi sarebbe ancora vivo». In un clima teso la giornata è trascorsa così, tra accuse e urla di dolore. «Ibrahim è morto e non sappiamo come», dicono i suoi amici che ieri si sono dati appuntamento nel piazzale davanti all’ospedale. Hanno provato a entrare nel pronto soccorso, piangendo, chiedendo di capire cosa fosse successo al ragazzo. Gli attivisti dell’Ex Opg li hanno convinti a uscire dal pronto soccorso, a tornare nel piazzale, lasciando lavorare medici, infermieri e tutto il personale dell’ospedale.
Tutto in poche ore
Stando al racconto fatto dai suoi amici, Ibrahim sì è sentito male sabato scorso. Assieme ai ragazzi del centro sociale Ex Opg «Je so Pazzo» è andato una prima volta al pronto soccorso del Loreto Mare. «L’hanno dimesso poco dopo – ha dichiarato l’attivista Chiara all’ANSA, – ma le cose sono peggiorate». Domenica, gli amici di Ibrahim avrebbero provato ad aiutarlo senza riuscirci. «Nelle ore successive ha chiesto più volte soccorso – ha proseguito Chiara – i suoi amici hanno chiamato invano un’ambulanza, sono stati rifiutati da un taxi, sono stati allontanati dalle forze dell’ordine, alla fine hanno dovuto portare il loro amico sulle spalle fino alla guardia medica più vicina, in piazza Nazionale». Il medico di turno ha avvisato immediatamente il 118 e un’ambulanza ha portato il ragazzo in ospedale, di nuovo al Loreto. “Erano già le due e mezza di notte – prosegue Chiara – non si è saputo più nulla fino alle 21.30 di ieri, quando ci è stato detto dall’ospedale che era morto».
I referti
Ovviamente quella riportata da amici e familiari del ragazzo è solo una parte della verità, molto lo si dovrà cercare nei referti medici. Rosario Lanzetta (chiamato ad assumere le funzioni di direttore sanitario sino al rientro di Mariella Corvino), sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno spiega che dai documenti emerge «qualcosa di molto diverso da ciò che ho sentito e letto sino a questo momento. Al primo accesso in pronto soccorso il giovane non è stato affatto dimesso, anzi non è stato neanche visitato. E’ andato via prima che i medici lo potessero vedere». Secondo i referti Ibrahim è stato accettato al pronto soccorso del Loreto Mare alle 12.53 di domenica 9 luglio. Piuttosto generici, e ritenuto non preoccupanti, i sintomi lamentati: dolore addominale e nausea. Questo ha portato chi ha fatto il triage a classificarlo come codice verde. Il secondo accesso, racconta Lanzetta, risulta alle 2.40 del 10 luglio. «Arrivato in autoambulanza, il giovane aveva un addome acuto (vale a dire un quadro clinico che ha come sintomo principale il dolore addominale e che si evolve in maniera rapida e improvvisa). E’ stato immediatamente ricoverato in Chirurgia e trasferito in sala operatoria, al momento dell’anestesia purtroppo è morto». Starà alla magistratura chiarire se e come, Ibrahim si sarebbe potuto salvare. Per ora c’è spazio solo per il cordoglio, per la morte di un giovane che forse si sarebbe potuto salvare.
[wl_cloud]
Carne rossa o bianca: tutto quello che c’è da sapere
AlimentazioneIl consumo di carne in Italia è ai minimi storici, secondo i dati di Coldiretti. Quasi una persona su dieci l’ha ormai eliminata del tutto dalla dieta. Nell’ultimo anno gli acquisti sono diminuiti del 9% per quella di maiale, del 6% per quella bovina, dell’1% per pollo e salumi. La colpa però non è solo della crisi economica. Dopo che l’Oms ha classificato come “probabilmente cancerogena” la carne rossa e come “cancerogena” quella conservata, le vendite sono colate a picco.
Ma qual è il rischio effettivo? Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 100 g al giorno di carni rosse aumentano del 17% il rischio tumore e la probabilità sale al 18% con 50 g di carni conservate, come i salumi in busta (perché contendono additivi -nitrati e nitriti). A fare la differenza però è sempre la qualità del prodotto. In questo senso si è espressa anche l’Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro): «Nessuna patologia è causata soltanto dal consumo di carne e non vi è una relazione di causa-effetto diretta tra proteine animali e sviluppo di una data malattia». Insomma, i dati estrapolati dal contesto generano un allarme ingiustificato: «Per esempio, il contenuto di grassi saturi della carne rossa (considerato un fattore di rischio non solo per i tumori ma anche per i problemi cardiocircolatori ndr) dipende dalla specie e dall’età degli animali, dalle tecniche d’allevamento, dal taglio ma, soprattutto, dai mangimi: quelli a base di mais, che sono ricchi di zuccheri, nell’organismo si trasformano in lipidi».
Non solo: questo tipo di dieta influisce anche sulla qualità del grasso, perché provoca una riduzione del contenuto di Omega 3, dal potere antinfiammatorio, e un incremento di Omega 6, pro-infiammatori. Gli animali che pascolano liberi e si nutrono di erba, invece, hanno carni più magre e sane. Ad ogni modo, i quantitativi di carne, in particolare quella conservata, consumati dagli italiani sono al di sotto della soglia di rischio. L’ultimo Bloomberg Global Health Index, infatti, ha rivelato come il nostro Paese sia quello con la miglior salute del pianeta, grazie soprattutto alla dieta e allo stile di vita. La carne, in quantità ridotta, fornisce la vitamina B12 (assente nei cibi di origine vegetale) che serve per mantenere in salute i neuroni.
Tuttavia, gli studi che mettono in relazione la dieta con le malattie oncologiche sono centinaia, tra cui molti italiani: il professor Franco Berrino è stato uno dei primi e successivamente la Fondazione Umberto Veronesi.
Insomma, c’è una regola di prevenzione che vale sempre: evitare gli eccessi. Questo riguarda tutti i tipi di carne, perché per dirla con una massima latina: “in medio stat virtus”, la virtù è nel mezzo, tra due estremi che sono ugualmente da evitare.[wl_chord][wl_cloud]
Celiaci, l’ostia può essere un problema
News PresaOggi i celiaci possono contare su migliaia di prodotti «gluten free», ma che succede quando un celiaco deve ricevere l’Eucarestia? In fin dei conti l’ostia contiene, e deve contenere, glutine. Il dibattito è particolarmente vivo, e per certi versi anche curioso, perché apre ad un tema che angoscia un numero enorme di fedeli in tutto il mondo. La risposta sembra essere nella «Lettera circolare ai Vescovi sul pane e il vino per l’Eucaristia» diffusa dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. In sostanza i fedeli celiaci possono comunicarsi assumendo ostie contenenti quantitativi di glutine idonei per i pazienti e riconosciuti dalla Santa Sede.
Ostie «conformi»
Rinunciare completamente al glutine non è infatti consentito. Molti ignorano infatti che la Congregazione per la Dottrina della Fede, già nel 1995, aveva stabilito che «le ostie completamente prive di glutine sono materia invalida per l’Eucaristia. Sono materia valida le ostie parzialmente prive di glutine e tali che sia in esse presente una quantità di glutine sufficiente per ottenere la panificazione senza aggiunta di sostanze estranee e senza ricorrere a procedimenti tali da snaturare il pane».
[wl_chord]
Il parere dell’AIC
Stabilito che le ostie, per essere conformi alle norme ecclesiastiche, devono contenere glutine, seppur in minimi quantitativi, l’Associazione Italiana Celiachia intende rassicurare i fedeli celiaci chiarendo che, tenuto in considerazione il quantitativo di particola assunta dal fedele, sono considerate idonee al celiaco sia le ostie garantite “senza glutine” (contenuto massimo di glutine di 20 mg/kg) sia le ostie “con contenuto di glutine molto basso” (contenuto massimo di 100 mg/kg).
L’appello al Papa
Niente allarmismi quindi, almeno per quanto riguarda l’Italia. Non è così per numerosi altri Paesi nei quali non è ancora possibile comunicarsi con ostie a basso contenuto di glutine, non pericolose per chi soffre di celiachia ma valide per la Celebrazione Eucaristica. A questo proposito l’Associazione Italiana Celiachia ha recentemente inviato una lettera al Santo Padre su incarico dell’AOECS, la Federazione delle Associazioni Celiachia Europee. Proprio per rispondere alle esigenze dei 12 milioni di fedeli cattolici nel mondo la cui terapia prevede la rigorosa esclusione del glutine dalla dieta per tutta la vita l’Associazione ha scritto una missiva la Santo Padre. «Attraverso la nostra istanza – spiega il presidente Di Fabio – chiediamo che in ogni luogo della Terra sia possibile, per il fedele celiaco, accostarsi in sicurezza al Sacramento Eucaristico». Ovviamente la speranza è che dalla Santa Sede possa arrivare al più presto una risposta. Se lo augurano i milioni di fedeli che non vogliono rinunciare all’Eucarestia, ma neanche alla propria salute.
[wl_cloud]
Mattinieri o sonnambuli: chi sono i più produttivi? Lo studio
Stili di vitaCi sono i mattinieri e i sonnambuli: i primi amano alzarsi alle prime luci dell’alba, quando i secondi sono appena andati a dormire. Alcuni lamentano di essere più produttivi di notte, altri al mattino presto, l’ultima parola però l’ha avuta la scienza.
I ricercatori della Higher School of Economics e la Oxford University hanno dimostrato che, sebbene i mattinieri siano più efficienti al mattino, col trascorrere della giornata tendano a commettere più errori. Il risultato è emerso da una ricerca sulla privazione del sonno e su come il relativo aumento del tempo trascorso svegli abbia un impatto negativo sul sistema di attenzione del cervello. Lo studio, condotto da Nicola Barclay e Andriy Myachykov, in particolare ha indagato sulle conseguenze per persone con diverse abitudini: chi si priva del sonno al mattino e chi la notte.
Per giungere alle conclusioni sono stati esaminati 26 volontari (13 maschi e 13 femmine) con un’età media di 25 anni. I partecipanti sono stati invitati a rimanere svegli per 18 ore, dalle 8 alle 2 e al mattino e alla sera è stato sottoposto loro un test .
È emerso che anche se i nottambuli hanno impiegato più tempo per terminare il test, la loro precisione e correttezza è stata molto più alta. I ricercatori, infatti, non hanno trovato evidenti differenze nel test somministrato al mattino, al contrario erano più evidenti in quello somministrato alla sera, nel quale i mattinieri sono risultati più rapidi alla consegna, ma molto meno precisi nelle risposte. Lo studio, insomma, ha dimostrato che i nottambuli tendono a sacrificare la velocità per la precisione e alla sera sono molto più efficienti. Non c’è, quindi, un orario più giusto per essere produttivi, molto dipende dalle caratteristiche della persone e dalle sue abitudini quotidiane. L’unica cosa da cui, invece, non si può prescindere è il numero di ore di sonno che deve essere tra le sette e le nove ore al giorno per un adulto, secondo le linee guida della National Sleep Foundation. [wl_chord][wl_cloud]
Rischia di morire, viene ibernato e poi operato
News Presa, Ricerca innovazioneIbernato dopo un grave incidente in attesa dell’intervento chirurgico. Quello che potrebbe sembrare l’inizio di un film di fantascienza, neanche troppo originale, è invece l’avveniristico racconto di qualcosa accaduto realmente al Maria Cecilia Hospital di Cotignola (Ravenna). Sfortunato protagonista, un 37enne vittima di un grave incidente stradale che, oltre a provocare gravi fratture alla cassa toracica, ha determinato la rottura parziale della vena aorta. Insomma, un quadro clinico da codice rosso. Non a caso l’uomo è stato trasferito da ben tre ospedali prima di arrivare nell’unico dove ci fosse una equipe specialistica come quella dell’Unità operativa di Chirurgia Cardio-Toraco-Vascolare guidata da Mauro Del Giglio.
La procedura
Proprio il chirurgo ha spiegato che «nell’incidente l’uomo aveva riportato numerose e gravissime fratture ossee, tra cui lo schiacciamento della cassa toracica e la rottura dell’arco aortico (il secondo tratto dell’aorta). La criticità del quadro clinico ha consigliato una procedura di riparazione vascolare con arresto di circolo e ipotermia controllata senza tuttavia dover ricorrere all’aiuto di protesi tubulari artificiali come avviene nel trattamento degli aneurismi. Dopo aver staccato l’arco aortico dal resto dell’arteria principale – dice – abbiamo utilizzato il tessuto del paziente per ricucire e ricostruire la porzione di vaso danneggiata, ricollegandola poi all’intero sistema circolatorio». Questa straordinaria tecnica di ibernazione, perché di questo si tratta, consente di portare tutto il corpo umano alla temperatura di 26 gradi. Ovviamente è necessario utilizzare specifici sistemi capaci di proteggere il cervello e gli organi interni da eventuali danni. In queste circostanze il rischio maggiore è infatti quello di creare deficit neurologici irreversibili o danni permanenti.
La convalescenza
Fortunatamente l’uomo ha già lasciato l’ospedale di Cotignola per essere trasferito nel reparto di rianimazione del Bufalini dove è ancora sottoposto a sedazione. Per valutare eventuali danni neurologici il paziente è stato svegliato dal sonno indotto per un breve momento, a quanto pare tutto sembra sia andato nel migliore dei modi. Alla famiglia non resta che attendere la fine della convalescenza, consci di aver assistito ad un piccolo miracolo della medicina.
Cambiamenti ormonali non incidono sulle prestazioni del cervello. Cade mito
News PresaI cambiamenti ormonali delle donne non incidono sulle prestazioni del cervello. Da oggi viene definitivamente sfatato un mito.
Gli inglesi avevano addirittura trovato un termine per descrivere il fenomeno: ‘period brain’; ma invece, durante il ciclo mestruale il funzionamento del cervello è lo stesso.
I livelli di estrogeni, progesterone e testosterone non hanno alcun impatto sulla cosiddetta ‘memoria di lavoro’, fondamentale per la risoluzione di problemi di calcolo e di ragionamento, e in generale sulle dinamiche cognitive o sulla capacità di prestare attenzione a due cose contemporaneamente. Lo ha evidenziato uno studio della Medical School Hannover, in Germania, insieme all’ospedale universitario di Zurigo, pubblicato sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience.
Il team di studiosi, per arrivare a questa conclusione, ha preso in esame per due cicli mestruali consecutivi 68 donne. Mentre l’analisi dei risultati del primo ciclo ha suggerito che alcune dinamiche a livello cognitivo e l’attenzione risultavano colpite, queste evidenze non sono state replicate nel secondo ciclo. “Anche se ci possono essere individualmente delle eccezioni- spiega Brigitte Leeners, autrice dello studio- le prestazioni cognitive delle donne non vengono generalmente disturbate dai cambiamenti ormonali che si verificano con il ciclo mestruale”. Ad ogni modo, quindi, tutto dipende dalle caratteristiche del soggetto, e non si possono trarre conclusioni generiche. L’unica certezza, insomma, è che le funzioni del cervello femminile siano le stesse durante tutti i giorni del mese.