Tempo di lettura: 3 minutiSe è vero che l’età rende più saggi, altrettanto vero è che l’avanzare degli anni attenua un’altra capacità di giudizio: quella che andrebbe usata a tavola. Con gli anni si attenua infatti la capacità di avvertire i sapori e questa minore percezione del dolce e del salato può contribuire a modificare la dieta dell’anziano, portandolo a preferire cibi troppo ricchi di zuccheri o di sale con conseguenze negative per la salute. A rivelarlo sono esperti della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG), riuniti a Napoli per il 62° Congresso Nazionale.
Gli anziani perdono gusto
Oltre il 70% degli over 65 introduce troppo sodio e zucchero ogni giorno perché la soglia di percezione del dolce e del salato si alza di due volte e perciò serve una dose doppia di sale e zucchero per sentirne il sapore. Scarsa anche la capacità di avvertire l’acido, per cui la soglia si alza di una volta e mezzo per essere percepito. La dieta cambia di conseguenza: con l’andare degli anni si tende a mangiare più salato e a esagerare coi dolci, aumentando il rischio di diabete e malattie cardiovascolari, ma si riduce il consumo di cibi acidi come gli agrumi o amari come alcune verdure. Un training per tenere “allenato” il senso del gusto può aiutare, così come potenziare gli altri sensi perché vista, udito e olfatto aiutano a percepire meglio i sapori.
Emozioni forti
Almeno a tavola, le persone di una certa età sono portate quindi a cercare “emozioni forti”, un processo fisiologico che però porta oltre il 70% degli over 65 a mangiare troppo sale e troppo zucchero, come segnalano gli esperti. La soglia di percezione del salato e del dolce infatti raddoppia, ed è necessaria una “dose” due volte più alta di sale e zucchero per sentire lo stesso sapore. Tutto questo modifica le abitudini alimentari con possibili effetti negativi sulla salute, ma con una “ginnastica sensoriale” e qualche accorgimento si possono salvare gusto e benessere. «Con l’invecchiamento è fisiologico che il gusto si modifichi: i recettori per il gusto possono avere disfunzioni e il numero di papille gustative scende, l’olfatto peggiora, è più difficile mantenere una corretta igiene orale e tutto questo ha un impatto sulla possibilità di percepire correttamente i sapori», spiega Nicola Ferrara, presidente SIGG e Ordinario di Medicina Interna e Geriatria dell’Università Federico II di Napoli. «Inoltre l’anziano produce meno saliva, fondamentale perché consente di “sciogliere” le molecole percepite dalle papille gustative e stimola e protegge i recettori del gusto: la ridotta produzione dipende sia dalla degenerazione fisiologica delle ghiandole, sia dall’uso di molti farmaci. Anche il tabagismo e patologie croniche come il reflusso gastro-esofageo, il diabete o il decadimento cognitivo, possono alterare la percezione dei sapori, così come l’utilizzo di farmaci anti-infiammatori e antibiotici. La modificata percezione dei sapori e in particolare la ridotta capacità di percepire il dolce il salato, accompagnata dalla migliore conservazione dell’amaro e dell’acido, può contribuire a modificare la dieta dell’anziano portandolo a preferire alimenti troppo ricchi di sale e di zuccheri come avviene in 7 casi su 10 e a ridurre l’assunzione di frutta, soprattutto quella più acida, come gli agrumi, che sono una componente importante della dieta mediterranea. Purtroppo questa abitudine, così come la tendenza a mangiare cibi più zuccherati, può favorire ipertensione e malattie cardiometaboliche, dal diabete alle patologie cardiovascolari».
Dieta equilibrata
La mancanza di denti e le difficoltà a masticare e inghiottire fanno il resto: così gli anziani abbandonano i cibi con una consistenza più fibrosa, come la frutta e la verdura, perdendo sempre di più l’abitudine ai sapori acidi, come quelli degli agrumi, e amari, come alcune verdure. Giuseppe Sergi, geriatra e nutrizionista della Clinica Geriatrica di Padova, spiega che «per rendere più equilibrata la dieta dell’anziano nonostante le alterazioni del gusto bastano facili accorgimenti: per esempio le modalità di preparazione, specie se si tratta di frutta e verdura, che, sottoforma di passati, macedonie e grattugiate o cotte al vapore, oltre che più gradevoli sono più facili da masticare. Oppure si può sfruttare il fatto che gli anziani rispondono ad altre proprietà dei cibi come l’aspetto, il colore: la vista, il tatto, l’olfatto e anche l’udito aiutano a percepire meglio il gusto e ad allenare tutti i sensi perché non “perdano colpi” con l’invecchiamento. Si tratta di una vera e propria ginnastica sensoriale che nel caso di gusto e olfatto può essere fatta esponendosi a diversi sapori e odori per non perdere la capacità di individuarli, come propone anche il progetto europeo GYMSEN – Sensory Gymnastics for the Elderly: mantenere i propri sensi in efficienza significa stare meglio e, nel caso del gusto, riuscire a fare scelte più adeguate per la propria salute».
Mangiare la placenta non dà benefici. Studio smentisce la moda delle star
News Presa, Ricerca innovazioneC’è una moda diffusa, soprattutto tra le star americane, di assumere capsule di placenta per prevenire i disturbi post partum. In realtà un nuovo studio condotto nell’Università Nevada di Las Vegas rivela come l’assunzione abbia un effetto minimo o nullo sull’umore postpartum, sul legame materno o sull’affaticamento. Non ci sono stime precise sul fenomeno, ma buona parte della comunità scientifica pensa che ci siano molte migliaia di donne negli Stati Uniti che praticano la placentofagia materna. La pratica sembra essere più comune in caso di nascita a casa, ma si sta diffondendo anche dopo le nascite in ospedale.
Oggi consumare la placenta, in forma di pillola, dopo il parto è ormai una tendenza sempre più diffusa in tutti i paesi industriali, come il Regno Unito, la Francia, la Germania, l’Australia e gli Stati Uniti. Tra le celebrity, a parlarne per prime pubblicamente, attraverso i loro profili social, furono le sorelle Kardashian, Kim e Kourtney. In Italia non esistono leggi precise a proposito del mangiare la placenta, che di fatto appartiene alla madre, la quale è libera di usarla a scopo di auto-terapia. In altri Paesi, come ad esempio la Francia, questa pratica è invece vietata dalla legge. Lo studio appena pubblicato non è il primo a smentire o minimizzare i benefici, già un’altro precedente, condotto dalla Northwestern University e pubblicato sugli Archives of Women’s Mental Health, aveva rilevato che non ci fosse alcun reale motivo per consigliare il consumo di placenta. I sostenitori della pratica ritengono che, essendo la placentofagia materna comune nei mammiferi in tutta la natura, molto probabilmente offre benefici anche agli esseri umani, quindi alle madri.
La ricerca dell’Università di Nevada, condotta da ricercatori del Dipartimento di Antropologia e Scuola di Medicina dell’UNLV, ha coinvolto 12 donne che hanno assunto capsule di placenta e 15 che hanno assunto pillole placebo nelle settimane successive al parto. Il team di ricerca si è concentrato sull’efficacia delle capsule di placenta nel portare benefici per la salute, come la comparsa dell’inizio del “baby blues” post-partum e la depressione delle neo-mamme. I risultati dello studio non hanno però trovato nessun riscontro, se non minimo. Assumere capsule di placenta ha invece prodotto piccoli, ma rilevabili, cambiamenti nelle concentrazioni ormonali delle madri. Tutti i risultati dello studio sono stati pubblicati online a fine novembre sulla rivista Women and Birth. Il team già tempo fa aveva portato avanti uno studio sulla placenta, dimostrando che il consumo in capsule non era consigliabile come fonte di ferro, al contrario di quello che dicevano molti sostenitori.
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Fratelli nella disabilità, il sistema siblings
PsicologiaFratelli nella disabilità
Le famiglie con un figlio disabile, secondo l’approccio evolutivo, cominciano a differenziarsi dalle altre famiglie a partire dalla nascita del figlio. Si riscontrano infatti problemi di accettazione, percezione dell’handicap, compiti di cura, riorganizzazione della coppia. In questa riorganizzazione, una particolare attenzione viene data alla relazione fraterna “siblings” (vale a dire fratello o sorella di persone con disabilità), un tema che ha appassionato molti ricercatori.
Opinioni divergenti
Studi recenti affrontano la qualità della relazione fraterna presentando un quadro confuso, la maggior parte descrive gli elevati rischi di disadattamento e sofferenza psicologica, considerando i fratelli sani come una “popolazione a rischio”. Altri studi, invece, riportano che i fratelli non disabili hanno uno sviluppo cognitivo ed emotivo regolare e buone capacità adattive e sociali. Spesso, ad esempio, si riscontra in questi fratelli una maggiore empatia e altruismo e una maggiore comprensione per le persone con disabilità. Sono molti i fattori che possono determinare le caratteristiche della relazione fraterna, tra i fattori più considerati compaiono le variabili demografiche statiche come il genere, l’ordine di genitura, l’età, la grandezza della famiglia, lo status socio-economico e il livello di gravità della patologia. Nel rapporto tra fratelli e sorelle nella dimensione della “diversabilità”, i genitori hanno un ruolo insostituibile nel facilitare e sostenere la relazione fraterna, soprattutto nel rapporto con il figlio con disabilità. I genitori partono a volte da un bisogno di rassicurazione che “va tutto bene” e che non devono preoccuparsi (anche) del fratello normodotato. Di fatto poi sono molto disponibili ad aprire spazi di consapevolezza su un mondo, quello dei siblings, presente e silenzioso che necessita di attenzione e rispetto e che in cambio potrà dare molto in futuro alla famiglia o anche alla società.
Il rapporto tra i due fratelli
I rapporti tra fratelli differiscono, generalizzazioni universali sulla loro natura ed influenza sono impossibili. (Powekk e Ogle, 1985). I fattori che possono determinare le caratteristiche della relazione fraterna, sono diversi: le variabili demografiche statiche come il genere, l’ordine di genitura, l’età, la famiglia, lo status socio-economico e il livello di gravità della patologia. Si può dire che talvolta i bambini con un fratello disabile non riescono a capire la patologia, in questa fase le categorie “maggiore”, “minore” vengono sostituite da “capace”, “non capace”, ciò può comportare che, se il fratello non disabile sia il secondogenito, ad esempio, si possa trovare ad avere un ruolo molto diverso da quello che gli sarebbe spettato. Qualora invece, ci si trovi di fronte a siblings adolescenti è riscontrabile, quanto questi ultimi possano sentirsi estranei al gruppo dei pari, avendo raggiunto per esperienza di vita familiare una superiore maturità a quella dei coetanei; infine i siblings adulti diventati a loro volta genitori riportano un comportamento molto attento e riflessivo nei confronti della propria prole.
di Giulia Liperini
Psicologa, Psicoterapeuta, esperta in DSA, Didatta IPR di Pisa. Socio Ordinario SIPPR
Alessandra Testi
Psicologa, Psicoterapeuta, esperta in DSA. Socio Ordinario SIPPR
La solitudine fa male quanto 15 sigarette al giorno
PrevenzioneIl calcolo dei danni provocati dalla solitudine è stato fatto dal ministero della Salute inglese, perché in Gran Bretagna è considerata la prima emergenza sociale. Il problema non colpisce solo gli anziani, ma dilaga anche tra i giovani, sempre più connessi, sempre più soli. Nelle città, le persone spesso non conoscono neppure il proprio vicino di pianerottolo. Lo aveva già capito nel IV secolo A.C. il filosofo greco Aristotele, quando scrisse nella sua “Politica”, che “l’uomo è un animale sociale e in quanto tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società”. Per questo, quando non ci riesce entra in crisi e mette in discussione tutta la propria vita. Tuttavia, la solitudine oggi non viene ancora affrontata con la giusta considerazione. Il male oscuro è un pericolo paragonabile al fumo di sigaretta eppure non ci sono campagne per combatterla. Il destino dell’uomo contemporaneo è legato alla tecnologia, che dovrebbe accorciare le distanze, ma in realtà innalza muri. Un’inchiesta del quotidiano inglese The Guardian mette in luce come ormai in Gran Bretagna la solitudine sia diventata un problema per il sistema sanitario nazionale. Una vera emergenza, un disagio che riguarda non solo per le persone più anziane. L’ultimo Rapporto delle amministrazioni locali la descrive come la prima priorità dei governi locali e in termini di salute: essere soli equivale a fumare quasi un pacchetto di sigarette al giorno.
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Disabilità: Italia non inclusiva. Il Focus
News PresaL’Italia è in forte ritardo nell’inclusione sociale. Ci sono pochi servizi e forme di assistenza strutturata e le famiglie sono sempre più in difficoltà. Il quadro emerge dal Focus dell’Osservatorio Nazionale della Salute nelle Regioni, redatto in vista della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, che si celebra il 3 dicembre. L’Osservatorio, che ha sede presso l’Università Cattolica, fa il punto sulle condizioni di vita dei disabili in Italia. Secondo le stime nel nostro Paese ci sono circa 4,3 milioni di persone con disabilità, 2,1 milioni circa in condizioni particolarmente gravi.
Spesso sono sole, hanno titoli di studio bassi, risultano inoccupate molto di più rispetto alla popolazione generale (penalizzate soprattutto le donne), mentre i servizi loro dedicati sono scarsi e troppo pochi i finanziamenti assegnati.
“La disabilità è una condizione che interessa molti italiani e la sfida che il nostro Sistema di welfare dovrà affrontare è quella di riuscire ad assicurare a queste persone l’assistenza sanitaria e sociale, il diritto a vivere una vita indipendente e, più in generale, di essere inclusi nella società con tutte le opportunità (istruzione, lavoro, partecipazione sociale e politica) di cui godono gli altri cittadini”, afferma in una nota Alessandro Solipaca, responsabile Scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane diretto dal professor Walter Ricciardi.
In Italia si stima che la la maggior parte delle persone con disabilità ha una età superiore a 65 anni e vive nelle regioni del Mezzogiorno. Oltre un terzo vive da solo e ha bisogno di aiuto, tra gli ultrasessantacinquenni la quota sale al 42,4%.
In un’ottica di inclusione sociale, rivestono importanza il diritto all’istruzione e al lavoro. I dati raccolti (fonte ISTAT) evidenziano che il livello di istruzione per questo gruppo di popolazione è mediamente basso, nella classe di età 45-64 anni la percentuale di persone che hanno al più la licenza media si attesta a circa il 70%, senza significative differenze di genere. Numeri che testimoniano il forte divario tra le persone con disabilità e il resto della popolazione, dove la quota di persone con titolo di studio basso nella classe di età 45-64 anni è di circa il 50%.
Per quanto riguarda il diritto al lavoro, nella classe di età 45-64 anni la percentuale di persone in condizione di disabilità occupata è il 18%, nel resto della popolazione 58,7%, con rilevanti differenze di genere. Infatti, risulta occupato il 23% degli uomini con disabilità e solo il 14% delle donne.
Il focus completo sulla situazione attuale riguardo al tema dei diritti e dell’inclusione sociale delle persone disabili è disponibile sul sito http://www.osservatoriosullasalute.it
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Assistente di studio odontoiatrico. Nasce una nuova figura
PrevenzioneI suoi compiti vanno dall’accoglienza all’assistenza alla poltrona, ma ha il divieto di intervenire direttamente sul paziente.
Nasce il profilo professionale dell’assistente di studio odontoiatrico, quale “operatore d’interesse sanitario”. Non una nuova professione sanitaria, ma un operatore la cui competenza e formazione, secondo la legge 43/2006, è delle Regioni e , come specifica la legge, non è riconducibile alle professioni sanitarie classiche descritte dalla stessa norma.
Il profilo è contenuto in un recente accordo Stato Regioni su cui le Regioni hanno espresso il loro assenso.
L’assistente di studio odontoiatrico deve possedere l’attestato di frequenza di uno specifico corso di formazione ed è l’operatore che svolge attività di assistenza dell’odontoiatra e dei professionisti sanitari del settore durante la prestazione clinica: predispone l’ambiente e lo strumentario, accoglie i pazienti e gestisce la segreteria e i rapporti con i fornitori.
La sua formazione è di competenza delle Regioni e delle Province autonome che programmano i corsi di formazione e autorizzano le aziende del SsR e/o gli Enti di formazione accreditati alla loro realizzazione, valorizzando le precedenti esperienze istituzionali e associative già esistenti.
Le attività dell’assistente di studio odontoiatrico sono l’insieme delle competenze acquisite nel percorso formativo e riguardano quattro settori: tecnico clinico; ambientale e strumentale; relazionale; segretariale e amministrativo.
Il corso di formazione per assistente di studio odontoiatrico dura non meno di 700 ore suddivise in 300 di teoria ed esercitazioni e 400 di tirocinio.
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Melanoma, scoperto il paradosso dell’obesità
Ricerca innovazioneScoperto il paradosso dell’obesità
È il “paradosso” dell’obesità. Gli uomini con chili di troppo colpiti da melanoma metastatico rispondono meglio alle terapie target e all’immuno-oncologia rispetto a chi è normopeso. In particolare, migliora quella che gli esperti definiscono come «sopravvivenza libera da progressione», vale a dire il periodo di tempo in cui la malattia non progredisce, e la cosiddetta «sopravvivenza globale». Un risultato che non è evidenziato invece fra le donne e nei pazienti obesi (uomini e donne) trattati con la chemioterapia.
Esperti a confronto
La relazione apparentemente paradossale fra obesità ed efficacia delle terapie innovative emerge dal Convegno internazionale “Melanoma Bridge” con 200 esperti, un ponte della ricerca che non si ferma al melanoma ma si allarga a altre neoplasie come quelle del polmone, del rene, della vescica, del colon-retto e della testa-collo. «Nel 2017 nel nostro Paese sono stimati circa 14mila nuovi casi di melanoma, 1.000 in Campania», spiega il professor Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Pascale di Napoli e presidente della Fondazione Melanoma che organizza il convegno. «È in costante crescita soprattutto fra i giovani, infatti è la terza più frequente negli under 50. Questa ricerca ci può permettere di capire meglio il meccanismo di funzionamento delle nuove terapie. Resta fermo il ruolo dell’obesità quale fattore di rischio di molte neoplasie. È dimostrato infatti il rapporto fra chili di troppo e tumori frequenti come quelli del colon-retto, del seno, della prostata e dello stomaco. Una dieta corretta potrebbe inoltre rivelarsi utile anche nella prevenzione del melanoma. Molti agenti antiossidanti in fase di sperimentazione per la prevenzione di questa patologia sono derivati alimentari: i licopeni, composto che si trova principalmente nei pomodori, i sulforafani, una piccola molecola isolata dai fiori di broccoli, e gli estratti del tè verde».
Mutazioni
Lo studio è stato presentato al “Bridge” da Michael Davies, direttore del Dipartimento Melanoma al MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas, ed è in corso di pubblicazione su Lancet Oncology. Con l’avvento delle terapie immuno-oncologiche (ipilimumab, pembrolizumab, nivolumab) e target (vemurafenib, dabrafenib, trametinib e cobimetinib) l’approccio al paziente con melanoma avanzato è cambiato radicalmente. «Il primo step nel trattamento della malattia metastatica è la valutazione dello status mutazionale – sottolinea Ascierto -. Il 40-50% dei melanomi cutanei presenta una mutazione del gene BRAF, alterazione che identifica quei pazienti che possono beneficiare del trattamento con la combinazione di dabrafenib/trametinib e vemurafenib/cobimetinib, in grado di prolungare la sopravvivenza globale».
Nuove molecole
Il ruolo della chemioterapia è stato stravolto dall’arrivo di queste molecole: il tasso di sopravvivenza a un quinquennio, nella fase metastatica, non aveva mai superato il 12%. Nel nostro Paese l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha reso disponibili nel 2016 due molecole immuno-oncologiche per il trattamento del melanoma avanzato indipendentemente dalla mutazione del gene BRAF. «Il 58% dei pazienti trattati con questa combinazione – continua il Ascierto – è vivo a tre anni, si tratta di un dato senza precedenti che rende concreta la possibilità di cronicizzare il melanoma in più della metà dei casi perché sappiamo che dopo 36 mesi le percentuali di sopravvivenza si mantengono stabili nel tempo. Inoltre a tre anni il 59% dei pazienti trattati con la combinazione era libero dalla necessità di ulteriori terapie».
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«Geni a scuola», il Tigem apre le porte agli studenti
News PresaUn laboratorio di ricerca virtuale per le scuole, che permette agli studenti italiani di affrontare un percorso interattivo che va dalla diagnosi alla terapia per una persona con una malattia genetica rara. Realizzato per Fondazione Telethon da Pearson Italia, leader nel settore education, il kit «Geni in gioco» è ben più di un semplice passatempo, serve infatti a informare e sensibilizzare i liceali sul tema delle malattie genetiche rare, a partire dai banchi di scuola.
Geni a scuola
Il kit «Geni in gioco», interamente digitale e interattivo, verrà presentato oggi durante l’evento «Porte Aperte» alle scuole del Tigem, l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina a Pozzuoli (Napoli), a cui partecipano alcune classi di Napoli e di Pozzuoli. Ambientato all’interno di un laboratorio di genetica virtuale, navigabile da computer, tablet e smartphone, il kit consente di acquisire in modo coinvolgente competenze in biologia di base, genetica e anatomia attraverso quesiti da risolvere e pillole di approfondimento multimediali. Imparando a conoscere, inoltre, la condizione delle persone con malattie rare, le loro difficoltà quotidiane e i risultati della ricerca scientifica. L’intero percorso didattico si affianca al programma di genetica, anatomia e scienze delle scuole superiori, offrendo l’opportunità di ripassi e approfondimenti.
Imparare è un gioco
I progetti educativi Telethon proposti alle scuole rientrano in un protocollo d’intesa siglato tra Fondazione Telethon e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, rivolti ad alunni, genitori e docenti per sensibilizzarli sul tema delle malattie genetiche rare, del sostegno alla ricerca e della solidarietà. Con il kit «Geni in gioco» i ragazzi potranno vestire i panni del ricercatore all’interno di un laboratorio di genetica virtuale e imparare in modo divertente e stimolante. Per accedervi, gli studenti dovranno prima dimostrare di essere all’altezza del compito rispondendo ad alcune domande di base di biologia e genetica, corredate da approfondimenti e pillole di scienza che permettono di recuperare o introdurre nozioni e concetti.
Ricercatori per un giorno
Dopo il test di verifica delle competenze di base potranno affrontare 27 percorsi di approfondimento, su altrettante malattie genetiche diverse e suddivisi in base alla parte del corpo umano maggiormente coinvolta, dall’apparato scheletrico a quello visivo, dal sistema nervoso a quello immunitario. Risolto il quiz, accederanno a una cartella clinica, potranno leggere una breve descrizione dell’anamnesi di un paziente e saranno guidati a individuare i sintomi più rilevanti con l’ausilio degli strumenti di laboratorio per poi verificare la diagnosi attraverso visite e analisi con gli strumenti del laboratorio virtuale. Infine, potranno scegliere la terapia (o la cura, dove, grazie alla ricerca, sia già disponibile) più adeguata tra le varie proposte. Al termine del percorso, i ragazzi potranno conoscere in che modo sostenere la missione di Fondazione Telethon ed essere protagonisti attivi al fianco della ricerca.
Dal virtuale al reale
Un’esperienza, quindi, che inizia nel mondo virtuale e può continuare in quello reale, intraprendendo studi scientifici o attraverso l’impegno concreto in attività di volontariato a sostegno della ricerca di Fondazione Telethon e dei pazienti in attesa di una cura. Nel kit è disponibile una sezione di consultazione in cui approfondire le attività di Fondazione Telethon, i traguardi raggiunti in questi anni, e le storie di alcuni pazienti con malattie genetiche rare. Inoltre, è possibile consultare una piccola biblioteca scientifica sulle malattie genetiche, utile per organizzare eventuali attività di approfondimento.
Anziani a tavola, i segreti del gusto
AlimentazioneSe è vero che l’età rende più saggi, altrettanto vero è che l’avanzare degli anni attenua un’altra capacità di giudizio: quella che andrebbe usata a tavola. Con gli anni si attenua infatti la capacità di avvertire i sapori e questa minore percezione del dolce e del salato può contribuire a modificare la dieta dell’anziano, portandolo a preferire cibi troppo ricchi di zuccheri o di sale con conseguenze negative per la salute. A rivelarlo sono esperti della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG), riuniti a Napoli per il 62° Congresso Nazionale.
Gli anziani perdono gusto
Oltre il 70% degli over 65 introduce troppo sodio e zucchero ogni giorno perché la soglia di percezione del dolce e del salato si alza di due volte e perciò serve una dose doppia di sale e zucchero per sentirne il sapore. Scarsa anche la capacità di avvertire l’acido, per cui la soglia si alza di una volta e mezzo per essere percepito. La dieta cambia di conseguenza: con l’andare degli anni si tende a mangiare più salato e a esagerare coi dolci, aumentando il rischio di diabete e malattie cardiovascolari, ma si riduce il consumo di cibi acidi come gli agrumi o amari come alcune verdure. Un training per tenere “allenato” il senso del gusto può aiutare, così come potenziare gli altri sensi perché vista, udito e olfatto aiutano a percepire meglio i sapori.
Emozioni forti
Almeno a tavola, le persone di una certa età sono portate quindi a cercare “emozioni forti”, un processo fisiologico che però porta oltre il 70% degli over 65 a mangiare troppo sale e troppo zucchero, come segnalano gli esperti. La soglia di percezione del salato e del dolce infatti raddoppia, ed è necessaria una “dose” due volte più alta di sale e zucchero per sentire lo stesso sapore. Tutto questo modifica le abitudini alimentari con possibili effetti negativi sulla salute, ma con una “ginnastica sensoriale” e qualche accorgimento si possono salvare gusto e benessere. «Con l’invecchiamento è fisiologico che il gusto si modifichi: i recettori per il gusto possono avere disfunzioni e il numero di papille gustative scende, l’olfatto peggiora, è più difficile mantenere una corretta igiene orale e tutto questo ha un impatto sulla possibilità di percepire correttamente i sapori», spiega Nicola Ferrara, presidente SIGG e Ordinario di Medicina Interna e Geriatria dell’Università Federico II di Napoli. «Inoltre l’anziano produce meno saliva, fondamentale perché consente di “sciogliere” le molecole percepite dalle papille gustative e stimola e protegge i recettori del gusto: la ridotta produzione dipende sia dalla degenerazione fisiologica delle ghiandole, sia dall’uso di molti farmaci. Anche il tabagismo e patologie croniche come il reflusso gastro-esofageo, il diabete o il decadimento cognitivo, possono alterare la percezione dei sapori, così come l’utilizzo di farmaci anti-infiammatori e antibiotici. La modificata percezione dei sapori e in particolare la ridotta capacità di percepire il dolce il salato, accompagnata dalla migliore conservazione dell’amaro e dell’acido, può contribuire a modificare la dieta dell’anziano portandolo a preferire alimenti troppo ricchi di sale e di zuccheri come avviene in 7 casi su 10 e a ridurre l’assunzione di frutta, soprattutto quella più acida, come gli agrumi, che sono una componente importante della dieta mediterranea. Purtroppo questa abitudine, così come la tendenza a mangiare cibi più zuccherati, può favorire ipertensione e malattie cardiometaboliche, dal diabete alle patologie cardiovascolari».
Dieta equilibrata
La mancanza di denti e le difficoltà a masticare e inghiottire fanno il resto: così gli anziani abbandonano i cibi con una consistenza più fibrosa, come la frutta e la verdura, perdendo sempre di più l’abitudine ai sapori acidi, come quelli degli agrumi, e amari, come alcune verdure. Giuseppe Sergi, geriatra e nutrizionista della Clinica Geriatrica di Padova, spiega che «per rendere più equilibrata la dieta dell’anziano nonostante le alterazioni del gusto bastano facili accorgimenti: per esempio le modalità di preparazione, specie se si tratta di frutta e verdura, che, sottoforma di passati, macedonie e grattugiate o cotte al vapore, oltre che più gradevoli sono più facili da masticare. Oppure si può sfruttare il fatto che gli anziani rispondono ad altre proprietà dei cibi come l’aspetto, il colore: la vista, il tatto, l’olfatto e anche l’udito aiutano a percepire meglio il gusto e ad allenare tutti i sensi perché non “perdano colpi” con l’invecchiamento. Si tratta di una vera e propria ginnastica sensoriale che nel caso di gusto e olfatto può essere fatta esponendosi a diversi sapori e odori per non perdere la capacità di individuarli, come propone anche il progetto europeo GYMSEN – Sensory Gymnastics for the Elderly: mantenere i propri sensi in efficienza significa stare meglio e, nel caso del gusto, riuscire a fare scelte più adeguate per la propria salute».
Hiv/aids: nel 2016 un milione di morti. Oms: stop all’epidemia entro il 2030
PrevenzioneHIV e AIDS: l’Oms lancia una nuova strategia per porre uno stop all’epidemia entro il 2030. Secondo i dati, a metà del 2017, 20,9 milioni di persone affette da HIV stavano ricevendo l’ART (trattamento antiretrovirale): una copertura globale del 53% di adulti e bambini. L’Oms vuole accelerare diagnosi e trattamenti tempestivi soprattutto nelle popolazioni più esposte. L’espansione dell’accesso alle cure è al centro dei nuovi obiettivi per il 2020.
L’HIV continua a essere un problema di salute pubblica globale, con un bilancio negativo finora di oltre 35 milioni di vite. Nel 2016, 1,0 milioni di persone sono morte per cause correlate all’HIV a livello globale.
Alla fine del 2016 ci sono stati circa 36,7 milioni di persone che hanno contratto l’HIV con 1,8 milioni di persone che si sono recentemente contagiate nel 2016 a livello mondiale.
Il 54% degli adulti e il 43% dei bambini che vivono con l’HIV sono sottoposti a terapia antiretrovirale permanente (ART).
La copertura globale della ART per le donne in gravidanza e in allattamento che vivono con l’HIV è alta al 76%.
La regione africana è la più colpita, con 25,6 milioni di persone che vivono con l’HIV nel 2016. In generale, nella relazione dell’Oms (presentata in occasione della vicina giornata mondiale per porre uno stop all’epidemia) emerge una maggiore esposizione all’infezione per uomini che fanno sesso con uomini, persone che fanno uso di droghe, persone in carcere e altri ambienti chiusi, prostitute e loro clienti e persone transgender.
L’infezione da HIV viene spesso diagnosticata attraverso test diagnostici rapidi (RDT), che rilevano la presenza o l’assenza di anticorpi anti-HIV. Molto spesso questi test forniscono risultati in giornata, essenziali per la diagnosi e per il trattamento e la cura precoci.
Non esiste una cura per l’infezione da HIV. Tuttavia, i farmaci antiretrovirali (ARV) efficaci possono controllare il virus e aiutare a prevenire la trasmissione in modo che le persone con HIV e quelle a rischio sostanziale possano godere di una vita sana, lunga e produttiva.
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Fibrosi cistica, «la mia vittoria è non arrendermi»
Associazioni pazientiQuello della fibrosi cistica è un tema sempre difficile da affrontare. A volte, per parlarne, non ci sono parole migliori di quelle che può usare chi la malattia la vive sulla propria pelle. Storie come quelle di Mattia, 18 anni di Rimini, uno dei protagonisti di #FClamiavittoria, una Campagna di sensibilizzazione patrocinata dalla LIFC (Lega Italiana Fibrosi Cistica) insieme alla SIFC (Società italiana per lo studio della Fibrosi Cistica) con il supporto incondizionato di Roche S.p.A.. Un progetto ambizioso che ha l’obiettivo di dare voce ai pazienti che ogni giorno sfidano la patologia, con coraggio e determinazione, e che quotidianamente, riescono a ottenere piccoli e grandi vittorie.
La mia vita oltre la malattia
«Combatto con la Fibrosi Cistica da quando sono nato. Mi ha dato dolori, ma anche gioie. A 14 anni non seguivo quello che mi dicevano i medici. L’amore per lo sport, per il calcio, mi ha spinto però ad affrontarla al meglio. In breve, infatti, ho capito che se non avessi messo la testa a posto avrei dovuto abbandonare il pallone. Da quel momento ho seguito quello che mi diceva il mio medico senza mollare mai. Oggi indosso la mia maglia numero 7 appena posso. Questa è la mia vittoria contro la Fibrosi Cistica».
La campagna
#FClamiavittoria è un progetto ambizioso che ha l’obiettivo di dare voce ai pazienti che ogni giorno sfidano la patologia, con coraggio e determinazione, e che quotidianamente, riescono a ottenere piccoli e grandi vittorie. Partire proprio dalle vittorie, anche piccole, per «poter alzare la voce insieme a loro – spiega Gianna Puppo Fornaro, presidente LIFC – e dire a tutti che oggi la fibrosi cistica può essere sfidata ogni giorno e che, nonostante i sacrifici che si fanno e i momenti di sconforto, alcune vittorie le possiamo mettere a segno regalandoci momenti di pura gioia e ulteriore carica per i giorni successivi. Questo non è solo un progetto di ‘racconto’ della patologia, ma è qualcosa di più: la nascita di uno spazio dove le persone con FC possano trarre ispirazione per prendere in mano la propria vita e arricchirla, per trovare spunti su entusiasmanti sfide a portata di mano: un social network per respirare a pieni polmoni».
Esempi
Mattia insieme a Eleonora, Sophie, Chiara F., Mara, Chiara Z. e Susy sono i ragazzi con Fibrosi Cistica che hanno ‘rotto il ghiaccio’ raccontando le loro piccole grandi vittorie quotidiane con la Fibrosi Cistica. C’è Chiara Z., che segue da 4 anni con passione l’avventura scout; Mara che danza da 16 anni; Eleonora che danza anche lei, ma in piscina con il nuoto sincronizzato; Sophie che non rinuncerebbe mai al suo cavallo; Susy che suona la batteria e Chiara che ha il desiderio di diventare una disegnatrice. Per seguire il loro esempio basta collegarsi al portale e seguire alcune semplici istruzioni. Sarà possibile raccontare la propria vittoria quotidiana in diversi modi, tutti facili e intuitivi: con un video, una fotografia, un racconto o un semplice pensiero.
La Fibrosi Cistica
Si tratta di una malattia genetica grave più diffusa. Si stima che ogni 2.500-3.000 dei bambini nati in Italia, 1 sia affetto da fibrosi cistica (200 nuovi casi all’anno). La malattia colpisce indifferentemente maschi e femmine quasi 6.000 bambini, adolescenti e adulti affetti da FC vengono curati nei Centri Specializzati dislocati nella penisola. Per merito dei continui progressi terapeutici e assistenziali, i neonati con FC possono contare su un’aspettativa di vita di oltre 40 anni e il 20% della popolazione FC in Italia, oggi supera i 36 anni. «La vita media dei pazienti è destinata ad allungarsi nel prossimo futuro con i progressi compiuti in questo campo, in particolare grazie al diffondersi di centri specializzati sul territorio e la disponibilità di terapie efficaci», spiega Valeria Raia, Presidente della Società italiana per lo studio della Fibrosi Cistica. «Ma molto può e deve essere fatto, tra cui anche campagne di sensibilizzazione come #FClamiavittoria, che hanno il compito di sottolineare l’importanza di seguire con attenzione un trattamento terapeutico sistematico».