Tempo di lettura: 3 minutiOggi, uno dei principali problemi mondiali sia nei bambini che negli adolescenti è l’obesità. L’aumento del numero dei bambini con sovrappeso nei Paesi industrializzati ha portato al parallelo aumento di casi di fegato grasso o steatosi epatica non alcolica (NAFLD). Negli ultimi vent’anni, infatti, la steatosi ha raggiunto proporzioni epidemiche anche tra i più piccoli, diventando la patologia cronica del fegato di più frequente riscontro nel mondo occidentale.
Una nuova terapia è stata appena messa a punto dai ricercatori del Bambino Gesù ed è in grado di sconfiggere la fibrosi del fegato grasso nei bambini e di migliorare in maniera significativa i parametri metabolici. I medici dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù hanno dimostrato l’ efficacia per la prima volta tramite una sperimentazione clinica condotta su 43 piccoli pazienti con fegato grasso infiammato associato a deficit di vitamina D. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne. Fino ad oggi non esisteva una terapia valida per la steatoepatite non alcolica pediatrica (NASH), la forma più severa di fegato grasso caratterizzata da infiammazione e danni epatici – come la fibrosi appunto – che possono portare alla cirrosi.
In Italia circa il 15% dei bambini sono affetti da questa patologia, ma si arriva fino all’80% tra i bambini obesi. Più della metà dei bambini con fegato grasso presenta anche carenza di vitamina D.
Questa malattia è determinata dall’accumulo di grasso nelle cellule del fegato, in quantità superiore al 5% del peso (steatosi epatica semplice). Forme più gravi (steatoepatite), invece, possono progredire sin dall’adolescenza verso la fibrosi fino ad arrivare alla cirrosi epatica. Così come gli adulti, anche i bambini affetti da fegato grasso possono presentare danni metabolici caratterizzati da aumento della circonferenza addominale, ipertensione, insulino-resistenza, ipercolesterolemia, tutte condizioni che aumentano il rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica o malattie cardiovascolari. Si tratta di effetti collaterali che riducono le aspettative di vita come mai successo dal dopoguerra a oggi.
Gli studiosi del Bambino Gesù che hanno condotto il trial clinico su 43 bambini con NASH e deficit di vitamina D, già nel 2014 avevano dimostrato, tramite un altro studio, la correlazione tra fegato grasso e carenza di vitamina D quale indicatore di una maggiore fibrosi. Minori sono i livelli di vitamina D, quindi, maggiore è il livello fibrotico. La nuova sperimentazione ha, però, dimostrato per la prima volta in campo pediatrico che la somministrazione per 6 mesi di una miscela di acido docosaesaenoico o DHA e vitamina D induce un miglioramento significativo dei parametri metabolici come la riduzione della resistenza insulinica periferica, dei valori di trigliceridi e delle transaminasi. In particolare, l’assunzione combinata di questi due principi attivi blocca l’attività delle cellule responsabili della produzione e dell’accumulo di collagene nel fegato, portando ad un rimodellamento e quindi a una risoluzione della componente fibrotica del fegato stesso, una delle cause principali dello sviluppo della cirrosi. Nel dettaglio, come dimostrato dallo studio, il DHA agisce sull’accumulo di grasso (NAFLD) e sull’infiammazione epatica (NASH), me da solo è inefficace contro la fibrosi epatica.
“Lo studio del Bambino Gesù ha dimostrato per la prima volta che la terapia combinata con DHA e vitamina D può ridurre nei bambini con NAFLD la progressione del danno epatico agendo sulla fibrogenesi – spiega Valerio Nobili, responsabile dell’unità operativa di Malattie Epato-Metaboliche del Bambino Gesù – Possiamo quindi dire che per questi bambini con fegato grasso infiammato oggi abbiamo una valida soluzione terapeutica, fino a ieri non disponibile, e facilmente prescrivibile anche da un pediatra di base oltre che presso il nostro ambulatorio di steatosi-epatica. Per il futuro stiamo già lavorando a una terapia che oltre alla somministrazione di vitamina D e DHA preveda anche quella di specifici probiotici. Riteniamo infatti sia questa la strada migliore e più veloce per giungere a una terapia in grado non solo di bloccare lo sviluppo della fibrosi e il progredire della malattia epatica, ma di farla regredire fino alla completa guarigione”.
Bimbi prematuri: il rischio di malattie croniche da adulti. Colpa del sistema nervoso
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneVenire al mondo molto prematuramente può accrescere le probabilità di soffrire di malattie croniche da adulti. Ciò potrebbe essere legata a un ritardato sviluppo del sistema nervoso centrale. A dirlo è un recente studio svedese, secondo il quale gli adolescenti nati estremamente prematuri hanno molte più probabilità di avere problemi di salute cronici rispetto ai loro coetanei.
Nel complesso, il 64% dei prematuri nello studio ha avuto limitazioni funzionali, rispetto al 6% dei ragazzi a termine, come hanno scritto i ricercatori sulla rivista Pediatrics è diffusa da Reuters Healths.
“I bambini nati dopo 23-25 settimane di gestazione fanno registrare un aumento del rischio di problemi di salute cronici, quali handicap neurologico (per lo più lieve o moderato), asma e difficoltà comportamentali – spiega il co-autore del lavoro Aijaz Farooqi, ricercatore all’ospedale universitario di Umea in Svezia – In età scolare, molti bambini estremamente prematuri la cui intelligenza generale è normale o nel range basso di normalità hanno difficoltà motorie, problemi comportamentali, sociali e scarso rendimento scolastico”.
I medici ricercatori hanno studiato 134 ragazzini dai 10 ai 15 anni nati prematuri, confrontandoli 103 bambini con caratteristiche simili, ma nati dopo la 37° settimana di gestazione. Rispetto al gruppo di controllo, gli adolescenti nati prematuri hanno mostrato una probabilità 15 volte maggiore di avere gravi disabilità fisiche o mentali e cinque volte maggiore di richiedere ulteriori servizi medici o educativi rispetto al bisogno tipico dei bambini di quell’età.
I medici ricercatori hanno studiato 134 ragazzini dai 10 ai 15 anni nati prematuri, confrontandoli con 103 bambini con caratteristiche simili, ma nati dopo la 37ª settimana di gestazione. Rispetto al gruppo di controllo, gli adolescenti nati prematuri hanno mostrato una probabilità 15 volte maggiore di avere gravi disabilità fisiche o mentali e cinque volte maggiore di richiedere ulteriori servizi medici educative rispetto al bisogno tipico dei bambini di quell’età.
Rivoluzione sushi: ha più calorie del fast food. La prova del nove.
Alimentazione«La birra fa bene», «La birra ingrassa». Scienziati divisi dal boccale
Alimentazione, News PresaLa birra sta dividendo la comunità scientifica, tra gli studiosi di tutto il mondo è infuocato il dibattito sul “boccale della discordia”. Tralasciando gli scherzi, fa sorridere il disaccordo che c’è sul consumo di bionde o rosse e sugli effetti che queste possono avere sulla salute. E’ della scorsa settimana la notizia che una birra piccola al giorno può aiutare a tenere alti i livelli di colesterolo “buono” (vale a dire l’Hdl) nel tempo. A dirlo sono sti i ricercatori della Pennsylvania State University, con uno studio condotto in Cina e presentato da Shue Huang alle American Heart Association’s Scientific Sessions 2016.
Birra sì
Secondo i dati presentati un consumo moderato di alcol, in particolare birra, può rallentare il declino del colesterolo “buono” con benefici per la salute, come la possibile prevenzione di problemi cardiovascolari anche gravi.
Birra no
Ora il problema arriva a seguito di un’indagine del Cancer Council di Victoria sulle calorie nascoste nelle bevande alcoliche. Lo studio rivela che alcune tra le più popolari hanno un numero di calorie simili a barrette di cioccolato e merendine. Bere una bottiglia di birra al giorno, secondo lo studio, equivale in media ad aggiungere cinque chili sulla bilancia nel corso di un anno. Inoltre, sottolinea Craig Sinclair, portavoce del Cancer Council di Victoria «le persone che bevono più di due drink standard al giorno, nel lungo termine rischiano di più di un semplice aumento di peso. C’è una forte evidenza che l’alcol è legato al cancro di bocca, gola, esofago, stomaco, fegato, intestino e seno femminile». Più del 2,8 per cento dei casi di cancro in Australia nel 2010 sono stati attribuiti al consumo di alcol. In questa battaglia a colpi di luppolo e frumento diventa veramente difficile schierarsi. Meglio allora affidarsi al buon senso, bere sempre con moderazione e, mai prima di guidare. Sarà infatti una banalità, ma su questo non c’è alcun dubbio, mettersi alla guida dopo aver bevuto può essere pericoloso per sé e per gli altri.
Se il web sostituisce il medico
PrevenzioneCurarsi dal medico o farlo on line? Nonostante la consapevolezza che on line non si possa trovare una diagnosi, né tantomeno una cura, moltissimi italiani continuano ad affidarsi in maniera sconsiderata al web. Talvolta consultando solo “dottor Google”. Un esempio di quanto questo possa essere dannoso lo abbiamo avuto con i vaccini e con le bufale rispetto alla possibile insorgenza di forme più o meno gravi di autismo. Ora, un indagine condotta su 300 ragazzi tra i 18 e i 28 anni, ci dice che i giovani italiani individuano come principale fonte di informazione in tema di salute i blog e i siti internet, che precedono sia il medico di famiglia sia il farmacista.
I dati
Lo studio mette in luce un’attenzione medio-alta dei giovani italiani nei confronti della loro salute (66%), fatto che certamente non è negativo. Il 61% dichiara svolgere attività fisica almeno una volta a settimana mentre poco più della metà (51%) ha un’elevata cura del cibo. La questione diventa delicata quando si scopre che il 64% ricerca informazioni sulla propria salute attraverso diversi canali: al primo posto ci sono blog e siti internet (71%), mentre arriva solo secondo il medico di base, che rimane una figura fondamentale, preferito dal 63% degli intervistati. Seguono le trasmissioni tv (48%), i parenti e i conoscenti (38%) e il farmacista (31%). Decisamente negativa la tendenza all’automedicazione, in particolare nelle donne. Il 60% dei giovani è propenso a risolvere in autonomia i piccoli disturbi e il 63% afferma di ricorrere ai farmaci senza obbligo di prescrizione medica. Circa la metà dei giovani va in farmacia almeno una volta al mese, per lo più per acquistare antidolorifici (73%) e antinfluenzali (59%). Fortunatamente, sulla scelta dei farmaci da banco, il farmacista e il medico restano le principali figure di riferimento: il 67% prima dell’acquisto chiede consiglio al farmacista, mentre meno della metà (47%) chiede un farmaco specifico.
L’importanza delle fonti
Questa ricerca ci ricorda ancora una volta che i tempi sono cambiati, ma ci mette anche in guardia nella scelta dei canali informativi che scegliamo. Per informarsi sulla salute bisognerebbe sempre cercare siti o portali attendibili, magari che operano in partnership o con il patrocinio con aziende sanitarie ospedaliere e enti istituzionali. Quando poi si tratta di affrontare una malattia, la cosa migliore è sempre quella di lasciare a casa il Pc e rivolgersi direttamente a un medico.
Lo stress fa male come le sigarette. Relax e pause come prevenzione
PsicologiaUna forte “dose” di stress può far male quanto un pacchetto di sigarette, anzi anche di più. Da uno studio pubblicato da Lancet e realizzato su 300 persone i ricercatori della prestigiosa Harvard Medical School hanno rivelato notizie che vanno ben oltre il semplice rapporto tra stress e malessere fisico. In particolare, la ricerca ha indagato e messo in evidenza che una maggiore attività della amigdala (parte del cervello che gestisce le emozioni e in particolar modo la paura) aumenta la probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari. Quindi per i ricercatori della Harvad Medical School i soggetti a rischio dovrebbero portare avanti tecniche di gestione dello stress per fare prevenzione.
Una causa biologica
Ovviamente, che lo stress aumentasse il rischio di malattie cardiovascolari era già noto da tempo, ma nessuno era mai riuscito a chiarire quale fosse il meccanismo biologico per il quale questo avviene. Lo studio, condotto dal team della Harvard Medical School risponde proprio a questa domanda. L’idea è che sia proprio l’iperattività della amigdala a segnalare al midollo osseo di produrre più cellule di globuli bianchi, che a loro volta agiscono sulle arterie infiammandole. E questo può causare infarto, angina e ictus. Il collegamento potenziale – scrive l’autore Ahmed Tawakol, del Massachusetts General Hospital e allo stesso tempo professore associato alla Harvard Medical School – aumenta la possibilità che ridurre le stress puossa produrre benefici che vanno oltre il miglior senso di benessere psicologico.
Tecniche di rilassamento
Purtroppo la routine quotidiana ci porta inevitabilmente a vivere momenti di stress, momenti cha andrebbero stemperati concedendosi nell’arco della giornata almeno qualche pausa e qualche momento di relax. Esistono per questo anche diverse tecniche di rilassamento, che possono essere utilizzate per ritrovare l’armonia interiore e fare in modo che anche questo processo fisiologico non incida troppo sul nostro stato di salute.
Ad Aversa una “casa” per chi soffre di problemi mentali
PsicologiaUno spazio nuovo per aiutare chi soffre di problemi psichiatrici. Martedì 10 gennaio alle 11, ad Aversa, (provincia di Caserta) si inaugura un nuovo Centro di Salute Mentale. Una struttura che servirà i distretti sanitari numero 17 di Aversa e numero 18 di Succivo. Dopo la significativa esperienza del Centro di Salute Mentale di palazzo Orabona ad Aversa, finita nel 2014, è rimasta viva l’esigenza di ricostruire un contesto operativo che favorisse le pratiche di una salute mentale realmente territoriale.
L’attività
Dopo importanti lavori edilizi e impiantistici, è finalmente pronto il nuovo Centro di Viale Europa, dove saranno garantite a decine e decine di pazienti le prestazioni sia ambulatoriali che territoriali, e dove troveranno un loro posizionamento un Day-Hospital per la gestione delle acuzie psichiatriche e un Centro Diurno per le attività di riabilitazione psicosociale. Sarà aperto per 12 ore al giorno in tutti i giorni feriali. Valore aggiunto, la struttura è di proprietà dell’Asl, cosa che consentirà all’azienda di risparmiare sulla spesa per il fitto precedentemente sostenuta.
Un’ancora di salvezza
Poter contare su una nuova struttura, in un Paese nel quale non sempre è facile trovare risposte ai problemi dell’anima è fondamentale. Per molti pazienti sarà una vera e propria ancora di salvezza. Quello psichiatrico è un disturbo molto complesso da affrontare, perché riguarda non solo la mente ma anche il corpo. I sintomi si manifestano infatti sia a livello cognitivo e fisico, emotivo e comportamentale. Per questa ragione è importante che il paziente venga seguito da diverse figure professionali capaci di collaborare tra loro. All’inaugurazione del 10 saranno presenti, oltre al presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, anche il direttore generale della Asl Caserta Mario De Biasio, il direttore del dipartimento di salute mentale della Asl Caserta Luigi Carizzone e il Sindaco di Aversa Enrico De Cristofaro.
Bimbi con fibrosi al fegato: terapia rivoluzionaria del Bambino Gesù
Alimentazione, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneOggi, uno dei principali problemi mondiali sia nei bambini che negli adolescenti è l’obesità. L’aumento del numero dei bambini con sovrappeso nei Paesi industrializzati ha portato al parallelo aumento di casi di fegato grasso o steatosi epatica non alcolica (NAFLD). Negli ultimi vent’anni, infatti, la steatosi ha raggiunto proporzioni epidemiche anche tra i più piccoli, diventando la patologia cronica del fegato di più frequente riscontro nel mondo occidentale.
Una nuova terapia è stata appena messa a punto dai ricercatori del Bambino Gesù ed è in grado di sconfiggere la fibrosi del fegato grasso nei bambini e di migliorare in maniera significativa i parametri metabolici. I medici dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù hanno dimostrato l’ efficacia per la prima volta tramite una sperimentazione clinica condotta su 43 piccoli pazienti con fegato grasso infiammato associato a deficit di vitamina D. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne. Fino ad oggi non esisteva una terapia valida per la steatoepatite non alcolica pediatrica (NASH), la forma più severa di fegato grasso caratterizzata da infiammazione e danni epatici – come la fibrosi appunto – che possono portare alla cirrosi.
In Italia circa il 15% dei bambini sono affetti da questa patologia, ma si arriva fino all’80% tra i bambini obesi. Più della metà dei bambini con fegato grasso presenta anche carenza di vitamina D.
Questa malattia è determinata dall’accumulo di grasso nelle cellule del fegato, in quantità superiore al 5% del peso (steatosi epatica semplice). Forme più gravi (steatoepatite), invece, possono progredire sin dall’adolescenza verso la fibrosi fino ad arrivare alla cirrosi epatica. Così come gli adulti, anche i bambini affetti da fegato grasso possono presentare danni metabolici caratterizzati da aumento della circonferenza addominale, ipertensione, insulino-resistenza, ipercolesterolemia, tutte condizioni che aumentano il rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica o malattie cardiovascolari. Si tratta di effetti collaterali che riducono le aspettative di vita come mai successo dal dopoguerra a oggi.
Gli studiosi del Bambino Gesù che hanno condotto il trial clinico su 43 bambini con NASH e deficit di vitamina D, già nel 2014 avevano dimostrato, tramite un altro studio, la correlazione tra fegato grasso e carenza di vitamina D quale indicatore di una maggiore fibrosi. Minori sono i livelli di vitamina D, quindi, maggiore è il livello fibrotico. La nuova sperimentazione ha, però, dimostrato per la prima volta in campo pediatrico che la somministrazione per 6 mesi di una miscela di acido docosaesaenoico o DHA e vitamina D induce un miglioramento significativo dei parametri metabolici come la riduzione della resistenza insulinica periferica, dei valori di trigliceridi e delle transaminasi. In particolare, l’assunzione combinata di questi due principi attivi blocca l’attività delle cellule responsabili della produzione e dell’accumulo di collagene nel fegato, portando ad un rimodellamento e quindi a una risoluzione della componente fibrotica del fegato stesso, una delle cause principali dello sviluppo della cirrosi. Nel dettaglio, come dimostrato dallo studio, il DHA agisce sull’accumulo di grasso (NAFLD) e sull’infiammazione epatica (NASH), me da solo è inefficace contro la fibrosi epatica.
“Lo studio del Bambino Gesù ha dimostrato per la prima volta che la terapia combinata con DHA e vitamina D può ridurre nei bambini con NAFLD la progressione del danno epatico agendo sulla fibrogenesi – spiega Valerio Nobili, responsabile dell’unità operativa di Malattie Epato-Metaboliche del Bambino Gesù – Possiamo quindi dire che per questi bambini con fegato grasso infiammato oggi abbiamo una valida soluzione terapeutica, fino a ieri non disponibile, e facilmente prescrivibile anche da un pediatra di base oltre che presso il nostro ambulatorio di steatosi-epatica. Per il futuro stiamo già lavorando a una terapia che oltre alla somministrazione di vitamina D e DHA preveda anche quella di specifici probiotici. Riteniamo infatti sia questa la strada migliore e più veloce per giungere a una terapia in grado non solo di bloccare lo sviluppo della fibrosi e il progredire della malattia epatica, ma di farla regredire fino alla completa guarigione”.
Gravidanza, il segreto dell’olio di pesce per i bimbi. Lo studio danese
Alimentazione, Farmaceutica, News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneL’olio di pesce, sotto forma di integratori, assunto negli ultimi tre mesi di gravidanza, ridurrebbe i fenomeni di asma o respiro sibilante persistente nel nascituro. Ad affermarlo è uno studio danese che ha coinvolto 695 donne in stato interessante e che è stato pubblicato dal New England Journal of Medicine e ripreso da Reuters Healts
Gli integratori hanno abbassato il rischio dal 23,7% nelle madri del gruppo trattato con placebo – 2,4 grammi di olio d’oliva al giorno – al 16,9% nelle donne che hanno assunto le capsule di olio di pesce. Si tratta di una riduzione pari al 30,7%, se proiettata ai primi tre anni di vita. Ne hanno beneficiato particolarmente i bimbi nati da madri che – prima dell’inizio dello studio – avevano assunto livelli ridotti dei due ingredienti principali dell’olio di pesce, l’acido eicosapentaenoico (EPA) e quello docosaesainoico (DHA). Nello studio, infatti, tra i figli delle donne con bassi livelli di EPA e DHA, il tasso di asma e respiro sibilante registrato si è attestato al 17,5% – se le mamme avevano successivamente assunto olio di pesce – e al 34,4% nel gruppo del placebo. L’integrazione di olio di pesce ha anche ridotto il rischio di infezioni delle vie respiratorie, con il tasso che è sceso dal 39,1% nel gruppo placebo al 31,7% del gruppo che aveva assunto olio di pesce.
Se la dieta non funziona è colpa di un batterio che mantiene i grassi
Alimentazione, News Presa, Ricerca innovazioneSe la dieta non produce i risultati sperati potrebbe essere colpa del microbiota residente dell’intestino. Lo dice una recente ricerca pubblicata su Cell Host and Microbe che ha dimostrato come il passaggio da una dieta americana piena di grassi e junk food ad una dieta sana, a basso contenuto calorico e ricca di verdure può non dare frutti immediati. Responsabili del poco dimagrimento sarebbe un batterio intestinale resistente. Questi ultimi, infatti, affinché la dieta possa avere successo, devono prima andare ‘perduti’.
“Quando prescriviamo a qualcuno una dieta – afferma Jeffrey Gordon, direttore del Center for GenomeSciences and Systems Biology della Washington University (St. Louis, USA) -è importante ricordare che i microbi possono influenzarne i risultati, anche in negativo. E studiando le comunità batteriche presenti nel microbiota di diverse persone siamo riusciti a individuare quali microrganismi sono in grado di promuovere gli effetti benefici di una determinata dieta”.
Un tipo di alimentazione, quindi, influenza la composizione del microbiota intestinale e il microbiota a sua volta può condizionare la risposta ad un nuovo regime dietetico.
In poche parole, le persone abituate ad una dieta ricca di grassi e calorie hanno un microbiota intestinale (batterio) in grado di mettere i bastoni tra le ruota alle diete ipocaloriche, sabotandone i risultati
Nella prima fase di studio, i ricercatori americani hanno esaminato campioni fecali di soggetti che seguivano un’ alimentazione a basso contenuto calorico e ricco di vegetali e di individui che consumavano una dieta American-style, senza restrizioni di sorta. Questa analisi ha consentito di scoprire che i microbiota di questi due gruppi di soggetti differiscono profondamente.
Successivamente Gordon e colleghi hanno colonizzato dei gruppi di topi germ-free (cioè senza microbiota intestinale) con le due comunità di microbiota reperite nell’esperimento precedente, andando poi a nutrire gli animali con la stessa tipologia di dieta dei donatori o con quella alternativa. I topi colonizzati dal microbiota degli individui che seguivano la dieta americana, hanno mostrato una risposta più blanda alla dieta ricca di vegetali, come se i batteri abituati ad una dieta ben più ricca, ostacolassero in qualche modo i risultati della dieta ‘sana’.
In un passaggio successivo i ricercatori hanno cercato di distinguere quale batterio fosse in grado di potenziare la risposta alla dieta sana, negli animali colonizzati dal microbiota abituato alla dieta americana, facendo ‘incontrare’ a piccoli gruppi questi topi con gli altri colonizzati dal microbiota degli individuati dediti ad una dieta ricca di vegetali. Questa ‘frequentazione’ ha portato ad un netto miglioramento dell’espressione dei risultati di una dieta salutare.
“Dobbiamo capire – spiega Nicholas Griffin primo autore dello studio – che le comunità microbiche che alberghiamo non sono ‘isole isolate’, ma parti di un arcipelago nel quale i batteri possono muoversi da un’isola all’altra, sono cioè quello che noi chiamiamo delle metacomunità. Molti dei batteri che sono migrati nel microbiota condizionato da una dieta americana, all’inizio non erano inizialmente presenti in molti dei soggetti abituati a consumare questo tipo di dieta.”
Questa scoperta potrebbe portare a nuove strategie mirate a potenziare i risultati di una dieta a basso contenuto di calorie. Resta ancora da capire quali fattori determinino questo ‘scambio’ di microbi da un individuo all’altro.
Le categorie di microbi individuate in questo studio potrebbero dunque un giorno essere utilizzate come probiotici di prossima generazione da somministrare magari come coadiuvante delle diete.
Lo studio è stato finanziato dai National Institutes of Health e dal Wellcome Trust.
Salute, se il medico è donna in ospedale si guarisce prima. Lo studio
Economia sanitaria, News Presa, Ricerca innovazioneSe il medico in corsia è una donna le cure sono più efficaci, lo dicono i dati di una ricerca pubblicata sulla rivista JAMA Internal Medicine, e condotta da Yusuke Tsugawa, della Harvard T. H. Chan School of Public Health, Boston. Il paziente gestito da una donna medico, in pratica, presenta minor rischio di morte a 30 giorni dal ricovero e un minor rischio di un secondo ricovero rispetto ad un analogo paziente seguito da internisti di sesso maschile. La ricerca ha sollevato un acceso dibattito tra gli addetti ai lavori e già in passato, studi avevano rilevato differenze nell’operato di camici bianchi di sesso maschile e femminile, con le donne più attente a fare prevenzione e più scrupolose nel seguire le linee guida cliniche, offrendo quindi complessivamente cure migliori rispetto ai medici di sesso maschile. Tuttavia spesso le donne medico hanno stipendi inferiori a quelli dei colleghi maschi a causa di interruzioni contrattuali e interruzioni lavorative per la maternità, come emerge da altri dati. Così, i ricercatori Usa hanno deciso di studiare i dati relativi a oltre 1,8 milioni di ricoveri e oltre 1,2 milioni di secondi ricoveri successivi al primo (riammissione in ospedale ad esempio a 30 giorni dal primo ricovero). Sono stati coinvolti in totale 58.344 medici, per il 32,1% donne. E’ emerso che i pazienti gestiti da internisti maschi hanno un tasso di mortalità a 30 giorni dal ricovero dell’11,49% contro l’11,07% per pazienti gestiti da donne medico. Il tasso di riammissione in ospedale è 15,57% e 15,02% se il paziente è seguito da un medico uomo o donna rispettivamente. Lo studio suggerisce che vi siano differenze importanti nel modo di curare di medici donna e uomini, con implicazioni cliniche altrettanto importanti e differenti esiti per i pazienti. Il passo successivo potrebbe essere quello di capire quali siano le differenze, aiutando, così, a migliorare la qualità delle cure per tutti i pazienti indipendentemente dal sesso del medico da cui sono seguiti.