Tempo di lettura: 2 minutiIn Italia, ci sono 1 milione 34 mila nuclei familiari di un solo genitore e almeno un figlio minore (il 15,8% del totale dei nuclei con figli minori). Un fenomeno in crescita se si considera che nel 1983 erano 468 mila (il 5,5% del totale). A dirlo sono i dati Istat. Nel 2015-2016 si stima che le madri sole siano 893 mila e rappresentino l’86,4% dei nuclei monogenitore (402 mila nel 1983). Molto più contenuto il numero dei padri soli: 141 mila nel 2015-2016 e 66 mila nel 1983. Il 52,9% delle mamme sole con figli minori ha un figlio, il 38,2% ne ha due e l’8,9% tre o più. Per un terzo delle madri sole il figlio più piccolo ha fino a 5 anni di età, per il 42,7% da 6 a 13 anni. In totale nel 2015-2016 sono 1 milione e 215 mila i bambini fino a 17 anni che vivono solo con la madre, pari al 12,1% dei minori. Si tratta di una quota che è molto cresciuta rispetto al 1995-1996 quando si attestava al 5,3% (per un totale di 558 mila bambini).
Tra il 1995-1996 e il 2016 cala la quota di madri con meno di 35 anni (dal 31,5% al 20,3%), anche per la progressiva crescita dell’età al parto, e aumenta quella di madri fra i 45 e i 54 anni (dal 20,9% al 31,8%). Il peso maggiore è ancora delle madri di 35-44 anni (45,3%).
Il 57,6% delle mamme sole è composto da separate o divorziate, il 34,6% da nubili, minoritaria la quota di vedove (7,9%). Nel 2016, lavora il 63,8% delle madri sole, il 24,4% è inattiva, l’11,8% è disoccupata. Rispetto al 2006 la quota di occupate ha subito una forte riduzione per effetto della crisi (era il 71,2%).
La condizione economica delle madri sole: quelle in povertà assoluta sono l’11,8% del totale, a rischio di povertà o esclusione sociale sono il 42,1% e nel Mezzogiorno arrivano al 58%.
Più della metà delle madri sole non può sostenere una spesa imprevista di 800 euro e neanche una settimana di vacanza. Quasi una su 5 è in ritardo nel pagamento delle bollette, affitto e mutuo. E altrettante non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione. Le mamme sole lavorano fuori casa più tempo rispetto alle madri in coppia (47 minuti in più al giorno) e dedicano meno tempo al lavoro familiare (37 minuti in meno). Di tempo libero ne hanno quanto le madri in coppia (2 ore e 44 minuti al giorno).
L’88,5% delle madri sole si dichiara soddisfatta della propria condizione di salute, l’84,5% delle relazioni familiari, l’83,5% di quelle amicali. Più bassa la quota di soddisfatte per il tempo libero (54,6%). I livelli di soddisfazione sono sempre inferiori a quelli delle madri in coppia per tutte le dimensioni della vita e in particolare per le condizioni economiche.
Rispetto alle madri sole, i padri soli hanno meno figli e più grandi di età. I minori che vivono solo con il padre sono 186 mila, erano 87 mila nel 1995-1996. I padri soli sono in media più grandi età: il 44,9% ha 45-54 anni rispetto al 31,8% delle madri sole. Poco più della metà possiede il diploma o la laurea, il 77,1% è occupato. Il 53,4% dei padri soli è separato o divorziato, il 29,3% è celibe. La quota di vedovi è pari a più del doppio rispetto a quella delle mamme sole.
Le millennial non amano il preservativo
PrevenzionePillola o preservativo? Le millennial non sembrano avere dubbi: meglio la pillola. A svelarlo è una ricerca internazionale «Women and contraception: From baby boomers to millennials – has anything really changed?». L’indagine di mercato puntava a confrontare le aspirazioni, lo stile di vita e le scelte contraccettive delle millennial (di età compresa fra i 21 e i 29 anni) con gli stessi parametri delle loro madri, le “baby boomer” (oggi fra i 50 e i 65 anni), alla stessa età. L’obiettivo era valutare quanto fosse realmente cambiata la situazione fra le due generazioni. Il sondaggio, che ha preso in considerazione anche l’Italia ha confermato che nonostante i molti progressi che ci sono stati nel mondo della contraccezione femminile, la “pillola” rimane il contraccettivo più conosciuto tra le ragazze di età compresa fra i 20 e i 29 anni, insieme al profilattico che è utilizzato solo dal 22% di esse.
Le malattie
Uno dei temi che viene spesso sottovalutati è quello delle malattie sessualmente trasmissibili, in primis l’Hiv, ma anche la Gonorrea, la Tricomoniasi, la Clamidia e la Sifilide. Spesso viene sottovalutato anche il Papilloma virus o HPV, che è la causa delle infezioni più diffuse e frequenti e colpisce soprattutto le donne. Questo tipo di infezione rientra tra le malattie sessualmente trasmissibili, ma non si contagia solo tramite la penetrazione sessuale. Il Papilloma virus infatti può essere trasmesso attraverso contatti cutanei e delle mucose, per questa ragione il solo preservativo non basta a prevenire il contagio. L’Hpv è una malattia asintomatica, non vi sono al momento cure per questo genere di infezione e spesso si estingue da sola. In una piccola percentuale di casi provoca lesioni al del collo dell’utero, che possono trasformarsi in forme tumorali (con l’esame del Pap test possono essere rinvenute eventuali trasformazioni).
Il preservativo
Alla base della disaffezione che i giovani hanno per il preservativo ci sono ragioni di carattere psicologico ma anche economico. Il condom è infatti considerato «troppo caro, scomodo, innaturale». Da un’importante ricerca 4 giovani su 10 non lo usano, con tutti i problemi che ne derivano. I dati nazionali sul consumo dei preservativi in Italia documentano un’importante riduzione dell’uso , a fronte di un allarme della Amcli (Associazione microbiologi e clinici italiani), che a dicembre scorso ha riportato un incremento generale di malattie sessualmente trasmesse. Insomma, la protezione dalle malattie sessualmente trasmesse con il preservativo non sembra essere di moda. Dalle indagini eseguite dalla Fondazione Foresta Onlus nel 2015-2016 su oltre 2000 giovani emerge che oltre il 40% degli intervistati riferisce di avere rapporti liberi. Ed è noto che l’80% delle infezioni da Hiv si trasmette attraverso rapporti sessuali non protetti. Quindi, meglio pensarci prima e fare la scelta giusta.
Tumore, la genomica cambierà le cose
Ricerca innovazioneSi chiama genomica una delle ultime frontiere nella lotta a diverse forme di tumore. Questo perché molto spesso, più di quanto si pensi, le neoplasie hanno origine “ereditaria”. Ovviamente non si eredita il tumore, ma la propensione a svilupparlo. Statisticamente, ad un uomo su sei nell’arco della propria vita viene diagnosticata un tumore della prostata, mentre per le donne è stato stimato che almeno il 7% delle neoplasie alla mammella è su base eredofamiliare.
Diverso approccio
Questa considerazione ha condotto i ricercatori che operano nel campo dell’oncologia a variare negli ultimi decenni l’approccio alla patologia neoplastica; alla mera finalità curativa e preventiva tradizionale (individuazione della malattia in fase pre-clinica) si sono infatti affiancate le notevoli capacità della Genomica nel campo della stratificazione dei pazienti (identificazione di fattori di rischio, creazione di programmi di screening “personalizzati”) e delle terapie mirate (terapia genomica, selezione del trattamento in base al profilo genetico/genomico). Queste capacità si traducono in diagnosi precoce e migliore terapia.
Test personalizzati
Un laboratorio di genomica all’avanguardia consente al CMO di Torre Annunziata di fare moltissimi test oncologici che sono indicativi per la terapia del paziente ma soprattutto per l’approccio chirurgico, fondamentale per sapere se il paziente è affetto da mutazione genetica ed è stato anche elaborato un kit per far fare il prelievo direttamente dal chirurgo di fiducia e quindi avere il campione anche da un’altra città o regione perché con questi kit è possibile controllare in ogni momento il percorso compiuto dal campione raccolto che dunque è costantemente monitorato. Due kit, uno blu per i tessuti (colon, polmone, tiroide e ovaio) e uno rosso dedicato esclusivamente alla mammella. Al CMO non sono previste liste di attesa e infatti molti pazienti scelgono questa struttura da tutta Italia, in particolar modo da tutto il Sud e dal Lazio. Le possibilità sono dunque moltissime e il futuro si annuncia ricco di importanti novità.
Notte prima degli esami, il segreto per farcela
News PresaEsami di maturità, pronti via! Ormai ci siamo e migliaia di studenti pensano solo a come fare per arrivare al meglio, e magari memorizzare in poche ore ciò che non hanno appreso durante l’anno. Premesso che quest’ultima possibilità non esiste, si può almeno fare qualcosa per arrivare al grande giorno, come si dice, a mente fresca.
I pilastri per farcela
Secondo gli esperti, per arrivare nella migliore condizione possibile agli esami di maturità serve una sana alimentazione, riposo e corretta idratazione. Anche perché, dicono, «mangiare in maniera sregolata e saltare i pasti non gioca a favore del benessere, così come le notti insonni trascorse sui libri». In particolare bere la giusta quantità di acqua, distribuita nel corso della giornata, influisce positivamente sulle funzioni del cervello: «Mal di testa, stanchezza, minor capacità di concentrazione e di esecuzione anche di compiti semplici sono spesso segnali di una moderata disidratazione – racconta Alessandro Zanasi, esperto dell’Osservatorio Sanpellegrino e membro della International Stockholm Water Foundation – in situazioni di tensione, come certamente sono gli esami finali per tanti studenti italiani, si tende a sudare di più, non solo a causa della temperatura più elevata tipica del periodo estivo. È quindi estremamente importante mantenere un adeguato livello di idratazione, per tenere alta la concentrazione e l’attenzione, oltre che aiutare la memoria».
L’importanza di bere
Anche perché, aggiunge l’Osservatorio, «bere è sempre fondamentale, ma lo è ancora di più per una migliore funzionalità cerebrale in situazioni di elevato stress come lo studio. Nei momenti di affaticamento, per avere prestazioni cognitive performanti bastano uno o due bicchieri di acqua, sufficienti a riportare il cervello alla normalità. Quando si beve non solo ci si disseta, ma si assumono elementi importanti come calcio, magnesio, ferro, zolfo, essenziali per il benessere psico-fisico». Il suggerimento agli studenti, conclude Zanasi, è quello di “bere frequentemente durante tutto l’arco della giornata, senza arrivare ad aspettare la comparsa dei primi sintomi della sete: anche una iniziale carenza di acqua comporta effetti negativi sulle prestazioni intellettive. Bisogna esserne consapevoli per rieducarsi ad una corretta idratazione».
Indagine Anaao Assomed. 66% medici hanno subito aggressioni
Ricerca innovazioneSembra un bollettino di guerra il sondaggio che l’Anaao Assomed ha condotto da aprile a maggio 2018 su un campione di medici di tutte le specialità iscritti all’Associazione. Negli ultimi anni si è assistito a un escalation progressiva degli episodi di violenza contro gli operatori sanitari: dal recente tentativo di strangolamento di un medico di pronto soccorso fino a stupri e vere e proprie spedizioni punitive da parte di gruppi organizzati contro i medici. Il problema ha assunto una rilevanza tale che il presidente nazionale della FNOMCeO Filippo Anelli ha inserito il problema della sicurezza nei luoghi di lavoro nei punti del suo programma. L’Anaao Assomed ha deciso di elaborare un’indagine per delineare i contorni del fenomeno. Smarrimento, rabbia, frustrazione e spesso solitudine sono i sentimenti più diffusi in chi è vittima di violenza fisica o verbale sul posto di lavoro, senza trovare risposte adeguate nelle Direzioni aziendali. L’analisi è stata condotta su 1280 soggetti con un tasso di risposte crescente all’aumentare dell’età: il 6,67% è di età compresa tra 25 e 35 anni, il 21,63% tra 35 e 45 anni; il 27,83% tra 35 e 55 anni e il 43,88% tra 55 e 65 anni.
Le donne hanno mostrato maggiore partecipazione dimostrando maggiore sensibilità al problema: 53,95%.
Le Regioni di provenienza dei responders rispecchiano la numerosità degli Iscritti Anaao cui è stata destinata l’indagine, con percentuali di risposta che superano il 10% in Emilia Romagna, Piemonte, e Veneto e tra il 5-10% in Campania, Toscana, Lazio e Sicilia.
Il 65% circa dei partecipanti alla survey ha risposto di essere stato vittima di aggressioni, di questi il 66,19% riferisce aggressioni verbali mentre il 33,81% aggressioni fisiche.
Una ulteriore analisi regionale evidenzia che la percentuale di aggressioni sia fisiche che verbali si incrementa al 72,1% nel Sud e nelle Isole.
Dato ancora più allarmante per i Medici che lavorano in Pronto Soccorso e 118 dove le stesse percentuali salgono all’80,2%.
Rispetto alle aggressioni fisiche invece particolarmente colpiti sono i medici dei reparti di Psichiatria/SERT (il 34,12% di tutte le aggressioni fisiche) e i medici di Pronto soccorso/118 (il 20,26% di tutte le aggressioni fisiche).
Il 23,35% degli intervistati ha risposto di essere a conoscenza di casi di aggressione da cui è scaturita invalidità permanente o decesso. Dalle aggressioni sono scaturiti dai 3 a i 100 giorni di prognosi.
Il 70% del campione riferisce di essere stato testimone di aggressioni verso il personale sanitario, il che fa supporre che il fenomeno sia di fatto sottostimato rispetto a quanto emerso a domanda diretta nel sondaggio.
Altro elemento che rinforza l’ipotesi della sottostima del fenomeno sia da parte degli operatori sia da parte delle amministrazioni – sì legge nell’indagine – è che oltre il 50% dei responders ignora che le aggressioni dovrebbero essere identificate come evento sentinella dalla propria Direzione aziendale come previsto dalla raccomandazione n. 8 del 2007 del Ministero della Salute, mentre il 18% asserisce che addirittura non vengono riconosciute.
Le cause delle aggressioni per i medici coinvolti nell’indagine sono da riferire a fattori socio-culturali per il 37.2%, definanziamento del SSN per il 23,4%, carenze organizzative per il 20%, carenze di comunicazione per l’8,5%. Le risposte più frequenti per chi ha risposto altro sono tutte le precedenti.
Da segnalare che più di un responders dichiara che l’aggressione verbale è provenuta da un collega sul posto di lavoro.
Infine, il 56,4% non sa se il problema viene trattato ai tavoli sindacali, mentre il 30,8% è convinto che esso non venga mai discusso.
“Dalla nostra indagine – si legge in una nota – emergono molteplici riflessioni che impongono un richiamo alla responsabilità di tutti i referenti istituzionali compreso il sindacato.
Esiste sicuramente un vuoto normativo in quanto la legge sulla sicurezza negli ambienti di lavoro numero 81 del 2008 non prevede esplicitamente i termini “aggressione e violenza” ai danni degli operatori sanitari. Il dato delle Aziende sanitarie che valutano il rischio di aggressione nel Documento di Valutazione del Rischio (DVR) è un dato che andrebbe aggiornato al passo con una realtà lavorativa che assume connotati sempre più preoccupanti.
I Direttori Generali sono i primi che debbono farsi garanti della sicurezza dei loro dipendenti, in primis applicando normative e raccomandazioni già esistenti, vedi la raccomandazione numero 8 del 2007, adoperandosi oltre che con l’implementazione dei sistemi di vigilanza anche con l’adozione di misure idonee ad arginare il sovraffollamento che risulta sicuramente correlato ad un incremento degli episodi di violenza. E il tema del sovraffollamento è strettamente legato al Pronto Soccorso, ed al taglio dei posti letto, che risulta dall’indagine il reparto con il più alto tasso di aggressioni verbali e fisiche: percentuali insostenibili per chi vi lavora che condizionano notevolmente il burnout di medici e infermieri“.
Dal sondaggio emerge infine una questione Sud: la sanità meridionale, quella più definanziata è quella dove è più diffusa la violenza verso i sanitari. Per questo attendiamo risposte dalla Politica.
AGGRESSIONI FISICHE
Psichiatria
Ps /118
20,26%
Medicina interna
Chirurgia generale
4,26%
Ginecologia
Medicina legale
2,84%
Direzione sanitaria
Pediatria
2,48%
Pneumologia
Mal infettive
2,13 %
Anestesia e rianimazione
1,77%
Indagine a cura di Elisabetta Lombardo (Segretaria Anaao Azienda Policlinico Catania)
I dati sono stati elaborati da: Andrea Rossi (Vice Segretario Anaao Veneto) e Matteo D’Arienzo (Anaao Giovani)
Emicrania, una cura rivoluzionaria
News PresaPiù di un miliardo di persone nel mondo soffrono di emicrania, per loto sta arrivando una vera e propria rivoluzione. A quanto pare, nuovi farmaci (già approvati) saranno a breve anche sul mercato italiano. Si tratta di un anticorpo monoclonale completamente umanizzato che ha come target il peptide Cgrp, identificato per l’emicrania.
Curare la malattia
Elio Agostoni, direttore Dipartimento di Neuroscienze Asst dell’Ospedale Niguarda, a margine del IX Congresso nazionale Anircef (Associazione neurologica italiana per la ricerca sulle cefalee), che si è tenuto a Milano spiega che «oggi stanno arrivando sul mercato dei farmaci che sono capaci di interferire con il meccanismo che genera la malattia. Fino ad oggi abbiamo curato le crisi di emicrania ma non la malattia, o meglio l’abbiamo fatto solo parzialmente». La strategia terapeutica infatti si focalizza sulla cura delle crisi quando arrivano e sulla cura della malattia, quindi sulla prevenzione e la profilassi: «quando le crisi occupano 4-5 giorni al mese l’indicazione è quella di fare la profilassi, quando invece si tratta di episodi che sono meno di 5 giorni al mese c’è solo la terapia dell’attacco. Un’impostazione rigida».
Nuove prospettive
Con i nuovi farmaci iniettivi, trimestrali o mensili, la situazione cambierà, «cambieranno la nostra percezione di crisi e di malattia e ci permetteranno di prevenire le crisi e altri problemi collegati all’emicrania». L’emicrania si distingue in cronica ed episodica: nel primo caso, i pazienti ne soffrono per almeno 15 giorni al mese, nel secondo caso per al massimo 14 giorni al mese. In Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito sono oltre 15 milioni le persone che soffrono di emicrania episodica e cronica, in Europa questa malattia ha un costo per l’economia di 18 miliardi di euro l’anno in termini di produttività e giornate di lavoro perse.
Sigaretta elettronica, in Thailandia si rischia l’arresto
News PresaFumare non è mai una buona idea, anche se in questi anni si sono molto diffuse le sigarette elettroniche. Tra sostenitori e detrattori, è ormai molto comune vedere in strada ragazzi di tutte le età «svapare» sino a rimanere attorniati da una nuvola di vapore a mo’ di “Brucaliffo” (personaggio inventato da Lewis Carroll per Alice nel paese delle meraviglie). Lungi da noi sciogliere l’amletico dubbio sulla sicurezza di queste sigarette elettroniche, ci limiteremo a mettere in guardia il lettore su qualcosa che forse non sa, ma che dovrebbe sapere. Soprattutto a ridosso dell’estate.
La guerra di Vajiralongkorn
A quanto pare, in Thailandia si può essere arrestati se si possiede una sigaretta elettronica. E il rischio lo corrono anche i turisti. Quella in atto è una piccola guerra del Re Vajiralongkorn a chi osa svapare. Lo ha rivelato una ricerca presentata al Global Nicotine Forum di Varsavia con un’indagine condotta chiedendo alle organizzazioni che fanno parte dell’International Network of Nicotine Consumer Organisations di “nominare2 i cinque peggiori paesi dove ‘svapare’ e i cinque migliori. La Tailandia ha vinto con 33 menzioni, mentre al secondo posto si è piazzata l’Australia, dove è vietata la vendita delle e-cig che contengono nicotina.
Italia neutrale
«La Tailandia ha un approccio draconiano con i turisti e la popolazione locale, che vengono regolarmente arrestati per vaping – spiega Asa Ace Saligupta dell’organizzazione End Cigarette Smoke Thailand -. La Polizia spesso perquisisce le auto ai posti di blocco cercando e-cig e poi le usa per estorcere le multe». L’Italia non ha ricevuto nessuna “nomination” in un senso o nell’altro, mentre i paesi migliori dove svapare sono Gran Bretagna, che ha la legislazione più permissiva e dove usano questi dispositivi tre milioni di persone, seguita da Germania e Francia. «Quattro anni fa la Gran Bretagna stava cercando di bandire totalmente le e-cig – spiega Gerry Stimson della charity New Nicotine Alliance -. Oggi ha tre milioni di svapatori, e questo sta accelerando il declino dei fumatori tra i britannici».
Madri sole con minori: in Italia sono 893 mila. 12% in povertà assoluta
Ricerca innovazione, Stili di vitaIn Italia, ci sono 1 milione 34 mila nuclei familiari di un solo genitore e almeno un figlio minore (il 15,8% del totale dei nuclei con figli minori). Un fenomeno in crescita se si considera che nel 1983 erano 468 mila (il 5,5% del totale). A dirlo sono i dati Istat. Nel 2015-2016 si stima che le madri sole siano 893 mila e rappresentino l’86,4% dei nuclei monogenitore (402 mila nel 1983). Molto più contenuto il numero dei padri soli: 141 mila nel 2015-2016 e 66 mila nel 1983. Il 52,9% delle mamme sole con figli minori ha un figlio, il 38,2% ne ha due e l’8,9% tre o più. Per un terzo delle madri sole il figlio più piccolo ha fino a 5 anni di età, per il 42,7% da 6 a 13 anni. In totale nel 2015-2016 sono 1 milione e 215 mila i bambini fino a 17 anni che vivono solo con la madre, pari al 12,1% dei minori. Si tratta di una quota che è molto cresciuta rispetto al 1995-1996 quando si attestava al 5,3% (per un totale di 558 mila bambini).
Tra il 1995-1996 e il 2016 cala la quota di madri con meno di 35 anni (dal 31,5% al 20,3%), anche per la progressiva crescita dell’età al parto, e aumenta quella di madri fra i 45 e i 54 anni (dal 20,9% al 31,8%). Il peso maggiore è ancora delle madri di 35-44 anni (45,3%).
Il 57,6% delle mamme sole è composto da separate o divorziate, il 34,6% da nubili, minoritaria la quota di vedove (7,9%). Nel 2016, lavora il 63,8% delle madri sole, il 24,4% è inattiva, l’11,8% è disoccupata. Rispetto al 2006 la quota di occupate ha subito una forte riduzione per effetto della crisi (era il 71,2%).
La condizione economica delle madri sole: quelle in povertà assoluta sono l’11,8% del totale, a rischio di povertà o esclusione sociale sono il 42,1% e nel Mezzogiorno arrivano al 58%.
Più della metà delle madri sole non può sostenere una spesa imprevista di 800 euro e neanche una settimana di vacanza. Quasi una su 5 è in ritardo nel pagamento delle bollette, affitto e mutuo. E altrettante non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione. Le mamme sole lavorano fuori casa più tempo rispetto alle madri in coppia (47 minuti in più al giorno) e dedicano meno tempo al lavoro familiare (37 minuti in meno). Di tempo libero ne hanno quanto le madri in coppia (2 ore e 44 minuti al giorno).
L’88,5% delle madri sole si dichiara soddisfatta della propria condizione di salute, l’84,5% delle relazioni familiari, l’83,5% di quelle amicali. Più bassa la quota di soddisfatte per il tempo libero (54,6%). I livelli di soddisfazione sono sempre inferiori a quelli delle madri in coppia per tutte le dimensioni della vita e in particolare per le condizioni economiche.
Rispetto alle madri sole, i padri soli hanno meno figli e più grandi di età. I minori che vivono solo con il padre sono 186 mila, erano 87 mila nel 1995-1996. I padri soli sono in media più grandi età: il 44,9% ha 45-54 anni rispetto al 31,8% delle madri sole. Poco più della metà possiede il diploma o la laurea, il 77,1% è occupato. Il 53,4% dei padri soli è separato o divorziato, il 29,3% è celibe. La quota di vedovi è pari a più del doppio rispetto a quella delle mamme sole.
Well Bred, il pane che fa bene alla salute
AlimentazioneE’ buono e fa bene, parola del gruppo di Tecnologie alimentari e di alcuni ricercatori di Biochimica agraria dell’Università di Pisa. In particolare, per essere pignoli, della laureanda Anna Valentina Luparelli e della dottoranda Isabella Taglieri, coordinate dalla loro professoressa Angela Zinnai. Si chiama, non a caso, «Well-Bred: un pane ricco di antiossidanti, a prolungata conservabilità e adatto a consumatori con esigenze particolari.
Sano e nutriente
Il pane viola è stato uno dei progetti che ha partecipato alla finale del PhD+, il corso dell’Università di Pisa che insegna a pensare innovativo e a trasformare le idee in impresa. Well-Bred rappresenta un prodotto in grado di sintetizzare una serie di aspetti positivi per un alimento, quali l’elevato valore nutraceutico, le migliorate caratteristiche tecnologiche e sensoriali, nonché la maggiore sostenibilità ambientale”, spiegano le ricercatrici che dicono di aver scelto il nome Well-Bred (cresciuto bene), giocando sull’assonanza con il termine bread (pane), per valorizzare allo stesso tempo le sue caratteristiche altamente salutari.
Come si fa
I tre «super ingredienti»utilizzati sono il lievito madre, antiossidanti naturali e pectine. Inoltre, questo pane a lievitazione naturale è stato prodotto sostituendo parte della farina con un’equivalente aliquota di patate viola liofilizzate (Vitelotte) che conferisce al prodotto finale un peculiare colore viola associato a un maggior livello di composti antiossidanti. Infine le pectine, sostanze naturali contenute nella buccia della frutta, che essendo in grado di assorbire acqua, garantiscono migliore struttura, sofficità e serbevolezza del prodotto finale. Questi composti possono essere ricavati da altre filiere alimentari, come ad esempio quella dei succhi di frutta, contribuendo a ridurre e valorizzare gli scarti di produzione. Il bello del “pane viola” è che lo si può mangiare con la consapevolezza di fare qualcosa di utile per la propria salute. Per tutti gli italiani, che al pane sono legati da un amore viscerale, è una piccola rivoluzione.
Dieta vegana: abbandonata da due italiani su tre
AlimentazioneDue italiani su tre dicono addio alla dieta vegana, ormai abbandonata da oltre un milione di cittadini che sono tornati a consumare carne, latte o uova nel 2018. Lo rende noto la Coldiretti in occasione della Giornata nazionale della bistecca.
Secondo i dati, gli italiani che hanno scelto uno stile alimentare vegan rappresentano nel 2018 appena lo 0,9% del totale rispetto al 3% dello scorso anno, secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Eurispes.
La dieta vegana esclude dall’alimentazione la carne di qualsiasi animale e tutti i prodotti di origine animale, dai formaggi alle uova, dal burro allo yogurt, dalla panna al gelato, dal latte al miele. All’interno della dieta vegana basata su cereali, legumi, verdura e frutta sono nate correnti di pensiero alimentare ancora più estremiste come i fruttariani (che mangiano solo frutta caduta dagli alberi, ma escludono limoni, kiwi e ananas), i melariani (che si nutrono solo di mele), i fruttariani crudisti (che ingeriscono solo frutta non cotta e non condita).
Ad oggi sono quindi circa 460mila gli italiani che seguono queste tipologie di diete: 2/3 sono donne (68%) ed i giovani, con la percentuale che sale al 2% tra quelli di età compresa tra i 18 ed i 24 anni. Una scelta sul cui giudizio l’Italia è divisa in due con il 49,4% che la ritiene radicale, fanatica e segnata dall’intolleranza mentre il resto pensa che sia una opzione rispettabile ed anche ammirevole.
A spingere le convinzioni alimentari sono però spesso – continua la Coldiretti – le fake news che rimbalzano sui social dove non è difficile trovare che mangiare carne, latte o uova faccia sempre male o che chi è intollerante al lattosio non deve mangiare nessun formaggio, tra le bufale alimentari virali in rete. Invece non esiste nessuno studio che provi che mangiare carne anche in giuste quantità sia dannoso per la salute mentre al contrario, i vantaggi di una dieta completa che la includa sono scientificamente indiscussi. Se ne può fare a meno integrando la sua mancanza con altri prodotti animali, come uova in primis, latte e derivati, e in alcuni casi assumendo integratori di vitamine e minerali.
“Serve educazione e buon senso e soprattutto rispetto per tutti i diversi stili alimentari ai quali l’agricoltura italiana può offrire grandi opportunità di scelta grazie ai primati conquistati nella qualità e nella biodiversità” ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel ricordare che “proprio il rispetto dei principi della dieta mediterranea ha garantito fino ad ora all’Italia una speranza di vita da record a livello mondiale di 82,8 anni, 85 per le donne e 80,6 per gli uomini.
Carenza di sangue, dal Cardarelli di Napoli un esempio di solidarietà
Associazioni pazienti«Giornate come questa ci aiutano a ricordare il senso della nostra mission e ci spingono a dare sempre il massimo. Queste occasioni dimostrano che fare squadra è il modo migliore per tagliare importanti traguardi». Ciro Verdoliva, direttore generale del Cardarelli, commenta l’evento con il quale l’ospedale ha celebrato la Giornata mondiale del donatore di sangue. In una sala gremita, al Cardarelli si sono ritrovati ieri, oltre al presidente Vincenzo De Luca, Fabrizio Ciprani (direttore centrale sanità, reggente, Polizia di Stato), Claudio Saltari Presidente Nazionale dell’Associazione Donatori Volontari – Polizia di Stato, Bruno Zuccarelli Direttore Dipartimento Interaziendale di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale – Campania Centro, Aldo Ozino Caligaris presidente del CIVIS (Comitato Interassociativo Volontari Italiani Sangue), Maurizio De Giovanni in qualità di testimonial.
Emergenza nazionale
La giornata è stata il momento più visibile di un percorso iniziato da tempo, assieme al mondo delle associazioni e in particolare dell’Associazione Donatori Volontari – Polizia di Stato DonatoriNati Onlus. Un evento carico, tra l’altro, di molta concretezza. «In Italia, non solo in Campania, c’è una drammatica carenza di sangue. Il nostro compito è fare l’impossibile per invertire la tendenza. Purtroppo, ogni anno il numero dei donatori diminuisce e il fatto che la popolazione stia invecchiando non aiuta».
Fare rete
Verdoliva sottolinea anche come la Regione Campania si stia impegnando nel supportare ogni iniziativa volta a migliorare le cose. Oggi, grazie alla sinergia tra il Cardarelli e l’Associazione DonatoriNati, l’impegno si è strutturato in maniera continuativa e sempre più solidale, per far fronte alle esigenze dei cittadini. «Fare rete è la parola d’ordine per portare avanti il grande progetto di DonatoriNati a Napoli e su tutto il territorio nazionale» così come sottolineato dal presidente nazionale DonatoriNati Polizia di Stato Claudio Saltari. Sempre più consapevoli del fatto che «donare il sangue è come donare la vita».