Tempo di lettura: 4 minutiAd una certa età è molto probabile che si incominci a sentir parlare di osteoporosi, malattia che può rendere le ossa talmente fragili da essere delicate come il vetro. Per quanto frequente in età avanzata, in alcuni casi questa malattia può riguardare anche persone abbastanza giovani. Senza girarci troppo attorno iniziamo a capire cosa è l’ osteoporosi.
Malattia sistemica
I medici la definiscono una malattia “sistemica”, vale a dire una malattia che coinvolge diversi organi o tessuti, oppure che riguarda l’intero organismo. In questo caso il problema riguarda le ossa, spesso il corpo vertebrale, il femore e il radio. Impressionante il numero di pazienti, molti dei quali sono donne: in Italia il dato è di circa 5 milioni di casi, di cui (come detto) oltre l’80% sono donne in post-menopausa. Tutto questo ha un costo sociale e sanitario altissimo, basti pensare che si registrano circa 100 mila ricoveri l’anno per fratture del collo del femore legate ad una osteoporosi.
L’architettura delle ossa
Ciò che è importante comprendere è che a causa dell’osteoporosi si verifica non solo un deficit della quantità di sali minerali, ma cambi anche l’architettura microscopica interna dell’osso. Il concetto non è semplice da comprendere, ma lo si può intuire meglio andando ad analizzare la struttura dell’osso. Esistono ossa lunghe (ad esempio femore, omero), corte (quali le vertebre) e piatte (le coste). Le estremità (definite “epifisi”) delle ossa lunghe, le ossa corte e le ossa piatte hanno una struttura molto particolare: presentano all’esterno una sorta di lamina di osso liscio e duro (osso compatto o corticale), e all’interno la cosiddetta “spugnosa” (osso spugnoso o trabecolare), costituita da piccolissime cavità, delimitate dalle “trabecole ossee” (vedi figura). La struttura trabecolare interna è importantissima perché conferisce all’osso al tempo stesso: leggerezza, robustezza e resistenza. Nell’osteoporosi, le cavità della spugnosa diventano più ampie e irregolari perché gran parte delle trabecole sono rotte o distrutte, e quelle rimaste sono diventate eccessivamente sottili e deboli. Se la spugnosa è danneggiata, la struttura dell’intero osso è indebolita, e per questo, nell’osteoporosi, anche un piccolo trauma può a volte provocare una frattura. Proprio perché la perdita di calcio avviene principalmente nella spugnosa, nell’osteoporosi le fratture sono più frequenti nelle ossa o nelle regioni ossee in cui è molto abbondante la componente trabecolare.
I sintomi
Starete pensando: «Come posso accorgermi se il problema riguarda anche me?». Purtroppo non ci sono campanelli d’allarme ai quali prestare attenzione prima che arrivi una frattura, e questo rende anche difficile la diagnosi precoce. Se le fratture delle cosiddette ossa lunghe (collo del femore ad esempio) sono facili da individuare, perché causano un dolore improvviso e intenso, le fratture delle vertebre possono passare inosservate. Non è raro che le persone, ignare del problema, inizino a convivere con un dolore cronico che peggiora di molto la qualità di vita. Stando così le cose, il più delle volte ci si accorge di avere un problema di osteoporosi quando ci si procura una frattura. Come detto ci si può procurare facilmente una frattura delle ossa lunghe. I medici la definiscono “rarefazione osteoporotica” ed è il meccanismo che determina microfratture e fratture, che di solito sono più frequenti a livello delle vertebre, che vanno incontro a deformità a cuneo e a schiacciamento. Quando si verificano questi schiacciamenti si avverte un dolore improvviso e intenso, e da quel momento la vita non è più la stessa. Questo tipo di schiacciamenti riducono di molto la qualità di vita.
Femore e radio
Osservati speciali sono di solito collo del femore e l’estremità distale del radio. E’ invece abbastanza raro che ci si procuri una frattura delle costole, dell’omero o del calcagno. A differenza delle fratture delle ossa lunghe, le fratture dei corpi vertebrali spesso passano inosservate. Come detto possono provocare un dolore improvviso ma non molto intenso, spesso localizzato nella zona dorsale o lombare. Parte così quello che abbiamo definito un “dolore cronico”, che spesso accompagna i pazienti colpiti da osteoporosi per molti anni, se non per tutta la vita. Questo dolore viene scambiato troppo spesso per qualcosa di muscolare, proprio perché è mal definito e mal localizzato, quasi sempre sostenuto da contratture della muscolatura. E’ tipico che il dolore sia accentuato dagli sforzi (trasporto di pesi, stazione eretta prolungata) mentre si attenua con il riposo.
Postura
Queste fratture silenti nel corso di alcune settimane tendono a non dare più alcun sintomo, ma le deformazioni delle ossa della colonna restano. Sono deformazioni legate a veri e propri crolli vertebrali e sono visibili anche dalla postura. Spesso si nota una marcata accentuazione della cifosi dorsale ed è come se la persona diventasse più bassa. Ovviamente, tutto questo moto spesso porta a dolori posturali secondari, difficoltà di estensione del collo, addirittura riduzione della capacità polmonare e del volume della cavità addominale. Così, si possono avere anche complicazioni come l’ernia iatale e prolassi della cavità addominale (quini l’ernia iatale). E’ un grosso problema, fortunatamente meno frequente (se non addirittura raro) quando si hanno delle compressioni delle radici nervose.
Cause e fattori di rischio
Non essendoci particolare sintomi premonitori possiamo almeno individuare i più comuni fattori di rischio. Quali sono? In alcuni casi l’osteoporosi è legata a malattie endocrine, malattie gastrointestinali, malattie del sangue o all’impiego di farmaci. Altre volte il nemico è semplicemente legato all’età, ad esempio alla menopausa. A tutto questo si aggiungano i grandi nemici della salute: il fumo, l’alcol, troppo caffè, l’eccessiva magrezza, un’alimentazione carente di calcio e la sedentarietà.
Diagnosi dell’osteoporosi
Come accennato, l’ osteoporosi non ha sintomi particolari e dunque la sola maniera per scoprirla è facendo accertamenti. La densitometria ossea o mineralometria ossea computerizzata (MOC) è tra gli esami migliori per capire se c’è o meno un problema, ed eventualmente per riuscire anche ad individuarne al gravità. Parliamo di esami per nulla dolorosi e possono aiutarci a capire se è o meno il caso di intervenire. Sempre con la consapevolezza che l’osteoporosi è un nemico da affrontare quanto prima. Ma cos’è la densiometria ossea? E’ un’indagine che utilizza raggi X per determinare la massa ossea, e in particolare la quantità e la densità minerale nei distretti a maggior rischio di frattura: le vertebre lombari e la parte prossimale del femore. Alcune volte questo esame viene fatto su tutto lo scheletro (quello che in gergo medico si definisce “total body”), ma in questo caso è utile solo nella valutazione delle rare osteoporosi localizzate. L’esame si fa sdraiati su un lettino, al di sotto del quale è sistemata l’apparecchiatura che emette un sottile fascio di raggi X. Al termine della scansione, per la quale bastano pochi minuti, i dati vengono inviati al computer che, a sua volta, con l’ausilio di specifici algoritmi matematici, elabora i risultati. E’ chiaro che per affrontare al meglio il problema la prevenzione è sempre l’arma più efficace. In questo caso il medico di famiglia può e deve essere il primo alleato, sia nel dispensare qualche buon consiglio, sia nell’indirizzarci ad uno specialista ove ci sia qualcosa in più di un semplice sospetto. Intervenendo sull’alimentazione e sugli stili di vita è molto probabile che si riesca a ridurre, se non addirittura azzerare, il rischio di dover fare i conti con la malattia.
Cancro al seno: ottobre mese di prevenzione. Dallo stile di vita alla diagnosi precoce
PrevenzioneOggi dal cancro al seno si guarisce sempre di più. Non solo grazie alla ricerca oncologica, ma anche grazie alla prevenzione e alla diagnosi precoce.
Da quando, nel 1992, Evelyn H. Lauder (moglie di uno dei figli di Estée Lauder, fondatrice dell’omonima casa di cosmetici), insieme a Alexandra Penney, direttrice del magazine femminile Self, ha creato la campagna Nastro Rosa, ottobre è il mese della sensibilizzazione sul cancro al seno. AIRC, da 50 anni il maggior finanziatore indipendente della ricerca oncologica italiana, porta avanti iniziative per la prevenzione, diagnosi e cura del tumore del seno e si unisce alla campagna Nastro Rosa. Oggi il tasso di sopravvivenza delle donne a cinque anni dalla diagnosi ha raggiunto mediamente l’87 per cento. Ma c’è ancora molto da fare: in Italia vengono diagnosticati ogni anno circa 12.000 nuovi casi di carcinoma mammario metastatico e quasi 36.000 donne affrontano oggi questa patologia. Airc ha pubblicato di recente una lista per fare chiarezza sulle varie forme di cancro al seno e tutte le possibilità di prevenzione.
Prevenzione: mammografia e screening
Lo screening del cancro della mammella è efficace nel ridurre la mortalità per il tumore del seno, tuttavia gli esperti discutono del rischio di sovradiagnosi, spiega Airc, ovvero di identificare come cancerosa una lesione che non sarebbe evoluta e non si sarebbe mai manifestata con sintomi (perché sarebbe stata eliminata dall’organismo o avrebbe bloccato la propria evoluzione) se la persona non si fosse sottoposta all’esame. A oggi non esiste uno strumento per capire se una lesione diventerà o meno un cancro invasivo e la maggior parte delle ricerche ritiene che il rischio di sovradiagnosi sia inferiore ai benefici che si ottengono con lo screening con mammografia eseguito seguendo le linee guida, cioè nella fascia di età tra i 50 e i 69 anni. La decisione di sottoporsi a mammografia fuori da questa finestra temporale deve essere preceduta da un colloquio con un medico. L’ecografia non è raccomandata in generale come test di screening in sostituzione o in aggiunta alla mammografia, ma può essere utile in casi particolari, soprattutto nelle donne più giovani, o per approfondire la natura di un nodulo (per scongiurare il rischio di cancro al seno).
Seno fibrocistico
Il seno fibrocistico (o mastopatia fibrocistica) è una condizione di natura benigna del tessuto mammario che colpisce il 30-60 per cento delle donne e almeno il 50 per cento delle donne in età fertile. Alcuni studi indicano che la prevalenza nel corso della vita di seno fibrocistico può raggiungere addirittura il 70-90 per cento. È caratterizzata dalla presenza di noduli, cisti e aree fibrose nel tessuto mammario, che a volte possono causare disagio o dolore. Nella maggior parte dei casi non è necessario alcun intervento, in quanto i disturbi tendono a ridursi se non addirittura a scomparire dopo la menopausa.
Carcinoma duttale in situ (DCIS)
Sebbene il nome ricordi i tumori più pericolosi, il carcinoma duttale in situ (noto con l’acronimo inglese DCIS) in realtà è una forma poco invasiva: le cellule cancerose, infatti, restano confinate nei dotti della mammella e quindi non danno quasi mai metastasi. Secondo molti esperti il DCIS dovrebbe essere più correttamente considerato una forma precancerosa, poiché ha tassi di guarigione che sfiorano il 100 per cento. In presenza di DCIS è spesso indicata la semplice sorveglianza attiva, ma c’è anche chi tratta il carcinoma duttale in situ come una lesione pretumorale a tutti gli effetti, suggerendo l’asportazione della lesione.
Test genetici: chi, quando, perché
Nonostante la maggior parte dei tumori non abbia alcun legame con la trasmissione ereditaria, in alcuni casi si può parlare di cancro ereditario. Si tratta comunque di non più del 10 per cento di tutti i tipi di tumore, e per identificarli sono stati messi a punto alcuni test in grado di valutare il rischio sulla base del corredo genetico. Nel caso del tumore del seno, i geni responsabili sono BRCA1 e BRCA2: prima di fare un test per scoprire se si è portatori di questi geni, è necessario sottoporsi a un colloquio con un genetista medico che valuterà l’albero genealogico della persona prima di sottoporla eventualmente al test. È importante sottolineare che essere portatori di uno di questi geni non significa avere la certezza in futuro di una diagnosi di cancro al seno: in base al risultato, l’oncologo consiglierà eventualmente una maggior frequenza di controlli.
Familiarità: quando preoccuparsi?
Con il termine ereditarietà si fa riferimento a mutazioni che riguardano un gene collegato con l’insorgenza di una patologia e sono trasmesse dai genitori ai figli. Quando si parla di familiarità si intende la presenza, nei propri consanguinei, di più casi di una certa malattia, non necessariamente ricollegabili a un singolo gene. Il rischio di tumore della mammella aumenta di una volta e mezza nelle donne che hanno una storia familiare di tumore del colon-retto. E ancora, se una parente stretta ha avuto diagnosi di cancro al seno, i membri di sesso femminile della famiglia hanno un rischio di tumore delle ovaie più che duplicato. Perché si possa parlare di vera familiarità, però, sono necessari almeno due casi di parenti diretti (madri o sorelle) affetti.
Attività fisica
Sono decine gli studi che evidenziano la relazione tra cancro del seno e attività fisica: nella maggior parte dei casi indicano che le donne attive sono meno a rischio di quelle sedentarie, ma la riduzione del rischio varia moltissimo da studio a studio (dal 20 fino all’80 per cento) perciò al momento non esiste una stima univoca. Se praticata fin dall’adolescenza, l’attività sportiva intensa sembra fornire la massima protezione. Secondo gli esperti ciò avviene perché si abbassano i livelli degli ormoni femminili e del fattore di crescita insulino simile (IGF1), che hanno un ruolo importante nello sviluppo del cancro al seno.
Alimentazione
Se il problema della maggior parte dei pazienti oncologici in relazione all’alimentazione è la perdita di peso, dovuta anche alla mancanza di appetito, le donne operate al seno e in terapia adiuvante tendono invece a ingrassare. Questo fenomeno, oltre a condizionare negativamente il tono dell’umore, potrebbe peggiorare la prognosi, incidendo sul metabolismo dell’insulina e aumentando così il rischio di metastasi. Una sana alimentazione, ricca di vegetali e fibre e povera di proteine animali e zuccheri, può quindi aiutare a limitare il rischio di recidive.
Allattamento e gravidanza
Allattare al seno è una strategia di prevenzione che porta benefici non solo al bambino, ma anche alla madre, poiché esercita un blocco sulla produzione degli ormoni femminili, diminuendo così del 5 per cento circa il rischio di sviluppare un cancro al seno. E c’è di più: allattare dimezza il rischio in chi è geneticamente sensibile al tumore al seno. Infatti, in donne con mutazione di gene BRCA1 si è osservata una riduzione del rischio pari al 45 per cento tra chi ha allattato; tra le donne con sola familiarità, la riduzione arriva fino al 59 per cento.
Vitamina D e bambini: perché è fondamentale durante la crescita
News PresaOssa più forti e meno rischi di obesità, ma non solo: la vitamina D gioca ruoli importanti in molte funzioni dell’organismo. Nei primi due anni di vita, durante i quali avviene una crescita molto rapida, la vitamina D è indispensabile per lo sviluppo scheletrico e del sistema immunitario intestinale: fissa il calcio nelle ossa e protegge dalle allergie i bambini. La vitamina D inoltre previene molte malattie come tumori o disturbi neurovegetativi e combatte le infezioni. È intorno ai 20 anni che si raggiunge il picco di massa ossea: il valore massimo di mineralizzazione dell’osso, ma questa sostanza è fondamentale durante tutto il corso della vita. Inoltre può essere utile anche a livello cutaneo, per curare la psoriasi e la dermatite atopica.
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I numeri
Secondo gli ultimi dati, il 60-70 per cento dei bambini e degli adolescenti italiani è in uno stato di ipovitaminosi D, cioè non assume abbastanza vitamina. Questa carenza va dalla meno grave insufficienza al deficit severo. Si tratta di un problema globale, a detta degli esperti della Società italiana di pediatria e dalla Società di pediatria preventiva e sociale che nel 2015 hanno stilato delle raccomandazioni per prevenire la carenza di vitamina D. Un’insufficiente esposizione solare, stili di vita errati, allattamento esclusivo prolungato al seno, obesità e colore della pelle sono i principali fattori di rischio, secondo gli esperti, che raccomandano la profilassi di vitamina D ai neonati per tutto il primo anno di vita, indipendentemente dall’allattamento. Né il latte materno né quello in formula, seppur addizionato, riescono infatti a soddisfare il fabbisogno giornaliero di questa vitamina. La profilassi è inoltre raccomandata a tutte le donne in gravidanza o che allattano, mentre tra il primo e il diciottesimo anno di vita soltanto a bambini e adolescenti a rischio. Ad esempio, chi è di etnia non caucasica (e ha una pelle ad elevata pigmentazione), con una ridotta esposizione solare; chi segue regimi alimentari poco vari, come una dieta vegana, bambini con insufficienza renale o epatite cronica, obesi, affetti da malattie infiammatorie croniche o da celiachia.
Rischi legati alla carenza
La vitamina D è fondamentale per l’apparato scheletrico, sia per la sua formazione che per la prevenzione di fratture e osteoporosi: una grave carenza può portare anche al rachitismo: una patologia pediatrica storica, oggi rara, che deforma le ossa fino a provocare disabilità. Lo scheletro non si sviluppa in modo sufficiente, perché il tessuto osseo non è correttamente mineralizzato. Gli effetti biologici della vitamina D possono essere divisi in due categorie: le attività “classiche”, sul metabolismo di calcio e fosforo, e le attività considerate “non classiche”, che riguardano la funzione immunitaria, l’infiammazione, l’attività antiossidante e una serie di processi responsabili dell’effetto inibitorio che la vitamina D sembra esercitare su alcuni tipi di tumori. Una giusta concentrazione di vitamina D nell’infanzia protegge da diverse malattie anche a distanza di tempo: dalle respiratorie, alle autoimmuni come diabete mellito di tipo 1 e morbo di Chron, dalla dermatite atopica alla sclerosi multipla. I sintomi comuni di una carenza sono: dolori alle ossa e debolezza muscolare: sintomi che possono essere confusi con quelli di una banale influenza, oltre che di una serie di problemi di salute. La carenza di vitamina D, quindi, può portare delle ripercussioni in età adulta, come disturbi cognitivi in età anziana e osteoporosi. Tra le conseguenze più frequenti ci sono:
Stile di vita
Più del 90% della vitamina D presente nell’organismo è prodotta dalla pelle, grazie a un precursore che si trova nell’epidermide, il deidrocolesterolo. In pratica, solo il 10 per cento della vitamina D si assume con gli alimenti, tutto il resto lo sintetizza l’organismo grazie ai raggi solari, ecco perché il primo fattore di rischio per l’ipovitaminosi D è la scarsa esposizione. Gli esperti incoraggiano gioco e attività fisica all’aria aperta soprattutto durante la bella stagione (da novembre a febbraio infatti l’inclinazione dei raggi ultravioletti non è sufficiente a favorire la produzione di vitamina D). Oggi i bambini e gli adolescenti trascorrono molto più tempo in ambienti chiusi rispetto al passato: sono spesso impegnati in attività sedentarie, come guardare la televisione, giocare ai videogiochi ecc… Inoltre un terzo della popolazione italiana in età evolutiva è obesa o in sovrappeso e questo incide sulla carenza di vitamina. Molti ragazzi in sovrappeso infatti presentano basse concentrazioni di vitamina D. Una dieta sbilanciata, con scarsa attività fisica, soprattutto all’aperto, ma anche un aumento della massa grassa sembrano essere associate a concentrazioni ematiche ridotte di vitamina D. La spiegazione risiede in parte nel “sequestro” della vitamina all’interno delle cellule del tessuto adiposo: essendo liposolubile, la vitamina D viene trattenuta dal grasso. La stagione e la latitudine fanno il resto: d’inverno di vitamina D se ne sintetizza pochissima e più ci si allontana dall’equatore meno la radiazione UV è efficace. L’allattamento al seno prolungato senza integratori di vitamina D è un altro fattore di rischio ed è tipico di alcune culture come quelle araba o africana. Il latte materno, pur essendo l’alimento ideale per il neonato, non contiene abbastanza vitamina D.
Quali sono le quantità raccomandate di vitamina D
La vitamina D si trova in modeste quantità nei pesci grassi (salmone, aringhe), nelle uova, nel latte (ma non in quello materno) e nei derivati e nelle verdure a foglia verde. In una fase particolare come l’infanzia, secondo gli esperti, potrebbe essere opportuno integrare la dieta. In generale, dieci milligrammi al giorno è la dose consigliata nella maggior parte dei Paesi del mondo, tra cui l’Italia. Con una raccomandazione: di somministrare più vitamina D durante l’inverno, in modo particolare ai bambini che vivono in zone poco assolate e nei nati prematuri. Inoltre studi scientifici hanno dimostrato che dosi quotidiane superiori a dieci milligrammi non portano un’aumentata crescita ossea, come mostrato anche da una recente ricerca pubblicata sul Journal American of Medical Association. Gli effetti collaterali di un’eccessiva somministrazione non sono stati valutati nello studio, è sempre meglio ricorrere al controllo di uno specialista per stabilire la dose giusta da dare a ogni bambino.
Narcolessia, scoperta la causa
Ricerca innovazioneLa narcolessia è una patologia che potrebbe far sorridere chi non la conosce veramente. L’idea di una malattia che “semplicemente” ci fa addormentare può dar luogo a battute quali: «Vorrei soffrirne io». Chiaramente chi scherza in questo modo non sa cosa significa dover combattere ogni giorno con questo nemico invalidante.
Cancellazione
Recentemente, una scoperta pubblicata sulla rivista Nature e legata alla ricerca condotta in Svizzera da un team italiano (risultato della collaborazione tra l’Istituto di ricerca in Biomedicina di Bellinzona – affiliato all’Università della Svizzera italiana-, il Politecnico di Zurigo e il Dipartimento di Neurologia dell’Inselspital di Berna, ha segnato una svolta attesa da decenni. La malattia che scatena incontrollabili attacchi di sonno si deve alla “cancellazione” di un messaggero chimico nel cervello da parte delle cellule del sistema immunitario.
La scoperta
Il neurotrasmettitore chiamato ipocretina, coinvolto nella regolazione del ritmo sonno-veglia, viene cancellato perché i neuroni che lo producono vengono attaccati dalle cellule immunitarie chiamate linfociti T. I ricercatori lo hanno scoperto analizzando, in pazienti affetti dalla narcolessia, la presenza di cellule del sistema immunitario (i linfociti T) che riconoscono l’ipocretina e che possono uccidere direttamente o indirettamente i neuroni che la producono. «Grazie all’impiego di nuovi metodi sperimentali siamo riusciti a identificare i linfociti T specifici per l’ipocretina quali responsabili di questa malattia», spiega Federica Sallusto, dell’Istituto di ricerca in Biomedicina. «Questi linfociti autoreattivi – aggiunge – possono causare un’infiammazione che porta al danno neuronale o addirittura uccidere i neuroni che producono l’ipocretina. Bloccandoli nelle prime fasi, si potrebbe prevenire la progressione della malattia». Di narcolessia soffre circa una persona su duemila. Spesso i primi sintomi si manifestano nell’adolescenza, tuttavia alcuni studi hanno suggerito che i sintomi possono iniziare già nell’età infantile (2-3 anni) o più tardi tra i 25-40 anni. Altro dramma è il ritardo nella diagnosi, che può arrivare anche dopo 10 anni dall’insorgere dei primi campanelli d’allarme.
Le città del futuro: come si genera energia pulita
Ricerca innovazioneSecondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite nel 2050 la maggior parte della popolazione vivrà nelle grandi città. Il “World Urbanization Prospect 2018”, il rapporto sulla popolazione mondiale parla chiaro: città affollate e paesi spopolati. Con esattezza: il 66% vivrà nelle grandi città (oggi siamo al 55%). Da qui nasce l’esigenza di pensare a nuovi modi per produrre energia. Il processo di trasformazione di alcuni centri urbani in smart cities, città dotate di soluzioni tecnologiche all’avanguardia nel campo della mobilità, della gestione dei rifiuti, delle telecomunicazioni, dell’edilizia e dell’approvvigionamento energetico è una risposta necessaria ai processi di portata globale.
Le smart city del futuro
Tra i vantaggi del modello smart city vi sono: riduzione dell’inquinamento ambientale, spostamenti interni più veloci ed economici, urbanizzazione intelligente e promozione di uno sviluppo economico duraturo e sostenibile attraverso l’utilizzo delle più avanzate tecnologie; obiettivi però impossibili da raggiungere senza soluzioni innovative in campo energetico.
L’esempio di Amsterdam
Nella capitale olandese, una delle realtà europee più avanzate dal punto di vista della smartness, è stato realizzato un progetto unico per dare energia pulita alla Johann Cruijjf ArenA, lo stadio cittadino. L’impianto dispone di 4.200 pannelli solari la cui energia è immagazzinata da più di cento batterie di Nissan Leaf, uno dei modelli elettrici sul mercato. È nato così il più grande sistema di accumulo di energia d’Europa in un edificio commerciale per complessivi 3 megawatt di potenza e 2,8 megawattora di capacità, alimentato da batterie sia nuove che di seconda vita, provenienti da veicoli elettrici dismessi. Grazie a degli appositi convertitori collegati alle batterie, il sistema fornisce energia pulita non solo allo stadio ma a tutta l’area urbana circostante, stabilizzandone la fornitura elettrica e immettendo in rete energia green.
L’impianto è in grado di alimentare diverse migliaia di abitazioni e permette che l’energia prodotta dai pannelli solari installati sul tetto dell’ArenA possa essere immagazzinata e utilizzata in modo ottimale. Il sistema di accumulo di energia, inoltre, riduce l’uso di generatori, offrendo supporto alla rete elettrica e diminuendo i picchi energetici che si verificano durante momenti di grande richiesta di energia, come ad esempio i concerti. Si tratta di città intelligenti dal punto energetico in grado non solo di consumare ma anche di scambiare, autoprodurre e gestire nella maniera più efficace ed efficiente possibile l‘energia.
Di mobilità circolare, energia pulita e degli scenari che ci prospetta il futuro si parlerà nella tre giorni del Festival di Altroconsumo Rigenerazione, l’Era dell’economia circolare. Un panel sarà dedicato a: Il nuovo che avanza il futuro della mobilità è sostenibile.
Le patate fritte sono cancerogene? Risponde Airc
News PresaLe patate cotte ad alte temperature possono sviluppare l’acrilammide, un probabile cancerogeno per gli esseri umani, ma il rischio per la salute è limitato. Infatti, la presenza di germogli e di annerimenti sulle patate dopo la cottura non influenza il rischio di cancro. L’acrilammide è una sostanza in grado di scindere i legami del DNA. Rassicura Airc: la frittura è la cottura più a rischio da questo punto di vista, ma le quantità di acrilammide alimentare che si dovrebbe consumare perché il rischio diventi preoccupante sono incompatibili con una alimentazione equilibrata e varia; di conseguenza, il rischio è limitato e non giustifica la completa eliminazione di questo alimento (e più in generale quelli contenenti amido) dalla dieta. I germogli della patata contengono solanina, una sostanza tossica ma non cancerogena, in gran parte degradata dalla cottura. Inoltre l’annerimento della patata cotta e conservata non è pericolosa: è una semplice ossidazione del ferro contenuto nel tubero.
Circa un anno fa, i giornali di tutto il mondo hanno ripreso una notizia uscita in Gran Bretagna: la UK Food Standards Agency (l’agenzia governativa per la sicurezza degli alimenti) aveva lanciato una campagna per dissuadere i cittadini britannici dal cuocere patate e altri cibi ricchi di amido ad alte temperature, per contenere il rischio di cancro. La campagna è stata considerata troppo allarmista dagli esperti, ma l’attenzione ai metodi di cottura dei cibi ricchi di amido rimane importante per la salute.
È davvero pericolosa la patata fritta?
Nell’organismo l’acrilammide viene convertita in glicidamide, che può legarsi al DNA e provocare mutazioni. La sostanza è cancerogena nell’animale di laboratorio se usata ad altissime concentrazioni. Per avere un effetto altrettanto importante negli esseri umani bisognerebbe consumare quantità altissime e non fisiologiche di patate fritte. Inoltre l’effetto misurato in laboratorio non corrisponde precisamente agli effetti nella vita reale, come accade per tante sostanze la cui cancerogenicità dipende dalle dosi, normalmente elevate, e dai tempi di esposizione, solitamente molto prolungati. In pratica, un consumo moderato di patate fritte non aumenta in modo significativo il rischio di cancro, anche se è buona norma non esagerare con la temperatura dell’olio nelle fritture. Per la salute è più preoccupante l’elevato apporto calorico, che può favorire l’obesità e l’infiammazione.
Dimagrire con il Functional Imagery Training
News PresaDimagrire con il potere della mente, ecco il fulcro della nuova tecnica che sta spopolando negli Stati Uniti. Fit, questo il nome che sa per , sta per Functional Imagery Training, non può essere definita dieta, è più che altro una nuova strategia per combattere il sovrappeso. La cosa sorprendente è che chi l’ha usata è riuscito a dimagrire, perdendo in media cinque volte più peso rispetto a chi ha usato una terapia basata solo sul dialogo motivazionale. A dirlo sono gli studi realizzati dall’Università di Plymouth e dalla Queensland University, poi pubblicati sull’International Journal of Obesity.
Risultati entusiasmanti
Linda Solbrig, ricercatrice che ha condotto l’analisi, sottolinea come le persone abbiano «perso molto più peso con questo intervento rispetto ad altre terapie. Adifferenza della maggior parte degli studi, FIt non fornisce consigli sull’alimentazione, sull’attività fisica o sull’educazione: le persone sono completamente libere nelle loro scelte e sono sostenute in quello che vogliono fare, non con un regime prescritto». Insomma, pura forza di volontà. Lo studio ha mostrato come dopo sei mesi le persone che hanno utilizzato il sistema Fit hanno perso una media di 4,11 kg (rispetto a una media di 0,74 kg nel gruppo dell’intervento motivazionale).
Spinta motivazionale
«La maggior parte delle persone concorda sul fatto che per dimagrire bisogna mangiare di meno e fare più esercizio fisico, ma in molti casi le persone semplicemente non sono abbastanza motivate per dare ascolto a questo consiglio, per quanto possano essere d’accordo – spiega ancora Solbrig – Quindi, la Fit ha l’obiettivo principale di incoraggiare qualcuno a inventarsi proprie immagini di come il cambiamento potrebbe portarli ad essere e di come può essere essere raggiunto e mantenuto».
Cancro al seno metastatico per 35mila donne in Italia. Verso giornata nazionale
News PresaSi cura, ma oggi non può ancora guarire. Con il tumore al seno metastatico ci convive un esercito di 35mila donne in Italia, un numero destinato ad aumentare nei prossimi anni. Due le proposte di legge depositate al Senato e alla Camera, presentate in un convegno promosso da Europa Donna Italia, per chiedere che venga istituita una Giornata Nazionale dedicata a questa malattia cronica. “Abbiamo assistito ad una vera e propria rivoluzione nel campo del tumore alla mammella dall’inizio degli anni ’90 a oggi. All’epoca – ha spiegato Michelino De Laurentiis, direttore oncologia media Istituto nazionale tumori Fondazione Pascale di Napoli – la mortalità all’improvviso ha iniziato a scendere, fino a dimezzarsi. E siamo sicuri che arriveremo all’azzeramento della mortalità”. Il motivo risiede nel fatto che sono state identificate delle diversità dei tumori. “Prima – spiega – pensavamo esistesse solo un tipo di cancro al seno, abbiamo scoperto che questi tumori non solo si evolvono diversamente ma nascono con impronta genetica diversa. E questo ha dato impulso alla ricerca, tanto che sta arrivando un tsunami di nuovi farmaci, per decine di bersagli terapeutici specifici, molti dei quali già approvati”. Intanto l’aspettativa di vita è aumentata, anche se le difficoltà non mancano. Ancora la parola metastasi viene associata solo alla morte. “Il ddl, che speriamo possa avere un iter abbreviato, dichiara Paola Boldrini (Pd), prima firmataria del testo all’esame della Commissione Sanità del Senato, “chiede che tutte le pazienti siano inserite nel percorso delle Breast Unit. Prevede linee guida nazionali che regolamentino il percorso clinico e assistenziale, accesso facilitato e omogeneo alle terapie innovative e istituzione di un osservatorio nazionale sul tumore al seno metastatico”.
I numeri delle diagnosi
In Italia ogni anno si registrano circa 4.500 diagnosi di cancro al seno metastatico, 3.000 dei quali vengono individuati per la prima volta già a questo stadio, mentre 1.500 sono i t umori che entrano ogni anno in una fase metastatica. A sottolineare i dati è stata Lucia Mangone, presidente dell’Associazione Italiana Registri Tumori, durante il convegno di ieri in Senato per chiedere una giornata nazionale. Le percentuali di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi vanno dal 30 al 60 per cento e quindi con oscillazioni molto ampie tra i diversi studi, «cosa che mostra la necessità di approfondire la ricerca nel settore» – ha precisato. Sono invece più numerosi i dati sul tumore alla mammella non metastatico, di cui ogni anno ci sono 50mila nuovi casi in Italia e la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è pari all’87%. Tuttavia ci sono ampie differenze regionali. “Vi sono ad esempio 5 punti percentuali di scarto tra Campania (83,8%) e Emilia Romagna (88,9%). Questo significa che oggi 3000 donne sarebbero vive se si fossero trovate ‘nel posto giusto'”, ha chiarito Mangone. Le possibilità di sopravvivenza dipendono da vari fattori, come la diagnosi precoce attraverso gli screening, e (a quello per il tumore al seno vi aderisce il 76% delle donne in Emilia Romagna e solo il 22% in Campania). Inoltre è importante la presenza di una rete oncologia: servono centri di senologia multidisciplinari, ovvero le Breast Unit. “Ma in Italia siamo in ritardo e anche queste sono concentrate nel settentrione – ha detto Rosanna D’Antona, presidente di Europa Donna Italia – questo spiega perché, anche se ci si ammala di più al nord, è anche lì che le possibilità di sopravvivenza sono maggiori”.
Osteoporosi, tutto quel che c’è da sapere sulla malattia silenziosa
PrevenzioneAd una certa età è molto probabile che si incominci a sentir parlare di osteoporosi, malattia che può rendere le ossa talmente fragili da essere delicate come il vetro. Per quanto frequente in età avanzata, in alcuni casi questa malattia può riguardare anche persone abbastanza giovani. Senza girarci troppo attorno iniziamo a capire cosa è l’ osteoporosi.
Malattia sistemica
I medici la definiscono una malattia “sistemica”, vale a dire una malattia che coinvolge diversi organi o tessuti, oppure che riguarda l’intero organismo. In questo caso il problema riguarda le ossa, spesso il corpo vertebrale, il femore e il radio. Impressionante il numero di pazienti, molti dei quali sono donne: in Italia il dato è di circa 5 milioni di casi, di cui (come detto) oltre l’80% sono donne in post-menopausa. Tutto questo ha un costo sociale e sanitario altissimo, basti pensare che si registrano circa 100 mila ricoveri l’anno per fratture del collo del femore legate ad una osteoporosi.
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L’architettura delle ossa
Ciò che è importante comprendere è che a causa dell’osteoporosi si verifica non solo un deficit della quantità di sali minerali, ma cambi anche l’architettura microscopica interna dell’osso. Il concetto non è semplice da comprendere, ma lo si può intuire meglio andando ad analizzare la struttura dell’osso. Esistono ossa lunghe (ad esempio femore, omero), corte (quali le vertebre) e piatte (le coste). Le estremità (definite “epifisi”) delle ossa lunghe, le ossa corte e le ossa piatte hanno una struttura molto particolare: presentano all’esterno una sorta di lamina di osso liscio e duro (osso compatto o corticale), e all’interno la cosiddetta “spugnosa” (osso spugnoso o trabecolare), costituita da piccolissime cavità, delimitate dalle “trabecole ossee” (vedi figura). La struttura trabecolare interna è importantissima perché conferisce all’osso al tempo stesso: leggerezza, robustezza e resistenza. Nell’osteoporosi, le cavità della spugnosa diventano più ampie e irregolari perché gran parte delle trabecole sono rotte o distrutte, e quelle rimaste sono diventate eccessivamente sottili e deboli. Se la spugnosa è danneggiata, la struttura dell’intero osso è indebolita, e per questo, nell’osteoporosi, anche un piccolo trauma può a volte provocare una frattura. Proprio perché la perdita di calcio avviene principalmente nella spugnosa, nell’osteoporosi le fratture sono più frequenti nelle ossa o nelle regioni ossee in cui è molto abbondante la componente trabecolare.
I sintomi
Starete pensando: «Come posso accorgermi se il problema riguarda anche me?». Purtroppo non ci sono campanelli d’allarme ai quali prestare attenzione prima che arrivi una frattura, e questo rende anche difficile la diagnosi precoce. Se le fratture delle cosiddette ossa lunghe (collo del femore ad esempio) sono facili da individuare, perché causano un dolore improvviso e intenso, le fratture delle vertebre possono passare inosservate. Non è raro che le persone, ignare del problema, inizino a convivere con un dolore cronico che peggiora di molto la qualità di vita. Stando così le cose, il più delle volte ci si accorge di avere un problema di osteoporosi quando ci si procura una frattura. Come detto ci si può procurare facilmente una frattura delle ossa lunghe. I medici la definiscono “rarefazione osteoporotica” ed è il meccanismo che determina microfratture e fratture, che di solito sono più frequenti a livello delle vertebre, che vanno incontro a deformità a cuneo e a schiacciamento. Quando si verificano questi schiacciamenti si avverte un dolore improvviso e intenso, e da quel momento la vita non è più la stessa. Questo tipo di schiacciamenti riducono di molto la qualità di vita.
Femore e radio
Osservati speciali sono di solito collo del femore e l’estremità distale del radio. E’ invece abbastanza raro che ci si procuri una frattura delle costole, dell’omero o del calcagno. A differenza delle fratture delle ossa lunghe, le fratture dei corpi vertebrali spesso passano inosservate. Come detto possono provocare un dolore improvviso ma non molto intenso, spesso localizzato nella zona dorsale o lombare. Parte così quello che abbiamo definito un “dolore cronico”, che spesso accompagna i pazienti colpiti da osteoporosi per molti anni, se non per tutta la vita. Questo dolore viene scambiato troppo spesso per qualcosa di muscolare, proprio perché è mal definito e mal localizzato, quasi sempre sostenuto da contratture della muscolatura. E’ tipico che il dolore sia accentuato dagli sforzi (trasporto di pesi, stazione eretta prolungata) mentre si attenua con il riposo.
Postura
Queste fratture silenti nel corso di alcune settimane tendono a non dare più alcun sintomo, ma le deformazioni delle ossa della colonna restano. Sono deformazioni legate a veri e propri crolli vertebrali e sono visibili anche dalla postura. Spesso si nota una marcata accentuazione della cifosi dorsale ed è come se la persona diventasse più bassa. Ovviamente, tutto questo moto spesso porta a dolori posturali secondari, difficoltà di estensione del collo, addirittura riduzione della capacità polmonare e del volume della cavità addominale. Così, si possono avere anche complicazioni come l’ernia iatale e prolassi della cavità addominale (quini l’ernia iatale). E’ un grosso problema, fortunatamente meno frequente (se non addirittura raro) quando si hanno delle compressioni delle radici nervose.
Cause e fattori di rischio
Non essendoci particolare sintomi premonitori possiamo almeno individuare i più comuni fattori di rischio. Quali sono? In alcuni casi l’osteoporosi è legata a malattie endocrine, malattie gastrointestinali, malattie del sangue o all’impiego di farmaci. Altre volte il nemico è semplicemente legato all’età, ad esempio alla menopausa. A tutto questo si aggiungano i grandi nemici della salute: il fumo, l’alcol, troppo caffè, l’eccessiva magrezza, un’alimentazione carente di calcio e la sedentarietà.
Diagnosi dell’osteoporosi
Come accennato, l’ osteoporosi non ha sintomi particolari e dunque la sola maniera per scoprirla è facendo accertamenti. La densitometria ossea o mineralometria ossea computerizzata (MOC) è tra gli esami migliori per capire se c’è o meno un problema, ed eventualmente per riuscire anche ad individuarne al gravità. Parliamo di esami per nulla dolorosi e possono aiutarci a capire se è o meno il caso di intervenire. Sempre con la consapevolezza che l’osteoporosi è un nemico da affrontare quanto prima. Ma cos’è la densiometria ossea? E’ un’indagine che utilizza raggi X per determinare la massa ossea, e in particolare la quantità e la densità minerale nei distretti a maggior rischio di frattura: le vertebre lombari e la parte prossimale del femore. Alcune volte questo esame viene fatto su tutto lo scheletro (quello che in gergo medico si definisce “total body”), ma in questo caso è utile solo nella valutazione delle rare osteoporosi localizzate. L’esame si fa sdraiati su un lettino, al di sotto del quale è sistemata l’apparecchiatura che emette un sottile fascio di raggi X. Al termine della scansione, per la quale bastano pochi minuti, i dati vengono inviati al computer che, a sua volta, con l’ausilio di specifici algoritmi matematici, elabora i risultati. E’ chiaro che per affrontare al meglio il problema la prevenzione è sempre l’arma più efficace. In questo caso il medico di famiglia può e deve essere il primo alleato, sia nel dispensare qualche buon consiglio, sia nell’indirizzarci ad uno specialista ove ci sia qualcosa in più di un semplice sospetto. Intervenendo sull’alimentazione e sugli stili di vita è molto probabile che si riesca a ridurre, se non addirittura azzerare, il rischio di dover fare i conti con la malattia.
Epatite C, la malattia sta arretrando
FarmaceuticaLa lotta all’ epatite C va avanti spedita grazie ai nuovi farmaci antiretrovirali, così l’Italia sta affrontando la battaglia, ma i pazienti che aspettano di essere curati sono ancora circa 200mila. A loro vanno sommati altri 100mila circa che, pur essendo stati contagiati, non hanno scoperto l’infezione (il cosiddetto sommerso). Queste sono le stime di quest’anno (raffrontate con quelle del 2015) contenute nell’indagine «Epatite C: stima del numero di pazienti con diagnosi nota e non nota residenti in Italia». Lo studio è dell’associazione EpaC Onlus in collaborazione con l’Eehta del Centro di studi economici e internazionali (Ceis) dell’Università Tor Vergata di Roma.
Le terapie
La rivoluzione nella lotta all’ epatite C è avvenuta soprattutto negli ultimi tre anni grazie alla disponibilità dei nuovi farmaci ad azione antivirale diretta che permettono di curare la maggior parte dei pazienti a prescindere dallo stadio della malattia. I farmaci che si usano oggi non solo sono più efficaci, ma sono anche molto più tollerabili. Il tutto con terapie che durano pochi mesi. Addirittura oggi è possibile eradicare il virus in poco più di 2 mesi, a seconda dei genotipi virali.
Le stime
Al primo gennaio 2018 la stima del numero di pazienti con diagnosi nota della patologia in attesa di essere curati è di circa 240mila. Il primo gennaio 2019, invece, la stima è data ancora in ribasso: circa 160mila. «I risultati di questa nuova indagine, evidenziano e confermano un aspetto sul quale insistiamo da diverso tempo: ormai, la maggior parte dei pazienti da curare vanno cercati in serbatoi al di fuori delle strutture autorizzate – dice Ivan Gardini, presidente Epac -. Sono necessari piani di eliminazione regionali in grado di organizzare la presa in carico e l’avvio al trattamento dei pazienti da curare tramite il coinvolgimento di tutti gli stakeholders interessati (carceri, SerD, Medici di Famiglia, ecc.) e l’adozione di micro e macro Pdta funzionali a tale obiettivo. Purtroppo, sono ancora troppo poche le Regioni che si stanno organizzando in questa direzione, nonostante vi siano risorse vincolate per l’acquisto di farmaci anti Hcv, raccomandazioni dell’Oms, e quantità industriali di studi clinici che evidenziano la necessità di curare tutti i pazienti il prima possibile».
Tornare in piedi nonostante la paralisi
Ricerca innovazioneTornare a camminare nonostante la paralisi, un sogno che ogni anno sembra un po’ più vicino. Senza voler creare false speranze in milioni di persone che soffrono, si può comunque guardare con entusiasmo ai risultati ottenuti da diversi studi condotti in maniera del tutto autonoma da Università e istituti di ricerca.
Elettrostimolazione
La chiave dei risultati ottenuti da due studi recentissimi è l’ettrostimolazione del midollo spinale, unita ad un allenamento intensivo. Semplificando non poco, grazie a questi impulsi elettrici, persone colpite da paralisi sono riuscite a riguadagnare almeno la posizione eretta, e in qualche caso anche la capacità di camminare. Alla ricerca della Mayo Clinic pubblicata su Nature Medicine, che ha riguardato un unico paziente, si sono aggiunti i quattro studiati dall’università di Louisville, descritti sul New England Journal of Medicine. I quattro soggetti del secondo studio erano tutti senza nessun movimento volontario al di sotto della zona del trauma, subito almeno due anni e mezzo prima di entrare nel programma sperimentale.
Emozione indescrivibile
Gli autori della ricerca hanno testato un allenamento intenso al tapis roulant con un supporto per il peso e la contemporanea stimolazione elettrica epidurale del midollo spinale in quattro pazienti. Due sono riusciti a camminare autonomamente, e tutti riuscivano a stare in piedi da soli. Protagonisti di questa sensazionale avventura sono Kelly Thomas, una donna di 23 anni vittima di un incidente stradale, e Jeff Marquis, un trentacinquenne che aveva avuto un trauma grave cadendo dalla mountain bike. «Il primo giorno in cui ho fatto i passi da sola è stata una pietra miliare del mio recupero – racconta Thomas -. Non scorderò mai che un minuto prima camminavo con l’assistenza dell’allenatore e un attimo dopo si è fermato e io ho continuato da sola. E’ incredibile cosa può fare il corpo umano con l’aiuto della ricerca e della tecnologia».
Ampliare lo studio
Con una procedura del tutto simile, i ricercatori della Mayo Clinic sono riusciti a far camminare di nuovo Jered Chinnock, un uomo di 29 anni che aveva le gambe paralizzate, e che ora può andare da solo sul treadmill e camminare con un sostegno. Insieme questi due esperimenti indicano una strada molto promettente, anche se gli stessi autori affermano che, senza dati su più pazienti, e su diverse tipologie di trauma, è prematuro affermare che il sistema funziona. «Servono test su una platea più ampia – sottolinea Claudia Angeli dell’università di Louisville -, ma questi risultati confermano che il midollo spinale ha la capacità di far recuperare la possibilità di camminare, con la giusta combinazione di stimolazione e allenamento quotidiano».