Tempo di lettura: 3 minutiNon è la prima volta che si sente parlare di resistenza agli antibiotici, ma se si guarda ai dati si comprende come la situazione ci stia rapidamente sfuggendo di mano. Quelli del 2017, provenienti dalle più importanti organizzazioni sanitarie a livello mondiale ed europeo (Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS ed il Centro Europeo per il Controllo delle Malattie Infettive – ECDC) dicono che a causa della resistenza dei batteri agli antibiotici si verificano 671.689 casi di infezioni, a cui sono attribuibili 33.110 decessi e 874.541 condizioni di disabilità. Di queste infezioni il 63% risultano essere infezioni correlate all’assistenza sanitaria e sociosanitaria. In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, le infezioni ospedaliere hanno un’importanza anche maggiore di tante altre malattie non infettive. Su 9 milioni di ricoveri in ospedale, ogni anno si riscontrano da 450.000 a 700.000 casi di infezioni ospedaliere (circa dal 5-8% di tutti i pazienti ricoverati).
Le infezioni in Italia
Se si va ad analizzare l’andamento complessivo delle infezioni negli ultimi 10 anni si riscontra che le infezioni nei reparti medici sono salite a 12,4 casi ogni 100.000 dimissioni (erano 6,9 nel 2007) con un aumento del 79%, mentre per quelle nei reparti chirurgici da 144,59 casi ogni 100.000 dimissioni a 233,1 casi, con un incremento del 61,2%, ciò malgrado il numero totale dei ricoveri sia molto diminuito di circa 3 milioni. «La valutazione del rischio di infezione – spiega il Prof. Marco Tinelli (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, già Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive e Tropicali – Azienda Ospedaliera di Lodi) – è un parametro fondamentale per la prevenzione delle infezioni. Esso è più alto, oltre che negli anziani sopra i 70 anni, in molte patologie come: neoplasie, diabete, bronchiti croniche, cardiopatie, insufficienza renale, traumi, ustioni, trapianti di organi, ecc. Per quanto riguarda le sedi delle infezioni sia negli ospedali che nelle RSA, le principali patologie che si riscontrano nell’80% circa dei casi sono a livello urinario, delle vie aeree (a livello comunitario quelle del tratto respiratorio superiore mentre a livello ospedaliero del tratto inferiore), dei tessuti molli comprese le ferite post chirurgiche e le infezioni del sangue (sepsi), quest’ultime più gravi e pericolose per la vita. Tra le varie tipologie di infezioni citate, quelle urinarie contano circa il 35 % di tutte le infezioni ospedaliere anche se ultimamente si riscontra una tendenza alla riduzione, a differenza delle infezioni respiratorie che percentualmente hanno raggiunto i livelli delle urinarie».
Le cause
Una buona parte di questi aumenti, in percentuale, è dovuta all’uso eccessivo di antibiotici ed in particolar modo di alcune classi di essi come i chinoloni(ciprofloxacina e levofloxacina) che sono molto usati per la loro facilità di somministrazione per bocca e, di solito, in monodose giornaliera. Tali antibiotici, oltre a determinare effetti collaterali anche rilevanti, hanno raggiunto un tale livello di resistenza, pari al 50%-60%, tanto che l’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) pochissimi giorni fa, ha emanato un “alert” a tutte le istituzioni sanitarie europee per limitarne drasticamente l’uso. Del resto, secondo i dati forniti dall’ECDC nel 2018, abbiamo il triste primato di essere una delle nazioni europee a più alto consumo di antibiotici insieme a Regno Unito, Finlandia, e Grecia a livello ospedaliero e a livello territoriale insieme a Grecia, Francia e Belgio.
Le regioni in emergenza
Secondo i recentissimi dati ufficiali del rapporto OsMed 2017-2018 presentato da AIFA a luglio di quest’anno, si riscontra una notevole differenza Nord-Sud. “Prendendo in considerazione le dosi di farmaco consumate ogni 1000 abitanti – aggiunge Tinelli – è la Campania la regione ad avere il maggior consumo di antibiotici, seguita dalla Puglia, Calabria e dall’Abruzzo. La Provincia Autonoma di Bolzano ha il consumo più basso, seguita dalla Liguria, dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia. Molti sono i motivi dei consumi elevati: si va dalle differenti abitudini prescrittive spesso non appropriate nelle varie regioni, sia a livello ospedaliero che territoriale, al non sempre ottimale monitoraggio dei farmaci ed anche alla vendita di antibiotici senza prescrizione nelle farmacie (per fortuna in una percentuale limitata)”.
L’appello al governo
«La gestione dell’antibiotico resistenza e le conseguenze ad essa correlate – conclude il Professor Tinelli – sono uno i problemi principali, se non il problema principale, della salute pubblica nel nostro paese, come del resto evidenziato più volte ed in più occasioni da tutte le organizzazioni sanitarie internazionali. E’ evidente che se il Governo non metterà mano ai cordoni della borsa prevedendo che nel DEF 2019 una quota di investimenti sarà dedicata e vincolata alla gestione del problema “antibiotico resistenza”, almeno per alcune priorità più urgenti ed indilazionabili, il nostro Paese rimarrà il fanalino di coda dell’Europa a scapito di tutti i cittadini».
Infezioni ospedaliere e antibiotico-resistenza, allarme in Italia
FarmaceuticaNon è la prima volta che si sente parlare di resistenza agli antibiotici, ma se si guarda ai dati si comprende come la situazione ci stia rapidamente sfuggendo di mano. Quelli del 2017, provenienti dalle più importanti organizzazioni sanitarie a livello mondiale ed europeo (Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS ed il Centro Europeo per il Controllo delle Malattie Infettive – ECDC) dicono che a causa della resistenza dei batteri agli antibiotici si verificano 671.689 casi di infezioni, a cui sono attribuibili 33.110 decessi e 874.541 condizioni di disabilità. Di queste infezioni il 63% risultano essere infezioni correlate all’assistenza sanitaria e sociosanitaria. In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, le infezioni ospedaliere hanno un’importanza anche maggiore di tante altre malattie non infettive. Su 9 milioni di ricoveri in ospedale, ogni anno si riscontrano da 450.000 a 700.000 casi di infezioni ospedaliere (circa dal 5-8% di tutti i pazienti ricoverati).
Le infezioni in Italia
Se si va ad analizzare l’andamento complessivo delle infezioni negli ultimi 10 anni si riscontra che le infezioni nei reparti medici sono salite a 12,4 casi ogni 100.000 dimissioni (erano 6,9 nel 2007) con un aumento del 79%, mentre per quelle nei reparti chirurgici da 144,59 casi ogni 100.000 dimissioni a 233,1 casi, con un incremento del 61,2%, ciò malgrado il numero totale dei ricoveri sia molto diminuito di circa 3 milioni. «La valutazione del rischio di infezione – spiega il Prof. Marco Tinelli (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, già Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive e Tropicali – Azienda Ospedaliera di Lodi) – è un parametro fondamentale per la prevenzione delle infezioni. Esso è più alto, oltre che negli anziani sopra i 70 anni, in molte patologie come: neoplasie, diabete, bronchiti croniche, cardiopatie, insufficienza renale, traumi, ustioni, trapianti di organi, ecc. Per quanto riguarda le sedi delle infezioni sia negli ospedali che nelle RSA, le principali patologie che si riscontrano nell’80% circa dei casi sono a livello urinario, delle vie aeree (a livello comunitario quelle del tratto respiratorio superiore mentre a livello ospedaliero del tratto inferiore), dei tessuti molli comprese le ferite post chirurgiche e le infezioni del sangue (sepsi), quest’ultime più gravi e pericolose per la vita. Tra le varie tipologie di infezioni citate, quelle urinarie contano circa il 35 % di tutte le infezioni ospedaliere anche se ultimamente si riscontra una tendenza alla riduzione, a differenza delle infezioni respiratorie che percentualmente hanno raggiunto i livelli delle urinarie».
Le cause
Una buona parte di questi aumenti, in percentuale, è dovuta all’uso eccessivo di antibiotici ed in particolar modo di alcune classi di essi come i chinoloni(ciprofloxacina e levofloxacina) che sono molto usati per la loro facilità di somministrazione per bocca e, di solito, in monodose giornaliera. Tali antibiotici, oltre a determinare effetti collaterali anche rilevanti, hanno raggiunto un tale livello di resistenza, pari al 50%-60%, tanto che l’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) pochissimi giorni fa, ha emanato un “alert” a tutte le istituzioni sanitarie europee per limitarne drasticamente l’uso. Del resto, secondo i dati forniti dall’ECDC nel 2018, abbiamo il triste primato di essere una delle nazioni europee a più alto consumo di antibiotici insieme a Regno Unito, Finlandia, e Grecia a livello ospedaliero e a livello territoriale insieme a Grecia, Francia e Belgio.
Le regioni in emergenza
Secondo i recentissimi dati ufficiali del rapporto OsMed 2017-2018 presentato da AIFA a luglio di quest’anno, si riscontra una notevole differenza Nord-Sud. “Prendendo in considerazione le dosi di farmaco consumate ogni 1000 abitanti – aggiunge Tinelli – è la Campania la regione ad avere il maggior consumo di antibiotici, seguita dalla Puglia, Calabria e dall’Abruzzo. La Provincia Autonoma di Bolzano ha il consumo più basso, seguita dalla Liguria, dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia. Molti sono i motivi dei consumi elevati: si va dalle differenti abitudini prescrittive spesso non appropriate nelle varie regioni, sia a livello ospedaliero che territoriale, al non sempre ottimale monitoraggio dei farmaci ed anche alla vendita di antibiotici senza prescrizione nelle farmacie (per fortuna in una percentuale limitata)”.
L’appello al governo
«La gestione dell’antibiotico resistenza e le conseguenze ad essa correlate – conclude il Professor Tinelli – sono uno i problemi principali, se non il problema principale, della salute pubblica nel nostro paese, come del resto evidenziato più volte ed in più occasioni da tutte le organizzazioni sanitarie internazionali. E’ evidente che se il Governo non metterà mano ai cordoni della borsa prevedendo che nel DEF 2019 una quota di investimenti sarà dedicata e vincolata alla gestione del problema “antibiotico resistenza”, almeno per alcune priorità più urgenti ed indilazionabili, il nostro Paese rimarrà il fanalino di coda dell’Europa a scapito di tutti i cittadini».
Donare dà una gioia più lunga rispetto al ricevere. Lo studio
PsicologiaA natale è tempo di regali. Non sempre azzeccati, ma per grandi e piccini è tradizione scartare pacchetti sotto l’albero. Tuttavia, nonostante sia bello ricevere regali, secondo la scienza la gioia di donare è maggiore di quella di ricevere, dura più a lungo. La spiegazione, probabilmente, è nel piacere di dedicare un pensiero a una persona e vedere i suoi occhi che brillano. A confermarlo è una ricerca della University of Chicago Booth School of Business e della Northwestern University Kellogg School of Management, che sarà pubblicata su Psychological Science e di cui è stata data anticipazione. I risultati confermano che la felicità che si prova dopo un particolare evento o attività diminuisce ogni volta che la sperimentiamo, un fenomeno noto come adattamento edonico, ma donare agli altri può essere l’eccezione alla regola.
Lo studio
I ricercatori hanno realizzato un esperimento a cui hanno preso parte 96 studenti universitari. I partecipanti hanno ricevuto cinque dollari ogni giorno per 5 giorni. I soldi dovevano essere spesi per la stessa identica cosa ogni volta. I ricercatori hanno chiesto in modo casuale ai partecipanti di utilizzare il denaro per se stessi o qualcun altro (ad esempio lasciando i soldi in un barattolo di mance nello stesso bar o facendo una donazione online alla stessa organizzazione di beneficenza ogni giorno). I numeri hanno fatto emergere che nonostante i partecipanti abbiano iniziato con livelli simili di felicità, coloro che hanno speso soldi per se stessi hanno riportato un costante calo, che invece non si è verificato per coloro che hanno donato i soldi a qualcun altro. La gioia di dare per la quinta volta consecutiva era forte come all’inizio. I due ricercatori Ed O’Brien e Samantha Kassirer hanno quindi realizzato un secondo esperimento online. Sono stati coinvolti 502 partecipanti, i quali hanno giocato 10 round di un gioco. Hanno vinto cinque centesimi per round, scegliendo se tenerli o donarli a un’organizzazione di loro scelta. Anche in questo caso, la felicità di coloro che hanno donato le vincite è diminuita molto più lentamente. In altre parole, la generosità ripaga sempre.
Miopia e bambini: ogni ora all’aperto 2% in meno di rischio
PrevenzioneOgni ora di gioco o passeggio all’aperto vale un 2% in meno di rischio miopia per i bambini. Questo difetto di vista ha avuto un aumento dagli anni ’70. Alcuni medici si sono chiesti se i fattori ambientali e le abitudini più sedentarie dei bambini oggi, possano incidere sul rischio di patologie croniche future. A confermare questa ipotesi è il risultato dello studio effettuato dall’Erasmus Medical Center di Rotterdam, in Olanda.
Lo studio
I ricercatori hanno analizzato la scheda anamnestica e le abitudini quotidiane di quasi 6.000 bambini in età scolare, dei quali il 2% affetti da miopia. È emerso un rischio maggiore per i bambini che per diverse ragioni trascorrono un maggior numero di ore in casa, magari davanti alla televisione o al computer. Il legame tra le ore trascorse all’aperto e l’insorgenza di miopia è, quindi, inversamente proporzionale. Lo studio ha inoltre individuato altri fattori ricorrenti nei miopi, quali un più basso livello di vitamina D – notoriamente sintetizzata dall’organismo a seguito dell’esposizione ai raggi solari – e un maggiore indice di massa corporea. La vita sedentaria condotta in ambienti chiusi illuminati con luce artificiale e la scarsa possibilità di muoversi all’aria aperta, sono stati identificati come fattori di rischio nello sviluppo di patologie visive come la miopia.
Le ipotesi
Una possibile spiegazione scientifica – ancora in fase di verifica – potrebbe essere nel legame tra l’esposizione alla luce naturale e la corretta crescita dell’occhio. Sembra infatti che le cellule oculari crescano a velocità normale nel caso di una regolare vita all’aria aperta mentre aumenta nel caso di bambini più sedentari e che stanno meno all’aperto (almeno un paio d’ore al giorno). Una crescita troppo veloce – e questo è stato già verificato – porta a difetti di vista più frequenti. Un’altra ipotesi valida è legata al modo in cui l’occhio viene utilizzato all’aperto. Giocare all’esterno, infatti, prevede cambiamenti di prospettiva e concentrazione della vista verso oggetti lontani e/o in movimento.
Elena, tornata a vivere grazie all’amore di suo padre
News PresaPer Natale il padre le ha fatto il dono più grande, quello della vita, per la seconda volta. La storia che sta commuovendo Napoli e l’Italia intera è quella di Elena (nome di fantasia), giovane donna che da 26 anni (ovvero da quando è nata) convive con una insufficienza renale cronica. Elena è sempre stata una ragazza solare e intraprendente, una che la vita la prende a morsi. Ha scoperto il suo problema solo pochi anni fa, da quel momento ha dovuto drasticamente ridimensionare sogni ed ambizioni. Ma non ha mai cambiato il suo modo di guardare al mondo. Ha combattuto la sua battaglia con la terapia medica e il rispetto di stretti regimi di vita. Dalla scorsa estate è entrata in quella fase della malattia che conduce inevitabilmente alla dialisi salvo che non si riesca prima ad accedere al trapianto. Ma la possibilità di trovare un organo compatibile e disponibile, quando ad attenderlo vi è una lunga lista di pazienti, non è assolutamente facile.
L’amore di un padre
Claudio ha 56 anni, ed è il papà di Elena, è stato lui il primo in famiglia ad informarsi e a scoprire che è possibile realizzare un trapianto di rene da donatore vivente e che se il trapianto viene effettuato prima che il malato entri in dialisi si possono ottenere migliori risultati in termini di sopravvivenza e qualità di vita. Così, 26 anni dopo aver messo al mondo Elena, sceglieo di donarle ancora una volta la vita. Non ci pensa su due volte, quel donatore può essere lui. Si rivolge al professore Michele Santangelo (direttore della UOC di Chirurgia Generale e dei Trapianti di Rene del Policlinico Federico II) per offrirsi. Santangelo si dichiara immediatamente disponibile. Sull’esempio della Scuola Padovana, guidata dal professor Rigotti e dalla professoressa Furian, Santangelo sta infatti riorganizzando l’attività di trapianti da vivente presso la Federico II (l’ultimo risale al 2003) con metodiche più moderne che offrono maggiori vantaggi e garanzie al donatore.
Giorni di speranza e paura
L’iter per stabilire che il trapianto di rene si possa effettuare prevede un’attentissima analisi clinica, immunologica e psicologica da parte dell’equipe sulla coppia donatore-ricevente. Al termine di questa valutazione, una commissione costituita da un team di specialisti, estraneo all’iter clinico di studio della paziente, riesamina il caso per essere certi della correttezza della procedura e della consapevolezza del donatore e del ricevente. Concluso il riesame, la pratica viene rimessa al magistrato che, se ne riconosce la correttezza procedurale, ne autorizza il compimento. Mentre padre e figlia affrontano questo lungo e complesso percorso, a metà agosto, Elena riceve una telefonata dal Policlinico di Napoli: c’è un rene potenzialmente compatibile con lei. La gioia svanisce rapidamente. Il potenziale donatore, agli accertamenti finali, si rivela non idoneo. Un momento di profondo sconforto e di paura per quello che sarà il futuro. Non per Claudio, deciso ad essere lui a donare il rene alla figlia e felice di farlo, perché sa che se un rene da donatore deceduto assicura una buona funzionalità, quello proveniente da un donatore vivente ne garantisce una migliore e la consanguineità riduce, pur senza azzerarlo, il rischio di rigetto.
L’intervento
E’ il 13 dicembre, l’equipe del Policlinico Federico II, guidata da Michele Santangelo, decide che è arrivato il momento e realizza l’intervento. Il risultato è ottimo. A Claudio viene effettuato il prelievo con una tecnica laparoscopica, che riduce le sofferenze post-operatorie, i tempi di degenza e i tempi di recupero funzionale. Claudio viene dimesso quasi subito ed è in perfetta salute. Per Elena le cose vanno alla grande. Il trapianto le ha permesso di rientrare in quel fortunato gruppo di pazienti, definito “pre-emptive”, che possono cioè giovarsi di ricevere un rene prima dell’entrata in dialisi. Una storia a lieto fine che ha unito ancor di più padre e figlia e ha dato grandi speranze a quanti ancora sono in attesa di un trapianto.
Fila alla cassa, una trappola per la salute. Ecco perché
AlimentazioneLa fila alla cassa del supermercato è una vera e propria trappola per la linea. Nel tempo di attesa, infatti, si è circondati da snack dolci e salati di ogni tipo. Ovviamente vengono piazzati lì non a caso e richiamano l’attenzione come il canto delle sirene di Ulisse. Tuttavia, togliere dolci, snack e patatine dagli scaffali antistanti le casse riduce moltissimo le vendite di cibo spazzatura, e anche il loro consumo per strada subito dopo la spesa. Gli esperti di marketing lo sanno bene: ogni prodotto al supermercato è posizionato secondo criteri ben precisi. Se già di per sé è un luogo che spinge ad acquisti impulsivi, soprattutto quando si è in compagnia di bambini (più sensibili alle strategie di vendita); la fila mette ancora più a dura prova la linea e la salute. A dimostrarlo è una duplice indagine condotta in Gran Bretagna e pubblicata sulla rivista Plos Medicine da esperti dell’Università di Cambridge.
Lo studio
Lo studio prende le mosse dal fatto che in GB molte catene di supermercati da alcuni anni hanno adottato politiche ‘salutiste’, togliendo dagli scaffali accanto alle casse le tentazioni poco salutari, come caramelle e cioccolatini. Nella prima parte dello studio gli esperti hanno analizzato dati di acquisto relativi a oltre 30 mila famiglie da 12 mesi prima a 12 mesi dopo l’adozione delle politiche salutiste dei supermercati. È emerso che eliminando il cibo spazzatura dalle casse le vendite di questi prodotti si riducono del 17%, con effetti sulle vendite che perdurano a un anno dall’adozione delle nuove policy. Nella seconda parte dello studio sono stati invece intervistati 7500 consumatori che hanno fatto acquisti sia in supermercati con le nuove policy sia in quelli tradizionali con le casse piene di tentazioni ipercaloriche. È emerso che le vendite e il consumo immediato di cibo spazzatura si riducono del 76% nei supermarket con politiche più salutari.
Calendario 2019, gli attori del Sud scelgono il Pascale
News PresaDodici pazienti simbolo, uno per ogni mese dell’anno, hanno scelto il Sud (e più in particolare il Pascale) per curarsi. Tra di loro anche personaggi noti del mondo dello spettacolo come Patrizio Rispo, Luisa Ranieri e Alessandro Preziosi. Le loro testimonianze oggi raccolte nel calendario del Pascale 2019 dal titolo #Iomicuroalsud, a corredo delle foto meravigliose di Napoli di Sergio Siano e racchiuse nella grafica di Pippo Dottorini. Patrizio Rispo, attore di teatro meglio noto al grande pubblico per essere oramai da oltre 20 anni il portiere di casa Palladini nella soap Un posto al Sole, il suo “male” lo aveva già raccontato la primavera scorsa in uno spot televisivo. «Mica perché sono un attore non ho mai avuto problemi di salute?», dice ironico. «Ne ho avuti e anche al top. Ma mica me ne sono andato all’estero a curarmi. Dove le avrei trovati all’estero l’affetto, la vicinanza umana, l’esperienza e la capacità dei medici che ho trovato qui in Campania? Qui al Pascale».
Tanti protagonisti
Per loro fortuna non hanno avuto problemi di salute Luisa Ranieri e Alessandro Preziosi, gli altri due testimonial d’eccellenza del calendario del Pascale, ma hanno avuto parenti e amici che si sono rivolti all’Istituto dei tumori di Napoli per le loro cure. Dalla Ranieri arriva l’invito, rivolto soprattutto alle donne, alla prevenzione. «Prevenire è meglio che curare dice – La prevenzione ci salva la vita. La puoi fare sotto casa. Rivolgiti alla tua Asl». E Preziosi ringrazia quanti ogni giorno si dedicano alla ricerca contro il cancro. Nel calendario del Pascale ci sono poi le storie di Maria Raiano. A suo attivo ha due tumori, uno al seno sconfitto 15 anni fa, un altro al polmone contro cui lotta come una guerriera: «So che come ho superato la prima prova, supererò anche questa perché io sono forte». E forte è Mirosa Magnotti, colpita da un tumore alle ovaie. Non è bastato un intervento chirurgico e un primo ciclo di chemio per evitarle una recidiva con cui sta combattendo e che non le impedisce di portare in giro per l’Italia il messaggio di Acto Campania, l’associazione di cui è presidente.
L’impegno di ogni giorno
E poi ancora, le storie di Olga Luicheva, straniera dell’Ucraina; la giovanissima Silvia Valentino che sorride pensando al linfoma di Hodgkin che ha sconfitto due anni fa; Alfonsina Albanese, il suo mostro si chiamava melanoma, ma ora, dice, non mi fa più paura; Luigi Turco che ad 80 anni, e dopo cinque recidive, è diventato il primo paziente campano su cui è stato somministrato il vaccino terapeutico contro il tumore al fegato; Gennaro Sollo, tumore alla prostata operato con il Robot da Vinci: «Mi chiamo come il santo patrono, ma a me il miracolo me lo hanno fatto i medici del Pascale». E ancora, il giovane Rosario Recano: <Forza che ce la fate>, dice rivolgendosi a chi ancora lotta, lui che di forza ne ha dovuta avere tanta per superare un tumore allo stomaco. E, infine, Nicola Cante, un tumore alla lingua operato molti anni fa, ma lui non ha mai smesso di sottoporsi ai controlli. «L’hashtag #iomicuroalsud – dice il direttore del Pascale, Attilio Bianchi – riassume le attività svolte nell’ultimo anno a cominciare dalla rete oncologica campana che ha ufficialmente preso il via la scorsa primavera, la nascita, inoltre, di un’Alleanza prima e di un consorzio poi con gli istituti oncologici di Puglia, Basilicata e Calabria. Ma anche il consolidamento di accordi siglati dal Pascale con la Cina, l’America latina, il Nord Africa e la Russia. E, non ultimo, il tentativo continuo, ogni giorno, di migliorare la qualità della nostra assistenza, insieme alla ricerca».
Formiche in ospedale, nuovo allarme a Napoli
News PresaI carabinieri del Nas di Napoli sono tornati all’ospedale San Giovanni Bosco, quello per intendersi che un mese fa era finito su tutti i giornali e le Tv a causa di un video nel quale si vedeva una donna non autosufficiente invasa di formiche nel suo letto di degenza. Immagini forti che avevano scandalizzato l’Italia intera. Ieri il problema delle formiche si è ripresentato, fortunatamente stavolta senza che un paziente in particolare dovesse pagarne le conseguenze.
Il fatto
Ieri un nuovo allarme. È stato un medico a disporre la temporanea chiusura dell’area chirurgica del pronto soccorso «a causa di un’emergenza formiche». La cosa incredibile è che ad un mese dallo scandalo e dalle bonifiche della Asl, un’area dell’ospedale è stata nuovamente invasa dagli insetti. Il direttore sanitario dell’ospedale San Giovanni Bosco aveva avvisato l’Asl del rischio di nuove “invasioni” di formiche. «Reputo che le condizioni strutturali in cui versa l’ospedale – scriveva il direttore sanitario del San Giovanni Bosco Giuseppe Matarazzo in una nota inviata nei giorni scorsi al direttore generale dell’Asl Napoli 1 Mario Forlenza in cui richiama l’episodio di novembre della donna intubata sommersa dalle formiche – è a forte rischio di episodi analoghi con notevole impatto sugli organi di stampa. Né si può sottacere la vetustà di alcune apparecchiature e la mancanza di altre unitamente ad arredi e suppellettili da sostituire per la loro obsolescenza. La stessa carenza di personale – aggiunge il direttore sanitario – non fa che aggravare i rischi di chi dirige l’ospedale».
Le razioni
La ministra Giulia Grillo (intervenuta ai microfoni della trasmissione radiofonica Rai Un giorno da pecora) dopo aver precisato di non essere al corrente della cosa ha poi lasciato intendere tutto il suo disappunto. «Evidentemente – ha detto – in generale le strutture della Asl Napoli 1 hanno grossi problemi. Noi stiamo facendo tutto quello che possiamo fare come ministero». La chiusura dell’area chirurgica del pronto soccorso sarebbe durata circa un’ora (dalle 12 alle 13 circa), poi la situazione sarebbe tornata nei canoni della normalità. Durissima la reazione di Valeria Ciarambino, consigliera regionale del Movimento 5 Stelle. «Non c’era bisogno di registrare due episodi di formiche in poche settimane che infestano i reparti dello stesso ospedale, il San Giovanni Bosco, per dedurne che non ci troviamo al cospetto di casi estemporanei. E’ chiaro che si tratta di gravissime carenze igienico-strutturali, che abbiamo evidenziato anche nel corso di una recente ispezione, le cui responsabilità non possono essere in capo ai tre infermieri individuati come capri espiatori e sospesi senza alcuna altra ragione se non quella di scaricare le colpe sull’ultimo anello della catena. Colpe e responsabilità che vanno individuate, piuttosto, nell’incapacità gestionale del direttore generale della Asl Napoli 1 e del direttore sanitario del San Giovanni Bosco, a cui sono in capo le competenze organizzative e l’attività di controllo sull’igiene, sulle carenze strutturali e sui turni del personale. Gli unici a dover essere sanzionati e rimossi dai rispettivi incarichi per non aver avviato alcuna opera di adeguamento strutturale, in ottemperanza a quanto richiesto, nero su bianco, dal dipartimento di Igiene e Prevenzione».
Il caso
Se lo scandalo era nato dalle condizioni pietose della paziente trovata nel suo letto invasa dalle formiche, oggi rattrista vedere che la situazione è ancora pesante e che quella stessa donna sta tutt’altro che bene. «È una situazione incredibile – dice il suo avvocato Hilarry Sedu – cui nessuno pare voler mettere mano; quando scoppiò il caso formiche sembrava dovesse cambiare qualcosa, ma purtroppo la situazione è solo peggiorata. Ho anche chiesto alla direzione di trasferirla in un centro di lunga degenza, ma per ora hanno sempre risposto picche». Intanto il legale chiederà il risarcimento danni al giudice civile, mentre sul fronte penale la figlia della donna ha preferito non presentare denuncia.
Meditare aiuta anche a dimagrire
Stili di vitaSe si potesse dire con un celebre spot, sarebbe: “meditate gente, meditate”. Infatti, sono sempre più numerosi gli studi che dimostrano i benefici della meditazione, soprattutto come mezzo per allontanare lo stress e acquisire una certa consapevolezza di se stessi. Tuttavia nessuno si era mai soffermato sui risvolti positivi per la dieta. Oggi uno studio lo dimostra: unire qualche esercizio di meditazione a un regime alimentare potrebbe potenziarne gli effetti dimagranti. Lo studio clinico pilota è stato pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Gli esperti hanno provato che meditare con le tecniche di mindfulness aiuta a perdere peso.
Lo studio
La ricerca, condotta da Petra Hanson dell’università di Warwick, ha coinvolto 53 pazienti, tutti arruolati in un programma di dimagrimento di sei mesi. Di questi, solo una parte (33 pazienti) oltre a seguire la dieta ha anche frequentato 4 lezioni di mindfullness, apprendendo pratiche di meditazione e la terapia cosiddetta della ”mente compassionevole” contro l’eccesso di autocritica e per aumentare la fiducia in se stessi. Il risultato è stato che rispetto ai 20 pazienti che hanno solo seguito la dieta, a distanza di sei mesi coloro che avevano anche frequentato le classi di mindfullness erano dimagriti in media quasi tre chili in più a parità di programma di dimagrimento seguito. Questo dimostra, quindi, che meditare aiuta a perseguire gli obiettivi. Alla fine dei 6 mesi sono stati somministrati dei questionari a tutti i pazienti: i risultati “indicano che l’allenamento mindfulness può aiutare a migliorare il loro rapporto col cibo”, sostiene Hanson. “Gli individui che hanno completato il corso mindfulness dicevano di essere migliorati nel pianificare i pasti e di avere acquisito più fiducia nelle proprie capacità di portare avanti la dieta. Simili corsi – conclude – potrebbero essere rivolti a una più ampia popolazione magari trasformandoli in strumenti digitali alla portata di tutti”.
Secondo il coordinatore del lavoro Thomas Barber del Warwickshire Institute for the Study of Diabetes Endocrinology and Metabolism presso le University Hospitals Coventry and Warwickshire NHS Trust, la pratica Mindfulness ha un enorme potenziale in termini di strategia per raggiungere e mantenere salute e benessere.
Iss: presidente Ricciardi si è dimesso. Ora ipotesi bando pubblico
News PresaWalter Ricciardi si è dimesso. Il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), da oltre 4 anni alla guida del maggiore Istituto di ricerca sanitaria italiano, ha rassegnato le dimissioni al ministro della Salute Giulia Grillo. La naturale scadenza dell’incarico era fissata ad agosto 2019. “Negli ultimi quattro anni e mezzo mi sono impegnato profondamente per il risanamento e il rilancio dell’Istituto Superiore di Sanità e oggi lascio un Ente di Ricerca solido dal punto di vista economico-finanziario, riorganizzato dal punto di vista gestionale, attivo e stimato sia a livello nazionale che internazionale per la qualità e quantità delle sue prestazioni, dove è stato creato un museo che rappresenta anche un luogo di memoria e di diffusione della cultura scientifica. Ritorno alle attività di ricerca, d’insegnamento e professionali con le quali penso di poter contribuire in modo produttivo allo sviluppo scientifico, economico e sociale del Paese”. È quanto ha dichiarato in una nota Walter Ricciardi. Nel luglio 2014, era stato nominato commissario dell’Iss ed un anno dopo, a settembre 2015, l’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin lo nominò presidente. Ora si ipotizza una fase commissariale, per assicurare l’ordinaria amministrazione, e successivamente un eventuale bando pubblico di nomina. Infatti, come già è accaduto, per decisione del ministro della Salute Giulia Grillo, per l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), anche per il maggiore istituto di ricerca sanitaria, dunque, potrebbe prospettarsi una nomina per il futuro presidente attraverso bando pubblico.
Pelle più secca con docce lunghe e troppo calde. Non solo
PrevenzioneNon c’è niente di meglio di una bella doccia calda durante l’inverno. Nonostante la piacevole sensazione, però, se dura troppo a lungo o l’acqua è troppo calda, a farne le spese è la nostra pelle. A dirlo sono gli esperti. Nei mesi freddi, anche l’aria è più secca ed è più facile andare incontro a una disidratazione della pelle. Le labbra, come le mani, si possono facilmente screpolare e le docce troppo calde non fanno altro che peggiorare la situazione, danneggiando ulteriormente la barriera della pelle. Meglio quindi usare l’acqua tiepida e subito dopo una crema sulla pelle ancora umida per favorire l’idratazione. A ribadirlo è Rajani Katta, professoressa di dermatologia all’University of Texas Health Science Center di Houston e dalla sua collega, la dottoressa Megan Rogge.
Docce troppo calde e lunghe
Oltre a danneggiare la barriera cutanea, le docce troppo calde possono anche esacerbare il problema della pelle secca e pruriginosa. Inoltre, a casa meglio usare un umidificatore, perché la pelle secca peggiora quando si accendono i caloriferi: il calore inizia ad asciugare l’aria, che a propria volta inizia ad asciugare la pelle. Non solo. Molti prodotti per l’igiene quotidiana contengono sostanze ritenute tossiche, come il triclosan per esempio (messo al bando negli Stati Uniti dalla Fda nel 2016). Il componente ha una struttura molecolare molto simile a quella della diossina e proprio per questo motivo in grosse quantità può causare problemi di salute anche gravi. Oltre al triclosan, ci sono molte altre sostanze che possono interferire con il sistema endocrino e con la resistenza agli antibiotici, causare danni al fegato e persino favorire l’insorgere di patologie gravi quali fibrosi epatica e tumore al fegato. Tutto parte dal desiderio di rendere i saponi più profumati, ma purtroppo si finisce con lo spianare la strada a reazioni allergiche, eruzioni cutanee e mal di testa. Lo strato lipidico superficiale incaricato di proteggere il corpo dagli agenti esterni viene messo a dura prova e, nei casi più recidivi, anche danneggiato. Meglio insomma utilizzare saponi neutri, non esagerare con la frequenza e non utilizzare acqua troppo calda che rimuove gli oli naturali del corpo e porta il sangue più vicino alla pelle.
L’epidermide
Lo strato superiore di pelle, l’epidermide, è costituito da cellule della pelle e una barriera lipidica (“grasso”) che impedisce alle sostanze nocive di penetrare e previene la perdita di umidità. Questa barriera si indebolisce con l’età, ma può essere danneggiata anche dai fattori ambientali. L’American Academy of Dermatology dice che quando la maggior parte delle persone raggiunge i 40 anni, ha bisogno di idratazione quotidiana. Lavaggi eccessivi e aggressivi e detergenti troppo forti possono fare male, afferma Anne Chapas, M.D., fondatrice della Union Square Laser Dermatology di New York. E con meno umidità nell’aria durante i mesi invernali, è più difficile ricostituire ciò che è perduto. Per quanto riguarda la crema idratante, tra le raccomandazioni c’è quella di verificare che sia densa. Come suggerisce a Consumer Reports, Shari Lipner, M.D., dermatologo presso la Weill Cornell Medicine e la NewYork-Presbyterian a New York. Lipner, una buona prova di spessore è di metterne una noce in mano e girare la mano. Se scivola via, non è abbastanza spessa.